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ArteTerapia, un metodo "dolce" per guardarsi dentro
Il progetto ArteTerapia ha coinvolto due realtà carcerarie, la Casa di Reclusione di Padova e la Casa Circondariale di Viterbo. È un progetto rivolto a detenuti alcoldipendenti e tossicodipendenti, finanziato dal Ministero della Giustizia con i fondi per la tossicodipendenza. È costato un miliardo per tre anni. Abbiamo intervistato gli operatori del corso e alcuni ragazzi che lo hanno frequentato. Uno degli scopi dell’Arteterapia, ci hanno detto, è quello di far uscire, parlandone nel gruppo e esprimendosi attraverso la creazione artistica, quelle emozioni e quei sentimenti che spesso non riescono ad emergere. Le nostre perplessità, gli interrogativi che ci poniamo e che poniamo a chi ha gestito questo progetto sono abbastanza semplici, e li vogliamo esprimere qui "brutalmente": se questa attività fosse costata qualche decina di milioni, probabilmente avremmo detto senza riserve che è interessante e innovativa. Ma i costi sono altissimi, e il coinvolgimento dei detenuti troppo limitato, come del resto dicono gli operatori stessi. Che cosa resterà allora di questo investimento nelle carceri dove il progetto è stato realizzato? Che risultati vedranno i detenuti, dopo un numero così ridotto di incontri?
La Redazione
Axel Rutten, arteterapeuta: Io vengo da Firenze, sono qui perché sono stato invitato a prendere parte a questo progetto del Ministero della Giustizia, che viene realizzato, in collaborazione con il Ser.T, parallelamente nel carcere di Padova e in quello di Viterbo. Abbiamo avviato due atelier sperimentali, partiti nell’autunno del 2001. Ma l’obiettivo è farli diventare un’attività fissa nelle carceri, rivolta a un numero maggiore di detenuti. Al momento l’iniziativa è limitata a soli cinque incontri. Ad ogni gruppo abbiamo destinato un tema e una tecnica per esprimerlo. I detenuti quindi non sono liberi di fare quello che vogliono. Il gruppo che vedete al lavoro, per esempio, sta dipingendo murales sul tema del passato.
Quali sono le modalità terapeutiche che adottate? Che forme di espressività prediligete? Qui si nota che stimolate la manualità, la creatività, lavorate anche con le ceramiche. Qual è il punto di arrivo?
Il punto di arrivo è difficile da definire. I detenuti, tutti con problemi di dipendenza da alcol o droghe, vengono solo poche volte all’atelier, io questo lo chiamo un "antipasto". Mancano ancora il primo, il secondo e il dolce per poterlo definire atelier di arteterapia nel senso proprio della parola. Dovremmo avere a disposizione più tempo. Solo dieci ore divise in cinque incontri sono poche per parlare di risultati.
Onestamente, non le sembra un po’ poco?
A tutti noi sembra poco. Ma siccome è una sperimentazione a noi deve servire per capire l’ambiente, le esigenze e le possibilità. Poi chiaramente ci si confronta con problematiche che in altri luoghi non esistono, sia tecniche, sia di tempi che di modalità. Tutto deve servire per fare poi un rendiconto finale, è previsto che il progetto non finisca qui.
Quali sono i criteri di valutazione dei risultati raggiunti?
Alcuni li dobbiamo ancora elaborare. Come arteterapeuta, considero il risultato già buono quando vedo che il detenuto partecipa sempre agli incontri. Ogni gruppo è inoltre seguito da due psicologi e dalle educatrici. Il lunedì c’è l’incontro con gli psicologi ed il giovedì c’è l’atelier. Anche gli psicologi si mettono a lavorare, per loro è una forma di aggiornamento.
Quindi stimolate la manualità per ritrovare un equilibrio.
Sì, è uno dei metodi, insieme alla frequenza, per valutare il detenuto. In realtà in questi incontri noi proponiamo dei temi abbastanza consistenti. Affrontiamo il passato, il presente e il futuro. Vengono stimolate delle riflessioni forti.
In quanti siete impegnati nel progetto, e pensa che avrà un seguito questa iniziativa?
Siamo in una cinquantina tra psicologi, educatori, operatori del Ser.T, personale del carcere. È importante che l’esperienza non finisca qui. Quando un detenuto poi esce dal carcere, i problemi certo non finiscono, ma cambia un po’ tutto nella vita, comincia il lavoro, c’è il rientro in famiglia. Questo è un percorso di reinserimento che inizia qui e che deve continuare, e allora io credo che dovrebbero fare parte del progetto altri atelier fuori dal carcere, magari legati al Ser.T. o alle comunità.
