Chiusura
delle sezioni di Alta Sicurezza a Padova
Ad
Annamaria Alborghetti, della Camera Penale di Padova, abbiamo chiesto che cosa
può fare una persona detenuta per tutelare i suoi diritti, in una situazione
come quella di Padova, dove la chiusura delle sezioni di Alta Sicurezza sta
provocando disagi, sofferenza, anche disperazione
il
parere dell’avvocato Annamaria
Alborghetti
A
mio parere é possibile proporre reclamo ex art. 35 bis e 69 6° comma o.p.
contro i trasferimenti dell’AS. La legge dà al Magistrato un ampio potere di
intervento di fronte all’accertata violazione di diritti garantiti ai detenuti
dall’Ordinamento penitenziario. Infatti, di fronte all’inosservanza da parte
dell’Amministrazione di norme da cui derivi al detenuto un attuale e grave
pregiudizio all’esercizio dei diritti, il Magistrato, accertata la sussistenza
e l’attualità del pregiudizio, ordina all’Amministrazione di porre rimedio
entro un determinato termine. Nel caso dei trasferimenti in questione per molti
detenuti si profilano più violazioni. Innanzitutto l’art.13 che prevede il
trattamento individualizzato nonché l’art 14 secondo cui le assegnazioni ai
singoli istituti sono disposte tenendo conto delle modalità del trattamento. E
a proposito del trattamento, c’é da tener presente che la Corte
Costituzionale ha più volte ribadito il divieto della regressione incolpevole
del trattamento penitenziario. Francamente sembrava che il DAP volesse far
proprio tale principio, tanto da metterlo nero su bianco nella circolare del
2014 che riguarda, appunto, i trasferimenti di detenuti e dove si dice che va
rispettato il principio della non regressione del trattamento.
Ma
in quella circolare si dice anche che non possono essere trasferiti i detenuti
che frequentano corsi scolastici, professionali e che svolgono attività
lavorativa stabile. Ritengo, quindi, che vengano violate le norme che
garantiscono e tutelano il diritto allo studio e il diritto al lavoro (artt.19 e
20). Nel momento in cui il detenuto perde il lavoro non per motivi disciplinari
o per ragioni che riguardano il datore di lavoro, il suo licenziamento é
illegittimo. Da tale violazione scaturiscono tutta una serie di altre
violazioni, quale l’obbligo di assistenza familiare, etc.
Ma
il dato sicuramente più rilevante é che nessuno degli istituti di destinazione
é in grado di garantire la continuità del trattamento. E, paradossalmente, ce
lo dice proprio il DAP: basta leggere le schede degli istituti pubblicate sul
sito del Ministero! A Parma, piuttosto che ad Asti, nelle sezioni di Alta
Sicurezza non esiste quasi lavoro, e sono pressoché assenti le attività
trattamentali. Quindi credo che ci sia ampio spazio per sostenere che vi é
violazione dei diritti garantiti dall’Ordinamento Penitenziario. Come Camera
Penale di Padova abbiamo inviato un comunicato alla stampa locale in cui
stigmatizziamo la decisione del DAP. Abbiamo inoltre segnalato la gravità del
caso all’Unione Camere Penali Italiane, chiedendo un intervento deciso da
parte del Presidente e credo che vi sarà un incontro con il capo del DAP.
I
circuiti di Alta Sicurezza: un dispositivo costruito male e con pochi controlli
Quando,
all’età di vent’anni, mi sono ritrovato in una sezione di Alta Sicurezza,
da solo, senza avere mai avuto alcun legame con il crimine organizzato, pensavo
che si trattasse di una semplice sfortuna. Oggi invece, pensando alla diversità
delle storie che hanno portato le persone lì dentro, guardando il tempo
lunghissimo che si passa chiusi nella ristrettezza e nella spersonalizzazione di
quei circuiti, credo che sia un dispositivo costruito male e con pochi controlli
di
Elton Kalica*
Se
l’attuale processo di “umanizzazione delle carceri”, richiesto
dall’Europa, ha forse trovato un certo consenso nei circuiti della politica e
dei mass-media, sono davvero pochi a parlare anche di “umanizzazione” dei
regimi speciali.
