Alta
Sicurezza, bassa umanità
Alta
Sicurezza e Ristretti Orizzonti:,storia di un “laboratorio” dove si
sperimenta il confronto fra i cattivi per sempre, i cattivi a tempo determinato
e i buoni con tanti dubbi
di
Ornella Favero direttrice
di Ristretti Orizzonti
Non
sono una esperta di fenomeni mafiosi, e come volontaria in carcere ho la
consapevolezza dei miei limiti, quindi so che parlare di una materia complessa
come la chiusura della sezione di Alta Sicurezza di Padova e l’esperienza
fatta da Ristretti Orizzonti con un gruppo di detenuti di quella sezione è un
rischio, ma io quel rischio lo voglio correre.
Qualche
domanda, giusto per capire
Dice
la circolare DAP del 21 aprile 2009:
La
prima domanda che mi sono fatta allora, quando è arrivato nella mia redazione,
dalla sezione AS1, Giovanni Donatiello, è stata: Giovanni è uscito dal 41 bis
perché…:
“vista
la nota del 15 dicembre 1999, (…) con la quale la Procura Distrettuale della
Repubblica di Lecce ha segnalato di non ritenere più attuale il collegamento
del Donatiello con l’ambiente criminale associato di appartenenza (…) il
Ministro revoca il decreto ministeriale del 23 dicembre 1999 con il quale era
stato disposto nei confronti del detenuto il regime detentivo speciale di cui
all’art.41 bis, 2° comma, dell’Ordinamento Penitenziario”.
Ma
allora perché Giovanni è in AS1 da ben quindici anni, se il motivo
dell’assegnazione all’AS1 è prevalentemente “l’appartenenza degli
stessi detenuti ad una organizzazione” e dunque “la potenzialità di
interagire con le compagini criminali operanti all’esterno, e però nella sua
revoca del 41 bis il Ministro non ha ritenuto più attuale “il
collegamento del Donatiello con l’ambiente criminale associato di
appartenenza”?
A
me piace “leggere le carte”, io non sono una credulona, sono sanamente
diffidente, quindi quando abbiamo ottenuto di far partecipare alcuni detenuti
dell’Alta Sicurezza alle attività di Ristretti Orizzonti, ho cominciato
freneticamente ad analizzare documenti, in particolare revoche del 41 bis e
rigetti di declassificazioni. Le domande che mi sono venute in mente allora sono
semplici: ma possibile che ci siano persone rinchiuse in Alta Sicurezza che
chiedono da anni di essere declassificate, e si sentono rispondere dalle varie
DDA (Direzione Distrettuale Antimafia) che “non si può escludere in maniera
certa l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata”? Ma quando mai nella
vita si potrà “escludere in maniera certa” qualcosa? E non c’è nessun
obbligo di portare delle prove di quei collegamenti? E quelle persone
presumibilmente ancora “collegate alla criminalità organizzata” non vanno
allora indagate, e magari indagati anche quelli che gli lasciano mantenere quei
collegamenti dentro a un carcere supercontrollato?
Biagio,
Carmelo, Giovanni, Giuseppe: dare un nome ai “mafiosi”
Quando
a Ristretti Orizzonti abbiamo deciso di tentare di portare in redazione Carmelo
Musumeci, che era appena approdato a Padova dopo l’ennesimo smantellamento di
una sezione A.S., ho capito subito che la sfida non era di quelle facili:
abituata a lavorare con i detenuti “comuni”, e a incontrare migliaia di
studenti per fargli capire che il carcere non è così lontano dalle nostre vite
di persone oneste e “regolari”, mi sono trovata a trattare sempre più
spesso temi complessi come quelli di chi è in carcere per reati della
criminalità organizzata, reati “impresentabili”. Dare un nome ai
“mafiosi” non è una cosa semplice, perché quando cominci ad avere a che
fare con Biagio, Carmelo, Giuseppe, Giovanni, e con la loro umanità, e li trovi
simpatici, mai prepotenti, mai arroganti, qualche domanda cominci a fartela. Se
poi hai la pessima idea di andare a vedere in Internet qualche notizia su di
loro, allora cominci a capire che qui niente è semplice: prima di tutto
Internet inchioda le persone inesorabilmente a un passato lontanissimo, penso
ancora a Giovanni Donatiello, che è in galera da 29 anni, e se leggi le notizie
dai vari siti in lui puoi vedere solo un feroce criminale. Poi fai due conti:
oggi ha 54 anni, quindi è in carcere ininterrottamente da quando ne aveva 24,
può darsi che fosse un genio del male già a vent’anni, ma davvero è rimasto
lo stesso di allora?
