Vite
violente: una storia di violenza sfiorata
“Mezzo
metro, mezzo metro ha separato la punta del mio coltello dalla pancia dei due
uomini. In cinquanta centimetri si sono concentrati, per pochi secondi, i miei
ventinove anni passati e gran parte di quelli futuri, ammassati insieme,
confusi. La mia vera fortuna, il mio biglietto vincente, che solo da poco sto
imparando a riconoscere come tale, consiste nel non aver accorciato quello
spazio a tutti gli effetti vitale”
di
A. M.
Credo
ci siano parole che non riescono a dare un quadro completo della situazione che
evocano. Ecco, è in questo modo che mi sento di definire il termine
“violenza”, nel mio caso, quando la pronuncio o scrivo, è come se aprissi
una botola sotto cui si cela un buco, un lungo e stretto tunnel a misura
d’uomo che sprofonda giù nel terreno, buio e verticale. Un buco tutto mio,
scavato con le mie mani. Un buco iniziato con le dita di un bambino e finito,
per adesso, con quelle di un ragazzo di trent’anni. Il mio rapporto con le
autorità, di qualunque genere, che io ricordi è sempre stato conflittuale.
Irrequietezza e timidezza mi hanno accompagnato fin dalla tenera età, un mix
che mal controllato è in grado di produrre parecchi danni, dato che entrambe
hanno la straordinaria capacità di escluderti dalla vita sociale. Ho avuto
grandi difficoltà nell’accettarmi, soprattutto nel periodo adolescenziale e
il mio primo passo verso l’isolamento credo di averlo fatto sul finire della
scuola dell’obbligo, attratto più dai comportamenti “deviati” di alcuni
compagni “difficili”, che dall’idea di costruirmi un futuro studiando.
È
strano come la ribellione alle regole mi abbia impaurito, da un lato, e
stregato, se non addirittura affascinato, dall’altro. Non ne ho mai fatto una
questione di soldi, ma più di menefreghismo, come dire “io non sono come voi,
perché quello che voi fate non mi piace, non mi interessa”. Ho iniziato così
a sottrarre sempre più tempo alla scuola preferendo coltivare il mio egoismo e
creando le basi del dolore che tanto hanno mutato oltre che la mia vita, quella
di chi mi ha voluto e tuttora mi vuole bene. A quell’età non è che facessi
nulla di eclatante o che avesse potuto destare preoccupazione, erano piccole
cose per lo più comuni a tutti i ragazzini del mondo, come mascherare brutti
voti o uscire di nascosto il pomeriggio per andare a giocare a basket o calcio
nel parchetto del quartiere, oppure fumare le prime sigarette a casa di un amico
o nascosti nel retro della scuola; insomma niente che qualche sgridata di madre
non potesse raddrizzare, anche se, per quanto mi riguarda, non funzionò. Il
secondo passo, fondamentale per come poi si sviluppò il mio futuro, fu quello
di aggiungere al tabacco qualche piccolo pezzetto di hascisc; la prima volta che
mi fumai una canna fu sempre a scuola, in prima liceo scientifico, durante la
ricreazione e anche là ci eravamo nascosti dietro l’ingresso secondario della
struttura. In poco tempo ci ritrovammo, creammo un gruppo di ragazzi il cui
minimo comun denominatore era l’intolleranza alla legge, qualunque essa fosse,
ognuno aveva le sue ragioni.
