Capitolo secondo:
Con gli occhi delle vittime
La strada più facile, nelle narrazioni
della cronaca nera, è quella di contribuire a far scattare nei cittadini
l’identificazione con la vittima: siamo dunque tutti potenziali vittime, e
l’idea di poter invece essere noi i figli, genitori, fratelli di un autore di
reato, di un “carnefice” non ci sfiora neppure. Vale allora la pena di
approfondire, fuori da ogni schema, il ruolo delle vittime rispetto alla
giustizia, quello che gli attribuiscono i media, quello che pensano loro stesse,
quello che pensano le persone detenute. Con loro dialogherà un
costituzionalista, Andrea Pugiotto, che sottolinea i rischi legati all’idea di
dare un ruolo diverso alle vittime nel processo e nell’esecuzione della pena:
“Si rischierebbe di privatizzare la giustizia penale: la pubblica accusa, che
esige giustizia pubblica, serve appunto per eliminare l’idea della vendetta.
L’esito del processo non deve guardare
alla soddisfazione o alle aspettative della parte lesa, altrimenti si
arriverebbe al linciaggio”.
I
rapinatori come me non hanno mai pensato di avere delle vittime
E
noi invece alle vittime lo dobbiamo dire, anche se non sono direttamente le
nostre vittime, che abbiamo capito la loro sofferenza e la loro paura, perché
credo che sia una forma di restituzione
di
Bruno Turci, Ristretti Orizzonti
Vorrei
fare una riflessione sulle vittime, sulla percezione che ne abbiamo noi che
abbiamo commesso dei reati abbastanza violenti. Io sono un detenuto condannato a
diversi anni per un cumulo di pene che riguarda reati “contro il
patrimonio”, rapine in banca e reati affini. Mi sembra utile spiegarvi quello
che generalmente è tipico di chi commette reati che non riguardano direttamente
le persone, o magari le abitazioni, il privato. Chi fa una rapina in banca, di
solito non sente grandi sensi di colpa, a me succedeva questo, che mi sentivo
apposto con la società, perché ero convinto di non avere vittime, io rubavo
alla banca, rubavo alle assicurazioni e quindi mi sentivo tranquillo, a me non
mi doveva odiare nessuno, non traumatizzavo nessuno, secondo quella che era la
mia concezione. Il carcere poi non è che mi ha aiutato granché a comprendere
la mia responsabilità, io credo che tutti i rapinatori come me non hanno mai
pensato di avere delle vittime, sicuramente si dicevano: “Cinque minuti di
paura e le persone poi si ritrovano… tanto io i soldi non li rubo ai clienti
della banca o a qualcun altro, ci sono sempre le assicurazioni”. Ma poi in
carcere, durante gli incontri con le scuole, ho capito che la presenza
dell’ALTRO è qualcosa di tangibile, è qualcosa di non trascurabile. Non so
se a qualcuno di voi è mai capitato di essere dentro una banca e ritrovarsi lì
mentre entra uno armato che si porta via i soldi, io ci sono tornato con la
mente quando, durante un incontro con una scuola in redazione, un’insegnante
ha raccontato che è stata vittima indiretta, però sempre vittima, di una
rapina e ha dovuto assistere per 10/15 minuti a persone che sono entrate in
banca armate e si sono portate via i soldi e, chiaramente, durante quei minuti,
mentre quelle persone erano lì dentro, questa professoressa certo non sapeva
chi era entrato, se era una persona che voleva solo il denaro, o se fosse un
pazzo o comunque una persona armata e violenta, che oltre a prendere il denaro
dalla banca, magari poteva fare del male a qualcuno. Ecco, è così che io e
persone che hanno commesso reati come i miei, abbiamo capito che abbiamo fatto
del male veramente. Poi mi è capitato un episodio in famiglia, a un mio
familiare è successa la stessa cosa, quindi ho metabolizzato, ho elaborato un
po’ quello che è successo, ho riflettuto che però le vittime esistono, ogni
reato ha una vittima, e chiaramente noi alle vittime lo dobbiamo dire, anche se
non sono direttamente le nostre vittime, ma lo dobbiamo dire che abbiamo capito
la loro sofferenza e la loro paura, perché credo che sia una forma di
restituzione, che noi della redazione per esempio facciamo proprio con le
scuole. Noi infatti spieghiamo ai ragazzi quali sono i passaggi che ci hanno
condotto a fare certe scelte, la mia vita per esempio è caratterizzata da reati
che sono senz’altro legati a una scelta di vita naturalmente, però quando si
inizia, non lo so quanto una persona possa essere libera in quella scelta, ci
sono spesso fattori “ambientali” che magari inducono a commettere dei reati,
partendo da cose piccole, o che secondo noi sono cose piccole, piccole
trasgressioni, che poi possono portare a uno scivolamento progressivo, per cui
all’inizio siamo inconsapevoli di quello che poi arriveremo a fare, e così è
successo a me. Volevo allora ribadire soltanto questo, che certamente ci sono
reati più gravi e meno gravi, ma ogni reato ha delle vittime. Però, bisogna
anche dire che chi commette un reato ha una storia, non è solo il suo reato, in
pratica io questa storia la racconto ai ragazzi, e sommariamente, in maniera
rapida l’ho raccontata anche a voi, però mi ricordo che ho letto gli articoli
che riguardavano il mio arresto, o le mie condanne, o i miei reati, e sempre
leggevo di un reato, non individuavo una persona, una storia, un percorso anche
criminale, un percorso che però riguarda una persona. Ecco, in quegli articoli
ho letto sempre di un crimine, sicuramente è giusto perché quegli articoli in
fondo parlano del momento in cui è successo il reato, quindi è più difficile
che si possa ricostruire la storia di una persona, però credo che una buona
informazione, come ho imparato a farla io, dovrebbe tener conto di tutto questo.