Evelino Trevisan, Psicologo: Sono psicologo psicoterapeuta di orientamento cognitivista, che è quello che è più diffuso negli Stati Uniti, molto pragmatico, molto concreto. Quindi l’arte terapia ben si adatta a questo orientamento. Noi possiamo osservare una persona esprimere dei contenuti affettivi, sentimenti e emozioni, questo è l’aspetto centrale. L’obiettivo non è creare provetti pittori o insegnare a disegnare meglio. Lo scopo è fare uscire gli affetti e i sentimenti e offrire un contenitore per riflettere, per esprimere contenuti cognitivi. Oltre al lavoro manuale, che si svolge con Axel il giovedì, ogni lunedì teniamo i gruppi propedeutici. In questi incontri si affrontano contenuti di interesse prevalentemente psicologico. Stimoliamo il gruppo a confrontarsi su questi temi. L’ultima volta, ad esempio, abbiamo dialogato sugli istinti e sull’aggressività. Abbiamo visto come sia utile riconoscerla e come possa essere gestita. Gli argomenti non sono scelti a caso, si toccano gli aspetti più significativi di chi subisce il carcere. E non a caso sono emerse riflessioni molto interessanti. C’è chi sosteneva che l’aggressività fosse solo di origine ambientale. Nel senso che io sono nato in un ambiente in cui ho dovuto difendermi e quindi diventare aggressivo è stata una conseguenza. Tutto sommato l’uomo si caratterizza per la capacità di cambiare l’ambiente e adattarlo alle proprie esigenze. Chi vive l’esperienza del carcere inevitabilmente adatta in parte se stesso attraverso questa esperienza, ma, nonostante l’ambiente sia così rigorosamente normativo, spazi di scelta ce ne sono. Ad esempio c’è la scelta di partecipare o meno ai gruppi di arteterapia.
Sono sempre scelte che ti vengono dettate dalla direzione, dal ministero, dalle istituzioni. La scelta reale è forse stata quella di commettere un reato che ti ha portato in galera.
Io non la vedo come una vera scelta, perché spesso l’attività antinormativa viene a strutturarsi proprio per assenza di scelte. In tutto questo l’aggressività c’entra, c’entra molto. La gestione dell’aggressività è stato uno dei punti focali che abbiamo trattato. Un altro punto focale è il cambiamento come strumento indispensabile per adattarsi, un cambiamento che quindi diventa espressione di intelligenza. Una persona non manifesta la propria intelligenza se non produce dai cambiamenti in funzione alla situazione che si trova ad affrontare. Anzi, una delle massime manifestazioni di capacità intellettive è proprio questa. E tanto più il cambiamento è rapido, maggiore è il vantaggio che la persona ne trae.
Ci sembra di capire che lei divida il tutto in due momenti. Il momento di lavorare su se stessi e il momento di mettere in pratica questo lavoro di elaborazione nelle situazioni concrete che uno si trova a vivere. Spesso i ragazzi qui dentro sono abituati a essere "portati per mano". Quando escono dopo una storia importante di galera, lei pensa che lasciarli da soli ad affrontare la vita sia sensato? Non crede che ci sia bisogno di qualcosa prima dell’uscita e subito dopo, che ci sia una struttura di supporto che li accompagni, anche se con discrezione, nel primo periodo dopo il carcere?
La risposta è sì. Inevitabilmente questo necessita di stanziamenti di fondi e di risorse. Ho la sensazione che non ci sia una larghezza di risorse in questa direzione, e credo che il grande problema sia proprio questo. È indubbio che una struttura esterna sarebbe importante e potrebbe essere una forma per prevenire il ripetersi del reato. Potrebbe essere davvero una forma di prevenzione. Quindi tutto sommato anche da un punto di vista economico offrirebbe grandi vantaggi. Ma nel clima attuale, orientato più a tagliare le risorse che non ad ampliarle, è difficile che trovi spazio.
Lei dice che è un problema di risorse, ma chi dovrebbe farsi carico di fare conoscere questi reali bisogni?
