Spazio libero

 

Tornare a Ramallah

 

Riflessioni dalla carovana Action Against the Global War, che ha attraversato i territori palestinesi dal 27 febbraio al 6 marzo scorsi, durante l’offensiva dell’esercito israeliano

 

Siamo partiti, diverse centinaia di Disobbedienti provenienti da ogni parte d’Italia, per unirci a gente di tutta Europa e partecipare alla carovana Action for Peace: forza di interposizione tra esercito israeliano e popolazione palestinese. Dopo pochi giorni il nostro spezzone di carovana ha cambiato nome, si è ribattezzato Action Against the Global War, azione contro la guerra globale. In questo cambiamento sta il senso della nostra presenza nei territori palestinesi.

Siamo partiti con le nostre sagge e ragionevoli categorie custodite negli zaini e abbiamo dovuto ben presto riconoscerle come strumenti inservibili. Nessun dubbio che non si trattasse di una guerra, ma di un’aggressione armata a senso unico, quella che gli israeliani chiamano ricerca di terroristi. Troppo palese la sproporzione delle forze in campo. Da una parte l’esercito meglio armato e più tecnologicamente avanzato del mondo che ha appena richiamato 30.000 riservisti. Dall’altra poche migliaia di miliziani che possono opporre quasi esclusivamente armi leggere contro ogni tipo di arma da fuoco, blindati, carri armati, elicotteri, aerei. Poi ci sono i kamikaze, o meglio quelli che i media hanno sbrigativamente classificato così. Che sono per noi un vuoto di conoscenza da colmare, ma che certamente non appartengono a nessun esercito.

 

Siamo partiti per parlare di pace, ma abbiamo finito rapidamente le parole.

 

Non si può parlare di pace quando non c’è una guerra. Non è possibile farsi portavoce di una morale e di una retorica d’oltremare che riecheggia ipocrita nelle parole dei potenti e dei governanti d’Europa, d’America e degli stessi Paesi Arabi quando ci si cala senza salvagente nel più sanguinoso degli apartheid. La "ricerca di terroristi" è la quotidianità che ha reso i territori palestinesi un arcipelago di luoghi di contenzione recintati e controllati dai soldati in cui la violenza, l’umiliazione, la morte scandiscono il succedersi dei giorni e delle notti. Ma se per semplicità vogliamo chiamarla guerra allora è una guerra permanente. Non c’è che guerra nella strade di Ramallah, nei campi profughi di Betlemme, Jenin e di tutta la Palestina, nei chek point di Aram, Kalandia e migliaia di altri ancora.

 

Al nostro arrivo a Gerusalemme – non facile, dopo aver superato un immediato provvedimento di espulsione – abbiamo impiegato poco tempo a provare tutti una sensazione di imbarazzo e di impotenza. Una città affascinante e ferita in cui la tensione, nell’aria, sembra possedere un suo peso specifico. Una città consegnata a uomini e donne armati e vestiti di molte divise diverse. Poliziotti e soldati ma anche civili che esibiscono le stesse armi. Si può fare footing anche con il mitra a tracolla. Una città in cui le nostre pettorine gialle "stop occupation", ben presto sporcate dal sangue prodotto dai manganelli israeliani, rischiavano di essere una macchia di colore folklorico e nulla più.

Abbiamo tentato più volte di portare la carovana a Ramallah, cittadina appena dichiarata zona di guerra, nella quale il quartier generale del presidente Arafat era da settimane sotto assedio, sistematicamente impediti dal divieto dei soldati. Siamo andati a sventolare la bandiera palestinese (un reato a Gerusalemme) nei pressi dell’Orient House, luogo di culto e tradizione palestinese chiuso da mesi dall’autorità israeliana. Scontrandoci pesantemente con la polizia mentre dieci di noi entravano clandestinamente a Ramallah. Abbiamo portato la nostra solidarietà a Betlemme, poco prima del lungo assedio durato più di un mese, e al vicino campo di Deheisheh. Abbiamo manifestato assieme alla società civile israeliana. Abbiamo donato il nostro sangue agli ospedali palestinesi il cui approvvigionamento è impedito dalle forze armate israeliane. Il nostro primo gesto unilaterale, fuori dalla logica del pacifismo così come viene comunemente inteso. La prima rottura, non solo simbolica, dell’equidistanza. Ma rapidamente tutto questo ci è apparso solo un timido balbettio davanti al nostro bisogno di gridare contro l’ingiustizia. Quando, mentre partecipavamo a una dimostrazione delle Donne in Nero, una ragazza palestinese di sedici anni si è fatta esplodere in un supermercato a poche centinaia di metri ci siamo resi conto che stavano traballando le motivazioni che ci avevano spinto a partire. Eravamo venuti a fare interposizione con i nostri corpi e stavamo diventando spettatori impotenti di un tragedia. Era giunto il momento di violare la zona rossa.