Sono
cresciuto con un padre in carcere e la rabbia dentro
Avevo
una visione un po’ distorta della vita, dunque ho cominciato a intravedere
nemici attorno a me e così ho iniziato la mia “carriera delinquenziale”
di Lorenzo Sciacca,
Ristretti Orizzonti
Io
questi posti, questo ambiente carcerario, i muri, li conosco da tanti anni. Li
conosco dall’infanzia perché avendo avuto mio padre carcerato, mia mamma era
incinta di me e con questo pancione andava a fare i colloqui a mio padre, dunque
il mio primo ingresso risale a zero anni. C’è un modo di dire che usano
alcuni detenuti, che definisce come “nati in matricola”i bambini il cui
padre li ha riconosciuti in carcere, la matricola è l’ufficio dove ti
registrano al primo ingresso in galera. È un’esperienza che ho vissuto male,
e che mi ha causato un certo odio verso le istituzioni, ma questo perché? Perché
quando ero piccolo, vedendo mio padre dietro a un bancone con in mezzo un vetro,
dove neanche mi poteva prendere in braccio, o quanto meno se lo faceva veniva
richiamato dagli agenti, mi convincevo che in me c’era qualcosa che non andava
e mi chiedevo perché. Quando magari vedevo i genitori di un bambino in classe
con me alle elementari che lo andavano a prendere e io invece non ce l’avevo,
un padre che veniva a prendermi a scuola, perché per me ci doveva essere sempre
una terza persona che me lo accompagnava all’incontro con me, non capivo il
motivo di quella situazione. E così sono cresciuto con la rabbia dentro e
questa è stata un po’ la mia infanzia, ma la mia non vuole essere una
scusante per quello che sono stato, per quello che ho fatto. Anch’io sono in
carcere per reati contro il patrimonio, solo che sono cresciuto con una visione
un po’ distorta della vita, dunque ho cominciato a intravedere nemici attorno
a me e così ho iniziato la mia “carriera delinquenziale”. Ho cominciato con
il carcere minorile e sempre con il solito reato contro il patrimonio. Ho fatto
tanti anni di carcerazione, ho 37 anni, ne ho trascorsi quasi 17 in varie
detenzioni e non ho avuto mai, durante queste detenzioni nelle carceri che ho
girato, una opportunità di rivedermi, di rivedere il mio passato, mettere in
discussione una vita che credevo giusta. Così oggi mi ritrovo a Padova da un
anno e casualmente, non è stata una mia richiesta, però il caso ha voluto che
a Padova mi sono ritrovato in una realtà che è la realtà della redazione di
Ristretti Orizzonti, con tanti progetti tra cui quello con le scuole. Voglio per
finire spiegare l’importanza che sta avendo, l’influenza positiva che sta
avendo questo progetto su di me. Anch’io ero convinto di non avere vittime,
talmente era distorta la mia realtà di vita, ora raccontandomi e rispondendo a
questi ragazzi, che hanno 17/18 anni, metto in discussione una vita intera. Io
voglio anche davvero farvi capire la difficoltà che c’è dietro a questo,
rimettere in discussione se stessi è un lavoro molto duro, faticosissimo perché
ti crolla tutto il tuo essere, quello che sei stato, però io lo faccio, e nel
dolore trovo anche piacere, perché riscopro parecchie cose importanti della
vita. Io oggi, dopo tutte le carcerazioni che ho fatto, trovo finalmente un
senso in questa pena. Ho una condanna definitiva di 30 anni, però quanto meno
sto trovando, ripeto, una utilità della pena.
Stando
senza far niente ho cominciato a sentirmi io la vittima
In
quelle condizioni cercavo solo di sopravvivere, non pensavo mai al male fatto,
l’unica cosa che riuscivo a fare era incattivirmi verso le istituzioni
di
Qamar Abbas, Ristretti Orizzonti
Sono
in carcere per un reato gravissimo, omicidio, che è avvenuto in seguito ad una
rissa. Subito dopo che è successo questo fatto, avevo pensato di andare via
dall’Italia, perché ero sicuro che la vita in Italia per me era finita
nonostante avessi un’esistenza regolare, con una attività in proprio. Però
quando ho parlato con i miei genitori di questo, mio padre mi ha fermato
dicendomi: “Tu hai sbagliato e ti devi costituire. Sono da vent’anni in
Italia e non ho mai avuto problemi con la giustizia, se tu hai sbagliato ti devi
assumere le tue responsabilità e pagare il debito con la giustizia e con la
società”. Mi sono allora costituito e sono stato portato in carcere.
L’impatto con il carcere è stato molto duro, mi hanno chiuso in una cella
prevista per una persona, dove dovevamo però stare in tre. Stando senza far
niente dalla mattina alla sera ho cominciato a sentirmi io la vittima, in quelle
condizioni cercavo solo di sopravvivere, non pensavo mai al male fatto,
l’unica cosa che riuscivo a fare era incattivirmi verso le istituzioni. Quando
sono arrivato qui a Padova ho avuto questa opportunità di frequentare la
redazione di Ristretti Orizzonti, e in redazione ho cominciato a partecipare al
progetto di confronto tra le scuole e il carcere, questo percorso mi è servito
molto, mi ha permesso una grande crescita interiore. Sono cresciuto proprio
confrontandomi con questa piccola parte della società, soprattutto quando gli
studenti fanno le domande profonde, che ti mettono davanti alla tua
responsabilità, e adesso sto cercando di capire come si poteva evitare quella
rissa, e sto tentando di rielaborare il mio passato. Oggi sono consapevole di
aver causatola morte di una persona per mia responsabilità, con tutte le
conseguenze che stanno pagando la mia famiglia e la famiglia della mia vittima.
Ora penso a tutto questo, ma se rimanevo nelle condizioni in cui ero nel primo
carcere sarei diventato peggiore di prima. Ecco cosa comporta un carcere senza
un percorso o invece una carcerazione che ti permette di fare un percorso che ti
fa riflettere.
In
dialogo con Manlio Milani
di
Andrea Pugiotto, Ordinario di Diritto costituzionale all’Università di
Ferrara, Responsabile
scientifico e organizzativo della Scuola di formazione per una consapevole
cultura costituzionale, autore tra l’altro del saggio “Preferirei di
no”. Il pianopericolosamente inclinato della giustizia ripartiva (in Volti
e maschere della pena, a cura di F. Corleone e A. Pugiotto)
Per
non equivocare
Non
è agevole guardare al carcere con gli occhi delle vittime e parlare di quello
che chiamerò paradigma vittimario.
Non
lo è per l’intreccio tra il dolore privato e il momento pubblico della
giustizia e della pena. Un intreccio dove la riflessione giuridica, che per
statuto deve essere logico-razionale, rischia la parte dello schiacciasassi
rispetto al lutto degli altri. Specie oggi e qui dentro, dove sono presenti
familiari di persone uccise e persone responsabili di gravi delitti. Vittime e
carnefici.
Vorrei
allora togliere tutti (e, in primo luogo, me stesso) da una possibile condizione
di imbarazzante disagio. Lo faccio invitandovi a non equivocare la trama della
mia riflessione. Non intendo arrecare offesa ai sentimenti autentici dei parenti
delle vittime. Non intendo affatto mettere le vittime (e le associazioni che ne
difendono la memoria) sul banco degli imputati, al posto degli imputati veri. Ciò
che vorrei dimostrare è, semmai, la strumentalizzazione politica di quel dolore
e delle istanze di quelle realtà associative. Voglio essere ancora più chiaro.