Come
sono pochi a conoscere davvero come si vive in quei regimi. La convinzione
diffusa pare essere che i regimi speciali sono dei buchi neri creati per
segregare i mostri, i mafiosi che sciolgono i bambini nell’acido, e quindi che
rimangano come sono, velati dalla giustificazione della lotta al crimine
organizzato.
Dato
che ho avuto la sfortuna di essere rinchiuso per cinque anni in una sezione di
Alta Sicurezza, ho sempre raccontato sulle pagine di Ristretti Orizzonti come lo
status di “detenuto A.S.” mi ha perseguitato fino all’ultimo giorno della
mia carcerazione. Fui arrestato a metà anni novanta. Avevo appena compiuto
ventuno anni e di crimine organizzato
sapevo tanto quanto possa imprimere nella mente di un liceale albanese la serie
televisiva “La piovra” di Damiano Damiani. Accusato di sequestro di persona,
sono stato automaticamente messo in una sezione piena di persone accusate per
mafia.
Se
prima non sapevo nulla della mafia, presto sono diventato un buon conoscitore.
Sin dai primi mesi ho potuto arricchire il mio italiano scolastico con il
dialetto di Gela, di Catania, poi con quello di Catanzaro, di Reggio, ancora con
quello di Lecce, di Foggia, e anche con quello di Caserta e di Scampia: a
seconda di chi veniva “appoggiato” nella mia cella per il tempo necessario
di fare un’udienza nell’aula bunker per poi essere trasferito da un’altra
parte, per un’altra udienza. Ho imparato così i loro usi e i loro codici, ho
mangiato con loro, ho litigato con loro, ma ero diverso da molti di loro: forse
per la tranquillità della mia infanzia “garantita” dal regime comunista,
anni luce lontana dalle loro travagliate infanzie; forse perché io avevo un
fine
pena,
molti invece no; di certo mi vedevano come un “turista” del carcere, uno che
non ci doveva stare in quel reparto.
In
realtà non ero l’unico “turista” ad essere separato dal resto dei
detenuti. Negli anni ho visto arrivare altri stranieri che, come me, di mafia
non sapevano nulla. E sempre di più ho avuto la sensazione che anche molti
italiani fossero tutt’altro che mafiosi.
Quando
qualcuno dell’Alta Sicurezza ha iniziato a frequentare la nostra redazione ho
avuto la convinzione che qualcosa stesse finalmente cambiando. Entrando in
carcere, da volontario questa volta, qualche mattina, incrociavo nei corridoi
detenuti dell’Alta Sicurezza che andavano al lavoro o alle scuole insieme ai
detenuti comuni e confesso di aver provato perfino un po’ di invidia pensando
come, ai tempi della mia detenzione, anche per andare dall’avvocato ero
accompagnato da un agente mentre altri agenti fermavano ogni movimento nei
corridoi del carcere, per evitarmi di incontrare anima viva.
Ecco,
a Padova c’era stata una specie di distensione che aveva affievolito la
paranoia della rigida divisione tra categorie omogenee di detenuti. Questa
distensione però probabilmente non ha trovato consenso ai piani alti
dell’Amministrazione penitenziaria. E questa potrebbe essere una spiegazione
della recente decisione di chiudere la sezione di Alta Sicurezza di Padova e
trasferire i detenuti nelle varie sezioni di Alta sicurezza in giro per
l’Italia. Un trasferimento di massa che assomiglia un po’ a una
“deportazione” per gli effetti drammatici che sicuramente produrrà in
persone che, dopo molti anni di 41 bis e altrettanti anni trascorsi in regimi di
Alta Sicurezza rigidi,
iniziavano
a respirare un po’ di galera “normale”.
Delusi
da questo brusco ritorno al passato, in redazione abbiamo deciso di iniziare una
campagna d’informazione che ha coinvolto tutti i detenuti dell’Alta
Sicurezza che hanno scritto raccontando storie, pensieri, emozioni. Il desiderio
di loro tutti è quello di rimanere a Padova perché da altre parti – come ci
ha scritto un detenuto dalla sezione di Alta Sicurezza di Parma – è un
inferno, o un deserto.
In
questo articolo voglio raccontare cosa sono questi circuiti nella speranza di
offrire qualche
elemento
di conoscenza in più su un dispositivo di sicurezza a mio parere costruito
male, perché crea delle categorie di detenuti stereotipati ai quali è
riservato un trattamento penitenziario
diverso,
perché non c’è un termine a questa diversità di trattamento e perché non
c’è un controllo sulla sua applicazione a livello giurisdizionale.
