Capitolo quarto:
Con gli occhi della Costituzione
“Tendere
alla rieducazione – scrive Giovanni Maria Flick, presidente emerito della
Corte Costituzionale – non vuol dire soltanto un mero fine, un’utopia
tendenziale da conciliare in qualche modo con altre più pressanti funzioni:
quelle di sicurezza, di afflittività e di retribuzione. La tendenza alla
rieducazione – secondo la Corte Costituzionale, che nel tempo ha modificato
giustamente la propria interpretazione dell’articolo 27 – è l’essenza
della pena: non ci può essere pena senza finalità rieducativa. Non si può
strumentalizzare l’individuo a fini di prevenzione generale e di soddisfazione
del bisogno di sicurezza, attraverso l’esemplarità di una pena che prescinda
dalla rieducazione”. Eppure, è stata proprio l’idea delle “pene
esemplari” che ha ispirato le leggi che più hanno determinato il
sovraffollamento: Bossi-Fini sull’immigrazione, Fini-Giovanardi sulle droghe,
Ex Cirielli sulla recidiva. Ora quelle leggi, se si vuole riportare le carceri
in condizioni dignitose, vanno smontate.
“Io
non sono né morto né vivo, sono solo un’ombra”
Racconto
la storia di un uomo che è stato un detenuto modello perché sperava, un
giorno, di uscire, e ha dovuto ingoiare tanti rospi, perché non è facile
comportarsi bene in carcere, ma poi ha scoperto di essere condannato
all’ergastolo ostativo
di
Carmelo Musumeci,
Ristretti Orizzonti
Io
sono Carmelo Musumeci, sono un ergastolano, probabilmente molti di voi mi
conoscono, e parto sempre dal fatto che in Italia, patria del diritto romano e
di Cesare Beccaria, esiste la pena di morte viva, così viene chiamata tra di
noi quella condanna che non ti dà nessuna possibilità, un giorno, di uscire.
Ebbene è una vera condanna a morte presa a gocce un po’ tutti i giorni e
tutte le notti. Ma adesso io vi voglio raccontare la storia di un mio compagno,
che fino a pochi mesi fa non conosceva, appunto, la pena di morte viva. Il mio
compagno si chiama Roberto, si trova in carcere da circa vent’anni e ha sempre
cercato di evitare guai, è stato sempre molto attento a non prendere rapporti
disciplinari, diciamo che ha sempre abbassato la testa davanti all’assassino
dei sogni, il carcere come lo chiamo io, non ha mai partecipato a reclami
collettivi o sommosse o cose del genere, perché si poneva l’obiettivo e aveva
la speranza di poter un giorno uscire, e non è facile vivere in carcere senza
prendere rapporti disciplinari o senza ribellarsi. Perché rispetto alle
condizioni di vita qui dentro tutti voi sapete probabilmente, dalle condanne che
sono scaturite dalla Corte Europea, o dai richiami del Presidente della
Repubblica, che il carcere è il posto più illegale di qualsiasi altro luogo.
Oggi si commettono infatti reati in carcere, reati amministrativi, abusi di
potere. Ebbene, Roberto qualche mese fa ha fatto una richiesta di permesso
premio, e, diciamo, si è illuso, perché il direttore aveva messo parere
positivo, l’area educativa aveva fatto la stessa cosa, le informazioni della
polizia esterna dicevano che non aveva più collegamenti con la criminalità
organizzata, e lui mi aveva confidato: “Non mi possono dire di no”. Roberto
faccio presente che è stato condannato per un omicidio nell’ambito di guerre
di bande per il controllo del territorio, e a parte la condanna di omicidio
aveva anche una condanna per associazione mafiosa, e quindi, proprio alla
vigilia di Natale, gli hanno detto di no, gli hanno risposto che aveva
l’ergastolo ostativo. Roberto non conosceva neanche questa parola, e infatti,
nel suo dialetto mi ha detto: “Ma che minchia è questo ergastolo
ostativo?”, scusate l’espressione ma riporto fedelmente la testimonianza. In
un primo momento glielo h spiegato un po’ l‘agente della matricola,che è
quello che notifica questi procedimenti, e gli ha detto: “Guarda che per avere
la possibilità di uscire devi collaborare con la giustizia, devi far arrestare
qualcuno che pure ha commesso dei reati, o devi accusare qualcuno”. Roberto ha
chiamato subito l’avvocato e l’avvocato ha confermato sostanzialmente quello
che gli aveva detto l’agente della matricola, confidandogli che nemmeno lui,
fino a poco tempo fa, sapeva cos’era l’ergastolo ostativo, perché non è
che te lo danno in condanna, ci si arriva in un secondo tempo, diciamo che il
magistrato di Sorveglianza legge la motivazione di condanna, ed è lui che
stabilisce se l’omicidio è stato commesso per agevolare l’Associazione
criminale. Quindi lo capisci solo in un secondo tempo, lui lo ha scoperto dopo
vent’anni. Roberto, sapendo dei miei studi giuridici, perché io in carcere mi
sono laureato in giurisprudenza, è venuto da me e si è un po’ sfogato, e
anch’io ho dovuto ripetere “Guarda Roberto, io è da anni che conosco
l’ergastolo ostativo, purtroppo non c’è nulla da fare”. Lui è un uomo
semplice, non ha studiato, e ho trovato difficoltà a spiegargli che deve morire
in carcere, perché lui mi ha detto: “Ma io ho sentito alla televisione, nei
giornali, che in Italia l’ergastolo non esiste, ho sentito anche a una puntata
di Porta a Porta con Bruno Vespa, che l’ergastolo non esiste, che escono
tutti, ma com’è possibile?”.
E
io gli ho ribattuto: “Ma tu credi ancora a quello che dicono i giornalisti?
Credi ancora a quello che dice la televisione?”. Lui però, ripeto, è una
persona semplice, ho dovuto fare fatica, anche perché la sua situazione
affettiva è particolare, lui si è separato dalla moglie in questi vent’anni
di carcere e ha solo un figlio che aveva dato la sua disponibilità per
accoglierlo in casa, e se lui in tutti questi anni è stato un detenuto modello
è perché sperava, appunto, un giorno di uscire, e ha dovuto ingoiare tanti
rospi, perché non è facile comportarsi bene in carcere.
