Un
incontro in redazione con Adolfo Ceretti, Professore ordinario di Criminologia, Università di Milano-Bicocca
Una
difficile riflessione sul comportamento violento
È
importante cercare di capire che cosa pensano le persone nel momento stesso in
cui stanno commettendo un gesto violento, perché tutte le persone, quando hanno
agito violentemente, hanno deciso di ascoltare e di rispondere alla loro comunità
fantasma, che gli ha dato via libera, e loro hanno agito coerentemente. Ma come
è possibile allora costruire la possibilità di diventare più dialettici con
la propria comunità fantasma violenta?
A
cura della Redazione
Affrontare
il tema della violenza all’interno
di un carcere, non in un colloquio individuale tra detenuto e operatori, ma in
un gruppo di discussione dove uomini che la violenza l’hanno usata davvero si
confrontano con uno dei più attenti e profondi studiosi della materia: questo
è successo nella redazione di Ristretti Orizzonti, che ha incontrato Adolfo
Ceretti per iniziare una riflessione
attenta, complicata, importante sull’agire violento, ma anche sulle parole
della violenza.
Ornella
Favero: Con Adolfo Ceretti sono anni che
organizziamo i nostri convegni facendo proprio affidamento sulla sua capacità
di sostenerci, confrontarsi con noi, guidarci, lui è un criminologo e uno dei
massimi esperti di giustizia riparativa e di mediazione penale, del rapporto tra
vittime e autori di reato. Però oggi vogliamo affrontare un tema un po’
diverso, che lui ha approfondito nel suo libro “Cosmologie violente”, il
tema appunto della violenza.
Adolfo
Ceretti: Sono molto contento di essere qui. È
tanto tempo che volevo venire a trovarvi in una forma meno ufficiale di quella
che mi vede abitualmente, a fianco di Ornella e di altri della vostra Redazione,
condurre il convegno di fine maggio, che è ormai divenuto un appuntamento
fisso, atteso da centinaia di operatori nel campo della giustizia. Per chi non
mi conosce ricordo che insegno Criminologia nell’Università di Milano-Bicocca,
sia presso la Facoltà di Giurisprudenza che quella di Psicologia. Sono infatti
laureato in giurisprudenza, ma sono anche psicologo. Si tratta di due campi del
sapere incommensurabili, che parlano spesso dentro di me con i loro linguaggi
radicalmente differenti.
È
nelle vesti di criminologo che ho incontrato il tema della violenza. Ho scritto
qualche anno addietro, insieme a Lorenzo Natali, un giovane e validissimo
ricercatore, un libro che si intitola “Cosmologie violente, percorsi
di vite criminali”(Raffaello Cortina Editore), ed è proprio
ai contenuti di questo volume che dedicherò il nostro incontro. È un libro
accademico, molto complesso. Ma la sfida di oggi è particolare. Proverò ad
affrontare i temi che lo attraversano direttamente con voi, che potete avere
incontrato in molte situazioni – direttamente o indirettamente – il
comportamento violento. In altre parole, la sfida che oggi voglio proporvi è
quella di iniziare una riflessione condivisa sul comportamento violento,
partendo da concetti a prima vista difficili, ma che proveremo a familiarizzare
insieme. Di certo vi perderete un po’, soprattutto all’inizio, ma io mi
impegnerò per aiutarvi a tornare sulla concretezza di questo tema.
Prima
di iniziare, desidero esplicitare che il lavoro di ricerca mio e di Lorenzo si
è svolto principalmente per mezzo di alcune interviste che abbiamo svolto nella
casa di Reclusione di Milano Opera, dove alcuni detenuti che stavano scontando
delle pene lunghe per aver commesso delitti quali omicidi, lesioni gravi e
violenze sessuali, hanno accettato di dialogare intorno ai reati che avevano
commesso. Le persone che hanno accolto il nostro invito erano solo maschi
(nessuna risposto alla nostra richiesta). Lorenzo e io li abbiamo incontrati
anche per 7/8 ore – naturalmente non di fila – registrando i colloqui che,
in seguito, abbiamo sbobinato. Ogni parola che è stata pronunciata è stata
dunque trascritta.