Nessuno
di noi veniva da realtà particolarmente disagiate
Nessuno
di noi veniva da realtà particolarmente disagiate, non eravamo né ricchi né
poveri, eravamo figli della classe media, figli a cui i genitori non avrebbero
mai fatto mancare niente proprio perché parecchi di loro la povertà
l’avevano conosciuta molto bene. Nel mio caso sono riuscito a buttare via
tutti gli sforzi, umani più che economici, di cui si erano fatti carico con la
stessa rapidità tipica di chi perde un patrimonio al gioco. Al contrario di ciò
che si potrebbe pensare, non eravamo per nulla considerati come persone “alla
moda” o “coraggiose” o “ribelli”, anzi, direi che nel nostro caso era
esattamente l’opposto: nella piccola società scolastica, sia per la maggior
parte degli allievi che degli insegnanti, rappresentavamo un certo tipo di
emarginazione, da un lato voluta, ma dall’altro in nessun modo contrastata,
nel senso che l’autorità, cioè il gruppo docente, era più interessato a
metterci i bastoni tra le ruote che a cercare di capire le motivazioni del
nostro “lasciarci andare”. Questo è stato un punto cruciale della mia
educazione, nei miei quattro anni di liceo capii che chi andava avanti spesso
non era per intelligenza o meriti, ma per la sua capacità di adattarsi e di
rigirarsi le regole a proprio piacimento, le stesse che noi, al contrario,
ignoravamo e disprezzavamo.
Non
sopportavo quasi nessuno dei miei compagni di classe, pronti a calpestarsi a
vicenda pur di strappare un buon voto ma sempre con l’aureola in testa.
Ripensandoci a freddo, presumo che molti fossero intimoriti più dal voto
negativo che dall’idea di non imparare niente, si preoccupavano esclusivamente
di cosa sarebbe accaduto una volta rientrati tra le mura domestiche, delle male
parole del padre o della madre o dei piccoli privilegi che gli sarebbero stati
tolti per castigo.
Comunque,
non furono mai in grado di bocciarmi, perché con pochi sforzi, riuscivo sempre
a cavarmela all’ultimo. Non usavo trucchi particolari, semplicemente mi
mettevo a studiare solo quando le cose si mettevano male e questo li faceva
imbestialire, logorando irrimediabilmente il mio rapporto con la maggior parte
degli insegnanti.
Motivo
per cui all’età di diciassette anni lasciai definitivamente la scuola e mi
ritrovai letteralmente per strada, ma anche il resto della compagnia fu
costretto, in un modo o nell’altro, a lasciare l’istituto. Il liceo era a
conoscenza di quello che facevamo, come dargli torto, tutte le mattine, prima di
entrare nell’edificio, ci si trovava sulle panchine di una viuzza defilata e
si fumava come pazzi, era diventata una “piazza” a tutti gli effetti, ogni
tanto arrivava un controllo delle forze dell’ordine, ma non ci importava
niente, l’idea di finire nei guai con la giustizia non era assolutamente presa
in considerazione. Nel frattempo la mia era diventata un’innegabile
tossicodipendenza, infatti al primo spinello seguì quasi subito l’uso di
droghe sintetiche e alcool. Vorrei specificare che, per me, non fu il bisogno di
passare a “qualcosa di più forte” come quando si cerca di demonizzare
l’argomento, spersonalizzandolo, ma semplicemente una sorta di attrazione
fatale, perché gli stupefacenti, tutti, sono buoni e finché non ne sei
succube, ti fanno stare bene. Certo fu difficile nascondere i miei comportamenti
in casa e la prima volta che mi “beccarono” risale all’età di quindici o
sedici anni. Per la mia famiglia fu terribile scoprire dalle analisi a cui mi
dovetti sottoporre, che nel mio corpo scorrazzavano i generi più disparati di
narcotici. Ricordo i pianti di mia madre, piangeva di notte per non farsi
sentire, ma le lacrime che mi dedicava arrivavano puntualmente alle mie
orecchie. Una sensazione orribile, un senso di colpa che ti comprime, eppure
neanche questo riuscì a farmi smettere, figurarsi la punizione che mi imposero.
Abbandonata la scuola mi trasferii a Londra, per seguire quella che era la
passione del momento, i rave illegali, adoravo quell’ambiente e quella musica,
mi facevano sentire a mio agio.