Ma per esempio l’Assessorato agli Affari sociali della Regione, credo siano loro i più interessati. Perché quando il detenuto esce, esce anche dall’amministrazione penitenziaria ed è giusto che sia così. Però rientra in una categoria che deve essere sostenuta e aiutata. Allora chi dovrebbe subentrare è prima di tutto la Regione. A mio parere è lì che si deve trovare una soluzione da un punto di vista organizzativo, logistico e anche economico. Poi resta da vedere se c’è la volontà di farlo.
Quali sono allora le sue considerazioni finali su questa attività?
Direi che come considerazione finale, c’è proprio lo spunto per indurre il cambiamento. Dal punto di vista psicologico è questa la cosa che più ci importa: far sì che la persona abbia uno spazio dove riflettere sul cambiamento, dove appropriarsi della necessità di cambiamento. Perché, come dicevamo in un incontro di gruppo, se continuiamo a fare quello che abbiamo sempre fatto, continuiamo inevitabilmente ad ottenere quello che abbiamo sempre ottenuto.
Giulia Casciani, educatrice: L’esperienza della pittura, del colore, dell’arte è un’esperienza che ci è servita per suscitare emozioni basate sui ricordi, su quello che si è e su quello che si vuole essere. L’esternazione del sentimento di sé, il raccontarsi in un gruppo non è sempre facile. Non ci sono solo i detenuti, ci sono anche gli operatori e per molti è difficile esternare certi sentimenti. Però l’esperienza è stata bella, perché tutto il gruppo è stato vivace, compatto ed entusiasta. Si è riscontrata una curiosità profonda, una vivacità costruttiva, perché ognuno è stato in grado di raccontare con serenità anche vicende personali dolorose. È stata una sorta di liberazione, che poi si è riscontrata anche nell’uso del colore. Si è partiti da colori scuri per poi usare tinte molto più dolci. La terapia di gruppo è stata incisiva, nel senso che il ricordo è stato addolcito e quindi anche le cose più sgradevoli sono diventate più accettabili, grazie al confronto con gli altri.
Vi abbiamo visti impastare la creta, lei come si è sentita a lavorare con i ragazzi in questo ruolo non abituale?
È stata un’occasione in cui mi sono divertita, perché a me piace molto vivere queste dimensioni di gruppo. Nello stesso tempo ho potuto realmente sperimentarmi come educatore, perché in pratica di solito il nostro mestiere è spesso più quello di un burocrate. Un conto è fare un colloquio, un altro è conoscere il detenuto in questo modo. Perché il colloquio con l’educatore viene spesso percepito come un "interrogatorio". Le possibilità di scambio tra operatore e detenuto spesso non sono esaltanti. Ci sono dei momenti d’incontro prefissati dalla legge, quindi condizioni che non favoriscono l’empatia. In effetti qui si è creato invece un discorso empatico. Ho notato che anche la mia immagine era percepita diversamente. La comunicazione ne ha tratto vantaggio perché le barriere istituzionali sono venute meno. Almeno io ho avuto questa sensazione. In effetti sono situazioni d’incontro che aiutano tutti a crescere. I ragazzi poi hanno potuto raccontare cose di sé, e ci sono persone che hanno avuto più capacità di farlo. Ad esempio un ragazzo ha raccontato che era così privo di sostegno, che doveva andare a cercare un posto per riscaldarsi all’ospedale, cioè ci sono state persone che hanno esternato volontariamente il loro disagio. Sono situazioni nelle quali il dolore è tanto compresso che poi rischia di esplodere.
Enrico, detenuto coinvolto nell’attività: Io non ho vissuto realtà così crude, così dure. Ho fatto uso di droghe, ma vivevo in casa, avevo una famiglia. Sono realtà diverse. Però anch’io ho fatto una rivisitazione del passato, delle cose negative, dolorose.
Giulia Casciani: Certo, si è partiti da una drammatizzazione di esperienze dolorose del passato, poi c’e stato l’input del terapeuta relativo al cambiamento. È stato come lanciare un messaggio del tipo: tutti possiamo cambiare se lo vogliamo. Nel senso che non è vero che si nasce in una certa maniera: ci si diventa. E come si diventa delinquenti si può diventare anche persone socialmente accettate. Comunque, quanto "conviene" questa delinquenza, quanto dolore arreca? Quando Trevisan faceva gli esempi del cambiamento, era per dare degli input che scatenassero la discussione, per liberare le emozioni, per rimuovere quelle che ostacolano, per poi indurre le persone ad acquistare fiducia in sé. Ma bisogna imparare anche a credere in se stessi. Per esempio ci sono state delle situazioni di grande pessimismo da parte di persone particolarmente segnate, con momenti di crisi profonda. Queste occasioni possono aiutare a riacquistare fiducia. Ognuno di noi sa di avere delle potenzialità. Io sono convinta che ognuno di noi sa che in fondo abbiamo al nostro interno una quota di bene e questo bene è compresso e non sempre esce fuori.
