Intervista a Paolo Giulini, responsabile di un progetto di trattamento intensificato dei sex offenders

Vite “ibernate” in carcere

Sono quelle degli autori di reati sessuali, chiusi in sezioni “protette” ed esclusi da qualsiasi possibilità di cambiamento. Ma a Bollate si tentano strade nuove, anche per la sicurezza della società

 

a cura della Redazione

 

Paolo Giulini, criminologo clinico e docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, è il responsabile dell’Unità di Trattamento Intensificato per autori di reati sessuali nella Casa di Reclusione di Milano-Bollate. L’abbiamo incontrato in redazione per parlare di questa sperimentazione con i cosiddetti sex offenders, che ci interessa in particolare perché è il primo progetto di trattamento penitenziario per autori di reati sessuali in Italia, attivo dal 2005 su iniziativa di un’associazione di professionisti del privato sociale, il Centro Italiano per la Promozione della Mediazione, e grazie ad un finanziamento di Regione Lombardia e Provincia di Milano. Ma ci interessa anche perché ci costringe a riflettere su una serie di pregiudizi, luoghi comuni, paure che fanno sì che gli autori di questi reati nelle carceri siano rinchiusi in sezioni isolate, “protette”, mentre a Bollate si tentano strade nuove, con una direttrice, Lucia Castellano, che ha fatto del coraggio di sperimentare la base di tutto il suo lavoro.

 

Paolo Giulini: Grazie a tutti voi per questo confronto. Suppongo che alla base dell’invito ci sia il desiderio di conoscere questa esperienza e i problemi che pone, i risultati, se ci sono, e il modo in cui stiamo lavorando. E forse potrebbe essere anche un aspetto importante capire quali sono le logiche e le sfide che stanno dietro a questo tipo di intervento trattamentale così specifico e pensato per questa popolazione di detenuti, che è entrata in carcere soprattutto in questi ultimi anni, per effetto di due normative importanti, la prima del 1996, la seconda del 1998 quella sulla repressione della violenza sessuale, della pedopornografia, del turismo sessuale e della riduzione in schiavitù.

Non è che questi reati siano in aumento, ma c’è una maggior capacità del sistema sociale, dei servizi sociosanitari, delle forze dell’ordine di intercettare proprio questo tipo di reati, anche perché c’è una consapevolezza maggiore di quelli che sono gli esiti e le conseguenze su coloro che subiscono questo tipo di condotte. Dobbiamo alla moderna psicopatologia il fatto che ci viene detto chiaramente quali sono le conseguenze di una situazione di violazione della sfera sessuale, o nell’età evolutiva, o in età adulta quando la vittima è una donna. Le conseguenze sono spesso una riduzione delle possibilità emotive di una persona, l’interruzione dello sviluppo psicosessuale in fieri dell’adolescente, conseguenze traumatiche che per essere rielaborate richiedono un processo faticoso e anche costoso per lo stato, laddove decida, come succede in alcuni Paesi europei, di farsi carico anche delle vittime di reati sessuali.

Dai dati che abbiamo a livello internazionale sappiamo che questo tipo di fenomeno è caratterizzato da una grande quantità di sommerso, cioè è un fenomeno, come si dice in criminologia, che ha un alto indice di occultamento. E anche quando questo fenomeno è evidenziato e si ha una capacità di risposta, come per esempio nel caso delle donne che subiscono violenza, le indagini ISTAT italiane ci danno un dato impressionante: solo il 5,4 per cento delle donne che in Italia hanno subito violenza sessuale sono in grado di arrivare a rielaborare questa esperienza, di sapere che se hanno bisogno di un aiuto devono necessariamente denunciare quello che hanno subito, uscendo dalla vergogna e dall’isolamento, che sono la condotta tipica di chi subisce questo reato.

Ancora più elevato è poi il sommerso nel campo dei minori, anche perché gran parte di queste condotte avviene all’interno delle famiglie, tra le pareti domestiche, spesso con delle connivenze genitoriali, in relazioni distorte e disfunzionali.

Questi comportamenti trovano la spiegazione molto spesso in generazioni che hanno preceduto gli attuali abusanti, che probabilmente hanno dato degli imprinting molto analoghi. Il fenomeno per cui un abusante può a suo tempo esser stato vittima é detto del ciclo dell’abuso ed è un aspetto significativo presente in questo tipo di popolazione. Sarà importante verificare quante fra le persone che noi abbiamo nelle nostre sezioni protette hanno queste caratteristiche. La criminologia americana ci parla di un 20/30 per cento e questo è un dato interessante.

Dai colloqui individuali con gli autori di reati sessuali, un elemento che operatori come noi hanno rilevato è che vi sono circa il 90/95 per cento di negatori totali, di persone che negano di avere commesso il reato e si dichiarano vittime di complotti orditi nei loro confronti, di una magistratura che li perseguita, di una polizia che a tutti i costi cerca di imbrigliarli con indagini falsificate. Come vedete ci sono già problemi enormi sui quali bisogna cominciare a porsi delle domande.

A questo punto, anche per chiarire il contesto da cui queste riflessioni sono partite, vorrei spiegare come mai mi occupo di autori di reati sessuali.

Nel 1995 comincio a entrare nelle carceri come esperto ex articolo 80, dunque criminologo clinico. Mi assegnano a sedi decentrate, Sondrio e Lecco. La Casa circondariale di Sondrio allora, e lo è ancora, era una piccola struttura con quaranta, cinquanta detenuti, gestita a livello famigliare da un ispettore della custodia, che con il sistema classico del bastone e la carota riusciva a tenere insieme una popolazione di detenuti sia comuni che “protetti”. Succedeva dunque che il Provveditorato dell’Amministrazione lombarda negli anni novanta inviava i detenuti condannati per reati sessuali a Sondrio, perché c’era questa situazione di sostenibilità nella custodia. Così, lavorando con queste persone, casualmente mi sono trovato con due problemi fondamentali da evidenziare all’equipe: il primo è questo numero di negatori. Come si fa a proporre un trattamento, che può essere importante per ricostruire stima, senso di fiducia in queste persone, quando si è costretti a continuare a scrivere che dichiarano di non avere commesso reati? Sono persone che non hanno una minima rielaborazione, ma non solo, si sentono anche vittime del sistema giustizia, in quanto ritengono di essere state condannate su fatti da cui si sentono completamente estranee. E qui uno si chiede tante cose: è il sistema giustizia che non funziona o è la persona che ha un’autodifesa così arcigna sulla quale non si riesce a lavorare?