Lassù
mi mantenni lavoricchiando qua e là, spesso dormivo negli squatter (case
occupate), raramente pagavo per un affitto, mangiavo quando capitava e l’abuso
di droghe era all’ordine del giorno. Le sostanze a Londra si trovavano con
estrema semplicità e a prezzi stracciati rispetto all’Italia. Ci rimasi per
un anno, quando tornai ero psicologicamente devastato e con la ragazza che
frequentavo allora incinta, di comune accordo decidemmo per l’aborto, senza
ragionarci troppo, ma neppure questo mi fece riflettere. Forse perché non mi
importava, vedevo un figlio solo come impedimento al mio divertimento e poi con
certezza non sarebbe cresciuto in un ambiente sano. Qualche tempo dopo ebbi un
crollo, un grave esaurimento nervoso, mi ritrovai dentro il corpo di un ventenne
con la testa di un bambino, retrocessi, divenni stupido, “rimasi sotto”. Ci
vollero anni per ripulirmi da quello choc, gradualmente sostituii la roba
sintetica con l’alcool a tempo pieno, passai vari lavori fino a trovare il
mestiere che tuttora svolgo, il tecnico delle luci. Inutile dire che da
situazioni del genere si esce pesantemente umiliati e in solitudine, gli amici
spariscono e le difficoltà per farsene di nuovi sono enormi, soprattutto perché
ormai si è diventati altro, il carattere e l’attitudine alla vita sono
cambiati, irrimediabilmente, costruendoti intorno mura spesse, alte ed
efficienti come quelle delle carceri.
Me
ne stavo in casa con la mia scorta di stupefacenti, non avevo bisogno di altro
La
svolta lavorativa fu un ottimo stimolo per riprendere il controllo, essendo
un’occupazione che comporta rischi per se stessi e per gli altri, ti
responsabilizza e se non stai al gioco, come ci sei entrato ti buttano fuori.
Avevo abbandonato le sostanze chimiche, ma il lupo perde il pelo e non il vizio,
così iniziai ad assumere cocaina, visto che lo stipendio me lo permetteva e io
ero diventato bravissimo nel gestirmi, per cui non facevo mai troppa fatica ad
alzarmi la mattina.
Questa
è l’unica motivazione, oltre ad una buona dose di fortuna, per cui, fino a
poco tempo fa, la mia fedina penale era immacolata. Uscii definitivamente di
casa a ventiquattro anni e per qualche tempo riuscii a conciliare gli ottimi
risultati professionali con l’abuso di coca, che poi si trascinò dietro anche
l’eroina, a cui però non mi sono mai assoggettato, proprio perché sapevo
perfettamente a cosa sarei andato incontro. Ora non mi sento di affermare che se
avessi avuto una seria “educazione” sull’uso e sui rischi derivanti dal
consumo di droghe, qualunque esse fossero, la mia vita avrebbe preso una
direzione diversa, anzi, temo che avrei fatto le stesse identiche scelte.
Tuttavia, magari, sarei riuscito a smussare qualche angolo contenendo i danni.
Invece, nell’età della mia adolescenza che ha coinciso con la seconda metà
degli anni novanta, l’unica “arma di difesa” utilizzata dalle istituzioni
consisteva nel ripetere all’unisono “la droga fa male, stateci lontani! “,
contribuendo in tal modo ad accrescere notevolmente la curiosità e
quell’atteggiamento tipico che i divieti assoluti, privi di spiegazioni
oggettive, esercitano su ragazzini di quindici o sedici anni, riconsegnando un
risultato opposto a quello desiderato.
Quando
ripenso ai periodi più bui della mia esperienza, mi ricordo bene come la mia
unica preoccupazione fosse la ricerca del piacere confezionato e null’altro,
chissà quante cose mi sono perso e quante altre mi sono sfuggite sotto gli
occhi.