E, per farlo, adopererò parole non mie, che sottoscrivo:
«I
parenti delle vittime, soli o associati, sono stati nei nostri anni protagonisti
di manifestazioni esemplari di coraggio, di abnegazione, di ricerca della verità,
di discrezione. I loro sentimenti di giustizia devono ricevere il riguardo
sincero e non ipocrita della legge. Ma non sono la legge, né la sua fonte
d’ispirazione.
Quando
provano un desiderio di punizione, rivendicano un carcere più duro, pensano
alla galera come a un luogo di espiazione, hanno torto, il più umano dei torti,
ma torto. Chi, nel mondo politico, se ne fa un alibi in favore dell’afflizione
carceraria e dell’inerzia sul ruolo del carcere ha torto, il più losco dei
torti».
[Così, mutatis mutandis, A. Sofri, Le prigioni degli altri, Sellerio,
Palermo, 1993, 138-139]
La
genesi del paradigma vittimario
Cominciamo
dall’inizio: qual è la genesi del paradigma vittimario? La centralità della
vittima s’impone in relazione alla tragedia della Shoah e, significativamente,
trova il suo punto di emersione all’interno del meccanismo giudiziario di
accertamento della responsabilità penale: il processo Eichmann a Gerusalemme
(1961). In quell’aula di tribunale, il ruolo principale è sostenuto
dalle vittime, e non dall’accusato. Per la prima volta, in pubblico e sotto i
riflettori dei media mondiali, i sopravvissuti all’Olocausto raccontano
la loro esperienza disumanizzante: è l’avvento di quella che verrà chiamata
l’era del testimone (in latino testimone si dice, non a caso, martyr).
L’era
del testimone conduce alla scoperta
dell’essenzialità della memoria della vittima (come fonte storiografica, come
strumento pedagogico, come elemento identitario) e pone il problema di come
conservarla, dato che i sopravvissuti all’Olocausto sono come candele della
memoria che si consumano nel tempo.
Ma
l’aspetto che più interessa il giurista è un altro. L’esperienza della
Shoah, dove le vittime erano colpevoli solo di essere nate, dove il crimine era
così grande e l’innocenza così perfetta, induce a un processo di immedesimazione
con la vittima. Lo statuto del sopravvissuto allo sterminio nazista diventa
così del tutto peculiare: creditore di un debito inestinguibile, garantito da
un gigantesco senso di colpa collettivo, oracolare, sottratto al
contraddittorio.
È
l’unicità della Shoah, dunque, a giustificare l’assoluta specificità
dello statuto della vittima, sopravvissuta ai campi di sterminio. Attraverso la
dilatazione del paradigma vittimario, quella unicità è andata progressivamente
smarrendosi. Oggi, quello statuto, è acriticamente riconosciuto alla vittima in
quanto tale, di qualsiasi evento luttuoso a rilevanza penale.
La
dilatazione della categoria di vittima nella legislazione memoriale
A
saperli leggere, i segnali di questa metamorfosi sono tanti. Mi limito a
illustrare quelli che si possono attingere dalla vigente legislazione memoriale.
Non
è un caso che tale legislazione nasca in memoria delle vittime della Shoah
(legge n. 211 del 2001). Salvo poi prolificare, includendo progressivamente le
vittime del mare (legge n. 186 del 2002), le vittime delle foibe (legge n. 92
del 2004), le vittime dei regimi comunisti (legge n. 61 del 2005), le vittime
del terrorismo e delle stragi (legge n. 56 del 2007), le vittime militari e
civili nelle missioni internazionali di pace (legge n. 162 del 2009).
Il
catalogo, ad oggi, è questo. Ma i lavori sono ancora in corso, e il cantiere
della memoria nazionale è sempre aperto. Stando ai numerosi disegni di legge
depositati in Parlamento, si vorrebbero introdurre - in questa italica Spoon
River - giornate in ricordo delle vittime della mafia, di incidenti
aerei, di disastri industriali, delle guerre coloniali, della
pedofilia, della pedopornografia, dell’omofobia, della pena
capitale, del fascismo, della droga, di Hiroshima e Nagasaki, dei gulag
sovietici, degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, dell’eccidio
di Cefalonia, della violenza sulle donne, dei giornalisti uccisi
dalla mafia e dal terrorismo, delle tragedie causate dall’incuria
dell’uomo e dalle calamità naturali, dei caduti sul lavoro.
«Vittime,
sempre e solo vittime», lamenta, non a torto, in un suo recente libro lo
storico Giovanni De Luna [Id., La Repubblica del dolore. La memoria di
un’Italia divisa, Feltrinelli, Milano, 2011]
Dai
relativi lavori parlamentari emerge il tentativo di approdare a una definizione
di vittima tendenzialmente omnicomprensiva: il Giorno della Memoria, infatti, è
istituito «al fine di ricordare tutte le vittime del terrorismo, interno e
internazionale, e delle stragi di tale matrice» (art. 1).
Questa
è del resto l’interpretazione autentica datane dal Quirinale che, in
occasione delle celebrazioni del primo Giorno della Memoria (9 maggio 2008),
cura la pubblicazione di un prezioso volume, Per le vittime del
terrorismo nell’Italia repubblicana (Istituto Poligrafico e Zecca
dello Stato, Roma, 2008): una galleria di 378 nomi e foto di tutti coloro –
scrive nella sua introduzione il Presidente Napolitano - «che in quel contesto
pagarono col sacrificio della loro vita i servigi resi alle istituzioni
repubblicane» (p. 15).
Inevitabili
le aporie, in un sacrario così sterminato.
Ad
esempio, l’inclusione dei morti per caso: tutte le vittime delle stragi
lo sono, cadute solo perché in attesa agli sportelli di una banca, o sui binari
di una stazione, o passeggeri di un treno o di un aereo.
Solo
i morti di Piazza della Loggia non lo sono, come giustamente sottolinea
Benedetta Tobagi nel suo ultimo libro: «”Non si chiamino vittime/ma
caduti consapevoli”, recita una poesia composta per i morti del
28 maggio 1974. La differenza è importante [...]. Non sono morti per
caso: si trovavano in piazza per il loro impegno antifascista» [Id.,
Una stella incoronata di buio. Storia di una strage impunita, Einaudi,
Torino, 2013, 213].
La
pubblicazione curata dal Quirinale include anche i morti per errore: come
il cuoco Luigi Allegretti o l’impiegato Antonio Leandri o il barista Carmine
Civitate, assassinati perché scambiati per l’obiettivo politico che non
erano. Così come include antagonisti politici uccisi mentre contestavano le
istituzioni: come Walter Rossi, militante di Lotta Continua, assassinato il
30 settembre 1977 da un proiettile fascista; come Giorgiana Masi, militante
radicale, uccisa a Roma il 12 maggio 1977 da un colpo di pistola sparato da
agenti di polizia infiltrati tra i manifestanti.