L’altro aspetto è la constatazione, dato che ho poi cominciato a lavorare anche nella Sezione Protetti di San Vittore e di Opera, che effettivamente questi detenuti hanno un diverso accesso a quelli che sono i diritti fondamentali del detenuto in carcere, perché le Sezioni Protetti hanno una qualità della detenzione differenziata dalle altre. Per andare a fare un colloquio o per passare dalle sezioni comuni i detenuti “protetti” devono sempre essere scortati; le cucine magari non sono nei reparti e il cibo non sempre arriva a loro integro, per questo aspetto subculturale che vige nelle carceri italiane e porta non appena è possibile a sfogarsi contro questi signori.

Non ci sono dunque quelle garanzie di sicurezza nella detenzione, che magari in maniera più controllata e gestita hanno gli altri detenuti. Altro aspetto può essere per esempio la fruibilità delle ore d’aria. In alcuni istituti più piccoli, dal momento che non ci sono sezioni separate, i “protetti” li mettono nelle celle di isolamento e lì si fanno tutta la loro detenzione. La riduzione di questi diritti sicuramente incide anche su quelli che sono gli effetti della pena una volta che sono fuori, dunque questo è un secondo problema che ci si pone.

Un terzo problema era la sensazione, come criminologo, che non dare a queste persone delle risposte da parte delle istituzioni sul piano del trattamento e anche sul piano delle misure alternative alla detenzione, finisce per essere un elemento ulteriore di rischio per la società.

E cioè rischiamo, nel sistema penitenziario com’è pensato oggi nelle Sezioni Protetti, di mantenere queste persone ibernate, e oserei parlare proprio di concetto di ibernazione penitenziaria, con i loro meccanismi patologici intatti. Perché nessuno li mette in discussione, nessuno gli dà la possibilità di entrare in confronto rispetto a quello che hanno fatto, nessuno li mette di fronte, per esempio, agli elementi della sentenza quando sostengono che tutta la storia è un complotto ordito dalla famiglia o dall’amante o dalla moglie nei loro confronti.

Si ha la sensazione che queste persone lasciate ibernate, una volta che escono dalla pena, siano completamente scongelate in quei meccanismi psicopatologici intatti che sono alla base di quel tipo di condotta. Allora la preoccupazione è quella di dire: non si possono lasciare le cose così come stanno, un intervento a partire dal carcere deve essere fatto nei confronti di questo tipo di popolazione.

 

Milan Grgic: Io vorrei sapere come reagiscono i famigliari quando trovano un parente accusato o condannato per un reato così, accettano la realtà che possa essere una persona di famiglia?

Paolo Giulini: Noi abbiamo visto anche situazioni in cui detenuti condannati per questo reato e in trattamento da noi, dopo magari otto, dieci anni di carcere, sono usciti dalla negazione e da questa versione del reato completamente innocentista. Lo hanno fatto nel trattamento e per noi era un problema dover aiutare il detenuto ad incontrare la famiglia con la nuova versione, perché la famiglia era diventata negatrice ancora più convinta di quella che era la responsabilità del detenuto.

Il problema di uscire dalla negazione per molti detenuti sta proprio nel porsi questa domanda: ma come faccio a far crollare quel sistema di equilibrio che ho fuori con persone che sono solidali con me sulla mia assenza di responsabilità, rispetto alle accuse infamanti che ho subito?

Poi, nel caso in cui la famiglia sia implicata direttamente, ci può essere invece la donna consapevole che in casa è successo qualcosa che va immediatamente interrotto, di cui va impedita la prosecuzione. In quel caso abbiamo delle risposte che sono chiaramente la separazione, sono gli interventi dei servizi sociali, i tribunali per i minorenni. Le situazioni sono dunque varie e comunque sulle famiglie di questi soggetti ci sono da fare degli importanti interventi.

Chiarito che questo progetto mira a portare i detenuti ad un trattamento su di sé ed è fondamentalmente pensato per evitare nuove vittime, si deve ora aggiungere che esso è diretto anche a smantellare la subcultura penitenziaria, e dico subcultura, perché non c’è nessuna regola, nell’Ordinamento penitenziario, per cui queste persone debbano scontare una pena supplementare. Per pena supplementare s’intende quella privazione dei diritti fondamentali che ogni detenuto deve avere e per queste persone spesso e volentieri non ci sono.

Questo è il primo elemento su cui un progetto di questo tipo ha trovato consenso da parte del Provveditorato dell’Amministrazione lombarda e della direzione di Bollate, perché c’era l’intenzione di dire: rompiamo questo isolamento, costruiamo una integrazione, pur difficile.

È chiaro però che questa integrazione va preparata con tutta una serie di premesse che sono alla base del progetto, e anche se non sono lo scopo principale rappresentano una sfida importante.

Aggiungo che questa sfida sta ottenendo dei buoni risultati, certo non può dirsi che i rapporti fra detenuti siano in termini di fratellanza, ma nei tre anni, da quando stiamo regolarmente inviando nei reparti comuni le persone che hanno finito il trattamento, abbiamo avuto solo due episodi di violenza, sui quali poi la direzione è intervenuta con il trasferimento delle persone responsabili.

Non è questo però l’aspetto più importante, la novità di cui ci siamo accorti nel pensare ad un intervento diverso è che il legislatore nel 1998 ha inserito un concetto che non c’era mai stato e non c’è in nessun’altra parte nella nostra legislazione. E cioè in quella legge che intercetta, punisce e dà una risposta retributiva forte ai reati di pedopornografia, violenza sessuale e riduzione in schiavitù, è prevista nell’articolo 17 la possibilità di un fondo dedicato in prima battuta alle vittime di queste condotte e in un secondo momento finalizzato a un recupero dei responsabili di questi delitti.

Dunque per la prima volta il legislatore ha inserito in una legge nazionale il concetto di recupero dei responsabili di un reato sessuale. Questo è uno spazio importante per cominciare a ragionare.

Un altro aspetto importante sono le ricerche effettuate in alcuni paesi, in particolare in Belgio, che è stato un Paese caratterizzato da episodi gravissimi di pedofilia, come il caso Dutroux. La consapevolezza del problema dell’abuso su minori è esplosa in quel momento nella società belga, ma le ricerche che sono state fatte successivamente ci dicono che comunque la reazione sociale include, oltre alle esigenze di sanzione per queste condotte, forti esigenze di trattamento.

Anche una ricerca in Italia fatta dai criminologi Calvanese e Coluccia ci dice che il 57 per cento degli intervistati sostiene che si tratta di persone bisognose di cure, quindi per quanto riguarda la reazione sociale su questi reati, sono in tanti a pensare che, oltre alla pena, c’è forse bisogno di qualcos’altro.

