A scuola di scrittura

 

Dall’esperienza di “Ristretti Orizzonti”, una riflessione sulla scrittura in carcere

Informazione e autobiografia: le parole per dirlo

 

di Ornella Favero

 

Se si vuole usare la scrittura autobiografica per ricostruire un legame con il mondo esterno, bisogna avere la forza di rinunciare a “buttar fuori” tutto e scegliere, scegliere appunto “le parole per dirlo”, ragionare su cosa si vuole comunicare e poi eliminare, tagliare quello che non può arrivare al cuore delle persone che leggono.

È curioso che quello che una persona, che ha a che fare con la Giustizia, più odia, il fatto che pezzi della sua vita diventino di dominio pubblico, finendo sui giornali e costituendo un marchio che poi uno non riuscirà più a togliersi di dosso, possa invece trasformarsi in un elemento fondamentale per ritrovare davvero un ruolo e un posto nella società. Questo elemento fondamentale è il racconto autobiografico, forse una delle poche forme di scrittura, o di comunicazione orale, che possono servire a ricostruire un contatto tra il dentro e il fuori: ma bisogna trovare “le parole per dirlo”, per dire che si è in carcere, per dire il reato commesso, per scoprire, nella propria storia, qualcosa che possa essere utile agli altri.

 

Come smontare quella silenziosa intolleranza di una società spaventata

 

Questo è un momento in cui l’informazione, sui temi che interessano più da vicino noi che “abbiamo a che fare” con il carcere, occupa un ruolo molto importante nella vita e nel lavoro delle persone. Negli ultimi anni vi è stato un continuo scatenarsi dei media sui problemi legati alla sicurezza, con il preciso obiettivo di concentrarvi l’attenzione pubblica, inevitabilmente distogliendola da altri problemi non meno importanti. Questo ha prodotto un ormai permanente senso comune di paura e insicurezza, che ha fatto crescere, rispetto alla politica, una domanda di intervento, a cui si è risposto con leggi e provvedimenti emergenziali, in materia di criminalità, che hanno immancabilmente prodotto restrizioni e chiusure sia nell’ambito dell’applicazione della giustizia, sia in quello dell’espiazione della pena. E dunque, le persone che popolano oggi le carceri italiane sono quelle che hanno risentito direttamente di queste congiunture, sia perché vi è stato un chiaro aggravamento delle loro condizioni in termini di sovraffollamento, sia per quella silenziosa intolleranza che cova nei cuori di una società troppo spaventata.

Allora credo che sia evidente l’importanza di insegnare, o meglio imparare insieme ai detenuti, a fare un giornale che racconti questa realtà in modo maturo, attento, sincero, per informare la società dell’esistenza di “persone, non reati che camminano”. E uso il termine “imparare” non per mostrarmi particolarmente democratica, ma perché il percorso fatto con “Ristretti Orizzonti” non è stato affatto caratterizzato da una forma unidirezionale: io che vado a dire come si fa un giornale. Si tratta piuttosto di un laboratorio in cui, di giorno in giorno, il rapporto vitale e continuo fra “il dentro e il fuori” permette di aggiustare il tiro, vedere i difetti, “scannarsi” amichevolmente per capire quello che funziona e quello che non funziona.

D’altro canto, frequentando il carcere, mi sono convinta che il tasso di recidiva, il rischio del dentro e fuori dal carcere, sia in molti casi direttamente proporzionale alle ore che le persone trascorrono stese in branda a guardare la televisione. Un detenuto mi raccontava di aver passato diversi anni chiuso in una cella, e diceva che questo lo aveva portato ad abbrutirsi dentro, svuotandolo di ogni sentimento umano e rendendolo aggressivo e pericoloso per sé e per i suoi compagni di detenzione. Secondo lui, il motivo principale di questa sua trasformazione era la mancanza di comunicazione, e io gli credo, perché immagino che sia vero e che per una persona, che passa anni senza parlare, comunicare, ragionare, sia naturale regredire a uno stato non umano.

Allora, un giornale rappresenta una risposta efficace, perché impegna i detenuti a comunicare, e a fare anche una informazione più ragionata, che in qualche modo deve riuscire a “smontare” le strumentalizzazioni e le banalizzazioni dei grandi media su questi temi. Esistono delle persone che sulla vita in carcere hanno molto da raccontare e un giornale è un mezzo efficace per raccogliere le loro storie e i loro pensieri e proporli a una società, che spesso non sa, oppure non vuole sapere che nella sua città vi è anche il carcere, strapieno di persone che hanno diritto alla dignità e al rispetto.

 

Scrivere per chi?