Ebbene,
Roberto da circa un mese è andato in depressione, si è chiuso in cella, sta
sempre al buio, non accende la luce, non va più all’aria, e l’altro giorno
sono andato a trovarlo nella sua cella, e ho visto che sulla parete della sua
cella, un po’ lo fanno quasi tutti i detenuti, ha scritto una frase che mi ha
molto colpito, ha scritto sul muro della sua cella: “Io non sono né morto né
vivo, sono solo un’ombra”.
Ecco,
vi ho raccontato la storia di Roberto, che sotto un certo punto di vista
somiglia un po’ alla mia, con la differenza che io conosco l’ergastolo
ostativo e combatto contro questa pena disumana che è poco rieducativa perché,
secondo me, può rieducare solo i morti quando vanno nell’al di là. Io ho la
mia compagna che mi aspetta da 23 anni, sono in carcere da 23 anni, ho 2 figli,
ho 2 nipotini e so che la mia famiglia avrà di me solo il mio cadavere, perché,
se non cambiano le leggi, questo purtroppo è un fatto scontato.
Combattere
contro la pena dell’ergastolo è un po’ come fare una partita a scacchi con
la morte, non puoi vincere, però il problema è che io non posso nemmeno
perdere, perché, appunto, ho la mia compagna che continua ad aspettarmi, i miei
2 figli che tutti gli anni mi scrivono delle lettere, e in particolare mia
figlia quest’anno mi ha scritto una lettera che mi ha un po’ emozionato,
perché per lei tutti gli anni sono l’anno buono per la mia uscita. Perché
c’è da dire anche che tanti familiari non conoscono cos’è l’ergastolo
ostativo, non lo vogliono proprio capire, non si rassegnano, e dicono: “Ma non
è possibile che una persona che viene condannata sia colpevole per sempre”. E
io allora dico che qui siamo in Italia, non siamo negli Stati Uniti o in altri
paesi che bene o male non sono così crudeli, ti mettono a morte e basta, qui ti
vogliono ammazzare un pochino lentamente, un po’ tutti i giorni, con la scusa
di rieducarti, appunto, per l’al di là.
Colgo
l’occasione, perché qui ci sono molti giornalisti, per invitare a scrivere,
documentarsi e far conoscere l’esistenza di questa terribile pena. E dato che
si è parlato delle vittime dei reati, io volevo dire qualcosa su questo punto,
perché la cosa che mi fa star male più di tutto è che la mia sofferenza, e
soprattutto quella della mia famiglia, non è di consolazione a nessuno, perché
il mio reato è anche per me una guerra tra bande, quindi diciamo che non ci
sono “vittime innocenti”, in realtà era una guerra: io ammazzavo te o tu
ammazzavi me. E quello che mi fa più rabbia della mia sofferenza è quella
della mia famiglia, ve lo ripeto, se potesse essere di consolazione a qualcuno,
alla società, se la mia sofferenza facesse bene a qualcuno, io la accetterei,
invece vedo che non serve a nessuno, non c’è nessuna utilità.
Io
sono entrato in carcere con la quinta elementare, poi ho preso la licenza media,
mi sono diplomato, mi sono laureato in giurisprudenza, adesso mi sono iscritto
alla facoltà di filosofia di Padova, ma faccio tutto questo, alla fin fine,
solo esclusivamente per passare il tempo, perché la società non mi darà mai
la possibilità di rimediare al male che ho fatto facendo del bene. Eppure ci
sarebbero tanti modi di scontare la pena, io, per esempio, preferirei spazzare
le strade di qualche città, o fare volontariato in un Pronto Soccorso, perché
secondo me la pena si sconta quando tu esci dal carcere, e non senza far nulla
stando chiuso in una cella.
Gli
strani conti dei giornalisti
Io
detesto questi calcoli, fatti come se ogni permesso, ogni misura alternativa in
Italia si potesse ottenere automaticamente. Io ho scontato la pena fino
all’ultimo giorno, senza mai avere un giorno di permesso premio
di
Elton Kalica, Ristretti
Orizzonti
Io
cerco di dare un contributo raccontando quello che io sono. Ho scontato in
questo carcere più di 14 anni di pena, sono uscito due anni e mezzo fa, e
quello che sono probabilmente oggi è un ex detenuto in cerca di identità.
Quindi sono un ex detenuto che continua a lavorare qui a Ristretti Orizzonti. I
miei compagni detenuti all’inizio hanno raccontato della paura che si ha
quando succede qualche caso di evasione e poi i giornali lo riprendono in un
certo modo, e come qui dentro cresce il timore che queste notizie condizionino
la decisione dei giudici. Quindi, quando Lejdi diceva “Adesso che sto
aspettando un permesso premio da Natale, sono qui che prego perché
probabilmente non me lo daranno perché avranno paura” ,
ecco, anche se io non aspetto alcun tipo di permesso, ovviamente non nego
comunque di provare una certa preoccupazione.
Ad
esempio, pochi giorni fa ero a casa a pranzare, c’era la TV sintonizzata su
“Studio aperto” che dava la notizia sull’approvazione del decreto legge
con le misure contro il sovraffollamento delle carceri. Hanno costruito il
servizio ragionando sulla sicura uscita di un condannato che aveva ucciso la sua
fidanzata, e la giornalista faceva i conti a modo suo: “Siccome è dentro
da sei anni, ha una condanna di 15 anni perché gli avevano riconosciuto
la seminfermità mentale, però gli hanno dato sei o sette anni
di Ospedale Psichiatrico Giudiziario, ma con il decreto legge della Ministra,
adesso, con la liberazione anticipata che viene aumentata, lui ha già
fatto sei anni e potrebbe andare in permesso…”.
Che
notizia è? Io detesto questi calcoli, fatti come se ogni permesso, ogni misura
alternativa in Italia si potesse ottenere automaticamente. Non è affatto così!
Io sono uno che ha scontato la pena fino all’ultimo giorno, ho fatto 14 anni e
3 mesi e dodici giorni senza mai avere un giorno di permesso premio e senza mai
prendere misure alternative. Adesso quella persona di cui parlava il TG potrebbe
effettivamente avere tutte le fortune di questo mondo, un medico che dica che è
guarito, un giudice che gli dia tutti gli sconti di pena e le misure previsti
dall’Ordinamento, e uscire davvero tra tre anni, però sarebbe un’eccezione.
