Donne Dentro

 

Mamma, ma se tu stai sempre a casa
perché i carabinieri devono venire lo stesso?

 

Il percorso difficile ma necessario della detenzione domiciliare

 

La storia di Patrizia la stiamo seguendo anche noi passo passo. Faceva parte della redazione della Giudecca, Patrizia, finché le hanno concesso la detenzione domiciliare con la figlia, che non vedeva da due anni perché non aveva voluto dirle che era in carcere. Patrizia è una persona che ha fatto tesoro delle sue dure esperienze, è rimasta in contatto con noi e continua a scriverci tutti i piccoli passi che sta facendo per ricostruirsi una vita. A partire dal rapporto con la bambina, tutto da inventare, a quello con il suo compagno, che è ancora in carcere, alla prospettiva di poter finalmente lavorare e tornare lentamente a un ritmo di vita normale. Ci piacerebbe che fossero in tante, a fare come lei, ad arrivare alla consapevolezza che l’esperienza del carcere è meglio non cancellarla, è meglio tenere vivo nella propria memoria un periodo così pesante della propria vita.

 

La redazione di Ristretti Orizzonti della Giudecca 

Sono a casa da 5 mesi e posso dire che le paure, le incertezze e l’emozione delle prime settimane hanno lasciato il posto a qualcosa di più solido. Giorno dopo giorno affronto e concretizzo, vedo e tocco la mia vita, i problemi da risolvere e i passi da fare.

Con mia figlia prendere la decisione di parlare di quello che è successo a me e a suo padre è complicato, perché è già difficile per un adulto capire problemi così gravi, figuriamoci per una bambina di 8 anni.

Le domande che mi ha fatto finora sono poche, per esempio perché non posso uscire dal cancello, e poi: "Mamma, se tu stai sempre a casa, perché i carabinieri devono venire? Non sanno che non ti muovi da qui?".

Sono comunque domande fatte su quello che vede, e le mie risposte sono chiare, uso i termini giusti, ho cercato di dirle di più, che cos’è un carcere, chi ci vive e perché si finisce lì, lei mi ascolta ma non fa domande. Quando fra grandi parliamo lei gioca ma l’orecchio è teso e si vede che sta ascoltando, ha sofferto tanto per il distacco e ha bisogno di tempo, di sicurezza, di sapere che da ora in poi ci sarò sempre e un domani ci sarà anche il suo papà, per ora le basta questo e io non voglio forzarla.

Io sono serena, un po’ alla volta riuscirò a farle chiarezza, voglio che sappia chi sono i suoi genitori, che stiamo pagando per errori o fatti passati, ma questo non vuole dire che siamo cattivi genitori.

Fuori la gente può essere molto cattiva e può dirle cose su di noi che potrebbero ferirla e renderla insicura, ma se lei sa chi siamo e cosa abbiamo fatto può ribattere e difendersi dalle insinuazioni della gente e troverà anche il coraggio e la voglia di saperne di più.

Adesso si stanno concretizzando le cose che mi ero proposta di fare durante il periodo che ho passato in carcere, più vado avanti e più traguardi raggiungo, più acquisto forza e voglia di fare, credo nel percorso che sto facendo e nella maturazione raggiunta, e li vedo, li vedo davvero.

Sono a casa con mia figlia e, dopo avere presentato richiesta al Magistrato di Sorveglianza, ho ottenuto il permesso di fare i colloqui con il mio convivente, non me l’aspettavo così presto e invece… Dopo due anni e otto mesi lo vedrò, l’emozione è grandissima soprattutto perché stiamo assieme da 22 anni e una separazione così lunga non l’avevamo mai vissuta. Quello che mi preoccupa è che dovremo prepararci psicologicamente per non "saltarci addosso", viste le regole che ci sono all’interno delle carceri, regole che conosciamo perfettamente tutti e due. Sono contenta però, perché con le mie visite potrò coinvolgere più da vicino anche lui nel rapporto con la bambina. Ritengo infatti che la figura paterna sia importante per un figlio, in egual misura di quella della madre, e rendere partecipe anche lui delle scelte, dei cambiamenti per il nostro futuro come famiglia non può fargli che bene.

Naturalmente queste sono le cose belle ma ci sono anche i momenti brutti, quando mi sento sola e non c’è nessuno a casa con cui parlare, mi mancano molto le discussioni che facevamo in redazione, mi mancano alcune compagne, soprattutto una, Emilia, con cui mi scrivo ancora.