Da
giornalista posso dire che di notizie sparate ne ho viste troppe in questi anni,
ma non sono una sprovveduta, non penso nemmeno che dei modi gentili siano
sinonimo di brava persona. E allora comincio a districarmi e a fare ordine in
questa marea di pensieri: la prima riflessione è che comunque gli esseri umani
cambiano, e comunque dopo tanti anni di galera disumana se uno riesce a
comportarsi ancora in modo umano vuol dire che ha dentro di sé delle riserve di
umanità non indifferenti; la seconda è che la sfida della rieducazione,
l’idea di una pena che deve tendere a far ripensare alle proprie scelte e ai
propri comportamenti non esclude nessuno, e anzi è interessante proprio se
riguarda “i più cattivi”, quelli che sono dati per persi per sempre.
Dalla
“minimizzazione” della responsabilità a un percorso di consapevolezza
Mi
è capitato più di una volta, intorno al tavolo della mia redazione, di
ironizzare sul fatto che, mentre i detenuti “comuni” che fanno parte di
Ristretti sono abituati ad assumersi le loro responsabilità e a raccontarsi
spietatamente di fronte agli studenti, i detenuti dell’Alta Sicurezza sono
finiti in carcere sempre per colpa di qualcun altro, e c’è sempre un pentito
che li ha “messi in mezzo” a vicende di cui loro non sapevano nulla. Poi ho
cominciato anch’io a riflettere che non voglio e non posso semplicemente
pensare che chi ha una storia di anni di 41 bis e poi anni di trasferimenti,
devastazioni, azzeramento di ogni speranza possa venire qui a farmi la
“revisione critica del suo passato deviante”.
Penso
che si debba prima lavorare per ricostruire le loro vite, per abituare le
persone a scavarsi dentro, per aiutarle a fermarsi a riflettere e avere il
coraggio di mettere in crisi le loro rocciose certezze: perché la pena comincia
ad avere un significato se costringe non alla rabbia, ma alla riflessività, e
in questo senso allora a Ristretti siamo sulla buona strada. Qualche giorno fa,
per esempio, Giuseppe mi ha detto che si sente pronto a provare a raccontare la
sua storia agli studenti, e per esercitarsi ha cercato di scriverla, e io ho
colto tutta la fatica e lo sforzo di un uomo che ha cominciato a mettere in
discussione un passato pesante, e la paura di perdere di nuovo tutto:
“Mi
chiamo Giuseppe Zagari e da circa cinque anni mi trovo in questo
istituto di Padova, dove di recente ho intrapreso un percorso molto
importante nella redazione di Ristretti Orizzonti, mettendomi in
gioco e facendo autocritica del mio poco piacevole passato. Ora sento
dire che la sezione in cui mi trovo sarà chiusa e tutti i
detenuti saranno tradotti. Non so, per questo mi domando e vi domando,
cosa deve fare un uomo per dimostrare che non è più ciò che è
stato un tempo?”.
Riprendersi
le parole, riprendersi la vita
Quando
ho sentito per la prima volta raccontare dai detenuti dell’Alta Sicurezza che
abbiamo coinvolto in redazione che cos’è la vita al 41 bis non mi è mai
venuto il dubbio nemmeno per un attimo che in quei racconti ci fossero delle
forzature, delle esagerazioni: a distanza di anni era talmente forte la
sofferenza e l’angoscia di chi raccontava, che non lasciava margine a dubbi o
sospetti.
Mi
sono sempre domandata se chi condanna al 41 bis, chi decreta che un essere umano
può stare ancora un anno, e un altro, e un altro ancora in quelle condizioni
abbia mai visto da vicino cinque minuti di quella vita. Un giorno poi mi è
capitato di vedere un telefilm americano in cui un poliziotto coglieva nello
sguardo di un prigioniero, dopo anni di isolamento totale, un tale abisso di
dolore e di perdita di umanità che decideva per una settimana di farsi
rinchiudere per sperimentare quella condizione, e ne usciva come pazzo. Ho
pensato che sarebbe sufficiente far vedere a magistrati e carcerieri non dico il
vero
41 bis, ma anche solo quel film (Law and order, Unità vittime speciali,
“Solitudine”), e forse qualcuno non reggerebbe all’impatto, perché
l’isolamento è bestiale anche se solo raffigurato in una finzione.