Il legislatore poi, nel Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario del 2000, ha previsto all’articolo 115 la possibilità di differenziazione penitenziaria per quei detenuti con patologie rilevanti, psichiche e fisiche, che possono essere assegnati ad istituti autonomi o a sezioni d’istituto che assicurino un regime di trattamento intensificato. Ai sensi dell’articolo 115 abbiamo quindi presentato il nostro progetto, che parte dall’idea che le persone che hanno tenuto queste condotte non sono definibili con un unico termine, che sia quello di protetti, pedofili o violentatori.

L’esperienza che noi abbiamo è che l’abusante su minori non è individuabile con delle caratteristiche specifiche, non esiste il tipo pedofilus in senso lato. C’è anche il soggetto pedofilico con problematiche di impellenza pedofilica, parafilia impellente, quasi di tipo tossicomanico, però è anche vero che la gran parte dei reati commessi nei confronti di minori non sono reati di pedofilia, avvengono per esempio ad opera di zii, nonni, padri, fratelli maggiori, nell’ambito di relazioni spesso queste sì patologiche, dove la persona in quel momento fa parte di quella relazione patologica deviandola sulla sessualità. Non possiamo parlare di una malattia, è un comportamento deviante che nasce da un ambiente, che effettivamente sul piano dell’evoluzione è un ambiente patologico, ma è un ambiente di relazioni famigliari.

Per quel che riguarda poi i violentatori, va anche qui chiarito che il violentatore non ha una caratteristica psicopatologica definita, non è detto per esempio che sia una persona che abbia una precisa patologia, può esserci il violentatore che ha caratteristiche psichiatriche, possono esserci certi psicotici che possono avere fra le loro evoluzioni di condotta una azione violenta sul piano sessuale, però non possiamo definire una categoria clinica di violentatore.

Anche in questo campo le modalità di azione, le strutture di pensiero, le cause recondite che portano a queste condotte sono molto diverse, voi capite che con questa complessità di definizione clinica, forse bisogna pensare anche ad un intervento differenziato per ciascuno di loro. Allora si può dire che questa categoria sia definibile in termini unici solo in senso sociologico e penitenziario, ma non dal punto di vista clinico.

Tuttavia quando si dice che questa condotta può essere intercettata dal sistema della punizione, si fa chiaramente un intervento per evitare nuove vittime, partendo dal fatto che comunque bisogna predisporre un percorso che renda queste persone consapevoli di aver usato la loro libertà non solamente in termini abusivi, ma anche in termini patologici.

Si tratta però di una categoria di soggetti per i quali la pena retributiva non può bastare, da una parte si deve dare una risposta di punizione per quello che hanno fatto e dall’altra è necessario dare una risposta di cura, di trattamento, nel senso di fornire loro degli strumenti per uscire da quel loro impulso sessuale deviante e da quelli che sono tutti i condizionamenti del loro carattere che li portano ad avere una vita sul piano della sessualità così disturbata, come quella che hanno.

Questi detenuti a Bollate sono gestiti da una equipe multidisciplinare, e cioè non da rappresentanti di una scuola psicologica piuttosto che dell’altra, non dagli psichiatri piuttosto che dagli psicologi, ma da una equipe rappresentata dalle diverse professionalità. Potete immaginare cosa vuol dire in una sezione, dove ci sono venti detenuti, avere diciannove operatori esterni professionisti che lavorano sulla struttura e la personalità di queste persone, sull’elaborazione del reato, sulle abilità sociali, sull’aspetto della comunicazione, e che hanno conoscenze molto approfondite anche sul piano della elaborazione di test per analizzare la struttura e la personalità di queste persone.

Su questi soggetti accumuliamo una conoscenza e un sapere che ci consente di dare delle risposte più precise quando ci viene chiesto perché e come mai tengono queste condotte, o ci viene domandato cosa bisogna fare per evitare questi comportamenti.

Anche la formazione degli operatori è estremamente importante. Noi abbiamo fatto un interpello prima di partire con la Polizia penitenziaria, perché il personale di polizia doveva comunque accedere volontariamente a questa esperienza. Poi le persone che sono state coinvolte in questa attività hanno fatto un percorso di formazione rispetto a quelle che sono le problematiche di questo tipo di popolazione. Pensate che inizialmente gli otto agenti di turno nella nostra sezione quando andavano in mensa venivano completamente isolati, non c’era nessuno dei colleghi che si sedesse al tavolo con loro, c’era un tavolo per gli agenti della sezione protetti. Ora c’è un fenomeno completamente opposto, cioè una lunga lista di attesa per entrare in reparto da parte degli altri agenti, perché si sono accorti che oltre al fatto di partecipare ad un momento in cui c’è una forte presenza di trattamento e anche un effetto coinvolgente, importante per la qualità del lavoro, c’è il fatto che una sezione come questa non crea problemi di sicurezza ed è gestibile facilmente. L’inserimento della Polizia penitenziaria è un passaggio essenziale perché questa subcultura che vige nella popolazione detentiva è stata trasmessa a tutti gli operatori all’interno del carcere, e ne risentono del resto anche professionisti esterni.

Poi chiaramente è fondamentale il lavoro in rete con tutte le agenzie interessate, cioè fare questo intervento lavorando con la magistratura di Sorveglianza, con l’area educativa, con l’UEPE e le agenzie del lavoro sul territorio per costruire prospettive di reinserimento adeguate.

Il metodo di lavoro è fondamentalmente basato sulla rielaborazione del fatto reato, su cui noi puntiamo molto. Consideriamo infatti che questo passaggio sia importante per poter poi costruire con la persona una alleanza per la presa in carico, che parta dalla consapevolezza che la persona ha un problema che riguarda la sfera della sua sessualità e che su questo problema si può fornirle gli strumenti in modo che impari a gestirsi sul piano della prevenzione di eventuali ricadute. Non esiste possibilità di guarigione o di cambiamento, ma la possibilità di un trattamento in via preventiva.

Ci siamo basati su modelli analoghi di trattamento che sono in funzione da circa trentacinque anni nelle carceri americane ed in quelle canadesi, noi ci siamo ispirati soprattutto al modello canadese.

Per noi l’attacco al problema non è l’attacco alla persona, non è che andiamo a dire “tu sei un pedofilo” e su questo ti etichettiamo, andiamo a dire “Tu hai un problema e su questo problema vogliamo provare a ragionare e cerchiamo di capire quali sono le conseguenze, come mai ci sei arrivato e se c’è la possibilità di gestirlo”. A noi interessa costruire una alleanza il più possibile autentica con queste persone e dunque dobbiamo fornire loro un ambiente adatto per far sì che questa alleanza sia tale.

