Capitolo terzo:
Con
gli occhi delle donne
“Riconoscere
la violenza è il primo passo verso la guarigione. Qualunque atteggiamento che
ponga sulla vittima la colpa della violenza subita può essere nefasto per
l’elaborazione di questo grave lutto che la donna o il bambino comunque dovrà
elaborare nel corso del tempo. Il grande allarme è nella coppia, lo leggiamo
purtroppo ogni giorno”: a parlare di violenza è Alessandra Kustermann,
ginecologa in prima linea nella lotta contro tutte le violenze, fondatrice a
Milano del Soccorso Violenza Sessuale.
Ma
non basta soccorrere le donne, non ha senso affrontare questa questione in
termini di pene più pesanti, bisogna parlare di prevenzione, bisogna cambiare
la percezione di questo problema sociale, “immaginato a torto come qualcosa di
lontano dalla cosiddetta normalità, frutto di situazioni di miseria e povertà”.
Nella
vita si può arrivare a compiere gesti mostruosi
Parlarne
può aiutare a capire quali fatti, quali sofferenze, quali errori nelle nostre
famiglie possono portare a far esplodere certe situazioni, e se c’è un modo
per fermarli, per disinnescarli
di
Ulderico Galassini,
Ristretti Orizzonti
Non
è facile raccontare il peggio della propria vita, soprattutto per me che con il
mio gesto ho distrutto tutto quello in cui credevo. Io ho iniziato a far parte
della redazione di Ristretti Orizzonti nell’aprile del 2010, ma anche se da
subito ho capito che il progetto di confronto tra la Scuola e il Carcere era
qualcosa di utile e importante, solo dopo un anno di incontri ho trovato il
coraggio di parlare agli studenti. Vedevo mio figlio tra loro e mi bloccavo, poi
mi sono detto: “Ma se tra di loro ci fosse davvero mio figlio a chiedermi
perché?”. Ecco che allora ho deciso di espormi a partire da una riflessione
sul mio reato, che mi aiutasse a capire ciò che poteva aver trasformato una
vita che consideravo normale, in una vera tragedia, con la distruzione della mia
famiglia. Io ho superato tutti i limiti e in quel momento non ho percepito che
potevo arrivare a compiere atti così gravi. Non c’è stato per me un
campanello d’allarme, o per lo meno non sono riuscito a coglierlo, e mi sono
fidato forse dei farmaci che prendevo, abusandone, perché in un momento di
difficoltà personale mi permettevano di fare tutto quello che avevo fatto
prima, senza aiutarmi però a rendermi conto che ero caduto in una depressione e
che non riuscivo a reggere il carico di stress che mi pesava addosso. Forse
dovevo coinvolgere familiari e amici parlando con loro dei pesi che pensavo di
poter e saper gestire da solo, con una grande presunzione e incapacità di
ammettere le mie debolezze, e anche le paure che lavoravano dentro di me non
facendomi mai percepire il rischio che correvo. Ma chi di noi pensa che nella
propria famiglia, se non ci sono mai stati scontri di nessun genere, si possa
arrivare a compiere un reato come il mio, contro mia moglie, mio figlio e me
stesso? Questo dialogo con gli studenti poi si è trasformato anche in un
continuo percorso di ulteriori riflessioni
che
scaturivano dalle domande o dalle osservazioni che ricevevo da loro, e quindi ho
trovato in un certo senso un percorso di autoanalisi, che non vuol significare
inventarsi giustificazioni al più tremendo dei reati che un uomo possa
compiere, ma aiutare altri, attraverso la propria tragica esperienza, a cercare
delle forme di prevenzione.
Ritengo
che questo sia un percorso difficile, perché ogni volta ti costringe a
ripercorrere la parte più nera di quella tremenda giornata, ma se serve a far
capire e far pensare che nella vita si può arrivarea compiere gesti mostruosi,
bene, io sono disposto a fare questo percorso. E penso che una ulteriore forma
di prevenzione si potrebbe attuare mettendo assieme non i numeri dei
“femminicidi” ma un’analisi delle singole storie, per capire quali fatti,
quali sofferenze, quali errori portano a far esplodere la situazione, e se c’è
un modo per fermarli, per disinnescarli.