La
nascita del 41 bis
Non
si può parlare di Alta Sicurezza senza parlare prima del regime di 41 bis.
L’Ordinamento Penitenziario[1],
nato con l’obiettivo di dare esecuzione al principio rieducativa della pena,
aveva disciplinato la vita del condannato attraverso pratiche del trattamento
penitenziario comprendendo tempi e modalità utili a mantenere i rapporti
affettivi attraverso i colloqui, ma soprattutto prevedendo percorsi di
esecuzione alternativi alla detenzione effettiva.
Purtroppo,
tale riforma ha avuto sin da subito una vita difficile, cominciando a perdere
pezzi sui permessi premio[2]
e con l’art. 90, che dava il potere al Ministro della Giustizia di
“sospendere” il trattamento penitenziario in interi Istituti di pena[3]. Sulla scia di alcune rivolte ed evasioni, si cominciò
il trasferimento dei detenuti condannati per terrorismo nelle carceri ritenute
più sicure[4]
dando
vita ai cosiddetti “carceri speciali”. Il regime applicato prevedeva diverse
limitazioni, in deroga all’Ordinamento Penitenziario.
Questo
aveva suscitato anche un certo dibattito su questo doppio sistema carcerario[5].
Successivamente, la riforma Gozzini, oltre a introdurre una serie di misure
alternative al carcere, introdusse anche l’art. 41-bis O.P.[6]
che recuperava il potere di sospendere il trattamento con l’art. 90, in
riferimento sempre a situazioni di rivolte all’interno delle carceri. Nel 1992
il 41 bis viene esteso anche a categorie di detenuti[7] indagati o condannati per reati di criminalità
organizzata, terrorismo o eversione, quando ricorrano gravi motivi di ordine e
di sicurezza pubblica[8].
In concreto, le misure applicabili riguardano restrizioni nel numero e nella
modalità di svolgimento dei colloqui visivi e telefonici, la limitazione
dell’ora d’aria e la censura della corrispondenza.
L’applicazione
del 41 bis
I
provvedimenti di sospensione del trattamento ordinario (art. 41 bis, comma 2
O.P.) sono adottati con decreto del Ministro della Giustizia. Con la motivazione
della “sicurezza esterna” il Ministro approva la richiesta di sottoposizione
a regime di 41 bis dei soggetti che per il loro elevato spessore criminale
possono perseguire disegni criminosi anche dall’interno degli Istituti
penitenziari.
I
provvedimenti hanno durata non inferiore ad un anno e non superiore a due.
Tuttavia possono essere prorogabili per periodi successivi, ciascuno pari ad un
anno, purché non risulti che la capacità del detenuto o dell’internato di
mantenere contatti con associazioni criminali, terroristiche o eversive sia
venuta meno.
Le
regole trattamentali sospese sono tante. La corrispondenza epistolare è
sospesa. Puoi scrivere una lettera al mese che viene sottoposta a visto di
controllo. La lettera deve essere breve. Poche frasi e chiare. Altrimenti viene
bloccata e inviata al magistrato di Sorveglianza il quale dà avvio a una
procedura di verifica lunghissima.
Le
telefonate con la famiglia sono sospese. Rimane la possibilità per i famigliari
di fare una telefonata al mese a condizione che si rechino al carcere più
vicino alla propria abitazione e usino un telefono installato all’interno del
carcere. I colloqui visivi sono sospesi.
Tuttavia
i famigliari più stretti possono andare a vedere il proprio caro in carcere una
volta al mese, per meno di un’ora, attraverso un vetro blindato. Non si
possono ricevere pacchi con generi alimentari. Si possono ricevere solo abiti,
biancheria ed indumenti intimi nella misura di quattro boxer, quattro magliette
intime, quattro paia di calzini, due paia di scarpe, due pantaloni, due
maglioni, due camicie. È sospeso l’acquisto di generi alimentari diversi da
biscotti e cracker. Sono sospese tutte le attività culturali, ricreative e
sportive. Rimane l’ora d’aria: si può andare a sgranchire le gambe in un
cubicolo di cemento coperto di una rete metallica, ma non più di quattro
detenuti nello stesso cubicolo. È sospeso lo svolgimento di attività
artigianali-hobbistica in cella.