Molti soggetti sono attraversati da un disturbo che la clinica contemporanea definisce come “disturbo della fiducia di base”, sono persone che non sono state abituate alla relazione con l’altro in termini di fiducia, c’è una grande diffidenza e sospettosità nei confronti dell’altro e l’esigenza di rifarsi, rispetto a questa posizione, nella relazione con atteggiamenti di dominio, di controllo e di presa sull’altro, che spesso è la vittima, bambino, bambina o donna. Dunque si tratta di dare loro la possibilità di ricostruirsi anche nella loro dignità di persone, indipendentemente da quello che è lo stigma e da quella che è la gravità del reato che hanno commesso.

Noi operiamo nella Casa di reclusione di Milano Bollate, in una sezione con ventiquattro celle che sono rigorosamente singole e che hanno tutta una serie di caratteristiche conformi al nostro tipo di approccio, nel senso che contribuiscono a creare un clima di sicurezza, a dare a queste persone l’idea che si trovano lì per ricevere un trattamento importante, che restituirà loro una dignità, che è quella che poi hanno ferito e violato loro stessi con le loro condotte e le loro vittime.

Questo è un punto di partenza importante, perché è una premessa della qualità dell’alleanza terapeutica che si instaura nel complesso dell’intervento trattamentale che poi svolgiamo.

Le persone delle Sezioni Protetti della Lombardia che vogliono accedere a questo progetto, dopo essere state segnalate dall’area educativa, vengono viste da un collega delle equipe che spiega loro come funziona il progetto. Successivamente, dopo un colloquio e una valutazione dell’equipe, vengono inseriti nell’unità a trattamento intensificato e firmano un contratto per i primi tre mesi, nel quale sono disposti a sottoporsi ad una valutazione psicologica e di comportamento da parte di questa equipe di professionisti. Valutazione che si basa su una analisi estremamente raffinata della struttura della personalità del soggetto, con una serie di test clinici e psicologici, che danno una idea complessiva della persona e si aggiungono al fascicolo che la persona si porta dietro dal carcere di provenienza, ai colloqui criminologici e clinici e alle prime osservazioni che noi abbiamo durante il percorso di trattamento. Fondamentalmente tutto questo trattamento si basa sulla gruppoterapia, ci sono tre gruppi fondamentali, cogestiti sempre da due operatori e con non più di dieci persone al loro interno, un gruppo sulla comunicazione in abilità sociali, un altro sulla prevenzione della recidiva e un gruppo che i primi tre mesi lavora su eventi traumatici e stress, che successivamente invece diventa un gruppo sulla gestione dei conflitti, per poi gli ultimi mesi concludere come gruppo sulla empatia nei confronti delle vittime di reato.

Nei primi tre mesi le attività di gruppo, le attività di educazione fisica, l’arteterapia e tutte queste batterie di test, ci danno una indicazione sulle trentacinque persone che hanno accettato di essere sottoposte ad una valutazione psicologica e di comportamento, da cui venti sono poi selezionate per fare il trattamento intensificato e avanzato.

Gli operatori sono diciannove, di questi otto sono gli psicodiagnostici, cioè sono gli specialisti che vengono a fare la testistica all’inizio del progetto. È una equipe esterna di cui io sono responsabile.

Dopo i primi tre mesi facciamo la selezione di quelli che sono effettivamente abilitati al trattamento, con considerazioni cliniche, che per esempio si basano sul rischio suicidario, nel senso che se rileviamo tra questa popolazione delle persone che hanno una forte fragilità o delle problematiche psichiatriche o tendenze suicidarie, chiaramente non facciamo proseguire loro il trattamento.

Un altro aspetto della valutazione importante è quanto queste persone siano a rischio di ricaduta, è chiaro che noi cerchiamo di trattenere a fare il trattamento intensificato quelli che valutiamo essere più a rischio di ricadute e non altri per cui verifichiamo che il reato ha avuto carattere episodico.

Tenete conto che in generale in termini criminologici la ricaduta dei reati sessuali non è così alta come si pensa, si parla mediamente in termini internazionali di una recidiva del 17 per cento, che si può abbattere del 50 per cento circa con dei programmi trattamentali specifici.

La successiva fase, quella vera e propria del trattamento intensificato, non è più a gruppi quindicinali come nei primi tre mesi, ma a gruppi che vengono effettuati tutte le settimane, per cui ogni giorno c’è una attività di gruppo. L’adesione è volontaria, fondata su un contratto, che implica l’impegno ad andare avanti fino alla fine, e quando vi sono dei problemi questi devono essere discussi. Nel contratto del gruppo sulla prevenzione alla recidiva si sottoscrive questa dichiarazione: “Accetto di partecipare al gruppo di prevenzione della recidiva per gli autori di reato a sfondo sessuale, l’obiettivo che perseguo è quello di cercare la soluzione ai miei comportamenti sessuali inadeguati, identificare i segnali precursori delle condotte sessuali devianti, apprendere a gestire e controllare i miei desideri e agiti sessuali, in modo da non ricadere in condotte sessuali illecite dannose per gli altri. Per questo incoraggerò gli altri partecipanti a fare lo stesso, sono consapevole del fatto che l’onestà è una condizione essenziale per il buon funzionamento del gruppo, e il gruppo è fondato sulla regola del segreto. Accetto e comprendo l’importanza e la necessità di non parlare del gruppo con le persone che non ne fanno parte, gli incontri di gruppo sono prioritari rispetto alle mie altre attività. Comprendo i termini dell’accordo e li accetto”.

Abbiamo poi degli interventi di attività a matrice espressiva, come i laboratori d’arte e di arteterapia, gli educatori che si dedicano allo sviluppo dell’attività fisica, uno psicomotricista e da quest’anno abbiamo anche un operatore di meditazione e joga, che fa un intervento quindicinale per quelli che lo desiderano, poi c’è un gruppo sull’attivazione delle competenze lavorative, che è praticamente dedicato alla formazione di un curriculum e alle difficoltà che si affrontano nell’inserimento lavorativo. Dopo il quarto mese invitiamo dei professionisti dall’esterno che vengono a raccontare la loro professione e il loro lavoro, sarebbe bello se magari veniste anche voi a raccontare Ristretti Orizzonti e a spiegare tutto quello che è la costruzione di un progetto. È questa un’opportunità per noi di invitare dei professionisti che sono dell’area della tutela dell’infanzia, dell’area della magistratura di sorveglianza, dell’area dei magistrati minorili, o degli assistenti sociali che lavorano nei consultori, dove si assiste appunto a tragici fenomeni di violenza e abusi su minori. Lo scopo è di aumentare la qualità dell’empatia di queste persone verso le vittime della loro condotta, aspetto questo estremamente importante.