 

Scrivere per buttar fuori il rancore e la frustrazione accumulati dalla vita in carcere? Fin qui andrebbe tutto bene, se non fosse che fare informazione dal carcere è un’impresa incredibilmente complessa.

Come prima cosa, abbiamo sempre cercato di evitare di fare un giornale che fosse comprensibile soltanto dagli addetti ai lavori, ma non abbiamo mai voluto fare nemmeno un giornale di intrattenimento, che contenesse ricette, poesie o parole incrociate, e soprattutto storie mal raccontate.

Sin dall’inizio abbiamo deciso che questo giornale doveva essere un mezzo di approfondimento, dove le persone potevano raccontare le proprie storie e parlare dei propri problemi, perché il carcere è fatto proprio di questo, di storie, tante e diverse – attraverso le quali si può cercare di capire di più della nostra società e di noi stessi. Un giornale che doveva essere stimolante per le persone che hanno a che fare col carcere, educatori, esperti, magistrati, operatori, insegnanti e volontari, ma doveva arrivare anche alla gente fuori, e in particolare ai giovani. Perché, oltre al bisogno di informazione che sente chi in carcere ci lavora, vi è anche un pressante bisogno di informazione sobria e pulita, in particolare per i giovani, quelli che maggiormente subiscono certi modelli discutibili della nostra epoca, quelli che, troppo spesso, soprattutto se sono stranieri, rischiano di finire in carcere.

E poi bisogna, faticosamente, imparare a parlare “a tutti”, una strana categoria che, per chi sta in carcere, significa parlare a tutti quelli che spesso ritengono che chi ha commesso reati non abbia nemmeno diritto di parola. Per noi una autentica “palestra”, da questo punto di vista, è stato il sito, e poi lo spazio che, ogni settimana, abbiamo sul principale quotidiano locale. Da lì è nata, per esempio, una corrispondenza con un “pluriderubato”, iniziata con un “Egregio signor ladro” e continuata con uno scambio, che ha obbligato i “ladroni” a comunicare con chi i furti li subisce e i motivi di astio verso di loro ce li ha, e forti.

Se quindi i nostri lettori non dovevano essere solo quelli che la galera già la conoscono, inevitabile è stato affrontare il problema di scegliere accuratamente il modo più adeguato per comunicare con le persone che stanno fuori. Il pericolo era quello di scrivere per buttar fuori il rancore e la frustrazione accumulati dalla vita in carcere, e di finire però per non avere altri lettori che se stessi, e i propri compagni di cella.

 

Scrivere, perché?

 

L’unica regola, ossessiva direi, è invece che bisogna sfrondare le proprie parole da ogni vittimismo, perché chi sta in carcere non può permettersi di “confondere i ruoli del colpevole e della vittima”, questa è una comunicazione che non funziona, e anzi rischia di produrre sensazioni di fastidio, o qualche volta addirittura di odio nel lettore. Mentre la sfida più difficile, ma anche la più appassionante, di questo lavoro è quella di riuscire a trasmettere l’idea della “normalità” delle persone che stanno “dentro” – uso la parola “normalità” in contrapposizione con la parola “mostro” che troppo spesso viene utilizzata per definire chi si è macchiato di reati – e questa idea si può trasmettere solo attraverso le proprie storie.

Io credo infatti che bisogna sempre partire da quella che sembra una banalità, che cioè gran parte delle persone dentro non sono molto diverse da noi che stiamo fuori, e forse soltanto se si utilizza l’approccio del racconto e della scrittura autobiografica, si può riuscire a incuriosire la società senza correre il rischio di una comunicazione con effetto boomerang. E nello stesso tempo questo approccio costringe anche le persone detenute a non fermarsi a una scrittura autoreferenziale, ma a tentare un percorso attento e vigile di conoscenza di sé, che gli permetta poi di “riprendere voce”. Bisogna però essere consapevoli che, se per i soggetti deboli “tradizionali” spesso vale l’obiettivo di “dar voce a chi non ha voce”, per i detenuti la questione è più complessa, perché spesso si tratta di cercare di “riprendersi indietro” la possibilità di dire le proprie ragioni, nonostante il reato, nonostante la società veda in loro solo dei nemici. Scrivere, allora, per “riacquistare” il diritto ad “avere voce”.