La
revoca del 41 bis
Il
detenuto sin dalla prima applicazione del provvedimento può fare reclamo al
Tribunale di Sorveglianza chiedendone la revoca. Per ottenere ciò dovrebbe
dimostrare di non avere più contatti con l’esterno dato che, come dicono i
provvedimenti, le limitazioni del 41 bis “trovano ragione nel grave
pregiudizio che deriverebbe all’ordine e alla sicurezza pubblica
dall’attuazione del regime trattamentale ordinario nei confronti
di alcuni detenuti, estremamente pericolosi, per la concreta
possibilità che questi svolgano attività di proselitismo in
carcere e mantengano contatti con le organizzazioni di appartenenza”.
Dall’altro canto vengono interpellati la D.N.A (Direzione Nazionale Antimafia)
e la D.D.A (Direzione Distrettuale Antimafia) per dare un parere
sull’esistenza di legami.
Se
questi organi non escludono la possibilità di collegamenti, è molto probabile
che il provvedimento non venga revocato. A Padova ad esempio abbiamo chiesto ad
una ventina di ergastolani quanto tempo sono rimasti sottoposti al regime di 41
bis. Solo ad uno non è stato rinnovato il provvedimento, quindi è potuto
ritornare in una sezione di Alta Sicurezza dopo due anni. Mentre gli altri si
sono visti rinnovare il regime per diverse volte, tanto che nove di loro vi
hanno trascorso più di dieci anni, in particolare due sono rimasti per più di
vent’anni.
Dopo
una prima applicazione quindi, il 41 bis può essere prorogato con un altro
provvedimento del Ministro. Il detenuto può avanzare di nuovo reclamo avverso
tale proroga. La Corte Costituzionale si è espressa diverse volte in merito
stabilendo che tale proroga deve avere una puntuale e congrua motivazione[9], ovvero, “debbono essere concretamente
motivati in relazione alle specifiche esigenze di ordine e di
sicurezza che ne costituiscono il presupposto, in quanto il regime
differenziato si fonda sull’effettivo pericolo della permanenza
dei collegamenti interni ed esterni con le organizzazioni criminali e con
le loro attività, e non sull’essere i detenuti autori di
particolari categorie di reati”.
Infatti,
leggendo alcune revoche, si ravvisa una pratica ripetitiva dei provvedimenti
senza che ci sia un aggiornamento sull’attualità dei collegamenti con
l’organizzazione di appartenenza.
In
alcune revoche si osserva come la ricostruzione delle considerazioni da parte
dei magistrati antimafia sono datate “senza che alcun elemento attuale,
concreto, autonomo, specifico e fondato sia presente a fondamento
del regime differenziato”.
Seguendo
il principio di “concretezza” della motivazione adottata nel provvedimento,
la verifica dei magistrati di Sorveglianza dovrebbe riguardare la presenza di “elementi
concreti frutto di indagini e di accertamenti effettuati, anche se
solo a livello indiziario”. In assenza di elementi concreti non si
può convalidare la prosecuzione del regime differenziato nel caso di specie.
Quello
della “concretezza” è un principio costituzionale[10]
così come lo è il divieto costituzionale
assoluto
del prevedere una categoria “tipizzata” di detenuti speciali e quindi una
configurazione di detenuti “diversi” e “irrecuperabili”, da sottoporre a
regime differenziato solo sulla scorta della tipologia del reato commesso. Per
la Corte dunque, non vi può essere una categoria di detenuti, individuata a
priori in base al titolo di reato, sottoposti ad un regime differenziato: ma
solo singoli detenuti, condannati o imputati per delitti dì criminalità
organizzata, che l’amministrazione ritenga, motivatamente e sotto il controllo
dei Tribunali di Sorveglianza in grado di partecipare, attraverso i loro
collegamenti interni ed esterni, alle organizzazioni
criminali
e alle loro attività, e che per questa ragione sottopone – sempre
motivatamente e col controllo giurisdizionale – a quelle sole restrizioni che
siano concretamente idonee a prevenire tale pericolo, attraverso la soppressione
o la riduzione delle opportunità che in tal senso discenderebbero
dall’applicazione del normale regime penitenziario.
Alla
prova dell’attualità e della concretezza dei contatti, a volte accade che il
Tribunale di Sorveglianza dichiari infondata la proroga del 41 bis, e il
detenuto viene trasferito in un reparto di Alta Sicurezza.