La
cosa certa è che anche dopo il mio fine pena resterà sempre presente dentro di
me l’angoscia per un gesto imprevedibile, per cui ho causato la morte
prematura di mia moglie, dopo 35 anni vissuti assieme
con
tanti obiettivi raggiunti, e devo solo ringraziare mio figlio che non ha voluto
girarmi le spalle e lasciarmi solo.
Io
ti cambierò, io ti salverò, io farò di te un altro uomo
A
volte in questo loro voler continuare a illudersi che quella storia è la storia
della loro vita e che loro potranno modificare quell’uomo, queste donne
maltrattate scrivono, anche, la loro condanna a morte. Non necessariamente una
morte fisica, ma certamente una morte psichica
di
Alessandra Kustermann,
ginecologa, Direttore di UOC
Pronto
Soccorso Ostetrico/ Ginecologico e Responsabile
Soccorso
Violenza Sessuale e Domestica della Fondazione
IRCCS
CA’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, due servizi
all’avanguardia
in Italia
Ogni
storia ovviamente è a sé stante e in ogni vita c’è una complessità tale,
che è impossibile riuscire a catalogare in un reato che corrisponda alla
complessità dell’essere umano che è dentro e dietro a quel reato.
Quindi
non ho intenzione di entrare nel merito delle singole storie, ma vorrei
ragionare più in generale sull’origine della violenza contro le donne. Voi
ricorderete tutti la frase della Genesi, quando Dio si rivolge a Eva che ha
rubato il frutto della conoscenza e che si è ribellata al volere divino che
proibiva di prendere quel solo frutto. Dio la maledice, e maledice con lei tutte
le donne che seguiranno. La frase è molto forte: “Renderò tanto il tuo
dolore e tale il tuo travaglio; nello spasmo partorirai i figli e verso il tuo
uomo ti spingerà il desiderio, ma lui ti dominerà”.
Purtroppo
questo dominio dell’uomo sulla donna, legittimato addirittura da Dio, accomuna
le tre
maggiori
religioni monoteistiche dell’umanità. Sulla Bibbia e la Genesi poggiano le
basi della cultura della nostra civiltà. Nel mondo occidentale, come anche in
oriente, vi è una difficoltà reale per le donne nella vita quotidiana,
difficoltà che pian piano per alcune sono iniziate a diminuire con gli anni.
Sappiamo
che le donne stanno iniziando a sfondare il famoso tetto di cristallo che
impedisce loro di arrivare in posizioni dominanti, anche se le discriminazioni
negative continuano a sussistere per la maggioranza del genere femminile. Ma
nell’ambito della famiglia questa sudditanza di fatto, auspicata peraltro da
molti uomini, ancora esiste.
La
mia lunga esperienza (ormai ho visto o conosciute le storie di 15 mila donne
vittime di violenza sessuale e domestica), pur lasciandomi la consapevolezza che
ogni donna è diversa, così come ogni autore di violenza è diverso, mi porta a
riflettere su alcuni elementi che le accomunano: una progressiva perdita del
loro ruolo sociale, della loro capacità di difendersi dalle sopraffazioni, la
loro difficoltà di affermare che prima di tutto c’è un “io” anche nella
coppia e questo io va rispettato.
Queste
donne perdono progressivamente autostima, in una storia che in genere è una
storia di maltrattamento che va avanti da anni, è una storia permeata di senso
di possesso, di desiderio di dominio, ma anche, in alcuni casi, di una forte
gelosia. Non tutti i maltrattanti diventano poi degli assassini delle loro
partner, infatti, è un evento estremamente raro l’omicidio, ma sicuramente
c’è qualche cosa in queste storie che inizia da lontano, che inizia fin quasi
nelle prime fasi felici della relazione, che accomuna gli uomini e le donne che
fanno parte di queste coppie disfunzionali ed è un divario, sempre più
profondo, tra le aspettative dell’una e le aspettative dell’altro.
Vorrei
raccontarvi una breve favola per rendere in qualche modo più lieve questo clima
pesante che si crea intorno alla parola “maltrattamento”. È una favola che
ho tratto da un libro di Concita De Gregorio sulle vittime di violenza, sulle
donne che subiscono violenza all’interno della famiglia, e questa favola
catalana, secondo me molto carina, ben rappresenta la differenza tra i due
generi.
