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Come riempire le ore vuote del carcere 21 passi in saletta: un altro pomeriggio di galera Viaggiando con la mente lontano dalla noia delle ore di socialità
di Mohamed Madouri
Ore 17.00 circa, si apre il grande cancello che chiude tutto il reparto detentivo. L’agente grida: “Saletta!”. Io sono pronto, davanti al cancello della cella, vestito in tenuta sportiva, una tuta da ginnastica e scarpe da tennis, in tasca come al solito ho lo stereo e due cassette di riserva. L’agente inizia ad aprire con ordine i cancelli delle celle, e arriva anche da me. Entro in saletta. Di solito, sulla mia destra trovo un ragazzo che indossa una bandana fatta con la bandiera americana. Io lo chiamo bay-watch perché ogni sera lui porta in saletta lo zaino da picnic, tira fuori l’asciugamano grande da spiaggia e lo distende per terra e sopra appoggia prima l’orologio, poi tira fuori la bottiglietta energetica di Gatorade, infila le cuffie nelle orecchie e parte per un viaggio fatto di addominali, flessioni e altri esercizi, senza uscire mai dallo spazio dell’asciugamano. Un po’ in avanti, in mezzo alla saletta, ci sono i tavolini dove si gioca a carte. Intorno, oltre ai quattro giocatori, ci sono sempre, in piedi, diversi spettatori che guardano e ogni tanto commentano le mosse fatte dai giocatori, brontolano, ridono, bestemmiano, litigano. All’angolo c’è il doppio lavandino dove qualcuno lava e sciacqua i panni con l’acqua calda. Vicino c’è il bigliardino e di tanto in tanto si fanno i tornei. In fondo c’è il tavolo da ping-pong smontato e piegato, perché lo spazio è piccolo e perché nessuno gioca da tempo. Cosi viene aggiunto come un altro tavolo al quale si gioca a scacchi o a dama in piedi. La struttura della camera è semplice, soltanto sul lato destro ci sono tre finestre che danno sul campo da calcio, mentre sulla sinistra il muro è spoglio, niente poster, e niente scritte o disegni. Sul soffitto sono attaccati sei neon. Se ci si affaccia alla finestra, la prima cosa che si vede bene fuori dalle mura del carcere è lo stadio di Padova, poi al di là si vede anche la città con i suoi palazzi alti. Quando entro in saletta, saluto tutti, metto le cuffie e comincio a camminare, contando i passi. Sono 21 passi dall’entrata della saletta per arrivare in fondo; poi ritorno indietro e nel camminare mi lascio trascinare dalla musica che ascolto, e mi faccio trasportare fino a ripensare a com’ero prima di finire in carcere, e viaggio con la mente fino a quando quel piccolo spazio di saletta diventa un’oasi senza confine. Mi viene da ridere a ricordarmi di quanto ero ingenuo. Sognavo una volta l’Italia e i vestiti firmati, sognavo un futuro migliore per me e per la mia famiglia. Sognavo l’ultimo modello della Mercedes e sognavo di essere un uomo di affari. Sognavo di fare la bella vita che vedevo tutte le sere su Raiuno. Oggi invece, camminando nella saletta del quinto piano del carcere di Padova, mi piace ritornare con la fantasia alla semplicità della vita del mio paese e in quei 21 passi mi sogno di essere nel vicolo di casa mia a parlare con i vicini, e poi mi vengono in mente le chiacchierate a tarda notte con gli amici, soprattutto d’estate dopo aver passato la serata a passeggiare sul lungomare. Immagino che ci riuniamo davanti a casa, buttati per terra in pantaloncini dal gran caldo, e ci rinfreschiamo con l’acqua fresca della fontanella, e ci stendiamo guardando le stelle. Oppure appoggio la schiena al tronco dell’albero di gelsomino che sparge il suo profumo in tutto il vicolo, e ascolto la musica, che proviene da lontano attraverso gli altoparlanti, di qualche matrimonio in città. Quando passo vicino ai tavoli da gioco della saletta, mi ricordo del locale del quartiere dove abito e mi vengono in mente persone che pensavo di aver dimenticato per sempre, mi vengono in mente i camerieri e anche le bevande. Fuori c’era il terrazzo, e allora immagino di prendere una bevanda e raggiungo i miei amici seduti sotto l’ombrellone da giardino, di fronte c’è il salone di parrucchiera dove vanno molte ragazze e anche le nostre fidanzate. I quattro ragazzi che guardavano i giocatori di carte litigando, ora si dirigono verso il biliardino e si mettono a giocare, provocando tanto rumore, e mi fanno tornare in mente la sala giochi della città dove abitavo. Mi ricordo quando mi assentavo dalle lezioni per andare a giocare a bigliardo e a flipper e immagino di giocare ancora sul vecchio flipper, dagli angoli consumati.