Enrico: Per tornare al tema dell’aggressività, io facevo l’aggressivo perché, con il mio stile di vita, pensavo di ottenere di più. Ma ad un certo punto mi sono accorto che intorno a me si era creato un vuoto. La gente mi rispettava solo perché mettevo paura. Cambiare è faticoso.
Giulia Casciani: Sono d’accordo. Seguire in questo corso i ragazzi è stato come un tuffo fuori dalla realtà carceraria. Spero che possa continuare, perché il clima che si crea è veramente distensivo. Mi sembrava di essere in un’altra situazione, non in carcere. Quasi in una sensazione liberatoria, perché anche in me c’e molto da de-comprimere.
Maurizio, detenuto, anche lui coinvolto in questa attività: Per me è stata un’esperienza interessante, anche se molto breve, perché ho notato una certa difficoltà all’inizio per alcuni a mettere in discussione la propria vita. Già dopo due incontri di terapia di gruppo, anche quelli che avevano manifestato difficoltà a parlare di sé si sono sbloccati ed hanno ripercorso i fatti della loro vita piacevoli, ma anche quelli spiacevoli. Personalmente posso affermare che mi ha aiutato a ripensare al mio passato senza tensioni. La parte artistica, creativa è stata veramente piacevole. Temevo di non essere in grado di produrre nulla invece, utilizzando l’argilla, sono riuscito a realizzare delle sculture che richiamavano in qualche modo il mio passato. Se il corso durasse di più sarebbe sicuramente più interessante e utile.
Interviste a cura di Nicola Sansonna e Enrico Flachi Alcune precisazioni che il maestro di ArteTerapia, Achille de Gregori supervisore del progetto, ha voluto farci
"Per poter iniziare bene", ci spiega il supervisore, "abbiamo impiegato un anno nella preparazione. Sei mesi è durata la fase di studio, altri sei mesi per la selezione dei detenuti da coinvolgere. Il corso è rivolto ai detenuti con problemi di dipendenza (alcool o droghe), è triennale, si svolge in due carceri: Viterbo e Padova. Nelle due carceri vengono coinvolti 600 detenuti, in totale ne verranno selezionati 300 (150 per istituto). Questo avviene dopo test psicologici e medici. I detenuti partecipano nell’arco dei tre anni ad una serie di attività, al centro delle quali c’è il lavoro sulla persona. Una di queste è l’ArteTerapia. L’altro aspetto molto importante sta nei gruppi propedeutici (come spiegato nell’articolo). Il terzo momento è la supervisione e il controllo del progetto nel suo insieme. Ogni 15 giorni gli operatori si riuniscono ed analizzano i manufatti artistici. Sono impiegati circa 40 operatori in totale. Se si rivelerà che l’ArteTerapia funziona, c’è il progetto di esportare in altri istituti l’esperienza, mentre a Padova e Viterbo resterebbero in pianta stabile gli atelier. Il progetto è importante sia per il coinvolgimento dei detenuti, che per la formazione del personale. In seguito è già prevista una fase in cui verranno coinvolti anche gli Agenti di Polizia Penitenziaria. A fine ciclo saranno effettuati test di verifica. Nella fase conclusiva si prevedono un convegno ed una pubblicazione, che illustreranno l’intero percorso". "Voci per la libertà"
In un CD realizzato da Amnesty International è stato inserito un brano del gruppo musicale multietnico della Casa di Reclusione di Padova
Per la prima volta un brano realizzato da detenuti viene inserito come Special guest nella compilation "Voci per la libertà, una canzone per Amnesty". Si tratta di "Fati Zi", una canzone che parla della difficile condizione di vita di molti giovani stranieri presenti nelle carceri italiane, della solitudine e della speranza in un futuro con migliori opportunità. Speranza che di questi tempi sembra cadere sempre più nel vuoto. Gli autori fanno parte della E.C.O., Extra & Communitarian Orchestra, una band multietnica, formata da "ospiti" del carcere di Padova, che è nata grazie alla collaborazione delle associazioni Art Rock Cafè di Abano e Tangram di Padova e, per ovvi motivi, ha visto l’avvicendarsi di oltre cento musicisti–detenuti. I diversi paesi di provenienza hanno permesso loro di formarsi un singolare repertorio che affonda le radici nella musica etnica di origine araba, spagnola, sinti e rom, africana, balcanica e italiana.