C’è
una topolina che è addetta alle pulizie delle scale in un palazzo, pulisce,
pulisce tutti i giorni. È una topolina molto umile, forse anche molto bruttina.
Un giorno trova una moneta scintillante sulle scale che sta pulendo, raccoglie
la moneta e inizia a pensare che cosa potrà fare con questa moneta, e decide di
crearsi una spilla che la renderà immediatamente molto bella. A questo punto ha
molti pretendenti alla sua meno, e lei decide che sceglierà quello che è in
grado di conquistarla. Arrivano tanti animali, arriva l’asino che raglia e lei
dice: no, il raglio dell’asino non lo posso tollerare. Arriva un cane molto
affettuoso e scodinzolante, ma con questa voce un po’ sgradevole che possono
avere i cani che abbaiano, e lei dice che questo cane proprio non le interessa.
Arriva un bue, e il bue non lo sopporta perché è troppo grosso, le fa paura.
Finalmente arriva un gatto, un gatto suadente, incredibile, avete presenti le
voci dei gatti come possono essere melodiose. Questo gatto le miagola intorno
finché la topolina dice: bene, questo è il mio sposo. Tutti i topi si
precipitano per le scale del palazzo dicendole “Ma tu sei pazza, non puoi
sposare un gatto, un gatto ha nella sua natura di mangiare topi”, ma lei è
convinta che la sua bellezza lo farà cambiare, che la sua capacità d’amore
lo farà cambiare. Alla fine si sposano, i topi mal volentieri partecipano al
banchetto di nozze, arriva la prima notte di nozze e alla mattina dopo la
topolina non c’è più, il gatto se l’è mangiata.
Allora,
“Io ti cambierò” è purtroppo una delle aspirazioni femminili più
irritanti per i maschi e più pericolose per le stesse donne. La relazione
amorosa non può prevedere la capacità di modificare completamente l’essere
umano che si è scelto come proprio partner, ma purtroppo questa tendenza a
immaginare che “io ti cambierò, io ti salverò, io farò di te un altro uomo,
un uomo migliore”, questo atteggiamento da crocerossina, se volete, che
accomuna molte donne, può determinare un’incapacità ad accettare la dura
realtà che il loro partner non cambierà mai. Ci sono anche donne diverse, ma
ugualmente maltrattate, che invece deprezzano costantemente il loro partner, che
ripetono “tu non sei in grado di guadagnare a sufficienza, tu sei un fallito,
la casa in cui ci fai vivere è brutta …”. Insomma, capisco che alla base di
una storia di maltrattamento ci possano essere donne e uomini molto dissimili,
ma certamente c’è un diritto umano primordiale che va tutelato: nessuno
dovrebbe essere percosso, sopraffatto fisicamente. Chi maltratta è comunque
autore di un reato. In una relazione amorosa ci si affida all’altro, così
come si affida l’uomo alla donna altrettanto la donna si affida all’uomo.
Questo affidarsi però non vuol dire cieca obbedienza, annullamento del sé.
Spesso
le donne riportano storie iniziate come grandi amori, narrano “lui era il mio
principe azzurro, esattamente l’uomo che sognavo, era buono, era diverso dagli
altri. Poi, pian piano, nel corso della relazione si è modificato, è diventato
un altro, è diventato più cattivo. Ma è la vita che l’ha reso cattivo, lui
sarebbe un uomo buono”.
Ecco
mentre sentivo voi che parlavate di vittime, di desiderio di vendetta delle
vittime, mi rendevo conto che nelle storie che mi vengono raccontate dalle donne
manca invece proprio il desiderio di vendetta. C’è un estremo dolore per la
fine della loro relazione amorosa, per le botte e le umiliazioni che ricevono,
ma c’è anche un apprezzamento nei confronti dei loro partner, un ricordo del
pregresso amore che purtroppo perdura ancora in parte, nonostante le delusioni.
Purtroppo perché a volte in questo loro voler continuare a illudersi che quella
storia è la storia della loro vita e che loro potranno modificare quell’uomo,
queste donne scrivono, anche, la loro condanna a morte. Non necessariamente una
morte fisica, ma certamente una morte psichica.