Sulla scrittura dei detenuti si deve quindi fare attenzione. La galera, lo stare in branda e guardare soltanto la televisione, finiscono per riempire le teste di luoghi comuni che, mescolati con certi schemi mentali tipici del carcere, si traducono in una difficoltà ad approfondire in modo critico i temi importanti come i percorsi che hanno portato in carcere, il rapporto con la famiglia, le difficoltà del reinserimento, la questione delle vittime dei reati. Allora io continuo a dire che proprio leggendo, discutendo, scrivendo si può imparare a non delegare ad altri il proprio destino, a vedere negli altri non quelli che ti possono “assistere” ma quelli con i quali puoi avere un rapporto chiaro, anche un aiuto, un sostegno, se impari a non scaricargli addosso i tuoi guai, ma ad affrontarli insieme, a condividere le difficoltà, a comunicare. Scrivere, quindi, per riprendersi in mano il proprio destino.

Un giornale per essere ben fatto deve trovare innanzitutto un incessante nutrimento nella lettura, nella scrittura, nella letteratura e nelle accanite discussioni, e poi sarà il giornale stesso a imporre alle persone che ci lavorano un sempre più largo e continuo uso del confronto: il confronto con gli altri detenuti, con le persone che vengono da fuori e con se stessi, che è l’unico modo di lavorare che migliora e arricchisce la scrittura. Per la nostra redazione, questa è stata la linfa vitale: scrivere passando dall’idea dello “sfogo” a quella della riflessione. Scrivere per imparare a confrontarsi.

Poi il giornale è qualcosa che sicuramente migliora anche la qualità della vita dei detenuti che ci lavorano, perché non passano più delle giornate vuote, a guardare la televisione in cella, ma si trovano a dover lavorare in gruppo, dividere i compiti, studiare i temi in discussione, elaborare concetti e scrivere articoli.

Io non ho mai avuto la pretesa di “rieducare” le persone con il giornale, alla rieducazione credo poco, ma ho sempre tentato di risvegliare la loro capacità critica. Allora, considero un successo quello che ha scritto un detenuto in un articolo: “…non è stata la letteratura o la scrittura a cambiare il mio comportamento e rendermi meno scriteriato – nonostante fossi cresciuto leggendo Dostoevskij e Tolstoj, non mi sono mai fatto problemi a prendere qualcuno a pugni e addirittura ho fatto un colossale disastro mettendo in atto un sequestro di persona e per questo finendo in carcere – ma è stato il lavoro fatto in redazione a farmi cambiare testa, e sono state le posizioni che prendevi durante le discussioni che mi hanno fatto riflettere su questioni, che avrei potuto benissimo leggere in decine di romanzi, e non capirci mai nulla… La scrittura e la lettura hanno avuto un ruolo, ma perché qualcuno mi ha insegnato a ragionarci su”.

 

Scrivere sì, ma scrivere “con disciplina”, e cercare “le parole giuste”

 

Cimentarsi con la scrittura giornalistica in carcere significa a volte farsi prendere dalla voglia di usare una scrittura “da giornalisti”, magari ricorrendo al linguaggio più “alto” che si conosce, quello degli avvocati e dei giudici, perché in galera succede anche che qualcuno tenta di imitare il modo di scrivere e di parlare dei giudici e degli avvocati, con la conseguenza di produrre articoli illeggibili. Facendo questa attività mi sono infatti ritrovata spesso a correggere dei testi, che secondo me ricalcavano il linguaggio usato nelle sentenze. Una cosa mostruosa, e mi ricordo che una volta ho fatto questa osservazione con un Magistrato, Giancarlo Caselli, che ha accettato questa critica e mi ha risposto che la prima sentenza che ha scritto, l’ha fatta leggere a sua moglie, e lei gli ha detto: “Ma che mostruosità hai scritto?”. Quindi la parola d’ordine è: ripulire, semplificare, alleggerire, lavorare quando possibile “per sottrazione”.

Tuttavia non è per nulla facile insegnare a scrivere in galera. Il segreto non sta tanto, dico sempre, nell’avere talento per la scrittura, ma nel trovare la voglia di coltivarla e di arricchirla con la lettura e con l’esercizio della fantasia. E della disciplina.

La disciplina è l’elemento forse più importante: perché scrivere in carcere risponde spesso a una urgenza, al bisogno di uscire dall’isolamento, alla voglia di farsi sentire. E dunque la scrittura esce a fiumi, disordinata, per rispondere a un proprio bisogno di affermazione, e questo non funziona. Se si vuole usare la scrittura autobiografica per ricostruire un legame con il mondo esterno, bisogna avere la forza di rinunciare a “buttar fuori” tutto e scegliere, scegliere appunto “le parole per dirlo”, ragionare su cosa si vuole comunicare e poi eliminare, tagliare quello che non può arrivare al cuore delle persone che leggono.