In
tutti questi casi, è evidente, il legame tra vittime e istituzioni non esiste.
perché inconsapevole ovvero consapevolmente rifiutato.
Colpisce
la sua eterogeneità, che vede riuniti soggetti vittime di eventi tra
loro incommensurabili: ad esempio, vittime di stragi ancora impunite ma anche
vittime della caccia, del precariato, delle sette religiose.
Colpisce
l’impropria concorrenza tra associazioni aventi identica finalità
statutaria: ho contato, ad esempio, almeno 3 associazioni di familiari
di vittime della strada, e almeno 6 associazioni di familiari di
vittime del dovere.
Colpisce
l’inevitabile contrapposizione tra associazioni: come quella che
vede inevitabilmente su sponde opposte l’Associazione tra
Familiari di Vittime delle Forze dell’Ordine e le varie associazioni
di familiari di Vittime del Dovere.
Tra
vittime (tante) e memorie (diverse)
Tutte
queste tessere compongono un puzzle in cui tutte le vittime sono vittime
in egual misura. Ma ciò ha un senso solo sul piano della pietas
umana. Non può averlo, invece, sul differente piano della ricostruzione storica
o giudiziaria, e non perché ci siano morti leggere come piume, e altre pesanti
come montagne. La ragione è che, negando le differenze, si finisce per mettere
tra parentesi l’identità di ciascuno: Gli otto caduti in Piazza della
Loggia sono inscritti oggi, insieme a tutte le vittime dei
terrorismi, rosso e nero, nel patrimonio comune della storia
repubblicana. […]. «Non posso più neanche chiamarli “compagni”»,
osserva pensieroso Manlio mentre scendiamo la scalinata del Quirinale dopo una
celebrazione della Giornata della memoria delle vittime del terrorismo. Non ci
avevo pensato, ma capisco bene cosa vuole dire [Benedetta Tobagi, Una
stella incoronata di buio, cit., 216].
L’assenza
di cacofonia non stupisce. La memoria, infatti, è sempre l’approdo di un
processo dinamico, non di un semplice automatismo: non si ricorda a comando,
schiacciando un pulsante, perché richiamare alla memoria comporta sempre un
lavoro di costruzione e ricostruzione personale. E ancor più personale è il
rapporto che teniamo con la memoria dei nostri lutti e delle nostre ferite: per
alcuni è un rapporto rappacificato, per molti ancora slabbrato, per tanti fonte
di un rancore inestirpabile.
Molti
familiari di vittime sono stati capaci di trasformare il dolore in
un’opportunità, individuale e collettiva; Manlio Milani tra questi e più di
altri: ne sono sinceramente ammirato e incantato. Molti, al contrario, non sono
riusciti a sottrarsi al destino della moglie di Lot (Genesi, 19, 26) che
«guarda indietro» e si trasforma in una statua di sale, mostrando così la
sorte di coloro il cui sguardo resta fisso nel passato: chiudendosi al futuro,
essi si immobilizzano e smettono di vivere.
Per
un giurista liberale, è fonte di preoccupazione che quel risentimento (umano,
troppo umano) venga formalizzato dal diritto, trasferendolo nella dimensione
pubblica della pena e della sua esecuzione. Accade già oggi, e ne derivano
cortocircuiti a mio avviso pericolosi.
Quando
Abele si pronuncia sul destino di Caino
Primo
esempio. Nel nostro ordinamento giuridico, Abele è chiamato a pronunciarsi sul
destino di Caino ogni volta che lo Stato bussa alla porta dei familiari della
vittima, per chiedere se abbiano intenzione di perdonare l’assassino del
proprio congiunto.
Accade
quando un ergastolano – trascorsi in buona condotta 26 anni di reclusione –
matura i termini per chiedere la liberazione condizionale: nell’istruire la
propria decisione il Tribunale di Sorveglianza, infatti, interpella i familiari
delle vittime.
In
ambo i casi, ben s’intende, l’ultima parola spetta all’organo competente
(il Capo dello Stato, il giudice).
Ma
in entrambi i casi il dolore privato intreccia il momento pubblico della
esecuzione penale, fino a condizionarlo, specie se amplificato dal circuito
dell’informazione e se cavalcato dal giustizialismo di destra e di sinistra.
Così
come, nella concessione della liberazione condizionale, il perdono del familiare
della vittima non è imposto dall’art. 176 c.p.p. (a tenore del quale è
richiesto solo che «il condannato abbia tenuto un comportamento tale da far
ritenere sicuro il suo ravvedimento»), ma da una sua discutibile
interpretazione giurisprudenziale.
cose
che devono essere fatte nell’interesse generale, che può non coincidere con
quello dei “familiari delle vittime”, e se lo Stato, la magistratura, il
governo o il Presidente della Repubblica pensano che un atto sia corretto,
necessario, motivato, allora non possono certo farsi paralizzare dai dolori
privati». Non sono parole mie, ma di Mario Calabresi (Spingendo la notte
più in là, Mondadori, Milano, 2007, 69).
Quando
Abele viene strumentalizzato contro Caino
Un
secondo cortocircuito scatta quando le ragioni di Abele vengono giocate contro
la risocializzazione di Caino. È una strumentalizzazione che è andata in scena
– alla grande – nel caso D’Elia, ex terrorista di Prima Linea, condannato
per concorso nell’omicidio del poliziotto Fausto Dionisi, ucciso nel 1976.
Il
richiamo al mancato rispetto delle vittime e del dolore dei loro familiari è
una costante: nel testo di quella mozione, nella sua illustrazione orale, nel
dibattito che ne segue. Del percorso e della vita politica di Sergio D’Elia,
invece, poco o nulla è stato detto: in aula e sulle pagine dei giornali di
allora.
Eppure,
guardata in campo lungo, la traiettoria giudiziaria, politica ed umana di Sergio
D’Elia testimonia di come l’art. 27, 3° comma, della Costituzione tracci un
orizzonte possibile, quando ci dice che per la Repubblica nessuna persona è mai
persa per sempre.
L’uomo
della pena può diventare diverso dall’uomo del delitto (che peraltro D’Elia
non ha materialmente commesso). Chi – politico o giornalista che sia - nega
questa possibilità, preferendo cavalcare il (comprensibile) sconcerto dei
familiari delle vittime, oscura il senso autentico delle pene che, per
Costituzione, «devono tendere alla rieducazione» del condannato.