I detenuti che hanno fatto questo percorso intensificato, che ora è di dodici mesi, sono inseriti nella sezione comune alla fine del trattamento, e per noi questo ha duplice valenza. La prima è l’abbattimento di quella subcultura penitenziaria nell’inserimento con i detenuti comuni. La seconda è che in questo inserimento queste persone devono fare i conti con le cose che hanno imparato, è una sorta di generalizzazione degli apprendimenti, di consolidamento dei risultati, così hanno modo di verificare se hanno imparato a gestire meglio la loro collera, a gestire meglio la comunicazione, ad affrontare meglio le situazioni di frustrazione che spesso sono alla base dei loro agiti del passato e che hanno portato al reato sessuale. E lo fanno in una sezione dove si devono comunque conquistare la possibilità di essere inseriti, nel senso che sono ospiti in quel momento, e devono entrare all’interno sapendo come comportarsi, sapendo anche come gestire magari gli attacchi o le offese che potrebbero subire in quel tipo di contatto con la popolazione detenuta comune.

Per noi a questo punto hanno finito il percorso trattamentale e almeno all’interno del carcere apriamo la strada per quello che è invece il passaggio fuori, dal momento che siamo riusciti a duplicare questo progetto, con questo tipo di approccio curativo e clinico, su un servizio all’esterno. Il Comune di Milano infatti ha finanziato un Presidio criminologico territoriale per il settore sicurezza e in questo momento abbiamo quattro gruppi di terapia di autori di reati sessuali, in tutto sessanta persone fra cui cinque donne, con problemi di pedofilia.

Si tratta di casi che ci vengono mandati dal magistrato di Sorveglianza, per misure alternative, permessi premio, affidamento, dall’UEPE o dalle aree educative stesse delle carceri, soprattutto quando è prossimo il fine pena, oppure addirittura persone che non sono ancora state intercettate dal sistema giudiziario per questo tipo di condotte e che i loro terapeuti inviano a noi per il trattamento. Il Presidio criminologico territoriale, che è gestito dalla nostra associazione, non lavora solamente con gli autori di reati sessuali, ma in generale con tutti quei soggetti che escono dal carcere dopo aver scontato una pena per reati violenti, efferati, e che hanno un aspetto di eventuale pericolosità o di problematica psicopatologica che non va trattata solamente con la pena, ma con un accompagnamento sul territorio, non solo per il reinserimento lavorativo, ma anche per la possibilità di incontrare dei clinici che li aiutino magari a gestirsi rispetto alla recidiva.

 

Marino Occhipinti: Lei parlava del 90/95 per cento di negatori totali, io penso che a volte la negazione avvenga anche perché spesso si nega il reato prima di tutto di fronte alla propria famiglia e questo può essere un ostacolo, aggiunto alla scarsa fiducia in se stessi, l’isolamento, la ghettizzazione propri delle Sezioni Protetti. Ma quanto secondo lei influisce, soprattutto su questo percorso, la mancata accettazione da parte di noi detenuti di queste persone e cosa cambia per loro con l’inserimento a Bollate nelle sezioni comuni? Qui abbiamo provato a discuterne, ma i pareri sono diversissimi, c’è chi è più aperto di vedute, e chi è quasi completamente chiuso.

Paolo Giulini: Quello che lei ha detto sulla scarsa fiducia in se stessi, l’isolamento, la ghettizzazione, è corretto, sono degli aspetti che fanno parte molto spesso della psicopatologia di queste persone e possono essere spesso elementi che facilitano la ripetizione del reato.

La risposta penale che oggi arriva è molto forte per questi reati, nei cui confronti vengono irrogate pene molto elevate, io credo che la risposta retributiva fine a se stessa non aiuti e sia necessario creare anche un percorso di inserimento all’interno delle sezioni comuni che sia di tipo e qualità trattamentale, rispetto al quale di certo la subcultura carceraria non aiuta. E infatti i nostri detenuti all’inizio non volevano passare nelle sezioni comuni, avevano paura, piuttosto sarebbero ritornati nelle Sezioni Protetti. Il primo inserimento lo abbiamo fatto in una sezione a custodia attenuata, questa sfida in un certo senso è anche una leva trattamentale per il detenuto che non ha questi reati, perché comunque è una questione di educazione alla legalità, è un incontro sul fatto che siamo in un mondo, quello del carcere, quello della punizione, che in un certo senso rispetto alla questione della detenzione dei protetti può creare delle subcategorie che rischiano di essere una stigmatizzazione, un modo diverso e discriminante di trattare il detenuto.

Naturalmente è stato risolutivo il fatto che la proposta di inserire i protetti fra i comuni è arrivata dall’alto, è stata in un certo senso imposta dalla direzione di Bollate, che ha deciso di offrire tutta una serie di possibilità trattamentali che poi ciascun detenuto può gestire come vuole. Così, ad esempio, i detenuti che non accettavano questo trattamento nei confronti dei sex offenders, erano liberi di chiedere il trasferimento, ma in tre anni c’è stato solo un detenuto che ha preso questa decisione. Certo è un inserimento per interesse, almeno all’inizio, ed è chiaro che per molti è una scelta strumentale, anche se una buona parte era consapevole della necessità di questo cambiamento e ha voluto conoscere i nuovi compagni che avrebbe poi avuto in sezione. Altri invece hanno fatto un ragionamento di convenienza, però è anche vero che pian piano nel tempo succede che quando si conosce quel “mostro”, che è responsabile di quelle condotte che a volte hanno un carattere mostruoso, si capisce che dietro a queste condotte c’è comunque una persona con delle problematiche che vanno affrontate, e quando si ha un contatto con quella persona, che viene vista come mostruosa quando è lontana e separata, ci si accorge che questa separatezza ti allontana dalla complessità della vicenda umana. Si tratta di capire che l’uomo è capace di generare il male, certo, ma è anche possibile da questo partire per la ricostituzione di quella persona, invece di consegnarla per sempre al suo destino di mostro. Il detenuto che, anche in modo strumentale, accetta, partecipa a un grande cambiamento dal punto di vista personale e del modo di pensare la pena, e acconsentendo a incontrare queste persone partecipa al trattamento esattamente come ci partecipa il nostro detenuto nella sezione a trattamento intensificato.