Nonostante
abbia conosciuto molta gente nuova, non sono più stato capace di instaurare
legami affettivi, triste da dire, ma a serate di baldoria nei locali, spesso
preferivo la solitudine, me ne stavo in casa con la mia scorta di stupefacenti,
semplicemente perché era tutto quello di cui avevo bisogno. Un giorno però,
stufo di non tenere mai un soldo in tasca dopo tutte le giornate passate a far
fatica, decisi di trasferirmi in montagna per inseguire la passione per la neve,
abbandonata da ragazzino e sostituita da altri tipi d’emozioni. Ci stetti
circa due anni, e forse posso dire che sia stato uno dei periodi più felici
della mia vita, andavo a fare snowboard tutti i giorni di pausa, mi ero
allontanato quasi definitivamente da quei vizi così pericolosi e, cosa più
importante di tutte, avevo un progetto di vita, per quanto semplice fosse,
volevo diventare il più bravo possibile in quello sport. Il lavoro andava bene,
avevo affittato una casetta e mi ero comprato pure una macchina scassata che mi
trasportava dappertutto; a ripensarci sembra quasi un film, ma non lo è,
infatti nel 2008/2009 arrivò questa maledetta crisi. In pochi mesi i problemi
si moltiplicarono e io non fui abbastanza pronto e veloce nel trovare
soluzioni, dovetti ritornare in città, una città tra le più grigie, false e
infelici che abbia mai visto.
Questo
fu un periodo estremamente cupo, i soldi scarseggiavano e la noia irruppe
prepotentemente nella mia vita, ricominciai a bere, principalmente da solo.
Passai i due anni a seguire prima dell’arresto per la maggior parte del tempo
chiuso in casa; il piano era semplice: risarcire un debito contratto con la
banca e mettere via denaro a sufficienza per acchiappare l’aereo e trasferirmi
in Australia, insomma emigrare. Mi riuscì in parte, ma il risvolto umano non fu
certo dei migliori: tutti gli sforzi intrapresi per allontanarmi da uno stile di
vita che non mi portava mai a niente sono svaniti nel nulla e mi sono ritrovato
ancora una volta circondato dalla mancanza di prospettive con l’eccezione
della fuga. Giorno dopo giorno incamerai rabbia e odio contro me stesso e contro
questo mondo che
mi
riesce difficile da capire e a cui faccio fatica ad adattarmi.
Sicuramente
sono io, io ho dei grossi problemi nel confondermi tra la folla facendo finta di
niente e non sono abbastanza forte per convivere con certe nefandezze, non
riesco per esempio a mimetizzarmi in un mondo del lavoro che troppo
frequentemente predilige la logica del profitto all’intelligenza,
trascinandosi dietro innumerevoli morti di cui nessuno parla mai. Non posso
vedere tutta quella serie di controlli messi in atto solo dopo tragedie, utili a
multare e totalmente inefficaci sul fronte della prevenzione, come dire passata
la festa gabbato lo santo.
Un
gesto violento, la certezza che “da adesso non sarò più quello di prima”
E
alla fine ci sono cascato. Una sera d’estate andai a bere un paio di birre per
i fatti miei in un locale, poi mi rimisi in macchina per tornare a casa.
All’altezza di un grosso incrocio, due uomini attraversarono a piedi col rosso
mentre stavo passando, nacque un battibecco, mi fermai e presi il coltello da
cucina che mi ero dimenticato in macchina dal pomeriggio, lo nascosi nei
pantaloni e sotto la maglietta. A questo punto non ho intenzione di
giustificarmi con un “non so cosa mi abbia preso”, lo sapevo benissimo, mi
sono detto “se vogliono menarmi si dovranno applicare”. E così,
lucidamente, si impadronì di me stesso quel personaggio costruito negli anni
per autodifesa, quel lato caratteriale per cui desidero che la gente non abbia
stima ma paura di me, quella persona a cui bisogna fare attenzione anche solo
nel rivolgergli la parola. Il tutto durò meno di cinque minuti, parole grosse e
poi si avvicinarono, io estrassi il coltello. Quando ci ripenso, rivedo ancora
l’istante in cui l’impugnai e il pensiero preciso che mi venne in mente:
“da adesso non sarò più quello di prima” e così e stato. Chi mi stava di
fronte indietreggiò istintivamente e si allontanò di qualche metro. Risalii in
macchina, notai che i due soggetti presero il numero di targa, me ne tornai a
casa e mi addormentai.