I
circuiti di Alta Sicurezza (A.S.1, A.S.2 e A.S.3)[11]
All’interno
del carcere la popolazione detenuta è divisa tra categorie cosiddette
“omogenee” in termini di pericolosità. Tutti i detenuti generalmente sono
considerati di media sicurezza.
Invece,
per una categoria considerata maggiormente pericolosa, sono creati dei
circuiti11 che garantiscono elevati livelli di sicurezza[12].
Questa categoria comprende tutti i detenuti imputati o condannati per reati
configurati nel primo periodo del primo comma dell’art. 4 bis dell’O.P.:
associazione mafiosa (416 bis C.P.), associazione in materia di stupefacenti
(art. 74 D.P.R. n. 309.90) e sequestro di persona a scopo d’estorsione (art.
630 C.P.)[13].
L’individuazione dei soggetti da assegnare a tali circuiti si svolge in modo
automatico facendo riferimento al titolo di reato. Pertanto, se arriva in
carcere una persona accusata di sequestro di persona, anche se non appartiene al
crimine organizzato, viene collocata automaticamente in regime di Alta
Sicurezza. Il vaglio è previsto solo per individuare i soggetti ai quali è
stato specificamente contestato di aver promosso o diretto l’associazione
finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti13 in quanto
l’automatica classificazione in A.S. avviene soltanto per i capi e promotori,
mentre i partecipi sono inseriti nel circuito di media sicurezza[14].
Il
circuito di Alta Sicurezza prevede al proprio interno tre differenti regimi che
prevedono l’impossibilità di comunicazione tra loro. Il circuito A.S. 1
contiene i detenuti appartenenti alla criminalità organizzata di tipo mafioso,
ritornati dal regime di 41 bis, e i detenuti considerati
elementi
di spicco e rilevanti punti di riferimento delle organizzazioni criminali di
provenienza. Nell’A.S. 2 sono inseriti automaticamente i soggetti imputati o
condannati per delitti commessi con finalità di terrorismo, anche
internazionale, o di eversione dell’ordine democratico.
All’interno
dell’A.S. 3 sono assegnati automaticamente tutti i detenuti imputati o
condannati per uno dei reati configurati nel 1° periodo del 1° comma
dell’art. 4 bis dell’O.P..
Lo
scoglio “voluto” della declassificazione dai circuiti di Alta Sicurezza
Il
detenuto collocato in un circuito di Alta Sicurezza può presentare alla
Direzione del carcere la “richiesta di declassificazione” che significa
passare ad un circuito di Media sicurezza. Fino a qualche anno fa, la Direzione
del carcere aveva il potere di decidere sulle declassificazioni, dopo aver
sentito il parere del Gruppo di Osservazione e Trattamento del carcere e dopo
aver letto le informazioni assunte presso la Procura Antimafia competente
sull’attualità dei collegamenti con l’organizzazione criminale di
appartenenza. Queste informazioni, così come per le proroghe del regime di 41
bis, spesso risultavano nel tempo una ripetizione della formula, che “non si
può escludere la persistenza dei collegamenti”.
Di
fronte a simili informazioni spesso sprovviste di elementi concreti, in alcuni
casi le Direzioni nonché
ruoli marginali nella commissione dei reati. È successo così anche a me.
Dopo
ripetute richieste e in concomitanza con la mia iscrizione all’università, il
direttore del carcere ha concesso il mio passaggio in un reparto di Media
sicurezza, dove ho potuto avere maggiori opportunità lavorative e di studio.
Questa pratica oggi non è più possibile. Il Dipartimento
dell’Amministrazione Penitenziaria ha deciso di togliere la competenza alle
direzioni delle carceri e centralizzare le decisioni nella Direzione Generale
detenuti, a Roma. Da allora, l’analisi delle informazioni – spesso ferme ad
una fotografia lontana del condannato – e la conseguente mancanza di una
conoscenza diretta dell’evoluzione del percorso della singola persona – che
solo lo staff del carcere poteva avere – hanno reso le declassificazioni uno
scoglio burocratico difficile da superare. Se devo guardarmi indietro, confesso
che nella sfortuna di essere finito in una sezione destinata alla criminalità
organizzata, ho avuto la fortuna che i direttori potevano ancora correggere
qualche situazione: nelle condizioni attuali, probabilmente sarei rimasto in
Alta Sicurezza fino alla fine della condanna.