Poco
tempo fa mi sono arrivate da Equitalia tre multe da 1.000 euro ciascuna, perché
quando uno fa ricorso in Cassazione, se il ricorso non viene accolto ti tocca
pagare 1.000 euro. Ecco avevo fatto quei ricorsi contro sentenze che mi negavano
la possibilità di andare in permesso. Questo, perché ci sono leggi che
prevedono l’esclusione in modo categorico di alcune categorie di reato
dall’accesso ai benefici.
Ne
parlava anche Carmelo prima, ed ero anch’io nella stessa condizione, pur
essendo in galera da solo e non appartenendo a nessun tipo di criminalità
organizzata.
Se
oggi mi indignano i giornalisti che fanno i ragionieri della galera è
soprattutto perché ho vissuto sulla mia pelle la certezza della galera. Avevo
20 anni quando sono finito in carcere, spedito direttamente in una sezione di
Alta Sicurezza, in mezzo a persone condannate per appartenenza alla criminalità
organizzata. I miei compagni di detenzione mi dicevano che eravamo tutti
ostativi, tutti esclusi, ma non volevo credere che avrei scontato la pena fino
all’ultimo giorno senza poter accedere ai benefici. Quindi ho fatto tutti i
ricorsi possibili. Ciononostante mi sono fatto la galera fino all’ultimo
giorno e adesso mi tocca anche pagare 3.000 euro di multa per questi ricorsi.
I
mezzi di informazione si approprino di una nuova cultura giuridica
Quando
affrontano il tema del carcere, dovrebbero infatti capire che più detenuti
recuperati equivale a maggiore sicurezza e più giustizia
di
Marcello Bortolato,
magistrato di Sorveglianza,
Componente
della Giunta esecutiva centrale
dell’Associazione
nazionale magistrati, è stato membro
della
Commissione di Studio presso l’Ufficio legislativo
del
Ministero della Giustizia in tema di Ordinamento
penitenziario
e misure alternative
Ringrazio
per questo invito e per questa splendida giornata. Dico subito che sono molto
contento che ci siamo liberati tutti del “divieto” di applaudire, perché
– senza togliere nulla a tutti i relatori che mi hanno preceduto – mi
domando come si possa rimanere indifferenti, non applaudire dopo le parole di
una persona come Manlio Milani, che dovrebbe essere un esempio per questo Paese,
oscillante invece tra sentimenti di paura, di oblio, di egoismo.
Mi
si chiede di leggere la realtà del carcere e della pena con gli occhi della
Costituzione, che non possono che essere quelli dell’art. 27, e quindi della
funzione rieducativache è il faro che illumina tutto il settore della pena, ma
non solo. Ogni settore del diritto penale dovrebbe ispirarsi alla funzione
rieducativa, poiché già nel momento in cui il giudice della cognizione irroga
una pena detentiva o pecuniaria dovrebbe porsi il tema della possibile
rieducazione della persona che condanna. Ovviamente il tema della rieducazione
non può che coinvolgere tutte le altre funzioni della pena, e in particolare, i
temi della sicurezza e della retribuzione. La riflessione, però, sul tema del
carcere e della sicurezza non può che partire dalla constatazione
dell’evolversi della criminalità negli ultimi anni; è molto significativo,
io i dati li ho esaminati, che i reati (in particolare quelli contro la persona)
in Italia siano diminuiti guarda caso proprio nel periodo post-indulto. Negli
anni successivi all’indulto si è avuta infatti in Italia una flessione della
criminalità del 5,4%, cui è seguito un leggero aumento nel 2011, che è il
momento in cui si è consolidato il tasso di massima carcerizzazione.
Dobbiamo
ricordare anche che nel 2011 scoppia la grave crisi economica, e questo
sicuramente è un dato che influisce sull’aumento della criminalità, ma è
accaduto nel momento in cui il numero di detenuti raggiungeva il livello più
elevato nel nostro Paese dal dopoguerra, tanto da determinare le condanne in
sede europea. Quindi, prima di tutto non è vero che più carcere vuol dire più
sicurezza, ve lo dice un magistrato; certo, ve lo dice un magistrato di
Sorveglianza, che ha forse un approccio diverso, ma io per moltissimi anni ho
fatto il giudice della cognizione.
Il
carcere è un luogo sicuro? Basterebbe pensare al tasso dei suicidi, non solo al
tasso dei suicidi dei detenuti, ma anche dei suicidi del personale della Polizia
penitenziaria, per dire che dal punto di vista della tutela dell’integrità
del bene supremo della vita, il carcere non è un luogo sicuro, perché è un
posto dove il rischio suicidario è alto. Perché poi il carcere non è un posto
sicuro? Perché nelle attuali condizioni di sovraffollamento non induce nel
detenuto quella necessaria modificazione del proprio atteggiamento nei confronti
della propria condizione detentiva e della sua condanna a seguito di un reato
commesso, quella necessaria modificazione che può soddisfare la tensione
rieducativa che l’art. 27 della Costituzione impone alla pena.
La
dignità della persona è fondamentale: se leggete l’art.3 della Costituzione
vedrete che la dignità sociale viene prima dell’uguaglianza e della libertà.
Ci hanno sempre insegnato, dalla rivoluzione francese in poi, che la libertà e
l’uguaglianza sono i beni supremi; le Costituzioni del Novecento, in
particolare quella italiana, la più bella Costituzione come si dice spesso,
parla di dignità, “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale”, e questo
valore viene prima della libertà e dell’uguaglianza, quindi la dignità è il
bene supremo.
