A
proposito della chiusura della sezione di Alta Sicurezza a Padova
Una
figlia che conosce le sofferenze dei trasferimenti da carcere a carcere
“Mentre
coloro che davano l’ordine di trasferire mio padre dormivano sonni tranquilli
con i loro figli nelle rispettive camerette, io ero nei treni per viaggiare
tutta la notte con chiunque si sedesse di fianco a me ed a mia mamma, ma nessuno
si preoccupava del fatto che poteva accaderci di tutto, tanto io ero la figlia
di un delinquente”
di Suela M.
Ho
più volte parlato dei vari trasferimenti di mio padre, è stato trasferito
nelle città più lontane e impensabili rispetto a dove vivo io (Alessandria).
É stato a Larino, Sulmona, Napoli, Cuneo, Vasto e altre città. Veniva gettato
dove capitava, proprio come si getta un sasso nel mare, non preoccupandosi di
dove cadrà. Io ero una bambina e mia mamma una giovane donna, che ad ogni
lettera ci preoccupavamo di leggere l’indirizzo per la paura che fosse stato
trasferito di nuovo, e ci sarebbe toccato allora andare più lontano, in un
posto che non conoscevamo, ci toccava “abituarci” ad un nuovo carcere, a
nuovi agenti, ad un nuovo trattamento che poteva facilmente essere peggiore.
Era
una tortura, tutto il processo in sé, e tutte le infinite volte che sono stata
perquisita io, da agenti diversi. Il procedimento, i passaggi per accedere ai
colloqui e le sale dei colloqui non sono uguali in tutte le carceri. Una volta,
ad esempio, in un carcere mi hanno fatto togliere la cintura e avevo 8 anni, mi
sono sentita umiliata e ho domandato per quale ragione non potevo tenermi la
cintura, sentendomi rispondere che “qui funziona cosi”. In alcune carceri
anche la sala colloqui si presentava diversa, con un muro divisorio, la sala
trascurata, sporca, rovinata, mentre in altre ho scoperto l’esistenza dei
tavolini.
Per
mia mamma, quando mio papà veniva trasferito, era una tragedia, era
preoccupatissima di come stava, come si sentisse e di cosa ne sarebbe stato di
lui. Lui entrava in un carcere in cui non conosceva nessuno, dove avrebbe dovuto
iniziare tutto da capo, veniva messo a dura prova per l’ennesima volta, non
sapevamo come avrebbe reagito, stava male, lo vedevamo, anche se diceva che
andava tutto bene.
Mentre
coloro che davano l’ordine di trasferirlo dormivano sonni tranquilli con i
loro figli nelle rispettive camerette, io ero nei treni per viaggiare tutta la
notte con chiunque si sedesse di fianco a me ed a mia mamma, nessuno si
preoccupava del fatto che poteva accaderci di tutto, questo non era un problema,
tanto io ero la figlia di un delinquente, non importava.
Occuparsi
del carcere come lavoro non è facile, questo è un lavoro difficile, ma
l’unico modo per riuscire a farlo bene è essere umani, pensare come ti
sentiresti se capitasse a te, se i tuoi figli, tua moglie dovessero viaggiare al
freddo, di notte, con la paura, correndo anche dei rischi.
Quando ho saputo della chiusura dell’Alta Sicurezza del carcere di
Padova, mi è venuta l’ansia per i detenuti che verranno gettati chissà dove,
chissà con chi, e per i loro figli e le loro mogli. Ma nessuno si preoccupa di
loro? Ma nessuno vuole sapere qualcosa di un figlio che vedrà più raramente il
padre, che lo vedrà soffrire ancora di più e che lui stesso soffrirà più di
quanto già non faccia? Parliamo di figli che sono in una situazione ancora più
difficile rispetto alla mia, in quanto loro non avranno mai loro padre a casa,
non cresceranno con lui, ma la loro crescita, il racconto delle loro vite avverrà
sempre all’interno di quelle mura, di quelle sale fredde. Penso che per
chiunque sia già difficile questa situazione, perché rompere questo
“equilibrio”, distruggere quel loro piccolo mondo che si sono creati?