Quando
Abele partecipa al processo contro Caino
Vedo
un terzo cortocircuito nella propensione a ridefinire il ruolo di Abele
all’interno del processo contro Caino, fino a riconoscere alla vittima un
ruolo pari a quello dell’accusa e della difesa.
Trasformare
questa struttura binaria in una dinamica triangolare può portare con sé
l’ombra minacciosa di una privatizzazione della giustizia penale.
L’esperienza
francese si rivela particolarmente istruttiva. Ci racconta di una magistratura
succube del consenso egemonico di cui la vittima istintivamente gode presso
l’opinione pubblica. Ci racconta la probatio diabolica che stringe a
tenaglia l’imputato di fronte alla vittima: se fa cenno ai suoi rimorsi,
“recita”; se resta impassibile, è “insensibile”. Detto altrimenti,
l’esperienza francese testimonia i rischi di un procedimento penale che muta
di segno: da processo a garanzia dell’accusato a processo per la
vittima.
Con
esiti complessivi imprevedibili, come dimostra l’esperienza statunitense.
A
partire dalla metà degli anni 70, nel nome dei bisogni psicologici dei parenti
delle vittime, in molti stati americani è stata innovata la procedura dei
processi per omicidio, introducendovi la fase eventuale in cui è possibile
presentare informazioni sulla natura e sul grado del danno patito sia dalla
vittima che dai suoi congiunti (victim impact presentation). Come
reagiscano le giurie popolari davanti a simili testimonianze o pareri di
esperti, non è difficile immaginare: perché è più semplice identificarsi con
le vittime e le loro famiglie, piuttosto che con imputati normalmente colpevoli
di delitti efferati.
Quando
nel nome di Abele si giustifica la massima pena per Caino
È
così che negli Stati Uniti d’America la pena di morte è riuscita
simbolicamente ad affrancarsi dalla pessima reputazione di vendetta privata per
mano pubblica. Oggi la si può giustificare con un più civile ed evoluto scopo
terapeutico: l’epilogo taumaturgico del percorso doloroso cui sono stati
costretti i parenti delle vittime.
Di
questa moderna metamorfosi delle massime pene bisogna sottolineare
l’insidiosità. Muovendosi infatti sul piano deontico, alimentato dal senso di
colpa e di immedesimazione, l’argomento terapeutico si sottrae a qualsiasi
contestazione empirica e la pena capitale diventa un servizio che la comunità
statale deve alle vittime.
Quando
si pretende la riconciliazione tra Abele e Caino
Nascono
da questi cortocircuiti le mie perplessità verso uno scenario oggi molto in
auge nel dibattito giuridico, tratteggiato con favore da atti normativi e
d’indirizzo comunitari e internazionali: il modello di una giustizia
riparativoconciliativa (restoration of justice).
Riducendo
l’essenziale all’essenziale, essa investe sull’utilità di una relazione
recuperata tra vittima e colpevole, nella faticosa ricostruzione di un rapporto
infranto dal reato. Al concetto di colpa si affianca così quello di perdono,
come frutto non di oblio ma di assunzione reciproca di responsabilità, che
può interrompere il risentimento della vittima e rompere e mettere in moto il
ripensamento del colpevole.
Sullo
sfondo, una società che non è più il regno del risentimento e della vendetta,
ma l’espressione di una collettività disponibile, da un lato, al reingresso
di chi attraverso il reato se ne era allontanato e capace, dall’altro, di
farsi carico del lutto e delle sofferenze più profonde della vittima.
Sul
piano normativo, tutto ciò dovrebbe tradursi nella centralità del ruolo della
vittima in tutte le fasi ordinamentali della pena: da quando nasce,
nell’astratta previsione normativa, a quando viene irrogata al termine del
processo, fino a quando in concreto viene eseguita e si estingue.
L’elaborazione
del lutto, nata nella sfera religiosa, oggi appartiene alla relazione
psicanalitica tutta individuale e interiore: non può dunque – per comando
legislativo – traslare nella dimensione pubblica del processo. I cui tempi
lunghi, peraltro, dilatano il tempo del dolore, impedendo il superamento del
trauma, e costringendo la vittima a un rinnovato calvario.
Non
serve replicare che per le parti in causa la riconciliazione sarebbe solo
un’opportunità, e non un obbligo. Perché la vittima che rifiutasse
l’incontro con il colpevole (o viceversa) sarebbe costretta a
giustificarsi
davanti al foro di un’opinione pubblica esigente e di una stampa
colpevolizzante.
Ci
si dimentica così che il perdono ha qualcosa di imperscrutabile: non è un
dovere della vittima, né un diritto del reo anche quando ha terminato di
espiare la sua pena (perché il perdono è altra cosa dalla riabilitazione
sociale).
Il
perdono è una predisposizione dell’animo di chi lo concede e di chi lo
riceve, ha i suoi tempi e le sue modalità sempre differenti da caso a caso,
dunque impermeabili alla standardizzazione giuridica.
Così
come coglie nel segno Manlio Milani quando risponde a chi gli chiede se è
favorevole al perdono: «La domanda che si fa strada dentro di me è: “Chi
devo perdonare?”. Non conoscendo la verità, sono stato privato anche del
diritto di perdonare» [Giovanni Fasanella e Antonella Grippo, I silenzi
degli innocenti, BUR, Milano, 2006, 22].
Dietro
il paradigma vittimario
Resta
una domanda di fondo cui dare risposta: perché la politica alimenta e, spesso,
strumentalizza il paradigma vittimario?
Tra
le molteplici risposte possibili una più di tutte interessa il giurista. Il
vissuto drammatico delle vittime, e le rivendicazioni securitarie delle relative
associazioni, consentono agevolmente di scaricare su di loro la responsabilità
di una politica sempre più repressiva e punitiva: la voce delle vittime offre,
per questa operazione, il giusto tono intimidatorio.
È
successo per i reati di strage. Manlio Milani potrà raccontare del suo calvario
processuale. Quanto a me, ricordo a tutti l’odissea processuale vissuta dai
familiari delle vittime di Piazza Fontana: un iter durato 36 anni,
passato per le corti d’assise di Roma, Catanzaro, Bari, Milano, conclusosi il
3 maggio 2005 in Cassazione con tutti gli imputati assolti per insufficienza di
prove e la condanna delle parti civili al pagamento delle spese processuali (se
le accollerà alla fine il Governo, ma solo dopo molte proteste e grazie
all’intervento del Presidente della Repubblica Ciampi).