Ma
quando è la realtà come nel racconto di Biagio Campailla, io mi sono sentita
semplicemente fortunata di aver ascoltato quel racconto, perché è stato come
costruirmi gli anticorpi contro qualsiasi tentazione di sostenere la necessità
dei regimi speciali in nome della lotta alla mafia. Anzi della guerra alla
mafia, perché capisco che è l’idea di essere in guerra che aiuta qualcuno a
giustificare l’orrore esercitato sui “nemici”:
“Con
gli anni preferivo stare sempre più chiuso in cella, non mi
piaceva neppure andare al passeggio in quella misera ora d’aria, mi ero
creato il mio mondo, mi sentivo più “felice” nel rimanere dentro
quelle quattro mura buie, potevo fare i miei discorsi da solo, potevo
creare le mie palline di carta e far finta che giocavo a
Carambola. (…) Con il tempo questo mi ha portato a non parlare più con
nessuno, sono arrivato al punto che quando facevo quel misero
colloquio di un’ora al mese con la mia famiglia non sapevo più
dialogare, era diventata una tortura, volevo solamente tornare
nella mia cella in modo che potevo fare i miei ragionamenti da solo”.
Ripartire
dai giudici più amorevolmente implacabili: i figli
A
Ristretti si usano con attenzione, rispetto, pudore e amore le parole. Con noi i
detenuti dell’Alta Sicurezza hanno sentito forse per la prima volta i loro
figli raccontare in pubblico le sofferenze patite, la vergogna, la paura, nella
consapevolezza che dare voce alla propria sofferenza aiuta a non lasciarsene
soffocare. Con noi hanno riflettuto prima di tutto sulla loro responsabilità,
senza darsi alibi, senza accusare sempre lo Stato, le Istituzioni, gli Altri
delle proprie scelte sbagliate. Ma è innegabile che quei figli che vedono
trattar male i loro padri non possono rispettare quelle istituzioni, che non
sanno prendersi cura in modo dignitoso dei loro famigliari.
Ricostruire
le famiglie significa anche ricostruire il rispetto delle istituzioni, ma se si
smantella una delle poche sezioni di Alta Sicurezza dove le persone fanno un
percorso reale di consapevolezza, come è quella di Padova, se si distrugge
quella credibilità che lo Stato aveva dimostrato, usando un po’ di umanità
al posto della dubbia civiltà di regimi come il 41 bis, ci si dimentica che così
si finisce per spezzare anche i legami famigliari “sani”, come quelli di cui
parla Gaetano Fiandaca nella sua testimonianza: “
Trovo
che questi trasferimenti avvengano senza tenere minimamente in considerazione i
detenuti come esseri umani, né le famiglie che devono pellegrinare su e giù
per l’Italia per andare a trovare il loro caro. E sono proprio queste
condizioni di detenzione che spesso causano molti allontanamenti fra i detenuti
e le loro famiglie. Forse a quasi 50 anni sono ancora un po’ ingenuo a non
capire che queste lunghe distanze hanno solo il fine di creare una vera e
propria rottura con ogni affetto familiare”.
Ricordo
un piccolo dettaglio del nostro lavoro di questi ultimi anni con i detenuti
dell’A.S., quando la redazione di Ristretti Orizzonti, “martellando” il
direttore per strappare delle condizioni più umane per gli incontri con i
famigliari, è riuscita a ottenere i colloqui lunghi per pranzare con le proprie
famiglie alla domenica. L’esperienza più incredibile è stata senz’altro il
primo pranzo dell’Alta Sicurezza: persone adulte che per la prima volta si
scioglievano nella gioia delle prime fotografie della loro vita con i nipotini,
uomini induriti che si commuovevano per aver giocato in una fredda palestra e
per aver mangiato insieme ai loro cari intorno a un tavolo, “come una famiglia
vera”. Certo sento già tanti ricordarmi che queste persone hanno fatto forse
cose orribili: ma qualcuno pensa davvero che abbia un senso all’orrore
rispondere con altro orrore, che si possa essere persone “buone” punendo chi
ci fa del male con una stessa quantità di male?
Abbiamo
pensato di salvarci l’anima sostituendo la pena di morte con l’ergastolo,
c’è voluto Papa Francesco per svelare questa ipocrisia, e definire
l’ergastolo una “pena di morte nascosta”, per chi la subisce ma anche per
la sua famiglia.