 

Sandro Calderoni: Però i detenuti che a Bollate hanno accettato sono stati preparati da persone specializzate, noi qui in redazione abbiamo la possibilità di discuterne, di parlarne, ma nelle sezioni comuni non c’è questa preparazione e questo confronto su questo problema, c’è paura ad affrontarlo ed è molto difficile anche per questo rimuovere convinzioni profondamente radicate.

Anna Maria Morandin (educatrice della Casa di reclusione di Padova): Ma siccome voi nelle vostre discussioni spesso sostenete che è importante ricordare che dietro ogni reato c’è una persona ed è stato anche il tema del convegno di due anni fa, “Persone, non reati che camminano”, allora è giusto che teniate conto che quelli che sono ubicati nelle Sezioni Protetti sono comunque persone, mentre mi sembra che si guardi di più al reato. E questo lo avete fatto anche al Polo universitario, quando il direttore ha inserito un detenuto protetto e da tutti è stata fatta una opposizione ferrea, tant’è che la persona ha dovuto rientrare alla Sezione Protetti.

 

Sandro Calderoni: Proprio perché siamo ancora legati a questa subcultura, e se non c’è una preparazione all’abbattimento di questa subcultura, diventa tutto più difficile.

Paolo Giulini: In questo momento noi abbiamo in trattamento 18 persone nell’unità intensificata. Tutti gli altri che non hanno fatto il progetto, più quelli degli anni precedenti, non sono più nemmeno inseriti nella sezione attenuata, ma sono proprio inseriti nelle sezioni comuni, e non solo, il Provveditorato manda adesso alcuni delle Sezioni Protetti di San Vittore e di Opera, che non sono entrati nel trattamento e che non abbiamo mai conosciuto, direttamente fra i detenuti comuni.

Per cui oggi Bollate ha come numero di autori di reati sessuali, oltre a quelli coinvolti nel nostro progetto, circa una sessantina inseriti fra i detenuti comuni.

 

Franco Garaffoni: In base alla sua esperienza, in percentuale lei ritiene che vi sia più tolleranza o più accettazione da parte dei detenuti? Per me il problema é che una volta fuori avranno le stesse difficoltà a farsi accettare, quando lei prima ha parlato di stima io penso che voi troviate degli ostacoli enormi a ridare un minimo di autostima, una volta all’esterno, a queste persone.

Paolo Giulini: Marshall, un grande specialista del trattamento dei reati sessuali, che è venuto dal Canada in visita alla nostra unità per vedere come lavoriamo, ci diceva che i tempi che uno dedica nella vita ad atti gravi sono dei tempi minimi, non sono dei tempi così significativi, anche se questo non significa che non sia grave quello che ha fatto. Ma c’è un residuo di vita molto importante, in cui questa persona è padre di famiglia, lavora, ha dei problemi e riesce a gestirli, non è che sia completamente destinato alla sconfitta, tranne che nella relazione sessuale in cui ha bisogno di questi atti per riportare stima su di sé. Il lavoro sulla stima è un lavoro fondamentale per noi, però capisco quello che lei dice sulla distinzione fra tolleranza e accettazione, io credo che la tolleranza non sia un grandissimo valore, sicuramente, e che sia un aspetto minimo di una relazione con le persone, però è già qualcosa che consente di vedere una persona, di attraversare lo spazio in comune, di pensare che c’è un altro, anche con le sue diversità.

 

Maurizio Bertani: Lei oggi ci ha spiegato che c’è stato un lavoro di preparazione per quanto riguarda il personale di Polizia penitenziaria. Ma per quanto riguarda i detenuti comuni, per una accettazione o tolleranza come diceva Franco prima, io non ho sentito che ci sia stato nessun tipo di lavoro, e mi sembra invece ci sia una imposizione: se ti va è così, oppure fai l’istanza di trasferimento. Ora io vedo che qui si sta ragionando insieme e credo che questo possa portare a un compromesso, a una posizione di accettazione o almeno di tolleranza. Invece non mi piace se voi dite “Se non ti sta bene fai l’istanza di trasferimento!”.

Paolo Giulini: La preparazione con i comuni è stato un elemento importante, nella sezione attenuata un anno prima sapevano che sarebbero arrivate queste persone e da lì sono cominciate chiaramente tutte le discussioni, gli interventi, la presenza anche della redazione di CarteBollate, che è la rivista interna che si interrogava su questa questione.

Una delle cose che abbiamo cominciato a fare subito è utilizzare la palestra della sezione attenuata, per cui nel passare con i nostri in palestra a fare psicomotricità o attività fisiche si attraversavano gli spazi comuni della sezione attenuata. Già questo voleva dire incontrarsi nei corridoi, vedersi, vedere questa gente che arrivava, magari qualcuno buttava un oggetto da sopra, la mela che arrivava giù nel cortile, all’inizio il cortile era pieno di oggetti.

Chiaramente la direzione ha dovuto fare una scelta, ha deciso di preparare questo ingresso, però non ha mai messo in discussione la decisione di far incontrare i nostri detenuti con i comuni.

Ed è certo una imposizione che nasce però da una esigenza giusta, da una parte il reinserimento per uscire dalla subcultura, dall’altra anche il fatto che questo progetto è funzionale per queste persone, perché veramente le toglie da quell’isolamento che spesso maschera le loro psicopatologie e genera ancora più distorsione nelle loro condotte.

 

Daniele Barosco: Se questa subcultura esiste in circa 200 istituti in Italia, fa parte sia dei detenuti, che della Polizia penitenziaria e anche di molti operatori. Ma lei cosa ne pensa della nuova normativa che porta questa subcultura anche a livello legislativo? Non ritiene che siano in contrasto l’idea di intervenire su questo fenomeno attraverso progetti come il vostro e il fatto di legiferare per tagliare l’applicazione delle misure alternative a chi ha commesso questi reati?

 

Paolo Giulini: Effettivamente ci stiamo chiedendo anche noi quale sia la scelta nell’intervento repressivo di queste condotte, in una risposta retributiva che deve arrivare, e giustamente sono stati i movimenti delle donne soprattutto che, adottando la cultura dell’importanza dell’integrità, hanno agitato le coscienze sulla gravità di questi atti intrusivi della violenza sessuale. Però l’accanimento retributivo non facilita la prevenzione di queste condotte, perché la prevenzione va costruita su un terreno che oltre alla pena, o nella pena, preveda il trattamento e poi la possibilità di un aggancio per una alleanza sul fuori, sul dopo carcere.