Guardo fuori e provo gelosia per la preziosa libertà di cui qualcuno sta godendo
Il bay-watch, dopo aver fatto la sua ginnastica, inizia a raccogliere le sue cose, toglie le cuffie e viene verso di me, mi offre una gomma americana e comincia a camminare affianco a me, e poi mi chiede per l’ennesima volta: quando inizi a fare ginnastica anche tu? Mi fermo, tolgo le cuffie, lo guardo e sforzandomi in un sorriso gli dico: “Bay-watch vattene a quel paese!”. Lui ride e mi abbraccia. In quel momento si apre il cancello e l’agente chiama: prima ora, guardo l’orologio e sono già le 19.00. In saletta rimangono pochi detenuti, quelli che giocano a poker e i quattro che si sfidano a bigliardo ogni sera. Metto di nuovo le cuffie, riprendo il mio cammino e finalmente mi metto a sognare di nuovo, però un mio conterraneo che ha appena finito di telefonare ai suoi cari, rientra in saletta, si avvicina e si unisce alla mia passeggiata, e mi racconta della sua famiglia, e di quanto è contento perché sua sorella ha avuto un altro bambino. Dice di avere sette nipoti ormai, ma che non ne conosce neanche uno, e questo lo rende malinconico. Io penso automaticamente ai miei cinque nipoti che non conosco e le sue chiacchiere rendono infelice anche me: e siccome so che ci deve essere una regola del carcere, che è quella di evitare di parlare dei propri affetti per non rendersi pesante agli altri, glielo dico, ma poi gli do una pacca sulla spalla augurandogli di vedere i suoi nipoti più presto possibile, poi cambio discorso e gli parlo di calcio, così anche lui capisce che non mi va di parlare di famiglia. Lo coinvolgo nel mio viaggio favoloso, sognando a occhi aperti. “Ma quando eri ragazzino hai mai giocato a pallone sulla riva del mare?”, gli chiedo. “Si!”, mi risponde, “giocavo sempre a pallone quando ero ancora ragazzino e anche da grande”. Chiacchieriamo sereni, e compiuti i miei soliti novanta minuti di camminata, mi fermo, lo saluto e vado ad affacciarmi alla finestra per guardare Padova e “distendere” gli occhi: è un esercizio ottimo per non perdere la vista. Si annuncia pioggia, e l’aria è trasparente. Dall’alto del quinto piano del carcere si vede quasi tutta la città. Posso individuare perfino i palazzi intorno alla stazione. All’improvviso i miei occhi cadono a qualche decina di metri al di là del muro alto di cinta, dove un agricoltore sta curando attentamente un albero, e mi accorgo che verso di lui provo gelosia per la preziosa libertà di cui sta godendo. Mi viene da piangere e appoggio la testa contro le sbarre della finestra, chiedendomi: ma quando finirà? Una voce dai piani di sotto chiama il mio nome, cerco con lo sguardo e vedo un braccio spuntare dalle sbarre della finestra di una cella di fronte, al terzo piano. Mi saluta in arabo. Ricambio il saluto e gli dico che è meglio che mi scriva una lettera, ricordandogli che non possiamo comunicare, così si rischia qualche richiamo. Si apre la saletta, l’agente grida di nuovo: “Orario!”. Spengo lo stereo, tolgo le cuffie e esco fuori seguito dai giocatori di carte che come sempre commentano le partite, accusandosi a vicenda di aver barato o di aver vinto solo per pura fortuna. Durante il cammino verso la mia cella, che si trova proprio in fondo alla sezione, passo davanti alle celle dei miei compagni che provengono da diversi paesi, e saluto ognuno con la sua lingua, “Good night! Buenas noche! Natёn e mirё! Bonne nuit! Dobro noç!” e passo dritto fino ad arrivare alla mia cella, l’agente chiude prima il cancello poi il blindo e ci diamo la buona notte. Tolgo le scarpe e la tuta, poi mi metto il pigiama e mi butto sotto le coperte, e anche oggi è passato un altro pomeriggio di galera.
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