Sono
donne che diventano progressivamente sempre più fragili, sempre più incapaci
di difendersi. Ho conosciuto donne apparentemente di successo che sono dirigenti
d’azienda, avvocate o giornaliste, ma che sono ugualmente donne maltrattate.
Non hanno in comune, quindi, una assenza di cultura o una più generale
incapacità di affermarsi nel mondo, ma è nella loro relazione affettiva che
diventano incapaci di auto-difesa e che finiscono per diventare così fragili.
Sono relazioni amorose che iniziano magari quando loro hanno 20, 25, 30 anni e
perdurano per anni dopo, nonostante i maltrattamenti.
Prima
che una donna decida di dire basta secondo una statistica dei centri
antiviolenza hanno avuto almeno 15 accessi al Pronto Soccorso per percosse da
parte del marito e quasi sempre non l’hanno mai dichiarato nemmeno ai medici
che le hanno curate. Hanno avuto figli con quell’uomo, hanno accettato di
essere umiliate, hanno perdonato i suoi tradimenti, lo temono e hanno accettato
di tutto pur di salvare quello che ritenevano il fine della loro vita, la loro
famiglia. Molte hanno un senso del valore della famiglia molto forte e sentono
la responsabilità di tenerla unita completamente sulle loro spalle. Confesso
che questo forte senso della famiglia, da tenere unita ad ogni costo, mi manca,
e mi rende difficile identificarmi con loro. Penso che prima di tutto
bisognerebbe essere se stessi, accettarsi e avere coscienza del proprio valore,
e solo così ci si può realizzare in una relazione amorosa, senza annullarsi
per l’altro.
Resta
il fatto che queste donne comunque non desiderano vendetta, infatti quasi mai le
donne maltrattate denunciano. In qualche modo, dato che il reato di
maltrattamento in famiglia è procedibile d’ufficio, denunciano i medici che
le curano, le forze dell’ordine se intervengono nell’immediato, ma raramente
sono le donne che volontariamente denunciano il loro partner. Se è per questo
le donne, in Italia come nel resto del mondo, non denunciano nemmeno la violenza
sessuale, reato compiuto magari addirittura da estranei, dunque teoricamente più
facile da denunciare. Mentre è evidente che una violenza sessuale compiuta dal
proprio partner o ex partner è più difficile da raccontare.
Una
donna su tre non dirà mai a nessuno, nemmeno alla propria madre o alla migliore
amica, che ha subito una violenza dal proprio partner e una su cinque non lo dirà
a nessuno se la violenza l’ha subita da un non partner.
Questo
vuol dire che è nel silenzio che si consuma la violenza. Le donne preferiscono
tacere e rinunciare ad affermare il diritto che gli è stato negato
all’autonomia, alla libera scelta, all’autodeterminazione rispetto alla
sessualità. In questa loro incapacità di affermare che quell’uomo è un uomo
che ha fatto loro del male, c’è anche la loro forza, quella che può
consentire loro di ricominciare, magari appunto con lo stesso uomo. Conosco
donne che si sono rimesse con lo stesso uomo al termine del periodo di
carcerazione dopo una condanna per maltrattamenti intrafamiliari. Il problema è
se ricominciano la relazione affettiva con una maggiore consapevolezza di sé e
con una posizione di maggiore forza o se permane la stessa identica debolezza
che hanno avuto nella precedente relazione maltrattante.
Per
questo credo che un trattamento degli uomini violenti con la propria partner
andrebbe intrapreso già all’interno delle carceri. Come sapete, le pene sono
state aumentate per chi compie maltrattamenti in famiglia, sono state introdotte
delle aggravanti del reato importanti come avere agito il maltrattamento contro
la propria donna in presenza di minori, e queste aggravanti possono portare a
delle pene, specialmente se si sommano magari pure episodi di violenza sessuale,
anche lunghe. Il tempo della detenzione potrebbe essere utilmente utilizzato per
aiutare il reo a modificare la sua condotta nelle relazioni intime.
In
un recente caso, come esempio, l’uomo ha ricevuto una condanna a 8 anni e 6
mesi e volete sapere
quale
è stata la reazione della donna dopo la sentenza? È stata “ma poverino”,
nonostante che avesse ormai deciso di interrompere la relazione con lui.
