Perché
una Carta delle pene e del carcere
La
“nostra” Carta, un codice deontologico per i giornalisti rivolto a chi
scrive di imputati, condannati, detenuti, è stata finalmente approvata dal
Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, ma c’è ancora tanto lavoro
da fare, soprattutto sul diritto all’oblio
Il
15 marzo a Regina Coeli è stata presentata la Carta delle pene e del carcere,
codice deontologico per i
giornalisti rivolto a chi scrive di imputati, condannati, detenuti, delle loro
famiglie e del mondo carcerario in genere.
La
Carta nasce da una riflessione collettiva, maturata all’interno delle
redazioni dei giornali delle carceri, tra coloro che fanno giornalismo in
carcere e sul carcere.
Da
questo dibattito è emersa la necessità di “informare gli informatori”, che
troppo spesso scrivono di carcere e di esecuzione penale ignorando cosa
prevedono le leggi che regolano questa materia.
La
Carta sostanzialmente ribadisce che non è ammessa l’ignoranza della legge, e
sono leggi quelle che consentono a un detenuto di accedere a benefici e misure
alternative.
Affermare
che un detenuto che usufruisce di misure alternative “è tornato in libertà”
è una notizia falsa e destituita di fondamento.
Le
misure alternative non sono equivalenti alla libertà, ma sono una modalità,
prevista dalla legge, per l’esecuzione della pena.
La
Carta invita a tenere presente che il reinserimento sociale è un passaggio
complesso che dovrebbe avvenire gradualmente, come previsto dalle leggi che
consentono alle persone detenute l’accesso ai permessi premio, alla semilibertà,
all’affidamento in prova ai servizi sociali, ma non in modo automatico, perché
ogni volta c’è una decisione di un magistrato o del tribunale di
Sorveglianza, che possono concedere o negare un permesso premio o una misura
alternativa al carcere.
a
cura della Redazione
Una
cassetta degli attrezzi per i giornalisti che scrivono di carcere e pene
di
Elton Kalica
Per
chi, come la redazione di Ristretti Orizzonti, in questi anni ha visto nascere
la Carta delle pene e del carcere si tratta comunque di una conquista
importante, poiché la strada è stata lunga e piena di ostacoli. Che si doveva
fare qualcosa per “rieducare” i giornalisti, era una necessità emersa sin
dal 1999, quando con alcune redazioni di giornali delle carceri abbiamo iniziato
una serie di incontri su questi temi. Dopo diversi seminari e convegni si era
arrivati ad una prima bozza, presentata il 26 maggio del 2006 dentro la Casa di
reclusione di Padova. L’occasione era la Giornata di Studi dal titolo “Dalle
notizie da bar alle notizie da galera”. A spiegare il progetto erano stati i
detenuti di Ristretti Orizzonti. Sin da subito il progetto aveva trovato
l’interesse di alcuni Ordini regionali, il Veneto, l’Emilia Romagna, la
Lombardia. Tuttavia il percorso non è stato semplice. Fondamentale è risultato
il coordinamento con altre redazioni di giornali in carcere, come “Sosta
Forzata” di Piacenza e “Carte Bollate” di Milano. Dopo dibattiti,
consultazioni e messe a punto del testo, si è arrivati così al 10 settembre
del 2011, quando finalmente la Carta è stata presentata ufficialmente a Palazzo
Marino a Milano, presente anche il sindaco, Giuliano Pisapia.
Nel
frattempo gli Ordini di Basilicata, Sicilia, Liguria, Toscana e Sardegna hanno
adottato la Carta, e alla fine, il 13 marzo 2013, il Consiglio nazionale
dell’Ordine dei giornalisti l’ha approvata.
In
tanti ora, finalmente, evidenziano la necessità di un codice deontologico che
ponga dei limiti molto precisi all’invadenza di una informazione, spesso
imprecisa nei confronti delle persone private della libertà e dei loro
familiari.
Sicuramente,
da ora in poi i nuovi giornalisti, ma anche i “vecchi” che non sempre
conoscono a fondo la materia dell’esecuzione della pena, non avranno più
scuse. Dopo la Carta di Treviso che riguarda i minori, e la Carta di Roma che
riguarda i rifugiati, i richiedenti asilo, le vittime della tratta e i migranti,
la Carta delle pene e del carcere va ad arricchire quella “cassetta degli
attrezzi” che il giornalismo ha a disposizione per svolgere il suo lavoro in
modo più professionale, per fare un’informazione più sobria e pulita sui
temi delle pene e del carcere.