Lara Scrittori, dell’associazione "Tangram", segue sin dalle origini il gruppo. Abbiamo parlato con lei di questa esperienza
Come vi è venuta l’idea di partecipare al concorso "Una canzone per Amnesty"?
Ci sembrava un connubio ideale legare l’esperienza fatta in carcere con il gruppo Extra & Communitarian Orchestra e la sua realtà multietnica a quella di Amnesty, in qualità di promotrice e sentinella dei diritti umani nel mondo. Abbiamo partecipato al concorso con due brani ed è stata inserita come special guest (sezione speciale) la canzone dal titolo Fati Zi (che vuol dire destino nero). Racconta la disperazione dell’esperienza carceraria e della lontananza dalla famiglia. I musicisti hanno registrato il brano all’interno del carcere con grande entusiasmo. Il loro obiettivo era, tra l’altro, quello di poter uscire in permesso, salire su un palco, poter finalmente esprimere quella carica musicale che hanno dentro.
Per quell’occasione l’E.C.O. si è esibita fuori, e cosa ha significato questo riconoscimento per i ragazzi della band?
Purtroppo il CD è uscito, il brano dell’E.C.O. ha avuto un’ottima recensione… ma i permessi concessi erano pochi e di fatto non si è riusciti a formare il gruppo per l’esibizione. Per loro è stata una grande conquista in ogni caso, la premessa per qualcosa di veramente bello che potrà accadere chissà… forse domani. La proposta ora è un po’ quella di ricostruire la finale del concorso all’interno del carcere, abbiamo già lanciato l’idea agli organizzatori di Amnesty e penso che si potrà realizzare entro quest’anno. L’iniziativa è piaciuta molto ai primi tre finalisti, che hanno dato subito la loro disponibilità.
Abbiamo letto che il vostro progetto "si propone di dare rilievo alla soggettività dei detenuti con lo scopo di far emergere il singolo individuo dall’anonimato del carcere e far sì che ciascuno, sfruttando appieno le proprie potenzialità, possa crescere interiormente e acquisire maggiore coscienza di sé". Ci puoi spiegare come lavorate per raggiungere questo obiettivo?
La musica in carcere è terapeutica e può restituire un senso al tempo vuoto; inoltre, attraverso il linguaggio universale della musica si può favorire lo spirito del gruppo e la convivenza fra diverse etnie, religioni, ideologie. E anche aiutare a superare atteggiamenti etnocentrici "approfittando" di un luogo, il carcere, in cui la presenza di etnie diverse è superiore a quella della società libera. Obiettivo della ricerca artistica è quello di elaborare l’occasionale "mescolanza" multietnica in una contaminazione di stili, gusti, tradizioni musicali diverse, alla scoperta di emozioni comuni alle varie culture". L’E.C.O. poi ha suscitato molto interesse anche oltre le mura del carcere Due Palazzi, favorendo l’esibizione in pubblico del gruppo, purtroppo mai al completo a causa delle diverse posizioni giuridiche e dei tempi di presentazione e concessione dei permessi. Oltre che a Padova, il gruppo si è esibito nelle principali città venete e persino a Roma in occasione di una manifestazione nazionale di arte reclusa. Attualmente la band è impegnata nella realizzazione della colonna sonora di una soap opera, prodotta interamente all’interno del carcere. Si tratta del progetto "Detenzione e soap opera", scritto e diretto dalla regista Paola Brolati, presidente dell’associazione "L’uovo di Paperoga" di Mestre, e finanziato grazie al contributo della Regione Veneto. L’esperienza, unica in Italia, prevede il coinvolgimento di centodieci detenuti, impiegati nelle riprese video, nei laboratori teatrali e nell’orchestra musicale.
Tutti i brani sono stati registrati all’Umbistudio’s di Canaro (RO), lo studio collegato all’omonimo Rock Club. La distribuzione viene fatta attraverso il sito di Amnesty International, www.amnesty.it
Nicola Sansonna
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