Ma le parole devono essere anche parole “giuste”: non si può dire, allora, “ho fatto una stronzata” come ha detto un “mio” detenuto, se quella stronzata è un omicidio, anche se lui evidentemente non voleva minimizzare, ma definire in qualche modo un’azione imperdonabile, così come non si può dire “abbiamo fatto delle scelte nella vita che hanno compromesso la nostra libertà”, se magari quelle scelte prima di tutto hanno distrutto una vita umana. Le parole vanno pesate.

 

Scrivere per cambiare?

 

In carcere le persone che hanno talento per la scrittura sono più di quello che si crede, ma spesso non la praticano, o perché non hanno occasione di farlo, o perché manca la motivazione. In un giornale invece si creano entrambe queste condizioni, e cioè, dapprima si ha l’occasione di sperimentare e mettersi alla prova scrivendo per il giornale, successivamente ci si ritrova anche a dover mettere sotto un articolo il proprio nome, e questo ovviamente spinge a cercare di fare il meglio possibile.

Naturalmente la scrittura ha dei poteri assolutamente straordinari, ma quando di mezzo ci si mette la galera, gli esiti sono spesso imprevedibili. Nonostante lo scrivere costringa a riflettere sul proprio destino, ciò non significa che sempre si rielaborino in modo critico i fatti e le ragioni per cui uno è finito in galera. Però, se si ha curiosità e tenacia nel lavorare con i detenuti, ci sono buone probabilità che queste persone trovino quella chiave critica che serve almeno per provare a leggere in modo lucido e intelligente la propria vita e scriverne con altrettanta lucidità.

Anche perché una riflessione sulla propria vita, se fatta in modo costruttivo e soprattutto coraggioso, rende le persone detenute consapevoli che, così come le parole dette dai media possono fare davvero male a loro, nello stesso modo gli articoli scritti dai detenuti possono danneggiare altri. Il principio è il più antico, non fare agli altri quello che non sopporteresti fosse fatto a te, e questo, se applicato alla scrittura giornalistica in carcere, porta al risultato che la persona condannata ha ben chiaro nella sua mente che, quando scriverà, dovrà farlo con un forte senso di responsabilità, sapendo che bisogna parlare rispettando la dignità e la sensibilità degli altri. Poi, una volta che si arriva a fare questo, il cerchio si chiude positivamente, perché se uno sa che deve rispettare la dignità e la sensibilità degli altri, va da sé che anche la loro integrità fisica e la vita sono assolutamente inviolabili, e che devono sempre godere della più alta considerazione. E secondo me, questo è il vero cambiamento, recuperare il senso della dignità e del rispetto, per sé e per gli altri.

Non ci si deve però illudere che la scrittura in generale trasformi le persone che si trovano in carcere, ma è innegabile che chieder loro di scrivere per un giornale migliora la loro qualità della vita, e, secondo la mia esperienza, l’esistenza di un’attività di questo tipo offre costantemente ai detenuti l’occasione di risvegliare, coltivare e disciplinare la passione per la scrittura

Quello che conta è fornire delle opportunità, cioè parlare, litigare, commentare notizie, leggere dei libri e discuterne insieme, imparando a sviscerare anche un singolo concetto e ad analizzare una piccola citazione, insomma lavorare ad arricchire le teste, poi se qualcosa di simile, o di migliore della rieducazione avviene, è tutto di guadagnato, di sicuro per lo meno non è la scrittura che aumenta la recidiva.

 

La scrittura autobiografica per imparare a comunicare nelle scuole

 

Da tre anni portiamo avanti un progetto con le scuole che cerca di avvicinare due realtà che di solito neppure si sfiorano, come la scuola e il carcere.

Abbiamo da subito capito che il modo più efficace per comunicare con gli studenti, senza avere la pretesa di dare lezioni di vita, era quello del racconto autobiografico, in cui si narra la propria vicenda in tutta la sua complessità, perché ascoltando la storia che ha portato quella persona a commettere un reato lo studente può ragionarci su e tirare le proprie conclusioni. Per esempio, c’è un detenuto che si trova in carcere da dodici anni per aver accoltellato un suo coetaneo, che racconta con estrema semplicità come lui, credendosi un duro, era abituato a girare con un coltello in tasca, finché nel corso di una rissa il coltello lo ha usato davvero, uccidendo un altro ragazzo della sua età. Ecco, ogni volta che lui racconta la sua storia io vedo negli occhi degli studenti che loro cominciano a riflettere su certe condotte, come quella di girare con un coltello, ma anche sul carcere, che gli si presenta come qualcosa di concreto, in cui si può finire per comportamenti, oggi largamente diffusi, come il consumo di droga.