A
nessuno passa per la mente che trasferendo, facendo di queste persone ciò che
si vuole, li portate anche a gesti estremi, dato l’elevato numero di suicidi
nelle carceri? Io ricordo tutte le carceri in cui è stato mio papà, ricordo i
viaggi che facevo per andare a trovarlo e le sofferenze che provavamo. Ricordo
che viaggiavamo tutta la notte, arrivavamo nelle stazioni circa alle 06.00/7.00
del mattino, con il buio e il freddo d’inverno, e appena scendevamo dal treno
dovevamo allontanarci il prima possibile dal binario e uscire fuori perché era
pericoloso stare li, e ancora oggi continuo a pensarlo e ogni volta che devo
prendere il treno anche per andare a trovare parenti e amiche mi sento male,
riaffiorano in me tutti i ricordi, la stanchezza di quei viaggi, e quanto ci
costava, perché per andare a trovare mio papà mi sarei dovuta privare di molte
altre cose, e una di queste era mia mamma che doveva lavorare sempre e io ero
costretta a stare, dopo scuola, tutto il giorno in casa da sola, anche di
domenica, mentre le mie amichette erano al parco o a casa con i loro genitori.
Una
volta uscite fuori dalla stazione dovevamo informarci su come raggiungere il
carcere, e la gente iniziava a guardarci in modo strano appena chiedevamo ciò,
ma tanto eravamo abituate, non era la prima volta! ciò non significa però che
non fosse molto triste. L’unico modo, il più delle volte, era il taxi molto
costoso, dato che le carceri come ben sappiamo sono situate sempre fuori città,
come per dirci: noi, persone per bene, la spazzatura non la vogliamo. Una volta
raggiunto il carcere, con 8 ore di viaggio alle spalle con altre 8 ore che ci
aspettavano, facevamo 2 ore di colloquio (perché noi non andavamo tutte le
settimane, ma molto più raramente).
Tutti
questi trasferimenti, tutti questi carceri, hanno reso la vita difficile non
solo a me, ma anche a mia mamma. Non abbiamo potuto condurre una vita normale,
abbiamo sempre nascosto questa “doppia vita” per la vergogna.
di
Tommaso Romeo,
papà di Francesca
Sabato
alle ore quindici entro nella stanza dove c’è il telefono. Ero un po’ teso
perché dovevo dire ai miei famigliari che stavo per essere trasferito
nell’istituto di Opera, Milano, mentre facevo il numero mi ripassavo nella
mente tutto quello che dovevo dire, in quanto quei dieci minuti ogni volta
volano come se fossero dieci secondi.
“Pronto”,
come tutte le volte la prima a prendere il telefono è mia moglie, le dico
“Ciao amore come stai? Passami Francesca che devo parlarle”.
Non
voglio dare la cattiva notizia a mia moglie, penso che mia figlia essendo
giovane la prende meglio, mia figlia non mi dà il tempo di aprire bocca “Papà,
ti stanno partendo”.
Le
rispondo di sì e le domando come fa a saperlo, lei mi dice di averlo letto sul
sito di Ristretti, sento che è tesa e per indorarle la pillola le dico “Sono
stato fortunato, mi portano a Opera”. Mia figlia ripete “Opera” sento mia
moglie che le domanda “Dove lo hanno mandato”, prendo fiato e dico “a
Milano”, e comincio a dirle “è un carcere nuovo, si sta benissimo”, mia
figlia mi risponde “papà, questa storia che si sta benissimo è vecchia”. E
mi informa che avevano già comprati i biglietti per venire a farmi il colloquio
i primi di maggio a Padova, si dispera dicendomi che non le verranno nemmeno
rimborsati, le suggerisco di chiamare il carcere e di spiegargli la situazione,
che sicuramente troveranno un po’ di umanità e ci faranno fare il colloquio.