Tuttavia la consapevolezza che la sua denuncia avesse determinato la condanna a
una pena detentiva così lunga le sembrava troppo difficile da accettare. Alcune
donne sviluppano una incredibile capacità di tollerare il dolore delle percosse
e delle umiliazioni, come se si abituassero pian piano a un veleno e il
maltrattamento diventasse un linguaggio amoroso accettato. Molte volte queste
donne hanno storie di depressione, che non sempre sono preesistenti al
maltrattamento, ma magari coesistono con il maltrattamento o addirittura ne sono
la conseguenza.
Le
donne che subiscono violenza o maltrattamento sono forse le uniche vittime che
provano vergogna per quello che hanno subito e non desiderano vendicarsi
sull’autore del reato.
Bisognerebbe
riuscire a prevenire il maltrattamento, iniziando un trattamento nella fase in
cui si limita ancora a un conflitto familiare. In questa fase il trattamento può
coinvolgere ambedue i partner della coppia. Mentre se si interviene in una fase
in cui ormai il conflitto familiare è sfociato in un maltrattamento a tutti gli
effetti, bisognerebbe offrire un trattamento solo agli autori di questo reato,
che preveda anche una sorta di rieducazione sentimentale. Altrimenti
non ci sarà mai un lieto fine, perché un uomo maltrattante, pur condannato a
una pena detentiva, continuerà a pensare di aver subito una condanna ingiusta,
dato che la cultura diffusa gli insegna che in fondo non ha fatto niente di
male. C’è una collusione con gli altri uomini che è molto evidente, permeata
dai luoghi comuni e dalla prassi che consente il dominio di un genere
sull’altro, anche e soprattutto nelle relazioni affettive. È questo insieme
di fattori culturali e individuali che impedisce ai maltrattanti di sentirsi
colpevoli, per cui la pena detentiva difficilmente sortisce un effetto positivo
in termini sociali e la frequenza di recidiva è estremamente elevata, o con la
stessa donna o con un’altra incontrata successivamente. Spesso, quando parlo
in un convegno di questi temi e sono presenti uomini, mi capita che qualcuno di
loro mi dica “ma anche le donne maltrattano” o assisto ai loro bisbigli
ironici sul fatto che loro sono maltrattati dalla propria partner. Sì certo,
rispondo ogni volta, anche le donne possono maltrattare. statisticamente però
maltrattano molto meno degli uomini e sicuramente è raro che maltrattino
fisicamente o che uccidano, forse proprio per un divario di forze tra i due
generi. Comunque non nego che talora possano maltrattare psicologicamente, però
è raro che lo facciano con la stessa acredine continua che viene messa in atto
in un rapporto maltrattante tipico. I maltrattamenti intrafamigliari non possono
essere contrastati, se non si attua una rieducazione dei rei e se non si
diffonde l’idea che l’unica prevenzione efficace prevede un cambiamento
culturale che deve coinvolgere per primi i ragazzini, raccontando fin dalle
scuole materne che la storia dei rapporti tra i sessi non può andare per sempre
così, che il fatto che i maschietti siano più forti e che facciano giochi più
violenti tra di loro, non vuol dire che siano migliori delle “femminucce” in
genere più deboli e più remissive. Insomma che le diversità tra i due generi
sono una ricchezza per l’umanità e che nulla giustifica la prevaricazione e
il dominio di un genere sull’altro.
Nello
stesso tempo desidererei che le leggi, se proprio ci devono essere
delle leggi nuove, non debbano essere leggi tese solo ad aumentare
la pena, ma che in qualche modo introducano meccanismi premiali per chi
accetta di sottoporsi a un trattamento e dimostri di avere modificato il suo
comportamento.