Circa
tre ore dopo arrivarono una decina di carabinieri, tra cui le due “vittime”,
e mi arrestarono. Mi portarono prima in questura e poi in galera, accusandomi di
tentato omicidio.
Una
volta arrivato a San Vittore (era l’alba), mi lasciano in una cella vuota con
una panca, mi sdraio e penso: è tutto uno scherzo, tra poco mi diranno:
“paura eh? vabbé vattene via e non farti più vedere”. Ma non è vero, mi
chiamano per il rituale: foto, deposito oggetti, perquisizione. Appena entrato
nell’edificio sento quell’odore, quello schifo di odore, che sa di muffa
coperta da prodotti per la pulizia e poi echi a non finire di voci,
chiacchiericcio, porte che si aprono e si chiudono, ferro contro ferro. Almeno
fa fresco, è estate.
Mi
portano in cella, entro, un disastro: 11 persone che mi guardano in un quadrato
che, compreso il cesso, avrà misurato 5 mt per lato, finestre smontate o aperte
o chiuse, quel maledetto odore, cavi elettrici scoperchiati (deformazione
professionale), “letti” a castello impilati su tre piani, 12 posti in
totale, io mi becco l’unico vuoto, in basso. Nascosti sotto le brande ci sono
le borse con i vestiti e gli effetti personali, alcuni con degli asciugamani
fanno delle sorte di tendine tra i due piani per crearsi un minimo di
isolamento; saluto, metto giù lo zaino, butto su il lenzuolo che mi hanno dato
sul materasso di spugna marrone marcio e pieno di macchie, mi sdraio, dormo.
Quando mi alzo vado in bagno (senza porta chiaramente), lo squallore non
finisce: i sanitari sono un buco nel pavimento, qualche centimetro in là un
lavandino da battaglia, incrostato di ruggine, un tavolino rettangolare con su
il fornelletto del gas e quattro stoviglie, di fronte i panni stesi. Vado a
urinare e uno dei ragazzi, che poi erano tutti slavi, mi dice di fare
attenzione, dopo aver pigiato il bottone per tirare l’acqua, bisogna rimettere
il pezzo di coltello di plastica perché altrimenti continua a scorrere. Torno
alla branda e mi riaddormento. Nel primo pomeriggio arriva l’assistente che
dice: doccia e aria. Non ho voglia, ma giustamente un altro mi invita con
pacatezza ad andare a lavarmi. Non me lo faccio ripetere, capisco che non
bisogna lasciarsi andare e che la situazione è estremamente tesa e gli
equilibri si possono rompere per niente. Prendo l’asciugamano e il
docciaschiuma, esco, giro a sinistra, due passi di numero e entro nel locale
docce: esattamente come il bagno, la differenza sta nella posizione del buco,
qua è sopra la tua testa. Mi lavo con le mutande, direttive del carcere,
intanto di polizia penitenziaria a controllare le docce non ce n’è.
Nel
pomeriggio mi chiamano per un colloquio, non mi ricordo come veniva chiamata
questa figura, ma il suo lavoro era di illustrarmi a grandi linee la situazione.
Appena faccio due gradini ho un forte conato di vomito, una vera schifezza di
succhi gastrici e pezzi di cena che non ero riuscito a digerire, mi trattengo,
me la tengo in bocca la mistura, scendo in fretta al primo piano e chiedo a un
assistente un bagno, niente di fatto; leggo il numero di stanza sul bigliettino
e mi presento in queste condizioni, l’uomo urla “deve vomitare portatelo in
bagno” e così hanno fatto.