E poi il lavoro: ho avuto altri trenta giorni di liberazione anticipata e in settembre, se trovo un lavoro, posso chiedere l’affidamento in prova. Sarà un altro traguardo, per il momento vado avanti così, sono soddisfatta dei piccoli passi importanti che sto facendo.

 

Patrizia

 

L’insostenibile felicità del colloquio settimanale

 

Questa pagina del diario di Francesca, detenuta alla Giudecca, aiuta a comprendere le aspettative dell’attesa e le contraddittorie emozioni dell’incontro con i propri cari, il passare del tempo l’ossessione di vedere come le ore non abbiano la stessa durata: lunghissime quelle vissute in cella, beffardamente brevi quelle trascorse con la famiglia

 

Per chi sta "fuori" è difficile capire quanto conta un colloquio con i famigliari. Come ci si prepara prima, come si sta dopo...

 

L’attesa di poter avere un colloquio con i miei genitori è la cosa fondamentale che mi tiene viva, viva solo per un’ora a settimana. Arriva il giorno tanto desiderato, sono sempre molto agitata e felice, mentre mi preparo già li vedo, li immagino proprio come di solito si presentano a me e io a loro. Sono in fibrillazione, il mio cuore batte forte, mi commuovo da sola, solo al pensiero di poterli vedere, abbracciare e sentirli vicini, scambiandoci come sempre tanto bene e solidarietà.

Il momento che aspetto è alle 15.30 del sabato, ma io sono sempre pronta prima davanti alla porta, passeggio e penso, li sento sono qui, vicino a me, una forte energia positiva mi sta avvolgendo. Spero sempre di poterli vedere tutti in giardino come è già accaduto due volte, perché il colloquio in giardino è molto più piacevole, lì possiamo abbracciarci, stringerci e loro possono quasi prendermi in braccio come una bambina, sì la loro bambina, mentre nella stanza colloqui è tutto più triste, comunque a me interessa vederli.

Mi accompagna l’agente, sono agitatissima, li vedo attraverso le sbarre terribili degli uffici, ci vediamo, ci sorridiamo di gioia e con la mano accenniamo un saluto e un bacio.

Finalmente aprono quella porta che ancora ci divide, tutti sorridenti ci corriamo incontro, c’è confusione ci abbracciamo tutti, non mi sembra vero, non riesco a credere a questo immenso piacere che ogni volta mi prende e mi travolge. Ci stringiamo le mani, sempre con la gioia di essere vicini ad esprimere tutto ciò che si reprime durante gli altri giorni. Loro mi parlano, mi guardano, io sono felice che siano con me, mi mancano già anche se sono lì.

Il tempo passa molto velocemente, dopo aver condiviso con loro i pochi gesti di affetto ci riuniamo tutti vicini vicini, ma il tempo passa. Parliamo di tutto, sempre mantenendo un contatto fisico.

Chiedo all’agente quanto tempo abbiamo ancora, è poco è troppo poco questo tempo. Ora sento un’altra sensazione, la separazione forzata, il distacco, lo sentiamo tutti, ce lo leggiamo negli occhi, che cambiano espressione, si incupiscono, esprimono la stessa forma di dolore: è ora di separarsi. Ci abbracciamo forte forte, ci baciamo e buone parole di conforto colmano un po’ questo vuoto che ci sta facendo male, molto male.

L’agente riapre quella orribile porta, la mia famiglia indietreggia, sempre rivolta a me, io non riesco a muovermi, anzi riuscirei, ma non posso, loro si allontanano sempre di più, il dolore e il male aumentano, ci salutiamo ancora con la mano e un finto sorriso.

Varcano quella porta, nel frattempo l’agente mi chiama, io non vorrei sentire ma è così. Sono in uno stato confusionale, la mia felicità e il mio benessere sono svaniti, se ne sono andati, io li cerco ma non li vedo più. Rimango in una condizione di forte dolore, vorrei anche interrompere il breve ricordo che mi ha fatto stare tanto bene per non soffrire di più. Qualche volta mi sembra che sia inutile avere un’immagine, un’emozione, una sensazione che ti dà piacere, quando poi non è così, non posso mentire a me stessa e tanto meno agli altri, sì io posso cercare di pensare in modo positivo, vedere le cose in modo che mi facciano soffrire meno, ma non basta, io per il novanta per cento del mio tempo sto veramente male, non sono mai stata così male come in questi tre anni di carcere. E se poi penso ai momenti belli, alla mia famiglia, al futuro, alle cose che mi fanno star meglio, troppo spesso succede che alla fine soffro ancora di più.

 

Francesca

 

 

 

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