È
chiaro che questo meccanismo premiale può essere previsto solo al termine del
trattamento e solo nei casi in cui si raggiunga una ragionevole certezza che
abbia funzionato. Esistono metodologie di trattamento, adottate da alcuni, per
ora ancora rari, centri italiani, diffuse in Inghilterra, Austria, Canada,
Israele e in molte nazioni del mondo. In Spagna esiste un metodo di trattamento
che dura sei mesi e che sta dando ottimi risultati. Sei mesi sono veramente un
tempo molto breve per riuscire a far comprendere agli autori di questo
comportamento che il maltrattamento è sì un reato grave, che deve
necessariamente prevedere una pena, ma che è un reato che si può evitare di
compiere nuovamente. Altrimenti la storia insegna che un uomo maltrattante uscirà
dal carcere, dopo una detenzione più o meno lunga, ma non sarà in grado di
instaurare una relazione amorosa diversa da quella precedente per una coazione a
ripetere gli stessi comportamenti prevaricanti. Altrettanto purtroppo avviene
per le donne, se quella donna, che è stata vittima di un lungo maltrattamento,
non riesce a recuperare la sua autostima, a iniziare un percorso psicologico di
reale uscita dalla violenza, sarà molto probabile che incontrerà un altro uomo
maltrattante e ricomincerà una relazione affettiva in cui di nuovo sarà
vittima, come se fosse scritto nel suo DNA. Il mio messaggio di speranza trae le
premesse dall’ultima legge promulgata, quella definita sul femminicidio
(parola che aborro perché mi sembra che releghi una donna uccisa dal proprio
uomo in un ruolo inferiore rispetto a chi viene ucciso invece al di fuori di una
relazione di intimità, che ha il diritto di essere chiamato “vittima di
omicidio”), che contiene anche un piano di azione sulla prevenzione e il
contrasto alla violenza domestica, in cui tra l’altro è previsto il
trattamento per gli autori di reato e la possibilità di dare dei benefici
premiali per coloro che hanno aderito e portato avanti un trattamento per il
reato che hanno commesso.
Dall’altra
parte ho chiaro che la speranza può infrangersi contro il muro della mancanza
di stanziamenti economici previsti per mettere a regime in tutta Italia
programmi trattamentali. Insomma la crisi economica incide in modo evidente e
quindi questi programmi, finché restano scritti su un piano di azione, anche se
previsti da una legge non vedranno mai la luce. Di fatto c’è bisogno di un
impegno economico, di una volontà politica di andare alla radice del problema
per evitare che il reato si perpetui.
Solo
se la prevenzione della violenza inizierà nelle scuole, fin dalle scuole
materne, si potrà risolvere il problema della uguaglianza di diritti e doveri
tra uomini e donne nella coppia e nella società, altrimenti la differenza tra i
due generi continuerà a determinare la diffusa consapevolezza che il predominio
maschile è “normale”. Tuttavia l’uguaglianza forse non è quello che le
donne auspicano, quando chiedono uguali opportunità. Vi è una profonda
diversità tra uomo e donna, che è un valore in sé e non ha senso volere
annullarla. Mi preoccupa leggere sui giornali che vi sono sempre più ragazze
che agiscono con violenza nei confronti di altre ragazze, che è sempre più
diffuso il bullismo femminile: mi sembra di assistere a un’omologazione in
negativo invece che in positivo. Vi sono errori nell’educazione dei nostri
giovani, sia in quella messa in atto nelle famiglie che in quella scolastica.
Dato che la scuola ha il compito di promuovere la crescita intellettuale e di
offrire a tutti le stesse possibilità, costituisce anche un elemento di
omologazione positiva. Per cambiare una mentalità diffusa, anche tra le madri,
bisogna prima modificare una cultura che ancora oggi assegna compiti familiari
diversi ai figli in base al loro sesso. Insomma bisognerebbe fare molto di più
e impegnarsi molto di più per ottenere cambiamenti rapidi.
Mi piacerebbe molto vivere in un mondo in cui fosse possibile non chiudere in carcere i maltrattanti, ma metterli agli arresti domiciliari in un’altra casa, ovviamente non nella casa familiare che dovrebbe essere lasciata alla moglie e ai figli, e invitarli a portare a termine un trattamento, con un patto fatto e sottoscritto tra loro e lo Stato. Gli effetti di questo trattamento potrebbero essere talmente positivi da consentire anche la possibilità di ricreare una relazione su nuove basi con la loro partner, ma questo non può essere il motivo per cui viene data l’adesione al trattamento. Insomma potrebbe succedere che sia la stessa donna a decidere di ricominciare una relazione con quell’uomo, ma non può essere questo il fine che si prefigge chi accetta il trattamento. In definitiva, deve essere molto chiaro a chi ha l’onere di legiferare che il carcere non risolve il problema, ma si limita a nasconderlo per un certo periodo.