Dopo
il colloquio chiesi uno spazzolino da denti e il dentifricio, l’ho visto solo
la sera prima che lasciassi il carcere per la detenzione domiciliare.
Arriva
la sera, scambio due parole con i miei compagni di sventura, mi offrono da
mangiare, da bere, sigarette e persino dolci, senza che io avessi niente con cui
ricambiare. Ancora oggi se ci penso rimango a bocca aperta, il loro
comportamento stride pesantemente col luogo, alla faccia degli immigrati cattivi
che la destra italiana identifica con l’unico e prioritario male del paese.
Il
secondo giorno mi sento un pelo più tranquillo, ma è solo una sensazione;
alcuni dei ragazzi continuano a chiedermi da dove vengo, io rispondo e il più
anziano, non per età, ma per anni passati in quella cella, mi fa capire
chiaramente che ero stato messo in un gruppo di stranieri per punizione, come se
tutto il resto non bastasse.
Quando
guardo mia madre rivedo su di lei i miei errori, la mia violenta visione della
vita
Arrivo
così al colloquio col gip (credo si chiami così), premesso che dalla stazione
dei carabinieri ero riuscito a telefonare a mio fratello lasciandogli un
messaggio sulla segreteria telefonica, non sapevo minimamente se avessero
trovato un avvocato. Arrivo in questa stanzetta all’americana, ma con stile
tutto
italiano: un buco con due sedie e una parete a specchio. Poco dopo entra
quest’uomo magrolino sulla cinquantina, col viso pieno di rughe e la pelle
segnata dalla fatica, che mi racconta di esser stato arrestato per stalking, ma
che in realtà la giovane moglie mezza tossica era scappata con tutto quello che
avevano e lui voleva solo riprendersi ciò che era suo, io a dir la verità non
voglio ascoltarlo, sono già schiacciato dalle mie di preoccupazioni, per cui
faccio solo dei cenni con la testa e non gli rispondo. Si apre la porta e fuori
c’è un quarantenne che si presenta come il mio avvocato, chiamato dalla mia
famiglia. Dopo le presentazioni e un piccolo colloquio, entriamo dal giudice:
una signora anziana, accompagnata da una ragazza della mia età che dava
l’impressione di cappuccetto rosso in mezzo ai lupi. Appena mi vede glielo
leggo negli occhi, ha già deciso la mia colpevolezza, saranno stati i tatuaggi,
la testa rasata, l’abbigliamento che ricorda gli anarchici, o forse
l’insieme di tutto. Le do la mia versione dei fatti, non crede ad una parola.
A quel punto ho cercato di sembrare il più stupido possibile, forse quella
avrebbe potuto essere un’attenuante. Ma niente, la decisione fu: “rimane in
carcere”. Anche all’avvocato dissi, in un secondo colloquio, se si potevano
acquisire i filmati delle telecamere (nella zona del fattaccio è strapieno,
stradali e private), ma lui mi rispose che ci sarebbero voluti mesi e avrei
dovuto rinunciare al processo per direttissima e seguire il normale iter penale
(e comunque chi aveva tutti quei soldi da sborsare?). Bella roba, anni per avere
un giusto processo, salvo poi magari risultare la pena inflitta minore del tempo
passato in carcerazione preventiva. Patteggiamento, unica soluzione.
Il
quinto giorno andai al processo, il giudice dopo aver letto anche le mie
dichiarazioni, concluse che tra quello che affermavo io e le motivazioni dei
carabinieri cambiava poco, per cui mi affibbiò 2 anni e 4 mesi di detenzione
domiciliare + 5000 euro di risarcimento per carabiniere. Gli ho dovuto pure
chiedere scusa in aula, le scuse meno sincere della mia vita (ho fatto in modo
che tutti se ne accorgessero).