Nell’accomunare nella prima fascia del 4 bis le condotte sessuali violente di questi reati, chiaramente si complica il lavoro conclusivo, quando siamo arrivati alla fase dell’inserimento all’esterno. Questa mattina per esempio un nostro collega accompagnava 4 detenuti che uscivano per andare a fare il gruppo all’esterno, dove sono in 15 in trattamento. Questa operazione consente loro di vivere un’esperienza che contribuisce al loro inserimento, perché trovano un alleato all’esterno in un gruppo di lavoro che li aiuta a problematizzare la propria condotta sessuale deviante. Con questo intervento legislativo, probabilmente dovremo interrompere questa prassi ed è un peccato perché noi vediamo che funziona.

 

Laura Baccaro (psicologa): Vorrei sapere se ci sono donne con questo tipo di reato in carcere e se ve ne sono che si rivolgono al servizio esterno. Volevo poi aggiungere che molte volte si discute di problematiche di questo tipo senza prendere in considerazione il corpo del reato, ritengo invece essenziale occuparsene e in questa direzione mi pare vadano i corsi di yoga e psicomotricità, questa secondo me è una parte essenziale del trattamento.

Paolo Giulini: Infatti una parte molto importante del progetto è l’educazione sessuale, ci sono due sessuologi clinici che hanno una competenza elevata su questa tematica, che vengono settimanalmente a fare un intervento di educazione sessuale. Dunque affrontiamo questo aspetto del corpo, ma anche questo aspetto della sessualità, non solamente la sessualità legata alla devianza, ma la sessualità legata a qualcosa di costruttivo, dunque un valore nella relazione. La relazione sessuale non è mai abbastanza problematizzata, e invece ritengo che sia importante che in un progetto del genere l’educazione sessuale entri proprio in maniera forte, insieme al discorso del corpo del reato. 

Quanto alle donne accusate di questi reati, il concetto di Sezione Protetti in questo momento non vale per la sezione femminile, forse perché di donne autrici di questi reati è da poco che si parla. Ci si è accorti che sono condotte agite molto diversamente, sono molto meno invasive dal punto di vista della fenomenologia dell’atto, ma comunque sono presenti e sono altrettanto devastanti per le conseguenze di chi le subisce. Per esempio ci sono certe madri che sono state abusanti insieme al loro coniuge che sono appunto in trattamento da noi, oppure madri che sono state coinvolte in una situazione di abuso, che hanno avuto la condanna e sono negatrici rispetto al reato, e talvolta sono anche negatrici rispetto al reato del proprio compagno.

 

Milan Grgic: Ma non c’è pericolo di creare un gruppo di privilegiati in questo modo? In questo momento di recessione economica noi qui vediamo che mancano molti mezzi e uomini, come giustifica un così massiccio impegno di persone per un così piccolo numero di detenuti?

Paolo Giulini: É innegabile che ci sia un intervento intensificato nei loro confronti, però è anche vero che l’Ordinamento penitenziario prevede la differenziazione, che vuol dire prendersi carico di alcuni aspetti e problematiche, fisiche e psichiche di alcune persone che si ritiene essere bisognose di un supplemento di intervento, cioè nella pena occuparsi anche della cura.

 

Walter Sponga: Io in carcere in Francia ho vissuto direttamente questo tipo di problema, cioè l’inserimento nelle sezioni comuni di queste persone. All’inizio anch’io ero molto scettico, ma lì l’inserimento era stabilito dalla legge, per cui non c‘era niente da discutere. Inoltre in Francia gli anni di liberazione anticipata venivano scalati subito, se però qualcuno avesse aggredito una di queste persone lo sconto di pena l’avrebbe perso. I primi tempi è stata comunque un po’ dura per quei detenuti, c’erano alcuni compagni che li evitavano, poi piano piano si è cominciato a parlare con loro degli interessi in comune, la situazione si è gradualmente calmata. Può accadere che i primi tempi a qualcuno possa dare fastidio, per il reato, per la subcultura, per altre motivazioni, ma poi quando ti trovi a doverci convivere ti accorgi che sono persone come tutte le altre, a me personalmente non darebbe nessun fastidio la loro presenza.

Paolo Giulini: Lei ci ha dato un esempio di un Paese in cui il cambiamento della struttura detentiva è partito da una scelta del legislatore.

 

Vanni Lonardi: Secondo me questa subcultura non è strettamente legata al carcere ma è molto radicata nella società. Quando vediamo alcuni organi di informazione che avallano la possibilità di farsi giustizia da soli su questi casi, o sentiamo proporre leggi coercitive sulla castrazione, allora vuol dire che è proprio la società che vede questo tipo di reato diversamente dagli altri.

Paolo Giulini: È vero che la società in questo momento ha bisogno di capri espiatori, lo vediamo da come reagiscono i media, come costruiscono un po’ questo fenomeno in un modo che va al di là della realtà del fenomeno stesso: non è così alto infatti il numero di violenze sessuali fatte da persone sconosciute, e cioè l’idea dello stupratore che piomba sulla vittima non è così fondata, non succede così spesso. Nella tipologia di soggetti che incontriamo nelle carceri italiane noi abbiamo a che fare con persone che una volta nel carcere non entravano, educatori, padri di famiglia, religiosi (quelle poche volte che i religiosi ce li fanno passare, perché la Chiesa se li porta nelle loro comunità). Allora è vero che c’è il rischio di questo stigma, che serve ad identificare comunque il nemico su cui proiettare tutto il male, con un meccanismo che libera dalle proprie responsabilità o dalle proprie angosce. Dare delle risposte, non solo di tolleranza ma di accettazione, significa anche incidere su questo livello di cultura o di valori che è molto importante.

Per quanto riguarda la questione della bassa recidiva, sì non è una recidiva così come ci viene detto, il pedofilo non è necessariamente quel tipo che ci immaginiamo, che va in giro nei giardinetti a cercarsi la preda, però c’è anche quello, quello è uno a rischio di recidiva, e c’è un trattamento che dovrebbe dargli degli strumenti non per guarire, ma per riuscire a controllare i suoi impulsi.

Quando queste persone entrano nel reparto noi diciamo: “Guardate che qui non guarite, probabilmente la vostra problematica sessuale deviante ve la portate avanti per tutta la vita, ma c’è la possibilità di lavorare su strumenti che vi danno dei segnali di allarme, i campanelli di allarme per riuscire a riconoscere quei momenti in cui siete a rischio, ed è su questo che dovete impegnarvi”. È un po’ come il diabetico, che va sempre in giro con l’insulina, questo non significa che la recidiva per forza sia a volumi esponenziali, per cui quella media del 17 per cento in taluni casi si abbassa, soprattutto per i reati intrafamigliari si parla addirittura di un 4-5 per cento.