Quando
il detenuto si sente vittima di un carcere che lo priva della sua dignità, bene
primario incomprimibile garantito dalla Costituzione, si attiva un processo di
vittimizzazione del colpevole. Un carcere che lede il bene della dignità non può
che determinare deresponsabilizzazione, rimozione del senso di colpa,
vittimismo. Per questo l’Europa ci ha condannato: abbiamo tempo fino a maggio
di quest’anno per porre definitivamente rimedio e, lo dico subito, porre
rimedio significa diminuire la popolazione carceraria di almeno 15.000 detenuti
per rientrare nella capienza regolamentare stimata intorno a 47.000 posti, e
quindi tale da soddisfare le condizioni che la Corte di Strasburgo ci ha
imposto, i famosi 3 m2 per detenuto. Allora, che cosa è necessario? È
necessario, siamo a un seminario di giornalisti, in primo luogo uno sforzo
culturale, ci vuole una nuova cultura giuridica, che significa anche, ve lo dico
in tutta schiettezza, che i mezzi di informazione si approprino di una cultura
giuridica quando affrontano il tema del carcere. Faccio due esempi: esce il
decreto legge n. 146 del 2013 e sempre più spesso leggiamo “indulto
mascherato”. Come si fa a chiamare “indulto mascherato” una norma che
concede una parziale compensazione alla lesione della dignità, qual è questa
“liberazione anticipata speciale”, data solo ai soggetti meritevoli, rimedio
che, dico subito, non risolveràcomunque il problema del sovraffollamento? Voi
lo sapete che non è un indulto, perché voi sapete che l’indulto è una
liberazione incondizionata, nel senso che prescinde dalla condotta che il
detenuto ha tenuto in carcere e che casomai può esser escluso oggettivamente
solo per alcuni reati. Se però la persona commette un reato nel periodo
successivo, l’indulto può essere revocato e la persona viene arrestata: anche
questo ci si dimentica di dire, e cioè che l’indulto comunque è soggetto a
un limite temporale e a uno condizionale. Anzi, io mi sono permesso di dirlo
nelle sedi opportune, cioè che quando si parla di indulto si potrebbe anche
apprezzare un’ipotesi di indulto immediatamente liberatorio ma subordinato a
condizioni, anche rigorose; non è una bestemmia, non dico un indulto
condizionato al risarcimento del danno, però, per esempio, all’individuazione
di un percorso di mediazione, se è possibile ovviamente per la natura del
reato, o comunque a determinati requisiti di tempo e di modo. Ogni provvedimento
clemenziale può essere subordinato a delle condizioni, lo prevede il Codice
penale, basta volerlo.
Questo
strumento compensativo della liberazione anticipata speciale ha poi tutta una
serie di limiti e difficoltà applicative per cui non potrà essere dato a
pioggia a tutti quanti, anzi, in verità ne usufruiranno in pochi, ma nonostante
questo i giornali ne parlano come di un “indulto mascherato”.
Secondo
esempio: quello che non si è detto e scritto del famoso evaso dal permesso
premio dal carcere di Genova! Io, per carità, capisco, perché mi siedo sempre
sul banco degli imputati, come magistratura di Sorveglianza godiamo di pessima
stampa. Si sono scritte molte cose errate, ad esempio che il permesso era stato
concesso dal direttore del carcere, ma i permessi premio non li dà il
direttore, li dà solo il magistrato di Sorveglianza. Poi si è detto che quel
direttore comunque era un incompetente, anche grazie a qualche incauta sua
dichiarazione, si è detto che non sapeva che questo detenuto aveva commesso dei
gravissimi reati: questa è una follia, noi, il Direttore, tutti, abbiamo i
fascicoli che racchiudono tutta la storia del detenuto, attraverso il
certificato del casellario si scopre in tre secondi che cosa ha combinato nella
sua vita dal primo momento in cui ha incrociato un giudice, anche da minorenne.
Quindi non è vero che non sappiamo nulla del passato del detenuto che sta
espiando un reato, sappiamo esattamente tutto quello che ha fatto prima, è che
dobbiamo lavorare su una prognosi, cioè sul futuro. La nostra collega di Genova
ha dovuto subir un linciaggio mediatico feroce, che spero non si trasformi in
provvedimenti di natura disciplinare, perché ha concesso un permesso premio a
una persona che fino a quel momento aveva un percorso trattamentale regolare,
benché avesse commesso dei reati gravi. Qui a Padova siamo in un carcere dove
ci sono detenuti che hanno reati pesanti, eppure usufruiscono degli strumenti
della rieducazione. Un uomo non può essere impiccato per sempre a causa del suo
reato, deve scontare la sua pena certo, ma dobbiamo guardare se ha un futuro e
la nostra è una prognosi difficile. Che un detenuto non torni da un permesso
accade in una minima percentuale di casi, è un rischio calcolato, può
succedere che nonostante gli atti di osservazione siano tutti favorevoli il
patto venga tradito e il detenuto non rientri e magari commetta un altro reato.
Questo accade in una minima percentuale. Il racconto di quella vicenda ci fa
capire quanto sia necessario anche da parte dei media uno sforzo culturale
nuovo. Ho sentito parlare oggi di delitti della paura, di occhi della paura, di
occhi del nemico, di diritto penale del nemico: sono anni che noi magistrati con
le Camere penali diciamo che il nostro diritto penale da circa 15 anni è
puramente simbolico. Adesso si sono inventati anche – mi dispiace perché chi
lo ha proposto è molto autorevole – l’omicidio stradale: esiste già
l’omicidio stradale, l’omicidio colposo è già aggravato dalla violazione
di norme della circolazione stradale e quando chi l’ha commesso è in stato di
ebbrezza o alterato da sostanze stupefacenti; è dunque solo una proposta di
facciata, una risposta emotiva e irrazionale. Non ha nessun senso rincorrere
l’emotività indotta da fatti di cronaca seppur gravi. Del resto, come hanno
già spiegato stamattina i criminologi, la stampa coltiva l’emotività. Questo
sforzo culturale nuovo però non può coinvolgere solo gli esterni, e cioè chi
racconta delle vicende del carcere, ma deve necessariamente investire tutti gli
operatori del settore.
Ecco
io vorrei anche che fossero abolite due parole: l’unica cosa che non mi piace
della legge Gozzini, che è per altro bellissima, è la parola “premio”,
“permesso-premio”. Non esiste un premio legale, questo ha indotto anche gli
esterni ad un equivoco enorme: non esiste una progressione premiale, né il
“beneficio”, che è la seconda parola che è da abolire, perché il giudice
non fa del bene al detenuto se lo fa uscire, non gli dà un premio,
semplicemente fa in modo che attraverso uno strumento che consente limitati
spazi di autonomia, attraverso dei progressivi tentativi di reinserimento, possa
realizzarsi la funzione essenziale della pena e cioè l’effettiva
rieducazione. È quasi una volontà oggettiva, uno scopo esteriore che prescinde
dalla premialità.