Una voce metallica si infila in mezzo a noi avvisandoci che sta per finire la
telefonata, mi dico nella mia mente “di già, impossibile!”, faccio in tempo
a dire “passami mamma”, con voce preoccupata mia moglie mi dice “non c’è
pace per noi, quando arrivi telefona…”. La telefonata si interrompe, tornato
nella mia cella mi dò la colpa per non essere riuscito a tranquillizzare i miei
familiari, e penso a quante ne hanno dovuto passare i miei cari in questi
ventitré anni di carcere e ritorna in me la rabbia di molti anni fa.
di
Vincenzo Giglio
Sono
Vincenzo Giglio, figlio di Salvatore Giglio che é attualmente detenuto presso
la Casa di Reclusione di Padova.
Scrivo
la presente per dire che mio padre sono oltre otto anni che è rinchiuso presso
il suddetto istituto privato dell’affetto dei propri familiari che vivono
tutti in Calabria. Mia madre, mio fratello ed io non sempre possiamo viaggiare
dalla Calabria sino a Padova per le visite parentali ed è per questo motivo che
io e la mia compagna, in attesa del primo figlio, abbiamo deciso di lasciare
casa, il lavoro, gli amici ed i parenti per trasferirci qui a Padova, al solo
scopo di poter essere più vicini a mio padre.
Ci
è costato molto poiché entrambi abbiamo lasciato il nostro lavoro, abbiamo
trovato casa ed anche lavoro e, con fatica, ci stiamo pian piano abituando a
questa nuova situazione.
Tuttavia
in un recente colloquio con mio padre ho saputo che egli sarà trasferito, se
non ricordo male, al carcere di Sulmona quest’estate!!!
La
notizia devo essere sincero ci ha sconvolti, perché dopo tutto quello che
abbiamo fatto per stare vicini a mio padre corriamo il rischio che sia stato
tutto inutile.
So
che ha scontato quasi tutta la pena la cui fine è prevista per settembre 2017,
e so anche che ha chiesto la liberazione anticipata e deve presentare istanza
per il regime di semilibertà essendoci una ditta in Padova che è disposta ad
assumerlo; non conosco i motivi per i quali si renda necessario il suo
trasferimento visto che, per quanto ne so, la sua vita carceraria è eccellente,
ma è certo che se tanto dovesse essere non solo il sacrificio mio e di mia
moglie è stato inutile, visto che se torniamo giù non avremmo più neanche il
nostro lavoro, ma mio padre non potrebbe più usufruire eventualmente
del regime alternativo al carcere perché la ditta che è disposta ad
assumerlo è a Padova e non a Sulmona.
Mi
rivolgo a chi conosce meglio la situazione del carcere di Padova per chiedere di
intercedere al fine di scongiurare questo trasferimento, sperando sempre che
quanto prima gli sia concessa la misura alternativa.
Ringrazio
molto per l’attenzione che vorrete dedicarmi.
Cosa
ne sarà di mio padre e degli altri detenuti se saranno trasferiti?
di
Sara Papalia
Mi
chiamo Sara Papalia e mio padre, Antonio, è uno dei tanti detenuti della Casa
di reclusione di Padova che in questi giorni vedono la loro vita, i loro
percorsi e i rapporti con i loro famigliari appesi a un filo.
Sono
tutti detenuti che hanno passato anni in carceri di massima sicurezza, lontano
dalle famiglie e molti di loro, come mio padre, sono stati sottoposti al regime
del 41 bis per lunghi anni. Un regime che come ben saprete non ha nulla di
rieducativo, ma che punisce e penalizza non solo i detenuti, ma anche i
famigliari.
A
Padova, questi uomini sono riusciti a dare un senso alla loro detenzione, hanno
ricostruito legami famigliari e hanno intrapreso percorsi rieducativi, come mio
padre che ha potuto riprendere gli studi, frequentare la redazione di Ristretti
Orizzonti, dedicarsi alla poesia e prendere parte a un gruppo di catechesi, con
la speranza di una declassificazione, e poi col tempo di intraprendere un
percorso extramurario, ma cosa succederà invece? cosa ne sarà di mio padre e
degli altri detenuti se saranno trasferiti?
Come
può una persona che si è già messa in discussione e che ha passato anni di
dolore e solitudine
trovare la forza per ricominciare? Come possono loro e noi credere nelle istituzioni se sono le istituzioni a negarci ogni diritto? Aiutateci vi prego!!!