Dal
“contesto” che giustifica al “contesto” che spiega
È
quasi un miracolo tirar fuori le persone dal ghetto delle sezioni di Alta
Sicurezza e “accompagnarle” a un confronto serio con la società vera, con
le migliaia di studenti che si siedono nel corso dell’anno davanti ai detenuti
e li interrogano spietatamente sulle loro vite. E li interrogano perché così
abbiamo deciso noi di Ristretti, che il confronto cioè deve avvenire su come si
può finire a commettere reati, e non semplicemente su quanto male si sta in
carcere. E un piccolo miracolo è per esempio che chi, come Carmelo Musumeci,
racconta il “contesto” in cui è nata la sua carriera criminale, la Sicilia
povera di una famiglia così poco abituata alla legalità, che qualsiasi
poliziotto o vigile urbano incontrato in piazza era motivo per dire ai bambini
“Attenzione, quello è l’uomo nero”, poi però arriva ad ammettere che il
contesto non basta, che la scelta è comunque fatta dagli esseri umani, e che
tante persone nelle sue stesse condizioni di miseria sono riuscite a fare scelte
diverse da quelle criminali. Carmelo così descrive l’impatto di un detenuto
di Alta Sicurezza con le scuole:
“Non
è per nulla facile per i detenuti raccontare il peggio della loro vita, ma
penso anche che sia un modo terapeutico per prendere le distanze dal proprio
passato e riconciliarsi con se stessi. Penso che parlare a dei ragazzi aiuti a
formarsi una coscienza di sé e del significato del male fatto agli altri. E
guardare gli sguardi e gli occhi innocenti dei ragazzi aiuta molto ciascuno di
noi a capire quali sono state le ragioni dell’odio, della rabbia, della
violenza dei nostri reati più di tanti inutili anni di carcere senza fare nulla”.
Un
progetto, quello con le scuole, che si potrebbe definire “smonta alibi”,
perché un imputato certo potrà avvalersi della facoltà di non rispondere con
i giudici, ma è difficile farlo di fronte a dei ragazzi che potrebbero essere i
tuoi figli, e che come loro non accettano risposte vaghe, prive di
consapevolezza, improntate a una strenua autodifesa di se stessi e delle proprie
scelte.
Dalla
“non cultura” al piacere della cultura
Non
sono così ingenua da pensare che le persone che arrivano da quella che io
chiamo non tanto “cultura mafiosa”, quanto assenza di cultura delle
organizzazioni criminali, scoprano improvvisamente il “piacere dell’onestà”
e della cultura vera. Però ho visto tante volte come la cultura in carcere
possa diventare davvero uno strumento di emancipazione, e lo possa doppiamente
in queste sezioni di Alta
Sicurezza,
piene di uomini logorati nel fisico da anni di carcere duro e con strumenti
culturali spesso poverissimi. L’esperienza di Ristretti è volta a introdurre
in queste sezioni ghetto, immobili da anni nonostante l’apparente movimento
dei trasferimenti continui, la complessità del confronto culturale, la forza di
rinunciare alle proprie certezze per mettersi in piazza con le proprie paure, i
dubbi, la fragilità. Scoprirsi uomini fragili è una grande conquista, scuotere
le proprie sicurezze anche. Quando per esempio Tommaso Romeo scrive che per lui
accettare di parlare con il giudice di Sorveglianza è stato uno stravolgimento
delle sue convinzioni, fa una riflessione che merita di essere
sottolineata, un cambio di mentalità che per lui ha un valore enorme, e
lo ha anche per noi che lo abbiamo accompagnato in questo percorso di scoperta
del “piacere del reinserimento”:
“Nella
sezione AS della Casa di reclusione di Padova sono arrivato dopo aver trascorso
sedici anni di carcere, di cui otto sottoposto al regime del 41 bis. In quei
sedici anni non avevo mai incontrato un giudice di Sorveglianza, ammetto che
allora vedevo tale figura come un nemico, e per quanto riguarda gli educatori e
i volontari, non solo non li avevo mai incontrati, ma nemmeno sapevo della loro
esistenza. Comincio allora ad avere un’altra visione, così mi decido a fare
la prima richiesta a conferire con il giudice di Sorveglianza, in poco tempo
accetto volentieri il reinserimento, tanto che quando mi viene proposto di
partecipare al gruppo di discussione di Ristretti Orizzonti e al corso di
scrittura accolgo con gioia questa proposta, adesso sono tre anni che frequento
queste due attività che mi hanno aiutato ancora di più a riavvicinarmi alla
società esterna”.