Quindi,
soprattutto nella parte finale della carcerazione, è ragionevole, perché è
utile, che il detenuto possa progressivamente reinserirsi nella società, sempre
che abbia superato quell’atteggiamento di innocentismo, di rimozione del senso
di colpa, di mancata rivisitazione del suo passato che passa anche attraverso,
perché lo dice la norma di un altro articolo 27 (quello del Regolamento), la
riflessione sulle proprie condotte antigiuridiche e la volontà di attuare opere
di riparazione. La vittima perciò entra nel percorso non perché la
coinvolgiamo noi operatori, ma solo perché noi vogliamo capire qual è
l’atteggiamento del condannato nei confronti del danno che ha provocato, che
è il danno non solo che ha provocato ai propri familiari, che è la prima cosa
di cui si duole il condannato, ma il danno che ha provocato innanzitutto alle
vittime e ai familiari della vittime. Quindi nelle liberazioni condizionali che
concede la magistratura di Sorveglianza, e sono poche perché legate al
‘sicuro ravvedimento’, condizione difficilissima da provare, non esiste il
coinvolgimento della vittima. Allora è necessario in ogni caso che la
magistratura di Sorveglianza, che gioca spesso sulla difensiva, diventi invece
una parte attiva nell’utilizzo e nella promozione degli strumenti rieducativi.
Ho
letto in una bellissima relazione di Mauro Palma che è necessaria una lettura
rinnovata e propositiva dei rapporti istituzionali tra magistratura e
amministrazione penitenziaria. Per esempio l’Amministrazione penitenziaria
dovrebbe essere lei per prima a proporre il detenuto per una misura alternativa,
non dove essere il detenuto per primo o il suo difensore ad attivarsi, dovrebbe
essere l’amministrazione a dire: per noi il detenuto è pronto. E questo non
sempre avviene. È indispensabile ad esempio una condivisione delle scelte della
magistratura di Sorveglianza. Faccio un altro esempio, quello dei sex offenders,
un settore delicatissimo, perché per questa categoria di condannati sono stati
introdotti dei limiti molto forti per l’accesso alle misure – non so se
giustamente o ingiustamente – comunque dobbiamo prendere atto che con varie
leggi che si sono succedute dal 2009 si richiede ad esempio almeno un anno di
osservazione con lo psicologo e poi, quando la violenza è effettuata nei
confronti dei minori, si richiede un progetto psicoterapeutico – secondo la
convenzione di Lanzarote per la protezione dei minori dall’abuso e dallo
sfruttamento sessuale – al quale il detenuto deve aderire per poter accedere
ai benefici. Quindi vedete, quando dite che il magistrato non dà i permessi,
dietro c’è anche tutta una serie di vincoli, preclusioni, paletti che
limitano la scelta e sono degli ostacoli spesso insuperabili.
Ecco
su questo io credo che ci vorrebbe il massimo di condivisione tra la
magistratura e gli operatori penitenziari, mentre vedo che restiamo su mondi
abbastanza distanti, anche perché devo dire che
l’Amministrazione
penitenziaria su questo settore non ha voluto investire sui percorsi
terapeutici, sulle professionalità da coinvolgere, sui programmi rieducativi
che dovrebbero iniziare già in carcere per poi essere continuati all’esterno
in misura alternativa.
L’istituto
della liberazione anticipata speciale ci impegnerà molto perché non abbiamo
personale, non abbiamo carta per stampare le relazioni e i provvedimenti, siamo
stati invasi a Padova da 450 domande solo nel giro di una settimana per la
rivalutazione dei semestri già concessi. Capisco che ogni detenuto tiene a
questa aggiunta, però noi siamo letteralmente bloccati, nel senso che non
faremo altro, quindi sarà più difficile avere un affidamento in prova, perché
per come è stata congegnata questa liberazione anticipata speciale la procedura
è macchinosa e lenta, per cui dobbiamo recuperare i semestri, vedere se dopo
c’è stata una continuità nel percorso rieducativo, vedere se è in
espiazione un reato compreso nell’art. 4 bis dell’Ordinamento penitenziario.
Sarà veramente un’impresa poter reggere questo sistema, però noi ce la
metteremo tutta con la collaborazione del personale, degli educatori e della
Polizia penitenziaria in carcere. Ma il decreto 146 è comunque importante perché
introduce, dopo tanti anni, il rimedio giurisdizionale, cosa di cui pochi
parlano nei commenti alla norma.
Finisco
semplicemente dicendo il catalogo delle cose da fare. Parto subito dal punto più
dolente: “l’ergastolo ostativo”; c’è una questione di costituzionalità
dell’ergastolo, non dell’ergastolo ostativo. È la pena dell’ergastolo che
si pone tendenzialmente in conflitto con l’articolo 27 della Costituzione,
perché una pena perpetua non può essere rieducativa. L’ergastolo ostativo
che si basa sul presupposto, quello della mancata collaborazione, introdotto
negli anni 90 dopo le grandi stragi di mafia e che investe soltanto alcune
particolari categorie di reati, non lo ha inventato il magistrato di
Sorveglianza, perché sta scritto nella legge e soprattutto discende dal tipo di
reato. Se sei condannato per quel reato non puoi avere nessun beneficio, tranne
la liberazione anticipata, se non collabori con la giustizia.