Ora
vivo da 17 mesi in un ambiente che nulla ha che vedere con la galera, è una
cascina ristrutturata (la casa dei miei genitori), nel mezzo di un bosco. Da 17
mesi le uniche persone con cui parlo sono mia madre e mio padre, a volte qualche
zio, cugino, fratello (capisco perfettamente che non possono essere sempre qui).
Per
fortuna ho ottenuto 3 sconti di pena da 45 gg ciascuno, per cui il peggio è
passato e a luglio sarò libero, ma non nel senso assoluto del termine, perché
ho un peso di svariate migliaia di euro che incombe sul mio futuro. Quindi col
c. che tutto finisce dopo aver scontato la pena (anche perché con il precedente
che mi ritrovo qualsiasi possibilità di rifarmi una vita al di fuori
dell’eurozona è totalmente vana) e che la legge è uguale per tutti, abbiano
il coraggio di togliere o quantomeno modificare quella frase nei tribunali.
Mezzo
metro, mezzo metro ha separato la punta del coltello dalla pancia dei due
uomini. In cinquanta centimetri si sono concentrati, per pochi secondi, i miei
ventinove anni passati e gran parte di quelli futuri, ammassati insieme,
confusi, compressi senza alcun criterio e logica.
La
mia vera fortuna, il mio biglietto vincente, che solo da poco sto imparando a
riconoscere come tale, consiste nel non aver accorciato quello spazio a tutti
gli effetti vitale. Ora non voglio analizzare il reato e le sue circostanze, ci
hanno già pensato un Giudice e un Tribunale e che lo si voglia accettare o no,
ormai c’è poco da fare. Potrei dirvi che mi hanno accusato con più severità
di quanto meritassi, come potrei anche dire che se non mi fossi indebitato fino
al collo per poter pagare un buon avvocato, difficilmente starei qui a scrivere
le mie riflessioni.
Oppure
potrei lasciar intendere che pur di non passare anni chiuso dentro un barattolo
come uno scarafaggio in attesa del mio processo “giusto ed equo” (che mai
avrei avuto a causa delle insormontabili spese legali), ho preferito, senza
pensarci due volte, patteggiare e dichiararmi colpevole, scontando così la mia
pena in un domicilio, ma non senza difficoltà. Non senza controlli serrati a
qualsiasi ora del giorno e della notte, non senza la possibilità di commettere
un minimo errore e vedersi revocato irrimediabilmente il “beneficio”, non
senza gravi problemi familiari o di chi ti ospita, non senza la probabilità di
veder scomparire amici, parenti, figli, moglie o compagna che sia, non senza
l’azzeramento dei rapporti sociali, non senza disagio vecchio e nuovo, non
senza quella aggravante di abbandono e senso d’ inutilità a cui si è
sottoposti e che più pesa sulla psiche, non senza rabbia e cattiveria che ti
allontanano sempre più da un’esistenza pacifica, prima di tutto con te
stesso. Comunque sia sarebbero solo parole, tuttavia non cambia la realtà dei
fatti, ho sbagliato, ancora una volta e pesantemente, devastando ulteriormente
oltre la mia persona, coloro che, nonostante tutto, non hanno mai smesso di
amarmi. Quando guardo mia madre rivedo su di lei i miei errori, le mie
malefatte, la mia violenta ed egoista visione della vita, è come guardarsi allo
specchio, è terribile, le ho distrutto la vita. Questa è la punizione più
straziante a cui mi sono dovuto sottoporre e che credo mai riuscirò a
metabolizzare.
E
io, tutto sommato, mi ritengo molto fortunato rispetto a tanti altri. Mi viene
in mente quella vicenda del senegalese che s’è beccato più di dieci anni per
aver venduto cd piratati o quell’altro che a Bolzano s’è preso più di un
anno per aver rubato 3 euro di spesa al supermercato e chissà quanti altri casi
se ne stanno ben nascosti in quelle galere che chiamano hotel.