“Proteggere
dai suicidi” in carcere si può e si deve
Al
seminario “Per qualche metro e un po’ di amore in più”, che abbiamo di
recente organizzato in carcere, ho visto le figlie di ergastolani ascoltare con
ansia l’intervento di Diego De Leo, psichiatra, uno dei massimi esperti di
suicidi, quando parlava di “protezione dai suicidi” e sottolineava che,
“migliorare
le comunicazioni, migliorare le opportunità di supporto, migliorare quella
possibilità di essere compresi emozionalmente anche quando i meccanismi di
difesa istituzionale vogliono impedircelo, evidentemente un aiuto alla
sopportazione della vita in carcere questo lo può fornire, quindi da questo
punto di vista la “connessione”, la relazione con gli altri anche
all’interno del carcere acquisisce una portata veramente importante”.
L’ansia
di quelle figlie è giustificata, perché il destino dei loro padri è
fortemente a rischio. Che succede infatti quando le “connessioni”, le
relazioni faticosamente costruite, come è avvenuto a Padova, vengono recise
all’improvviso da una comunicazione ufficiale che dice “prossima
destinazione Parma, Sulmona, Asti, Livorno, Oristano”? Succede che se si
tratta di detenuti dei circuiti di Alta Sicurezza probabilmente non gliene frega
niente a nessuno o quasi, succede che le famiglie continuano a essere fatte a
pezzi nell’indifferenza generale, succede come racconta Suela, la figlia di un
detenuto, che,
“mentre
coloro che davano l’ordine di trasferire mio padre dormivano sonni tranquilli
con i loro figli nelle rispettive camerette, io ero nei treni per viaggiare
tutta la notte con chiunque si sedesse di fianco a me ed a mia mamma, ma nessuno
si preoccupava del fatto che poteva accaderci di tutto, tanto io ero la figlia
di un delinquente”.
Ma
quale attenzione c’è in carcere nel “proteggere” le persone dal rischio
suicidio, se non si capisce che un uomo sarà stato anche brutale, malvagio
forse nella sua vita, ma venti o trent’anni di carcere duro fiaccano le
persone e le rendono fragili e incapaci di reagire di fronte all’ennesima
rottura delle relazioni che si erano faticosamente costruite?
Vittime
“Mi
chiamo Silvia Giralucci, sono cresciuta orfana di padre da quando avevo tre
anni, mio padre è stato ucciso dalle Brigate Rosse. Tanti anni fa seguivo come
giornalista un’esperienza di teatro carcere, e c’era uno dei detenuti in
permesso che giocava con dei bambini, e io che ero ancora abbastanza severa ho
pensato che si era fatto dare il permesso per fare le prove e invece stava a
perdere tempo, ma qualcuno mi ha spiegato che quei due bambini erano i suoi
figli ed era la prima volta che giocava con loro. Per me è stato un
capovolgimento di prospettiva che mi ha veramente ferita, perché mi sono resa
conto che quei bambini erano dei bambini che come me venivano privati del
piacere e del bisogno di stare con una figura paterna, che era qualcosa di cui
nessuno li avrebbe mai risarciti, che non erano colpevoli di niente e che
avrebbero patito le conseguenze di questa cosa per il resto della propria vita,
e che questa cosa gliela stavamo infliggendo noi, i buoni, che era perfettamente
legale e chenessuno aveva pena di loro. È stato l’inizio di un percorso di
ripensamento sul senso del carcere, il senso della pena”.
Stare a Ristretti non è facile, perché poi si incontrano persone come Silvia Giralucci, che è una vittima che certo il rancore e l’odio li ha rielaborati, ma ha una sua giusta durezza verso chi ha commesso reati. A Ristretti non si può essere perennemente in fuga dalla propria responsabilità, come avviene tante volte quando si sconta la pena in modo passivo, perché il percorso di confronto con le vittime non permette ai “carnefici” di essere indulgenti con se stessi. E un po’ alla volta, faticosamente, anche i detenuti dell’Alta Sicurezza stanno imparando cosa significa davvero “guardare la realtà con gli occhi dell’altro”, cercare di capire come si sente chi la violenza la subisce, chi dopo aver provato la paura di essere stato vittima di un reato, quella paura non se la scrolla più di dosso. Mi viene da dire però che “guardare la realtà con gli occhi dell’altro” non è una formula vuota, è un esercizio fondamentale che dovrebbero fare anche le persone che si occupano di spostare i detenuti dei circuiti di Alta Sicurezza da un carcere all’altro, e di negargli per anni la declassificazione: può darsi che si tratti di decisioni ineccepibili, di prudenza, di sicurezza, può darsi, ma per non dimenticarsi mai che si tratta pur sempre di uomini, sarebbe importante che con questi uomini parlassero, che li guardassero in faccia, che provassero ad ascoltarli.