La
collaborazione con la giustizia non vuol dire necessariamente fare la spia, ma
dire tutto quello che so e se non lo posso più fare, per vari motivi, ad
esempio perché ormai la giustizia ha fatto già piena luce sul fatto, esiste la
categoria della collaborazione impossibile che viene riconosciuta dal tribunale
di Sorveglianza e dunque l’ergastolo si apre. Sicuramente i problemi ci sono e
sono di natura giuridica, ma sicuramente questo è un settore su cui
bisognerebbe mettere mano, ergastolo ostativo ed ergastolo, ma anche
l’articolo 4bis andrebbe rivisto se non abolito, perché è il
portato di una concezione arcaica che dovrebbe scomparire dal nostro Ordinamento
penitenziario, dove se un soggetto ha dimostrato con il suo comportamento
successivo di essere cambiato non può portarsi appresso per tutta la vita
questa nota negativa che discende solo dalla natura del reato compiuto. Io ci
credo che l’uomo possa cambiare, se no non farei il magistrato di
Sorveglianza. Non possono esserci delle assurde presunzioni di pericolosità, i
profili di pericolosità di una persona e la meritevolezza degli strumenti
rieducativi devono essere affidati esclusivamente al giudizio della
magistratura. Quindi l’art.4bis va necessariamente riformato, se non abolito
del tutto. Da ultimo, le leggi carcerogene. Allora qui devo dire che si
segnalano dei piccoli, timidi passi in avanti, in particolare per la legge
Fini-Giovanardi sulle droghe, e su questo il decreto legge ha inciso non in
maniera dirompente, però creando un’ipotesi del fatto lieve come reato
autonomo e portando la pena massima ad anni tre. Questo sicuramente dal punto di
vista del tasso di carcerizzazione avrà un effetto importante, si apre uno
squarcio su quella normativa assurda che ha voluto stabilire delle pene alte per
il consumo e lo spaccio di sostanze stupefacenti anche di modesta entità, e
quindi io credo che da questo punto di vista i piccoli tentativi di riforma
siano da apprezzare.
Infine
la legge ex Cirielli su cui devo dire il decreto di questa estate ha già dato
un bel colpo, perché il decreto n. 78, poi convertito nella legge 94, ha
cominciato a togliere una serie di preclusioni che erano state imposte dalla
legge ex Cirielli sui recidivi. Del resto il carcere è pieno di recidivi,
quindi se si mettono delle preclusioni sui recidivi per l’accesso alle misure
alternative è evidente l’effetto perverso che si riversa sul carcere.
Chiudo
qui, ma vorrei solo aggiungere che il binomio “nuova cultura giuridica” e
“interventi riformatori intelligenti”, non dominati dalla paura, può
sicuramente portare a più uomini recuperati, e più uomini recuperati alla
società significa più sicurezza e anche più giustizia.
Noi
abbiamo un tipo di legislazione simbolica e reattiva rispetto alla cronaca
Ma
è però una legislazione che in realtà prescinde totalmente dai dati
criminologici
di
Valerio Spigarelli,
avvocato, Presidente
dell’Unione
delle Camere Penali Italiane
Il
decreto contro il sovraffollamento è un compromesso, fatto male, alla cui base
stanno alcune delle esigenze di porre rimedio alla situazione delle carceri di
cui si è discusso qui oggi, e su cui però pesa anche l’ipoteca di
un’informazione che manca a sua volta di preventiva informazione. Allora, per
partire dal modello costituzionale della pena, mi chiedo se esso abbia una sua
diffusione. O se piuttosto le idee che caratterizzano questo modello
costituzionale della pena siano sconosciute perché non praticate
dall’informazione, a favore di un’idea invece vendicativa della pena,o se
vogliamo dirlo in maniera più elegante, assolutamente retributiva della pena in
quanto più facile da comunicare. Ed anche questo purtroppo produce ciclicamente
degli arretramenti nel sistema penale.
Alcuni
degli esempi che sono stati fatti oggi li evito, ma su di uno ritorno, ed è
quello dell’omicidio stradale che però potrebbe anche essere quello del
femminicidio che però potrebbe essere anche quello del decreto sulla
“violenza sessuale”. Noi abbiamo un tipo di legislazione simbolica e
reattiva rispetto alla cronaca, ma che ignora in realtà proprio i dati di
cronaca. È verissimo che la politica italiana ha delegato alla magistratura
molto di quello che non le avrebbe dovuto delegare, ma non è meno vero che la
classe politica italiana, rispetto allo strumento legislativo penale, prescinde
totalmente dai dati criminologici. Allora noi stiamo discutendo, anzi parlando a
una platea che fa parte dell’informazione: voi giornalisti state scrivendo
dell’emergenza omicidi stradali, però ieri, sul Corriere della Sera si è
finalmente dato un numero, e non in senso figurativo del termine, ma un dato
reale, che ci spiega che gli omicidi stradali sono in calo, anzi si sono
dimezzati dalle riforme del 2006 in poi. Il che significa che abbiamo un dato,
che ci dice che l’emergenza non c’è, riflettiamo sul perché non c’è.
Tra
il 2006 e il 2008, si è registrata una stretta sanzionatoria, che io ritengo
parossistica, che ha prodotto degli effetti. Se l’effetto è stato anche il
calo degli omicidi io lo posso pure prendere per buono, ma devo allora
concludere che non c’è alcuna emergenza in atto per questo fenomeno, però
devo anche sottolineare, sulla base della mia esperienza, un altro aspetto del
problema: io non ho mai fatto nei primi vent’anni di professione un processo
per omissione di soccorso, il mio studio oggi invece fa un numero significativo
di processi per omissione di soccorso. Questo è il gatto che si morde la coda,
tanto più tu alzi il livello della pena, tanto più in certi casi induci, in
categorie sociali che sono lontane dalla devianza, comportamenti che invece
rientrano nel delitto.
C’è
un bellissimo libro, Il falò delle vanità di Tom Wolf, che racconta come un
broker di Manhattan finisca per diventare un perfetto criminale solo perché
viene coinvolto in un incidente stradale che poi lo conduce al crollo della sua
vita. Quando le pene erano più basse erano pochi a non fermarsi per prestare
soccorso, oggi sono tantissimi. Questo è un primo punto fondamentale.
Io
prima sentivo parlare del decreto legge sul femminicidio sul quale io sono stato
l’unico critico ad agosto, anche perché evidentemente tutti gli altri erano
distratti, ma anche qui abbiamo una legislazione emergenziale senza emergenza.