Succede
anche per il reato di tortura, che il legislatore non ha ancora introdotto nel
Codice penale, benché – secondo l’art. 13, 4° comma, della Costituzione -
«è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a
restrizione di libertà». Sappiamo che una tortura subita non si dimentica mai,
e senza la sua incriminazione il torturato perde il diritto ad avere diritti. Il
solo modo per restituire alla vittima dignità e appartenenza sociale è,
quindi, l’incriminazione della tortura (cfr. Patrizio Gonnella, La tortura
in Italia, DeriveApprodi, Roma, 2013, 81). Eppure, l’attendiamo
inutilmente da sessantacinque anni.
E
potrei svolgere considerazioni analoghe per un altro reato che non c’è – il
reato di depistaggio – cui pure è imputabile l’assenza di giustizia e di
verità giudiziaria per tante stragi. Anche qui il paradigma vittimario
scompare, davanti alla volontà di uno Stato «restio a lasciarsi mettere sotto
accusa» (Benedetta Tobagi, Una stella incoronata di buio, cit.,
342)
Si
può andare oltre al rancore
E
lo si può fare senza assolutamente né giustificare né dimenticare. Ma se si
pensa che l’uomo può cambiare, a maggior ragione si deve avere la forza di
incontrare i colpevoli e di conoscere la loro umanità
di
Manlio Milani,
presidentedella “Associazione familiari
vittime
di piazza della Loggia”,il 28 maggio 1974 ha perso la
moglie
Livia, uccisadalla bomba scoppiatain piazza della Loggia,
una
strage ancora impunita
Sento
un disagio ascoltando le prime testimonianze di persone detenute, e mi rendo
sempre di più conto di come sia indispensabile ogni tanto rientrare in questi
luoghi per cogliere fino in fondo questa umanità carceraria, così diversa da
come viene percepita all’esterno. Ma quello che viene ignorato, che appare
estraneo all’esterno è come le persone possono cambiare, e io credo che
questo sia uno degli elementi centrali di tutta la discussione, cioè bisogna
partire dal presupposto che le persone possono cambiare. Vedete, io sono un
vecchio militante di sinistra e mi ricordo che per me uno dei punti di
riferimento nella mia storia è stata una affermazione di un padre della
Costituente, Vittorio Foa, il quale quando uno studente gli chiese che cosa era
stata per lui la resistenza, rispose all’incirca così: “Due aspetti ricordo
per dirti che cosa è stata per me la resistenza: innanzi tutto che l’uomo
anche di fronte alle cose più difficili o più sofferenti, può cambiare e può
trasformare in positivo determinate condizioni, l’altra però, che bisogna
sempre dare qualche cosa di sé per gli altri”. E anche quando entro in questi
luoghi ho presente quel riferimento, che troppo spesso invece all’esterno non
solo è dimenticato, ma strumentalizzato in nome della “sicurezza”. Per
quanto riguarda l’importante intervento del professor Pugiotto, c’è una
parte che non condivido e che si riferisce al ruolo della parte civile nel
processo (vi ritornerò più avanti) e che valuterò alla luce della mia
esperienza connessa al terrorismo, cioè a reati a grave impatto sociale, quindi
al contesto e alle finalità che quegli atti perseguivano.
A
Brescia stiamo realizzando un “Percorso della memoria” dove collochiamo in
terra oltre 400 formelle su ognuna delle quali è inciso il nome di una vittima,
non solo quelle del terrorismo, ma anche quelle dello scontro politico di quegli
anni. Mi riferisco, per far degli esempi, a Franceschi, a Pinelli. L’idea
nasce da una frase di Italo Calvino che dice (cito a memoria) “Nella morte le
vittime sono tutte uguali, ma nella storia si dividono”.
Le
proponiamo alle scuole dicendo: adottate una formella, partite da quel nome e
ricostruite la storia, rispettate quella morte ma andate a dividerla poi
nell’ambito della storia. Credo sia una scelta che da un lato sottolinea le
conseguenze della violenza e dall’altro invita a collocarsi nella Storia. Qui
volevo dire una cosa a Roberto Cornelli, è vero che c’è stata nell’ambito
degli anni Novanta una rottura che ha portato l’idea di ordine pubblico a
livello individualizzato, ma è altrettanto vero che in tutto il periodo
precedente - e questo accentua naturalmente la sua osservazione - la risposta
data a quel tipo di violenza era di carattere collettivo e quindi assumeva
dimensione pubblica, e quelle morti, erano colte come un fatto collettivo in
quanto colpivano tutti e la risposta doveva riflettere quel convincimento. Non
dimentichiamo la manifestazione, in Piazza Duomo a Milano, delle oltre centomila
“tute blu” contro la strage di Piazza Fontana o i funerali di Brescia ai
quali parteciparono seicentomila persone e con un servizio d’ordine composto
esclusivamente da cittadini. Risposte che fecero fallire sostanzialmente gli
obiettivi che il terrorismo si era prefisso. Certo, non hanno cambiato lo Stato
che, anzi, per certi aspetti è peggiorato nei propri meccanismi interni. Ma
questo tipo di risposta contemplava la consapevolezza che quella violenza era
diretta contro la natura democratica dello Stato. Questo noi non lo dovremmo
dimenticare. Per me è parte integrante di un’esperienza vissuta.
Si
è sottolineato della “diversità” tra la strage di Brescia e le altre
stragi. È vero. Le altre stragi sono di tipo puramente terroristico, nel senso
che si colpisce chiunque allo scopo di ingenerare paura, insicurezza e
attraverso la creazione di questo caos, alimentare la domanda di un governo
d’ordine che mettesse tra parentesi le norme democratiche. La strage di Piazza
Loggia esprime immediatamente la sua finalità contro le istituzioni. Fabrizio
Zani, un neofascista. ha operato una distinzione tra la strage dell’Italicus
(4 agosto 1974) e la strage di Brescia (28 maggio1974). Egli dice (cito a
memoria): “La strage del treno Italicus non è operativamente a noi
ascrivibile perché colpisce civili, e noi non colpiamo i
civili”, mentre la strage di Piazza della Loggia (anche qui cito a
memoria) “potrebbe essere a noi ascrivibile in quanto lì sono morti
dei comunisti” (Luciano Benardelli in un’ intervista all’Europeo).
Ne risulta una strage remunerativa in quanto lì sono stati eliminati degli
avversari politici.