Definire
degli indirizzi chiari, riguardanti il modo di trattare gli accusati o i
condannati negli articoli, è necessario perché altrimenti chi fa informazione
non rispetta il dettato costituzionale, che afferma con forza la finalità
rieducativa della pena.
La
prossima tappa deve essere però, secondo le redazioni dei giornali delle
carceri, l’introduzione nella Carta con più forza del diritto all’oblio.
Una volta scontata la pena, l’ex detenuto che cerca di ritrovare un posto
nella società non può infatti essere esposto all’infinito all’attenzione
dei media che continuano a ricordare ai vicini di casa, al datore di lavoro,
all’insegnante dei figli e ai loro compagni di scuola il suo passato. Possono
essere ammesse eccezioni solo per quei fatti talmente gravi, per i quali
l’interesse pubblico non viene mai meno.
Il
riconoscimento del diritto all’oblio è un passo importante perché dimostra
la maturità di una società: se in nome del diritto all’informazione il
peggio di una persona può venire raccontato pubblicamente, trovare il coraggio
di riconoscere che quel racconto ad un certo punto può essere interrotto per
non perseguitare la persona per il resto della sua vita, significa aver fatto un
passo da gigante nel cammino della civiltà.
Diritto
a essere dimenticati
di
Alain Canzian
Nelle
nostre discussioni in carcere, nella Redazione di Ristretti Orizzonti, molte
volte parliamo del diritto a una corretta informazione, che vorremmo fosse
rispettato da quei giornalisti che hanno il compito di “mettere su carta” le
storie dei detenuti, quelli che in qualche modo hanno sbagliato e stanno però
pagando una condanna con il carcere. Io sto scontando una pena per la detenzione
di sostanze stupefacenti, e le pene in questo tipo di reato sono molto severe.
Quello che però i giornalisti spesso sembrano non sapere è che dietro a tutto
questo ci sta sempre una persona, che se in qualche modo è arrivata a
delinquere, nel mio caso per la droga, è perché forse in quel momento la droga
era l’unica cosa che la aiutava a mettere fine a una vita diventata
insopportabilmente dolorosa. Certo loro devono dare la notizia, perché è il
loro lavoro e quello che conta è vendere il giornale, però a volte qualcuno
usa qualsiasi sistema pur di arrivare a scuotere l’opinione pubblica, senza
avere nessun ritegno, non considerando quali conseguenze questo può provocare.
Nel mio caso, pur essendo stato per anni uno che ha lavorato cercando di stare
il più possibile nelle regole, certo ho sbagliato e devo pagare per il mio
sbaglio, ma poi leggendo i giornali vedo che sono stato dipinto come il peggiore
dei boss, perché, appunto, l’importante era vendere. Poi, dopo nove mesi di
carcerazione per quel reato sono stato assolto e quindi rimesso in libertà.
Subito ho cercato di far pubblicare una rettifica, perché la notizia data non
aveva niente di vero. Con molta fatica e varie raccomandate mandate alla
redazione del giornale che l’aveva pubblicata, mi sono state fatte delle
scuse, scritte cosi in piccolo e in fondo al giornale che per leggerle mi ci è
voluta una lente di ingrandimento.
Un’altra
cosa che vorrei evidenziare è che molte volte vediamo sui quotidiani delle
notizie scritte con titoli a caratteri cubitali che dicono cose terribili, poi
quando andiamo a leggere l’articolo ci rendiamo conto che il titolo non sempre
riporta la verità dell’accaduto, ma al lettore la prima cosa che resta
impressa è proprio il “titolone”, e cosi si invoglia la gente ad acquistare
subito una copia.
Noi tutti i giorni invece facciamo informazione dal carcere, tenendo i toni bassi e usando parole sobrie, per far conoscere una realtà scomoda per tutti, e che tanti vorrebbero tenere lontana dagli occhi, relegata all’estrema periferia delle nostre città. Ma proprio perché, al contrario, il carcere ci riguarda tutti, fare informazione per noi significa anche incontrare ogni settimana pazientemente i ragazzi delle scuole e raccontare la nostra esperienza per far sì che a loro non succeda mai di finire qui dentro, perché la prevenzione è la miglior cura possibile, anche rispetto a quella cattiva informazione, che fa credere che il mondo si divida in modo netto tra i “totalmente buoni” e gli “assolutamente cattivi”.