C’è stato, in proposito, anche un detenuto, con una storia pesante di tossicodipendenza, che è venuto spesso nelle scuole, agli incontri con gli studenti, e però poi ha avuto di nuovo problemi con le sostanze, e ora è in comunità. Io certo mi sono interrogata su chi stavo portando nelle scuole, e ho temuto anche delle critiche, perché evidentemente lui non è un “ex tossicodipendente” che ce l’ha fatta, no lui non ce l’ha fatta, e anzi stenta tantissimo a uscirne. Però poi ho ripensato alla qualità della sua comunicazione con i ragazzi, e al fatto che lui ha sempre detto la verità, cioè ha raccontato il disastro della sua vita a causa delle sostanze, e il fatto che non sapeva se sarebbe riuscito a liberarsene davvero. E mi sono rivista davanti certe notizie televisive, come un recente servizio su Lapo Elkann, nuovo testimonial contro la droga, descritto come uno che ce l’ha già fatta, che ha vinto la sua battaglia contro la cocaina. Allora ho pensato che noi invece andiamo nelle scuole non a dire che si può uscire così, in modo quasi automatico, dalla dipendenza, andiamo a dire che è una guerra difficile, e guai a chi dà l’impressione che uscirne sia quasi indolore, e mi sono sentita tranquilla proprio per l’onestà e la mancanza di “finte promesse” della nostra comunicazione.

 Insieme a tutto questo, il racconto autobiografico riesce a produrre anche un effetto critico sulle persone detenute, che imparano così che un racconto è valido solo se riesce a trasmettere la sensazione di sincerità, e quindi prima di scrivere devono sforzarsi di guardarsi dentro, per superare la voglia di rendere un po’ meno brutto il proprio passato, e per fare i conti con la paura di essere giudicati.

Ma anche il semplice fatto di doversi confrontare con la grande responsabilità di raccontare qualcosa che sarà letto o ascoltato da centinaia di persone, produce spesso l’ansia di non saper comunicare, non saper usare bene le parole. Per questo sulle parole da dire e su come dirle discutiamo continuamente in redazione. E la “revisione” di quello che si comunica, nelle scuole o agli studenti che entrano in carcere, avviene in uno strano modo: i ragazzi scrivono, ci mandano i loro testi, le loro riflessioni sugli incontri con i detenuti, e da quei testi noi capiamo se la comunicazione ha funzionato, o se invece qualcosa non è andato per il giusto verso. E lì mettiamo a punto il modo di raccontare delle persone detenute, e correggiamo il tiro (per esempio, e succede, quando qualche ragazzo, inizialmente molto severo, finisce poi per trovare “meravigliosi” i detenuti che incontra a scuola).

In tutto questo lavoro credo che si possa veramente parlare non tanto di “rieducazione”, quanto di una strada per ripensare alle proprie scelte di vita, perché prepararsi con i detenuti ad affrontare un lavoro di questo tipo significa analizzare accuratamente il tipo di informazione da offrire sulla condizione che vivono. Dunque anche le persone che hanno fatto del male a loro simili arrivano inevitabilmente, nella maggior parte dei casi, a una presa di coscienza sulla propria condotta, anzi si ritrovano a ripensare al proprio passato non perché chiesto o imposto dall’alto, dall’educatore o dal Magistrato, ma perché è un sentimento che nasce nell’intimità e che obbliga anche “il delinquente più incallito” a stare ad ascoltare quella parte nascosta della sua coscienza e della sua umanità. Penso ad un episodio accaduto poche settimane fa in redazione, quando è venuta l’onorevole D’Antona, la vedova del giurista ucciso dalle Brigate Rosse, e ha raccontato tutta la sua sofferenza, piangendo anche: in quel momento c’è stata, credo, un presa di coscienza davvero nuova che ha invaso tutte le persone condannate per omicidio, tanto che un detenuto le ha anche detto che è in carcere da diversi anni per aver ucciso, ma che soltanto in quel momento, ascoltando lei, ha pensato davvero alla madre e alla sorella della persona che ha ucciso.

Questo è un esempio chiaro che il confronto con la società, con le persone libere è un momento forte di riflessione critica sulla propria condotta, a cui difficilmente ci si può sottrarre.

Io credo quindi che la pratica del racconto autobiografico possa davvero restituire alle persone il coraggio di costruirsi il proprio futuro, con la stessa cura e passione che usano per scegliere le parole con le quali raccontano le proprie storie.

 

Intervento al Convegno

“La scrittura in carcere. Esperienze a confronto”

(Casa circondariale di Rebibbia)

 

 

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