 

Salvatore Pirruccio (Direttore della Casa di reclusione di Padova): Lei ha detto prima che avete fatto l’interpello fra il personale di polizia per chi volesse lavorare all’interno di quelle sezioni, ma quale ruolo hanno gli agenti? Aprono e chiudono le porte e basta o partecipano al vostro lavoro? E poi gli altri, quelli che stanno nelle altre sezioni dove poi trasferiamo questi detenuti, che reazioni hanno?

Paolo Giulini: Io so per esempio che molti della Polizia penitenziaria delle sezioni comuni non erano assolutamente contenti di questo passaggio nelle sezioni comuni dei nostri detenuti, per problemi probabilmente anche di carico di lavoro, di controllo, di sicurezza. Oggi posso dire francamente che la sensazione che ho è che ci sia una accettazione da parte della Polizia penitenziaria proprio dell’inserimento con i comuni, non si sono insomma creati dei grossi problemi nella gestione di queste nuove situazioni.

Nella nostra sezione gli agenti partecipano all’assemblea, che si svolge ogni settimana, non partecipano invece al trattamento, nel senso che si tratta di gruppi terapeutici dove c’è la confidenzialità come regola, per cui vengono fuori delle cose che sono e rimangono segrete, solo i due operatori le conoscono e sono vincolati dal segreto professionale.

 

 

Dritan Iberisha: A me, che ho girato un bel po’ di carceri in Italia, questo progetto piace, perché fa aprire la nostra mente, e se vogliamo che fuori ci vedano come persone e non reati, allora dobbiamo anche noi accettare questa gente. Penso però che nel centro e sud Italia sia difficile per chi dirige l’istituto riuscire a far passare un progetto di questo tipo, perché i detenuti stanno 24 ore su 24 chiusi, non hanno la possibilità di lavorare, di andare a scuola, ci sono pochissime opportunità. Allora il detenuto non ha niente su cui confrontarsi, se non le solite chiacchiere.

Io sono in carcere per omicidio, e qui negli incontri con gli studenti una ragazza ha detto che il reato di violenza sessuale è addirittura più grave del mio, io ho ribattuto che si sbaglia, perché penso che l’omicidio sia molto più grave. Lei ha risposto che io parlo così perché non sono una donna ma un uomo, è chiaro che non ero preparato a rispondere a questa domanda. Ma se noi fossimo preparati prima, magari con l’aiuto di psichiatri e di altri esperti che ci spiegassero come stanno le cose, sarebbe molto più facile, per noi e anche per loro, perché secondo me accettando loro, possiamo salvare pure qualche vita fuori, un recupero dentro vuol anche dire una vita in più fuori.

Paolo Giulini: Noi siamo stati recentemente anche in altre strutture a confrontarci con le aree educative per vedere se si possano fare progetti di questo tipo. In Canada ce ne sono 45, di questi progetti, con 26 milioni di abitanti.

Anch’io penso sia possibile con progetti così soprattutto salvare le vite fuori. Quello che sosteneva quella studentessa ha un fondamento, può essere che con la violenza di questo tipo si vada veramente a ledere per sempre delle parti di una persona, che viene distrutta, al punto che poi per lei la ricostruzione è quasi impossibile. Quella ragazza alludeva a sensazioni che le donne possono provare come conseguenza di questi reati, augurarsi che non si ripetano credo sia un obbligo per noi. Almeno come criminologo mi sento in obbligo, se lavoro in carcere, di lavorare sulla recidiva.

Quanto a quelli che propongono come soluzione alla recidiva la castrazione chimica, non sembrerebbe (almeno io lo chiamo trattamento farmacologico con antiandrogeni, dunque con sostanze che incidono sullo sviluppo di testosterone nel sangue) avere questa grande efficacia sul piano clinico del trattamento per queste persone.

È sempre comunque in gioco la liceità di un trattamento che richiede la volontarietà della persona e per questa volontarietà ci deve essere un lavoro clinico e di supporto in senso psicologico. La somministrazione di antiandrogeni ha poi purtroppo degli effetti collaterali pesanti, per esempio è ad alto rischio di patologie tumorali e soprattutto incide sull’aggressione e non tanto sulla eccitazione sessuale, cioè su quell’aspetto del testosterone che è legato alla dimensione reattiva aggressiva.

L’altro problema è il controllo della somministrazione di questo tipo di sostanze, e in ogni caso per contenere alcune compulsioni gravi, come nel caso degli esibizionisti, si sono rivelati più utili gli psicofarmaci. Ormai in America e in Canada per questo tipo di condotte usano come aiuto psichiatrico i riduttori dell’ansia, che sono a volte ancora più efficaci dei trattamenti ormonali.

I trattamenti ormonali hanno l’effetto di ridurre l’eccitabilità, ma il problema non è ricostruirsi una sessualità con una funzionalità dell’eccitabilità che sia adeguata, il problema è con la relazione, che non deve essere più invasiva, e per raggiungere questo obiettivo secondo noi sono efficaci solo trattamenti psicologici.

 

Gentian G.: Ci sono detenuti stranieri in questo progetto?

Paolo Giulini: Noi all’inizio nei criteri di selezione avevamo escluso gli stranieri, perché avevamo il timore che non riuscissero a partecipare all’intensità della verbalizzazione, della parola che viene usata nei gruppi. Invece in questo momento nel reparto possiamo dire che su diciotto persone cinque sono straniere.

 

Marino Occhipinti: Volevo ringraziarla perché questo incontro si va a collocare in quelli che sono i nervi scoperti di alcuni di noi. Io capisco che la società esterna possa avere dei problemi nei confronti di queste persone, e infatti gli studenti ce lo chiedono spessissimo quando vengono: ma che atteggiamento avete nei confronti dei pedofili e degli stupratori? Però mentre capisco benissimo che ci possa essere questo atteggiamento da parte della società esterna, da parte nostra è poco comprensibile questa mancanza di accettazione, quando vorremmo noi per primi essere riaccettati dalla società fuori. Io credo allora che questo incontro ci rimandi in cella con molti interrogativi che si aprono e sui quali dovremo discutere nei prossimi giorni, quindi è molto positivo perché è stato di grande stimolo, ci ha insegnato parecchie cose e anche i più refrattari fra noi, siamo o sono costretti a pensarci.