È
chiaro che se noi vogliamo affrontare quegli anni dobbiamo tener conto di questi
elementi e soprattutto ricordarci che l’impunità delle stragi terroristiche e
la crisi del rapporto tra giustizia, verità e istituzioni affonda all’interno
dell’idea che o si affrontano sul piano storico le ragioni di quelle stragi e
di quei fatti, oppure non è pensabile che possa essere risolta soltanto
nell’ambito di un tribunale. Ed è evidente allora che, quando il potere
politico scarica sulla magistratura ogni responsabilità lo fa consapevolmente,
al punto tale che oggi noi vediamo che l’idea di verità e giustizia è
strettamente collegata all’esistenza o meno del colpevole: se c’è il
colpevole si raggiunge verità e giustizia, se non c’è il colpevole tutto è
un punto di domanda. In sostanza, ci si rifiuta di interrogarci sulle ragioni di
quell’impunità (si pensi ai depistaggi), e nel contempo si negano le verità
comunque emerse nell’ambito del processo e riportate nelle motivazioni della
sentenza. E questo ha una grave ripercussione sulle modalità stesse di essere
della giustizia, perché la giustizia a quel punto o mette in discussione ciò
che è il processo (la verifica delle responsabilità dei singoli imputati) e
condanna aprioristicamente, oppure è costretta a subire le conseguenze di
questa “supplenza” che a livello politico le viene richiesta (se non ha
condannato è perché incapace).
Si
verifica poi un altro paradosso, assistiamo al fatto che da un lato le
istituzioni scaricano la responsabilità sulla magistratura, poi quando emergono
responsabilità che riguardano la politica, si afferma una sorta di abdicazione
della politica stessa che rifiuta ogni assunzione di responsabilità. Resta cioè
il problema della coerenza della politica che chiede il rispetto per la propria
funzione e le proprie prerogative, ma troppo spesso evita di riconoscere le
proprie responsabilità.
L’abdicazione
della politica e purtroppo anche dei mass media e dei giornali in modo
particolare è davvero totale rispetto a questo aspetto della responsabilità.
Faccio degli esempi, il primo: nel corso dell’ultimo processo di Brescia, che
è durato circa tre anni, non abbiamo mai visto un giornalista esterno a
Brescia, eppure si sono affrontati oltre 40 anni di storia italiana. Un giorno
però l’aula giudiziaria si riempie di reporter, di televisioni. Chiedo: come
mai? Mi rispondono che deve deporre Izzo, il cosiddetto “mostro del Circeo”.
Faccio presente che non è che avrà molte cose da dire. Mi viene risposto che
Izzo il giorno prima si era sposato, che quella era la “notizia”. Ma che
cosa si voleva evidenziare? Izzo, che aveva goduto di un periodo di semilibertà,
era uscito dal carcere, aveva ucciso due persone, era rientrato in carcere e si
era sposato. La strage di Piazza Loggia, la storia del Paese non interessava, la
presenza dei media era strumentale a raccontare questa storia. Secondo esempio.
Nel 2009 nel corso della Giornata della memoria delle vittime del terrorismo e
delle stragi di tale matrice, il Presidente della Repubblica Napolitano fa
incontrare la vedova Pinelli e la vedova Calabresi, creando una straordinaria
occasione e opportunità anche simbolica per affrontare la storia di quegli
anni. Il quotidiano “Il Giornale” il giorno dopo uscirà con uno scritto
dicendo che quell’incontro non si doveva fare perché veniva sminuita la
figura del commissario Calabresi. Non si va ad approfondire il perché, che cosa
significa quell’incontro, qual è la figura di Pinelli, si limita,
l’articolista, a mettere in discussione la funzione simbolica rappresentata
dal riavvicinamento di soggetti attorno ad una storia comune, la strage di
Piazza Fontana, ed alle sue conseguenze sul Paese. La tv pubblica, più
semplicemente si limita a non fornire approfondimenti sul fatto. Con il silenzio
evita di “sbagliare”. Sono degli esempi certo, ma sono lì a testimoniare
che c’è un uso strumentale della memoria e della vittima da un lato, e una
rinuncia ad elaborare un pensiero di una memoria pubblica, dall’altro.
sono
soli i detenuti. Esse hanno avuto anche il bisogno di potersi unire insieme, per
poter cercare di rivendicare una politica di riconoscibilità del proprio
percorso, e hanno saputo trasformare il dolore in azione politica positiva. Ma
oggi, e condivido quello che diceva il professor Pugiotto, sono convinto che
c’è il grosso rischio che quel paradigma vittima rio sia anche sostenuto
dalla vittima stessa. Lo dico pensando alla mia storia, alle mie scelte, non
intendo coinvolgere nessun altro. Però rispetto al ruolo della parte civile nel
processo e quindi alla modifica dell’art.11 vorrei spiegare perché io sono
tra coloro che, con altri, ha proposto la modifica di questo articolo, che
riflette la mia esperienza. Essa mi dice che nel processo devo mantenere la mia
dimensione di cittadino e non solo ed esclusivamente quella della vittima che ha
subito un danno.
La
parte civile nelle condizioni attuali è invece inevitabilmente portata ad
essere di supporto all’accusa e/o a identificarsi con l’accusa. Ne consegue
che, nel momento in cui inizia il processo, io l’imputato non lo vedo come un
soggetto che è sottoposto a un processo dal quale potrebbe scaturire qualsiasi
tipo di risultato, perché devo vedere una colpa, e non partire dal principio
che esso sia il colpevole.
Nella
prima istruttoria nel processo per la strage di Piazza della Loggia, alcuni di
noi non avevamo condiviso quell’istruttoria e come parti civili ci siamo
dissociati dall’accusa e abbiamo condotto la nostra battaglia. La stessa
operazione l’abbiamo fatta con l’ultimo processo, quando diversamente
dall’accusa, nei confronti dell’imputato, Pino Rauti, eravamo convinti che
non sussistessero sufficienti prove per poter richiedere una condanna (NdR Pino
Rauti fu inquisito per la strage di Piazza della Loggia a Brescia e in merito il
15 maggio 2008 è stato rinviato a giudizio e assolto “per non aver commesso
il fatto”, il 16 novembre 2010). Ciò si è riproposto con Delfo Zorzi dove,
per le stesse ragioni, non è stato presentato ricorso nei suoi confronti. Il 21
Febbraio 2014 la Cassazione ne ha confermato l’assoluzione. Cosa voglio dire
con questo? Se noi vogliamo che anche la vittima rispetto al processo si assuma
le proprie responsabilità, dobbiamo responsabilizzarla fino in fondo, dobbiamo
cioè rendere anche la sua voce autonoma all’interno del processo. So che
questo è un enorme problema, però se io guardo la mia esperienza, noi abbiamo
dovuto subire, soprattutto nel primo processo, una accusa incredibile per aver
rotto la parte civile e con ciò di favorire oggettivamente gli imputati. Una
accusa inaccettabile perché bisogna avere, anche nel processo, il coraggio di
assumersi le proprie responsabilità. Ma è chiaro che io voglio essere
riconosciuto in ciò dal sistema giudiziario, quindi dalle regole giudiziarie.