Non voglio dire che non ci sia il problema della violenza sulle donne,
figuriamoci, ma non c’è l’emergenza che legittima, dal punto di vista
costituzionale, un decreto legge. Perché attenzione! i decreti legge sono un
“esproprio legittimo” del diritto del parlamento a fare le leggi, che si
giustifica solo nel caso di necessità straordinarie ed urgenti, che i dati
criminologici sulla violenza di genere smentiscono. Del resto, sul tema dei
reati sessuali – chiamiamoli cosi – ciò si è ripetuto nel corso del tempo
sempre. Il giorno che fu emanato il decreto legge Maroni - per altro largamente
incostituzionale come poi è stato riconosciuto successivamente, quello che
introduceva la custodia in carcere obbligatoria per tutti i tipi di violenze
sessuali - il ministro Maroni – ma non la prendete come indicazione di
carattere politico perché i governi di sinistra hanno fatto esattamente la
stessa cosa - che firmava un decreto che diceva: “Visto il dilagare del
fenomeno della violenza sessuale…”, fece una conferenza stampa e diede
merito al suo esecutivo di avere operato in maniera tale, che la violenza
sessuale era in calo. Vi ricordate Altan e la vignetta con la frase “certe
volte ho delle idee che non condivido?!”, c’era proprio da dirgli allora: ma
lei l’ha mai vista quella vignetta? C’era da dire, c’era da alzare la mano
quel giorno, in conferenza stampa, per dire: ma scusi, stamane per legge lei non
ha affermato il contrario? E non ha fatto una legge sul contrario? Allora questo
è il punto fondamentale secondo me che agita la nostra discussione, perché noi
possiamo tentare di fare delle riforme, anche delle riforme tendenzialmente
illuminate, però ci deve essere una accettabilità sociale di queste riforme
che non può passare attraverso i luoghi comuni ma per i dati veri.
Prendiamo
il caso del mancato rientro nel carcere di Marassi di qualche tempo fa,
ricordate che can can? C’ha messo del suo anche un’ottima persona come il
direttore del carcere di Genova, perché ha detto cose che noi umani non
volevamo sentire, perché semplicemente non vere. Quale è diventata la notizia
in quel contesto? La notizia che ha invaso la cronaca era che fosse possibile
avere un permesso premio senza che il direttore, le istituzioni carcerarie, la
magistratura di Sorveglianza sapessero che cosa avevi combinato precedentemente.
Questa non era una notizia, era una balla, era una balla che per smentirla
bastava interrogare non un avvocato, non un magistrato, ma un ex detenuto
qualsiasi, che gli avrebbe raccontato quello che sapevamo tutti, e cioè che i
precedenti penali sono registrati, eccome. Eppure è stata o non è stata la
notizia che ha campeggiato per una settimana sui media nazionali, perché quella
se fosse stata vera era la notizia dell’uomo che morde il cane: ti tengo in
galera e non so neanche perché ci stai. Ma non era vero, e si è chiesta una
stretta sui permessi in base ad un falso presupposto.
Noi
abbiamo avuto, giustamente in molti casi, meno giustamente in altri casi, il
problema dell’aggressione alla giurisdizione in questo Paese negli ultimi anni
da parte della politica, lo conoscete tutti il tema. Ma l’unico spezzone della
giurisdizione che in forza dei propri provvedimenti ha avuto delle ispezioni
politiche è stata la magistratura di Sorveglianza. Di fronte ad alcuni
provvedimenti della magistratura di Sorveglianza, da destra o da sinistra o da
tutte e due le parti si diceva: andate a controllare che cosa ha fatto quel
giudice, perché ha deciso in quel modo. Ma voi vi immaginate una stampa che
dice: andate a controllare che cosa ha fatto la Boccassini o che cosa ha fatto
un altro procuratore della Repubblica? S’incendia l’Italia
dell’informazione giudiziaria, tutti strepiterebbero che si deve rispettare
l’indipendenza della magistratura. La libertà della giurisdizione vale per
tutti, ma non per la Sorveglianza. Perché quest’aspetto della giurisdizione
sembra quasi una non giurisdizione.
Una
delle cose che io mi sono sforzato di fare da quando rivesto questa carica, è
portare gli avvocati dentro al carcere a vedere come ci si campa. Una delle
misure che io avevo proposto a proposito delle riforme dell’Ordinamento
giudiziario e di quello forense era far fare un po’ di galera obbligatoria
agli avvocati che vogliono fare i penalisti prima di iniziare a fare la
professione, e un po’ anche ai magistrati! un po’ l’abbiamo fatto perché
abbiamo incominciato a entrare nelle carceri a fare delle visite per conoscere
la sua realtà. Anche perché c’era una parte consistente della avvocatura
penale che considerava “processo” tutto quello che arrivava alla sentenza
esecutiva, e qualche cosa di diverso, di minore, quello che veniva dopo. Allora,
ancheper tentare di appropriarci di un ruolo sociale, per entrare diciamo dalla
porta giusta, l’avvocatura non soltanto ha tentato di fare una battaglia
contro quello che si diceva prima, la legislazione penale simbolica, la cattiva
informazione su questo mondo, le soluzioni che vengono prese sotto il ricatto
vero o inventato dell’emergenza della sicurezza, ma anche di appropriarsi di
un ruolo rispetto a una cornice di diritti fondamentali che dentro il carcere
tocchi con mano essere venuta meno.
Però
anche qui a mio modo di vedere c’è una invisibilità di diritti che non può
venire meno. Il 41 bis è nel catalogo delle cose che io ritengo debbano essere
espunte per ritornare alla Costituzione, cosi come l’ergastolo ostativo, anzi
cosi come l’ergastolo comune. Ma il 41 bis va raccontato. Perché bisogna dire
cos’è il 41 bis, non è maggior sicurezza, perché la maggior sicurezza,
doverosa per un certo tipo di detenuti che possono mantenere dei rapporti con
l’esterno, si fa in altra maniera e non di nuovo con una cosa così simbolica,
cosi fortemente simbolica come la sottoposizione al carcere duro.