 

Se la guerra è oggi, sempre e soltanto, guerra contro i civili

 

Lunedì 1 aprile una settantina di Disobbedienti è entrata clandestinamente a Ramallah a gruppi di dieci, quindici persone. Il coprifuoco 24 ore su 24. Ci siamo dislocati negli ospedali della cittadina dove l’esercito aveva già messo in evidenza di voler entrare. Ci siamo più volte schierati davanti ai tank. Abbiamo partecipato al lavoro delle ambulanze della Mezzaluna Rossa portando medicinali e viveri alla popolazione civile. Abbiamo soccorso feriti sotto il fuoco dei soldati. Abbiamo visto fosse comuni riempirsi di decine di cadaveri. Abbiamo visto i vetri delle ambulanze perforati dalle pallottole dei fucili d’assalto israeliani. Abbiamo visto i soldati impedire per ore il soccorso di feriti agonizzanti sulla strada. Abbiamo subito il fuoco dei cecchini. I missili degli elicotteri e i cannoni dei carri armati. Abbiamo condiviso le stesse sofferenze, dalla mancanza di cibo ed acqua al vedere soldati che sparano contro bambini. Abbiamo sentito crescere dentro di noi l’inquietante abitudine ai rumori della guerra. Il timore per la sorte dei compagni che non tornavano dalle ambulanze e la commozione nel poterli riabbracciare.

Ammutoliti davanti ai medici, cui chiedevamo ragione degli attentati suicidi, nel sentirci rispondere che provavano orrore e pietà, ma era l’ultima arma loro rimasta.

 

Siamo rimasti cinque giorni nel tentativo sempre respinto di raggiungere la residenza assediata di Arafat, ma soprattutto nella convinzione che la nostra presenza potesse provocare una sorta di staffetta, di cambio di testimone con altra gente da tutta Europa e dal mondo. Quando ce ne siamo andati arrivavano greci, francesi, inglesi. In una città devastata da giorni di rastrellamenti, fatta di pali della luce sradicati, abitazioni sventrate dall’esplosivo e dalle cannonate, le strade un tappeto di vetri infranti e di automobili schiacciate, come scatole di sardine, dai tank. Centri di assistenza e accoglienza medica devastati dall’esplosivo. Uffici della polizia palestinese e dello stato civile rasi al suolo.

Eravamo venuti a parlare di pace e vedevamo la certezza di una pace armata, l’irreversibilità del permanere della sopraffazione e delle innumerevoli violazioni della dignità cui quelle genti sono sottoposte. Chiedere la pace è come chiedere nulla. Chiedere la pace quando un cecchino colpisce a morte sotto i nostri occhi una donna appena uscita dall’ospedale, quando ottocento dei bimbi palestinesi ammazzati sono stati freddati da una pallottola in fronte, è chiedere a tutto il mondo di interrogarsi sul concetto di guerra.

 

Prima di entrare a Ramallah abbiamo per acclamazione deciso che non c’era più spazio per Action for Peace e che c’era invece bisogno di Action Against the Global War, in questo ritrovando molti degli insegnamenti appresi un anno fa nel corso della nostra esperienza in seno alla Marcha per la dignità indigena attraverso le regioni del Messico.

Quello che abbiamo vissuto non è solo il conflitto israelo-palestinese, è la guerra globale che ha diverse intensità e diverse gradazioni, nello spazio e nel tempo. Ma è la stessa unica guerra. Quella che si combatte nei paesi dell’area andina devastati dal Plan Colombia, la stessa delle piantagioni di soia del Karnataka, la stessa accompagnata dal rumore dei mestoli sulle casseruole in Argentina, la stessa che si è manifestata nelle strade di Napoli e Genova. La "ricerca di terroristi" è la stessa che ha fatto strage di popolazioni civili in Iraq, in Kossovo, in Afghanistan. Quella che, verosimilmente, in Iraq si sta preparando a tornare.

I governi occidentali sono vassalli di un Impero che scrive con la guerra la propria costituzione materiale e che è deciso a difendere la sua élite a ogni costo. La pace non è più sospensione delle ostilità tra stati e gli stati sono a loro volta bugie dell’Impero, come conferma la colpevole inazione dell’Onu che pure riconosce l’autorità nazionale palestinese ed accetta che centinaia delle proprie risoluzioni siano ignorate da Israele. Anche le sospensioni delle ostilità saranno bugie fino a quando non saranno costruite reti globali di resistenza in grado di prefigurare nuove prospettive di vita e di liberazione.

 

Non c’è più nessuna crisi mediorientale. Nessun inasprimento del clima o peggioramento della situazione. In Palestina, come in altri territori dell’Impero, c’è guerra permanente, senza fine. Non si intravede alcun dopoguerra in cui godere della pace. E in questa guerra, lo si voglia o no, siamo tutti coinvolti.

L’opposizione alla guerra non può, d’altra parte, trasformarsi anch’essa in morte delle popolazioni civili come si dà nella follia senza speranza degli attentati suicidi. Un limite tragico, una sorta di soglia di non ritorno agghiacciante che può trovare soluzione solo nel recupero del rispetto della dignità e dei fondamentali diritti umani di popolazioni ridotte alla disperazione. Se la guerra è oggi, sempre e soltanto, guerra contro i civili, costruire un altro mondo possibile vuol dire, prima di qualsiasi cosa, combattere con tutte le nostre forze contro la guerra globale permanente. Disobbedire, sabotare, disertare la guerra. Dal laboratorio di dubbi e di linguaggi che è stata per noi la Palestina portiamo a casa questa piccola grande certezza.

 

Marco Rigamo - Radio Evasione

 

 

 

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