L’assenza
di controllo sulle declassificazioni
Mentre
il regime del 41 bis è chiaramente lesivo dei diritti in quanto li sospende
esplicitamente, i circuiti di Alta Sicurezza non sono considerati, in sé,
imputabili di lesione di diritti soggettivi. Per questa ragione i Magistrati di
Sorveglianza per lo più non considerano i reclami dei detenuti sulla mancata
declassificazione come dei controlli su una violazione dei diritti.
E
così avallano l’impostazione del D.A.P., secondo il quale, lungi dal limitare
la partecipazione del detenuto ad attività trattamentali, l’allocazione in
circuiti differenti prescrive soltanto “cautele imposte da esigenze di sicurezza
della popolazione detentiva in generale”, e questo non produce
alcuna differenza di diritti e di trattamento ma solo appunto “cautele”
nell’applicazione del trattamento penitenziario.
Mi
è capitato di leggere recentemente il rigetto di una declassificazione e tra i
motivi si affermava che il soggetto “non soffre di limitazioni nel
trattamento penitenziario, potendo fruire di regolari colloqui
visivi e telefonici con la famiglia, ed essendo stato istituito
per gli appartenenti alla sezione A.S. un corso scolastico di
media superiore per ragionieri e potendo prestare attività lavorativa
all’interno della sezione detentiva in qualità di inserviente”.
Mi domando: cosa vuol dire? Se non c’è alcuna limitazione nel
trattamento, allora non dovrebbero esistere le declassificazioni. Ma
soprattutto, se non ci fossero differenze, non si capisce perché tutti i
detenuti vorrebbero uscire dai circuiti di Alta Sicurezza! Eppure, i Magistrati
di Sorveglianza che entrano in carcere ad incontrare i detenuti, conoscono bene
le differenze e le restrizioni dei regimi di Alta Sicurezza. Ma non sempre sono
attenti ad esercitare un vero controllo sulle declassificazioni.
Conclusione
Su
tutta la questione dei regimi e dei circuiti differenziati ci sono tante cose
che stridono con l’anima dell’Ordinamento Penitenziario. Tuttavia in
conclusione di questo racconto dei circuiti di Alta sicurezza, vorrei
sottolinearne almeno un paio. Il trattamento penitenziario è basato sul
principio della personalizzazione.
Quindi
serve una conoscenza attenta del soggetto e una scelta adeguata di trattamento.
Se questo è un diritto, la “categorizzazione” dei detenuti è in sé una
sospensione di questo diritto. E questa sospensione non può durare per sempre.
Ci deve essere un momento in cui il detenuto non è più una categoria di reato,
ma acquisisce una individualità che deve essere gestita come tale
dall’istituto.
Un
altro principio importante è quello della progressione del trattamento
nell’esecuzione della pena. I circuiti di Alta Sicurezza vanno radicalmente
rimessi in discussione. Le persone non possono comunque rimanere per sempre
inchiodate in un circuito e ci vuole per lo meno una uscita graduale dai
circuiti più chiusi, perché tutti i detenuti hanno diritto ad un trattamento
che rispetti la dignità personale. E il rispetto della dignità delle persone
lo possono garantire solo i circuiti di “Media sicurezza”. Infine voglio
soffermarmi sull’inerziadi certe Direzioni nelle declassificazioni. Può
sembrare anche banale, ma la rieducazione del condannato non può essere un
principio applicabile solo ad alcune categorie. L’istituzione carcere deve
sostenere la scommessa del cambiamento su tutte le persone e non può accettare
passivamente la stagnazione dei circuiti. Sin dalla loro nascita, a giustificare
i circuiti c’è stata questa strana espressione della “cautela” del
trattamento penitenziario. Si è dimenticato però che oltre alla
creazione
delle sezioni “cautelari” c’era un’altra norma che stabiliva una
verifica periodica[15]
sui
presupposti
della permanenza in tali sezioni. Se questa verifica non viene mai eseguita,
significa che per l’istituzione quei detenuti possono rimanere in Alta
Sicurezza anche per sempre.