Qualche
giorno fa il ministro Alfano ha chiesto l’aggravamento del carcere duro, una
cosa comica, tanto che il super procuratore nazionale antimafia ha
sostanzialmente detto: «Sì, ma ci spiega come? perché più di cosi
francamente non sappiamo cosa fare». Sembra una battuta ma è avvenuto
esattamente cosi, allora rispetto a questo tipo di questione che cosa bisogna
fare? ma soprattutto cosa fare rispetto a un circuito informativo che non è
consapevole del tipo dei diritti che sono in discussione, dei pericoli che un
certo tipo di informazione può provocare. Torno a dire, lo dico prima di tutto
per noi avvocati, poi lo dico per l’informazione, chi fa il giornalista non può
dimenticare quello che è avvenuto a Brindisi un paio di anni fa. Vi ricordate?
ci fu un attentato di fronte a una scuola, morì una bambina, successe che un
sospettato, un sospettato perché un’indagine penale parte dal sospetto, fu
portato in Questura. Il problema è che quando lo portarono in Questura
contestualmente venne data la notizia ai cronisti di Brindisi, quindi
contestualmente si arrivò all’identificazione di questa persona, e sotto la
Questura si radunò una folla. Io scrissi un documento che si chiamava “E se
li avessero linciati?”. Perché erano più di uno, stavolta se li avessero
linciati, chi si metteva a piangere?
Probabilmente
si metteva a piangere anche una parte dell’informazione, perché successe che
dettero nome e cognome del sospettato, poi andarono sotto casa del sospettato a
tentare di descrivere “il mostro”, addirittura con ricostruzioni
psicologiche della possibile evidente colpevolezza dell’uomo. Ma, visto che
questo non c’entrava niente, nel giro di poche ore con un interrogatorio di
polizia tutto si chiarì e fu mandato via dalla Questura a piedi – a suo
rischio e pericolo – perché fuori c’era la folla, dopodiché
l’informazione fece delle splendide – Bruno Vespa è maestro in questo –
fece delle splendide interviste al sospettato dicendo: “Eh, l’ha
passatabrutta lei…”. Come con il presunto stupratore della Caffarella, che
gli fece pure la rampogna “Però lei si deve comportare bene la prossima
volta…”.
Allora
questo è un punto in discussione, questo è il punto della deontologia, la
deontologia io l’ho letta, nel codice dei giornalisti c’è scritto che le
persone in manette non dovrebbero essere riprese. Una deontologia preventiva che
dovrebbe impedire le forche caudine sotto le Questure, quando
piegano
la testa delle persone appositamente per mostrarle ai fotografi. E la
deontologia riguarda per esempio come si descrive la legge Gozzini. La Gozzini
viene dipinta come quello che assolutamente non è, una sorta di regalia ai
cattivi. Io non voglio fare il buonista da questo punto di vista, perché io mi
sono scocciato di essere un buonista e di essere rappresentato come quello
buono, io non sono buono, io sono pratico, io sono un contabile dei
costi/benefici e dico che fa meglio la Gozzini sulla sicurezza che l’orgia di
retorica che ogni volta leggo sui giornali quando si parla della Gozzini.
Ahimè
per la verità venendo in treno la retorica l’ho ascoltata da un
rappresentante del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Infatti a
proposito del Decreto Legge Cancellieri che allunga la liberazione anticipata
l’ex dirigente del Dap, Sebastiano Ardita, in Commissione giustizia ha detto
che è un indulto mascherato. Ha detto una cosa che non sta né in cielo né in
terra, e l’ha detto per rafforzare quella parte del Decreto Legge che è la più
inconciliabile con la Costituzione. Nel ‘92 a sangue caldo di Falcone e
Borsellino sulle strade, si tentò anche, nel costruire praticamente il sistema
del 4 bis pieno di preclusioni oggettive e soggettive, di stabilire che pure la
liberazione anticipata doveva rientrare in quelle preclusioni, ma lì però ci
si fermò. Ci si fermò perché molti costituzionalisti dissero «Guardate che
non è possibile proprio negare totalmente qualsiasi beneficio nel sistema di
doppio binario, perché così si vanifica la funzione di emenda della pena, che
è scritta in Costituzione”. Con quello che ha detto Ardita, l’altro giorno
di fronte alla Commissione giustizia, si sta tentando esattamente di fare
questo, disegnare un sistema incostituzionale. Allora ci vuole deontologia, ci
vuole conoscenza e ci vuole anche uno sguardo non provincialmente esterofilo su
quello che avviene fuori.
Quando
noi parliamo della Cirielli, quando noi parliamo dell’orgia dei Decreti
sicurezza che in realtà hanno fatto male alla sicurezza in questo Paese, ci
dimentichiamo di dire che i nostri legislatori non sanno neanche cosa imitano.
Perché tutto quello che è avvenuto nel nostro Paese tra il ‘90 e il 2000 era
già successo negli Stati Uniti venti anni prima. Lì avevano inventato le
parole d’ordine – Tre colpi e sei fuori -, e la teoria delle finestre rotte.
“Tre colpi e sei fuori” significava che se tu violi la legge una volta hai
tutto l’apparato sanzionatorio, ma anche tutto quello che l’ordinamento ti
può dare per essere recuperato, se lo fai due volte pure, ma alla terza,
secondo un’ottica schiettamente puritana, hai esaurito il bonus, e quindi
anche se guidi in stato di ebbrezza ti prendi una pena strepitosa e non esci più,
buttano la chiave. La teoria delle finestre rotte significa che se tu con la
fionda rompi un vetro, non meriti la pena della rottura del vetro, meriti una
pena più alta perché, rompendo quel vetro, permetti il degrado di quella via,
e quindi dai una formidabile mano alla criminalità. Per questo non meriti la
pena per quel che hai fatto, ma per quel che succederà. Bene, queste
teorizzazioni negli Stati Uniti hanno fallito perché hanno portato ad una
cancerizzazione di massa che è diventato il maggior problema, e senza nessun
beneficio rispetto alla lotta al crimine. Gli americani lo riconoscono, perché
hanno la sicurezza che è esattamente quella di prima se non peggio, ma in più
hanno oltre 2 milioni di detenuti. Allora il nostro legislatore ha accolto
queste teorie quando lì stavano abbandonando quella strada, e non per bontà,
è che lì sono pragmatici, e nemmeno perché hanno la stessa nostra
Costituzione, e neppure la stessa filosofia sulla pena che invece dovrebbe
esserci qui per via della Costituzione, ma semplicemente perché sono seri nel
valutare l’effetto e l’impatto delle leggi. E l’effetto e l’impatto
delle leggi talvolta si misura anche sui numeri, ed è incredibile che questi
numeri certe volte scompaiono sulla stampa.
Mettiamola come vi pare, ma in fondo è semplicemente una questione di onestà intellettuale.