Io sono convinto che questo sia un passaggio necessario, perché se io vado al
processo partendo dal presupposto che chi ho di fronte non è inevitabilmente il
colpevole, (perché potrebbe essere assolto), mi assumo la responsabilità di
guardare al dibattimento con gli occhi della valutazione delle prove che vengono
fornite nell’ambito del processo. Diversamente invece, se continuo ad essere
parte subordinata all’accusa, non ho questa possibilità, addirittura nel
sistema penale attuale, se non ricordo male, non certamente in fatti di strage,
ma addirittura laddove c’è il patteggiamento, la parte civile non viene
neanche minimamente sentita, viene fatto tutto all’oscuro, noi stessi abbiamo
potuto prendere visione degli atti praticamente quando sono stati depositati,
mentre la difesa ha potuto partecipare più attivamente a tutte le fasi del
processo. Ecco perché credo sia importante modificare l’art. 11 della
Costituzione.
Dove
concordo fino in fondo con il professor Pugiotto è sulla questione di quella
sorta di diritto di veto che si vorrebbe dare alla vittima, io credo che sia una
cosa inaccettabile. Se al termine del regolare processo è individuato in via
definitiva il colpevole, a me non interessa più il suo destino, nel senso che
esso deve essere affidato alle leggi dello Stato. Io devo ritornare da quel
momento semplice cittadino, quindi non posso assumermi la responsabilità
rispetto ai benefici di legge, assolutamente, anche perché questo ha un impatto
anche interiore estremamente negativo, mi obbliga cioè a due percorsi, da una
parte ad essere obbligato a seguire il percorso di espiazione della pena del
condannato e dall’altro lato a “sentirmi”, finché il colpevole è in
carcere, in una certa misura tranquillo.
Un
ferito nella strage di Bologna quando aveva 18 anni, dice ora “Io adesso
guardo al fatto che Mambro e Fioravanti condannati per la strage sono stati
liberati, loro sono liberi ma io non posso esserlo e quindi se loro
continuassero a espiare la loro pena quanto meno non sarebbero liberi come non
lo sono io”. Credo che sia davvero una distorsione all’interno della stessa
vittima che non riesce più a posare liberamente lo sguardo sui fatti. E
attraverso questo che cosa si configura? Si configura per la vittima quasi
l’impossibilità di uscire dal passato, mentre anche il passato ha bisogno di
essere compreso, ridimensionato.
Anche
la vittima ha bisogno di oblio, che non è l’oblio del colpevole il quale
chiede, come recentemente è stato fatto, di aver cancellato il proprio nome nei
documenti perché dopo aver scontato la pena ha diritto all’oblio. Questo non
è possibile, io non posso dimenticare ma nemmeno il colpevole può dimenticare
ciò che è avvenuto. E in questo senso quando ci fu l’elezione di Sergio
D’Elia, che ha scontato una pena per reati connessi al terrorismo, a
segretario dell’Ufficio di Presidenza della Camera io gli scrissi: “Guardi
io sono d’accordo che Lei sia stato eletto, perché questo ha significato il
suo cambiamento e il riconoscimento a livello pubblico della sua dimensione di
cambiamento, però a mio avviso, e ne sono convinto tuttora, lei due minuti dopo
si doveva dimettere proprio per rispetto nei confronti delle vittime di tutto
quel periodo”. Anche se capisco che Caino non può essere torturato per tutta
la vita, anche se capisco che Caino non possa abbandonare la città per non
poter incontrare Abele, a livello di dimensione pubblica, come può essere
percepito questo tipo di discorso rispetto ad una società che ragiona solo ed
esclusivamente in termini di rancore? Ecco che allora la vittima deve porsi
queste domande e io credo che a un certo punto la vittima debba saper posare lo
sguardo sul colpevole.
Io
sono per certi aspetti fortunato, non ho colpevoli, anche se a volte mi chiedo
cosa significhi per me la mancanza del volto del colpevole, sento il bisogno di
averlo, vorrei anche poter mettermi alla prova con lui, di fronte a lui, in che
modo sono capace di reggere il suo sguardo: ne sarei capace?
Io
credo che questo sia un passaggio estremamente importante per due ragioni: 1)
posare lo sguardo sugli altri è fondamentale , perché per ricostruire la
storia dobbiamo sapere ascoltare le ragioni del reo, cosa l’ha portato a fare
quelle scelte, quali sono state le sue ragioni. ed è questo un elemento
necessario a me per capire, ma anche alla società per poter finalmente cercare
di guardare i fatti al di là del colpevole, per capirne le ragioni che
sottintendono all’aver commesso quel reato; 2) io devo chiedermi, e lo dico
per me stesso che ho vissuto quegli anni, che se voglio riuscire a capire il
processo che ha portato a quei fatti devo anche interrogarmi sulle mie
responsabilità. Io non posso partire dalla dimensione della vittima come
soggetto privo di responsabilità, non è per tutti così. A me il termine
“vittime innocenti” non convince. Certo, ci sono vittime davvero innocenti.
Prima si faceva il nome di Mario Calabresi che aveva due anni quando venne
ucciso il padre, ebbene, io non posso imputargli alcuna responsabilità rispetto
a quel periodo storico, ma io che quel periodo l’ho vissuto intensamente, e
schierandomi, devo interrogarmi rispetto a che cosa ho fatto io per impedire che
ciò che è avvenuto potesse non avvenire. Devo chiedermi come reagivo quando si
gridavano slogan come “basco nero il tuo posto è al cimitero” (e questo
vale per la parte opposta)? Quanti ambigui comportamenti ho avuto? E il nostro
silenzio, non ha favorito la crescita di quella cosiddetta “area grigia” che
in una certa misura ha facilitato il riproporsi e il riprodursi della violenza?
Quindi anch’io come vittima devo interrogarmi rispetto alla storia, non posso
sentirmi estraneo solo in quanto vittima.
E
questo confronto tra due sofferenze può portarmi a che cosa? A ridefinire lo
spazio di una dimensione più umana, a ridefinire lo spazio di una memoria
pubblica, per dire alla società che si può cambiare e che si può andare oltre
al rancore, e tutto ciò senza assolutamente né giustificare né dimenticare,
ma partendo dal principio che ognuno si assuma la responsabilità della propria
storia, rispetto alla quale faccia i propri conti, partendo dal principio che
anche se non abbiamo sufficiente fiducia nelle istituzioni (e lo ritengo
sbagliato in linea di principio), dobbiamo averla quanto meno nell’uomo e
nella sua capacità di cambiamento.
Scusate la lunghezza e la frammentarietà. Avevo pensato ad un altro tipo di intervento, ma quanto detto da chi mi ha preceduto mi ha sollecitato al confronto diretto. Grazie.