Quando
il carcere diventa l’università del crimine
Il
Profeta è un film con al centro il tema dell’adattamento, elemento necessario
alla sopravvivenza e senza il quale si è in partenza un perdente, in un luogo
fatto di continui soprusi qual è spesso il carcere
recensione a cura di Pietro P.
Leggendo
alcune recensioni in occasione dell’uscita del film “Il profeta” al
cinema, mi ero immaginato uno di quei superfilm sulla mafia pieno di effetti
speciali. Invece, quando ci è stata proposta la visione collettiva in
redazione, la mia opinione è decisamente cambiata. La verità è che mi sono
riconosciuto molto nel protagonista del film, che racconta le vicissitudini di
un ragazzo di origini magrebine, per il quale il carcere diventa una vera e
propria scuola del crimine.
Senza
entrambi i genitori, cresciuto in orfanotrofio sullo sfondo delle banlieu
parigine, quartieri tra i più degradati dell’intera Francia, Malik (questo il
nome del protagonista del film) quando finisce in carcere ha soltanto 19 anni.
Da subito capisce che se vuole sopravvivere deve stare dalla parte del più
forte e, se in un primo momento sembra volersi sottrarre all’incarico di
uccidere un altro detenuto che gli è stato affidato, una volta che invece
decide di acconsentire e compie l’omicidio, prende in mano le redini del
proprio destino, organizzandosi e trovando propri spazi all’interno del mondo
dello spaccio di droga: dapprima dentro la stessa prigione e successivamente
all’esterno.
Malik
riesce tanto bene a capire come vanno le cose che si conquista la fiducia dello
stesso capo della banda che lo aveva assoldato come killer e diventa l’uomo di
punta della sua organizzazione, trasformandosi “nelle sue orecchie e nei suoi
occhi”.
Emblematico
è anche il sussulto che ha la sua coscienza, nel film rappresentata dal
fantasma dell’uomo che ha ucciso, Riab. Una presenza inquietante, con la quale
comunica e che gli fornisce informazioni su ciò che lo aspetterà in futuro: da
qui l’appellativo di profeta. La stessa, una volta che Malik avrà concluso il
suo cammino “iniziatico”, si dissolverà: il Malik pauroso che si vede a
inizio film cede il passo ad un cinico e spietato criminale che ormai ha un
ruolo di primo piano all’interno del mondo della criminalità organizzata.
L’allievo ha ormai superato il maestro, e da vittima è divenuto carnefice.
Ovviamente
per me è stato un po’ diverso, perché a differenza di Malik, che nel film
viene costretto a uccidere un detenuto per conto di una banda che ha pressoché
il controllo del carcere, la mia adesione al mondo del crimine era stata una
scelta voluta, senza l’influsso di alcuna pressione esterna. Tuttavia, ora che
cerco con tutte le forze di uscire una volta per sempre dall’ambiente del
crimine, questo film mi ha molto colpito per come affronta temi come la
violenza, la corruzione e, soprattutto, l’adattamento, elemento necessario
alla sopravvivenza e senza il quale si è in partenza un perdente in un luogo
fatto di continui soprusi qual è il carcere.
Il
mondo della criminalità è dominato dall’opportunismo
Un
altro elemento che a un’attenta analisi non può sfuggire e che in qualche
modo è legato alla sopravvivenza, è l’opportunismo che caratterizza il mondo
della criminalità, o almeno quella di un certo tipo. A Malik non interessa
avere la solidarietà dei magrebini come lui. Per lui loro rappresentano solo il
mezzo che gli consentirà di affrancarsi dalle persone per cui ha commesso
l’omicidio e dalle quali è impiegato in lavori domestici e continuamente
vessato. Ecco, sembrerà strano, ma in Malik io riconosco tanti ragazzi che in
questo momento affollano le carceri italiane, e che vedono nel crimine l’unico
modo per poter emergere in una società sempre più classista, a loro preclusa.
Tanti giovani, in maggioranza extracomunitari, senza basi culturali solide, che
non hanno nessuna possibilità di farcela in un Paese come il nostro, che già
costringe tanti giovani italiani a cercare altrove migliori opportunità di
lavoro.
L’esperienza
del carcere per Malik si trasforma in un vero e proprio tirocinio del crimine,
in cui un ruolo di primo piano viene svolto dai detenuti di lungo corso, veri e
propri “maestri del crimine”, che in alcuni casi avviano al mondo della
delinquenza vera ragazzi sui quali di solito hanno un forte ascendente. I più
giovani vedono in loro dei modelli da imitare, modelli pesantemente negativi che
nella maggioranza dei casi li porteranno a trascorrere la gran parte della loro
vita in carcere, nella migliore delle ipotesi, o ad essere uccisi.
Accade
questo perché all’interno delle prigioni non ci sono quasi mai percorsi
differenziati, per cui il giovane arrestato per aver imbrattato i muri può
trovarsi a dividere la stessa cella con un individuo che ha fatto delle scelte
di vita ben precise, e che può avere degli influssi fortemente negativi su di
un adolescente.
Lo
stesso – ovviamente con i dovuti distinguo – si può dire sia capitato a me.
Il carcere (o almeno quello di un certo tipo, quello dove si sta parcheggiati a
non far niente) è stato per me un luogo diseducativo, in cui la riabilitazione
ha rappresentato per lungo tempo solo una parola vuota, senza alcun significato,
e dove ciò che si imparava realmente era come affinare le tecniche per
commettere reati senza venire scoperti.
Finché il carcere continuerà a essere solo un contenitore in cui relegare le fasce più emarginate della società, non potrà mai assolvere il ruolo assegnatogli dalla Carta costituzionale, all’articolo ventisette, il quale recita che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Finché la galera avrà un ruolo meramente punitivo, continueranno ad esistere carceri scuole del crimine, dalle quali usciranno ancora tanti nuovi “Malik”.