Infatti
è il detenuto stesso che deve periodicamente chiedere la declassificazione per
“costringere” il carcere ad istruire la pratica. E magari, oltre ad avere
trascorso decine di anni in luoghi dove le attività, i movimenti e rapporti con
la società esterna sono ridotti al minimo, i detenuti poi si vedono scritto nel
rigetto che l’equipe trattamentale e il direttore del carcere hanno espresso
parere negativo.
Quando,
all’età di poco più di vent’anni, mi sono ritrovato in una sezione di Alta
Sicurezza, da solo, senza avere mai avuto alcun legame con il crimine
organizzato, pensavo che si trattasse di una semplice sfortuna.
Oggi
invece, pensando alla diversità delle storie che hanno portato le persone lì
dentro, guardando il tempo lunghissimo che si passa chiusi nella ristrettezza e
nella spersonalizzazione di quei circuiti, credo che sia un dispositivo
costruito male, e sul quale ci sono pochi controlli.
Non
voglio negare le pesanti responsabilità che queste persone hanno per i loro
crimini, ma a distanza di quasi venticinque anni dalle stragi di mafia, credo
che sia giunto il momento di rivedere tutti i dispostivi creati in quel periodo.
Se chi è forte sa esercitare una giustizia mite, ripristinare la “normalità”
del trattamento per tutti i detenuti è anche un segno di forza dello Stato che
ha vinto.
________________________________________________________________________________
*ELTON
KALICA,
dottorando di ricerca presso l’Università di Padova, sta svolgendo una
ricerca sul tema dell’Ergastolo ostativo.
1
Legge del 26 luglio 1975, n. 354, legge sull’ordinamento penitenziario.
2
L. 20 luglio 1977 n. 450, con il motivo dell’emergenza terrorismo viene
ristretto sensibilmente il regime dei permessi.
3
L’art. 90 della riforma prevedeva di conseguenza che il ministro di Grazia e
Giustizia avesse “facoltà di sospendere le regole di trattamento e gli
istituti previsti dalla legge nell’ordinamento
penitenziario, in uno o più stabilimenti e per un periodo determinato,
strettamente necessario, quando ricorrono gravi ed eccezionali motivi di ordine
e sicurezza”.
4
Nel maggio del 1977, con un decreto interministeriale a firma di Bonifacio-
Lattanzio-Cossiga (rispettivamente ministro di Giustizia, della Difesa e degli
Interni), intitolato “Per il coordinamento dei servizi di sicurezza esterna
degli istituti penitenziari”, venne attribuito il potere di coordinamento per
la sicurezza interna ed esterna degli istituti penitenziari al generale Carlo
Alberto Dalla Chiesa, il quale individuò alcune carceri più sicure ove
destinare i detenuti ritenuti più pericolosi.
5
Scardocchia G., Cinque fortezze da cui non si evade. Verso un doppio sistema
carcerario?, “Corriere della Sera”, 22 agosto 1977.
6
Art. 41 bis della legge (Gozzini) 10 ottobre 1986 n. 663.
7
Alle stesse categorie di detenuti si applica l’art. 4 bis O.P., primo periodo
del primo comma, che esclude la concessione di misure alternative: permessi
premio, lavoro all’esterno, affidamento ai servizi sociali. Infine, l’art.
58 ter annulla tale esclusione solo per collaboratori di giustizia.
8
Art.19 del decreto legge 8 giugno 1992, n. 306.
9
Sentenza n. 349/93, sent. n. 351/96 e sent. 376/1997 Corte Costituzionale
10
Ibidem
11
Circolari n° 606895 del 20.1.1991, n° 3359 del 21.4.1993, n° 3449 del
16.1.1997, n° 3479 del 9.7.1998 ed infine n° 20 del 9.1.2007
12
Art. 32 del regolamento penitenziario approvato con D.P.R. 230 del 2000.
13
Aggravante di cui al comma 1 dell’art. 74 D.P.R. 309.1990 e quella di cui
all’art. 291 quater D.P.R. 43.1973.
14
Fatto salvo il potere di sollecitare la classificazione ad opera di questa
Direzione Generale ai sensi della lett. D) della circolare n° 20 del 9.1.2007
15
Art. 32, comma 2, Regolamento Penitenziario, D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230
di
Elton Kalica
Il
trasferimento del detenuto da un carcere all’altro viene fatto per “gravi
e comprovati motivi di sicurezza, per esigenze dell’istituto, per
motivi di giustizia, di salute, di studio e familiari”[1].
Con motivi familiari si intende l’avvicinamento del detenuto alla propria
famiglia per “rendere possibile il mantenimento di un valido
rapporto con i figli, specie in età minore, e a preparare la
famiglia, gli ambienti prossimi di vita e il soggetto stesso al rientro
nel contesto sociale”[2].
Nel gergo amministrativo questo costituisce il cosiddetto “principio della
territorialità della pena”, e l’Amministrazione penitenziaria si è posto
come obiettivo formale quello di accogliere “nella misura più ampia possibile
le istanze di trasferimento dei detenuti”[3].
Quando
ero detenuto, per me la territorialità della pena avrebbe significato essere
trasferito a scontare la pena nel mio Paese d’Origine. Questa cosa non mi è
mai stata concessa per opposizione della procura generale. In cambio ho
sperimentato diversi trasferimenti in giro per il nord Italia.
Era
fine anni novanta e in Lombardia c’erano continue operazioni antimafia con
centinaia di arresti. Le sezioni di Alta Sicurezza erano già sovraffollate. Mi
trovavo al carcere di Monza e, dopo la seconda branda in celle da uno, hanno
inserito anche il terzo materasso, per terra. Dopo settimane i detenuti stanchi
di dormire per terra hanno deciso di protestare, rifiutandosi di rientrare in
cella. Per solidarietà ci siamo rifiutati tutti chiedendo di parlare con il
direttore[4]. Dopo
ripetuti getti di idranti, il freddo della notte l’ha avuta vinta, e abbiamo
deciso di rientrare in cella attraversando un lungo corridoio di scudi e
manganellate.
Dopo
qualche giorno sono cominciati i trasferimenti per motivi di sicurezza. I motivi
di sicurezza devono essere gravi e comprovati, dice la norma. Non so definire la
gravità di un rifiuto collettivo a fare rientro dall’ora d’aria. So
soltanto che è stato sufficiente per visitare la Lombardia attraverso le sue
galere: Opera, San Vittore, Voghera. Poi alla fine Padova è stata il capolinea.
L’esperienza che ho avuto con i trasferimenti, mi permette di affermare oggi
che lo status di detenuto di Alta Sicurezza rende qualsiasi condannato
vulnerabile ad essere trasferito. In generale si viene separati dal resto della
popolazione detenuta per motivi di sicurezza[5].
È vero che la creazione dei “circuiti omogeni” richiama l’esigenza di impedire fenomeni “di reclutamento criminale, di strumentalizzazione a fini di turbamento della sicurezza degli istituti”[6]. Tuttavia non è una coincidenza se la norma che organizza il raggruppamento in categorie dei detenuti7 dice espressamente che “per le assegnazioni sono, inoltre, applicati di norma i criteri di cui al primo e al secondo comma dell’art. 42”, il quale, ribadisco, prevede che “i trasferimenti sono disposti per gravi e comprovati motivi di sicurezza”. La declinazione immediata di questo intreccio normativo è che la condotta del detenuto non è determinante. Se stai in Alta Sicurezza è per motivi di sicurezza, il che giustifica di per sé ogni trasferimento. Se poi uno decide di protestare, il trasferimento assume ancora di più il suo significato punitivo, e può continuare ad essere esercitato per molto molto tempo.
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1
Art.42
dell’Ordinamento Penitenziario, legge n. 354 del 26 luglio 1975.
2
Art.
61 comma 2, D.P.R. n. 230 del 30 giugno 2000.
3
Circolare
Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria n. 3654/6104 del 20 febbraio
2014.
4
Rivolta
in carcere, sei ore di tensione, Corriere della Sera (26 marzo 1998) http://archiviostorico.corriere.
it/1998/marzo/26/Rivolta_carcere_ sei_ore_tensione_co_2_980326282. shtml
5
L’art.
32 del D.P.R. n. 230 del 30 giugno 2000 prevede infatti che “I detenuti
e gli internati, che abbiano un comportamento che richiede particolari
cautele (…) sono assegnati ad appositi istituti o sezioni dove sia più
agevole adottare le suddette cautele”.
6
Circolare
3619/6069, del 21 aprile 2009.
Art. 14 dell’Ordinamento Penitenziario, legge n. 354 del 26 luglio 1975.