Le
ipotesi sulla genesi e sul senso del gesto violento che sosteniamo nel
libro si alimentano dunque delle conversazioni che abbiamo effettuato.
Occorre
subito aggiungere che il vero motore e ispiratore del nostro lavoro scientifico
è stato un nostro collega statunitense, Lonnie Athens, i cui contributi
accademici sono stati il nostro costante punto di riferimento. In sostanza,
Lorenzo e io abbiamo provato a testare le sue ipotesi, edificate e messe a punto
negli Stati Uniti, anche in Italia. Vi è da dire che Athens è una persona
molto particolare. Oltre a essere un brillante studioso, una sua peculiarità è
di essere nato e cresciuto nei sobborghi di una grande metropoli americana, in
una famiglia altamente deviante. Suo padre, Pete, era un uomo che lo ha
costantemente picchiato lungo tutta la sua preadolescenza e adolescenza, fino a
quando Lonnie, diventato ormai fisicamente adulto, un giorno, in risposta a un
ennesimo attacco ha preso suo padre per il collo e gli ha intimato: “Papà, se
tu provi a picchiarmi ancora una volta, io ti ammazzo”.
Deve
essere stato molto credibile il nostro Lonnie, perché suo padre non l’ha mai
più toccato. In quello stesso momento, come è narrato in una sua biografia,
egli ha deciso che l’unico scopo da dare alla sua vita era quello di
comprendere da dove viene il comportamento violento. Athens, che fino a quel
momento era una persona che tutti avrebbero ritenuto deputata a diventare a sua
volta un uomo profondamente violento, si è iscritto prima alla facoltà di
sociologia, poi a quella di giurisprudenza, ed è diventato uno dei più
raffinati e affermati studiosi su questo tema.
Naturalmente,
quello che reputo molto importante è che tutti voi abbiate la possibilità di
confrontarvi con le cose che dico e di capire quali domande suscitino dentro di
voi. Se esprimerò concetti troppo
difficili
mi fermerò e li ripeterò. Non c’è nessuna fretta.
Quando
parlo di violenza, qui, io non parlo di violenza psicologica. Meglio, la
violenza psicologica può entrare nel merito dei discorsi che stiamo facendo, ma
quando mi riferisco al termine violenza lo intendo qui, secondo quanto sostiene
un noto penalista italiano, Francesco Viganò, “la violenza come attacco al
corpo”. Detto altrimenti, è la violenza fisica quella di cui ci occupiamo e
che cerchiamo di spiegare. Infatti, quando Natali e io siamo entrati in carcere
per incontrare le persone che avevano commesso i delitti dei quali stavamo
parlando, abbiamo cercato di aiutarli ad entrare in un flusso narrativo, in un
racconto della loro vita violenta. Ma, soprattutto, noi chiedevamo loro come si
rappresentavano, ovviamente nel momento in cui interloquivano con noi, i loro
gesti violenti. Per il nostro impianto teorico è molto importante mettere a
fuoco che cosa pensano, che cosa si dicono, le persone nel momento stesso in cui
stanno commettendo un gesto violento.
Molti
psicologi sostengono che quando le persone commettono dei reati violenti, li
commettono in una dimensione di non pensiero. Senza entrare nel merito o in
polemica con questa affermazione, noi sosteniamo che nella maggior parte dei
casi, anche nel momento in cui le persone commettono un gesto violento, parlano
– anche se in modo ellittico, sincopato – con se stesse, e si dicono
qualcosa. In sintesi, una delle domande sempre presenti nelle nostre interviste
era: “Che cosa ti dicevi mentre stavi uccidendo quell’uomo?”.
Per
darvi un’idea concreta di quello che vado affermando vi leggerò un brano
tratto da un’intervista. Le parole sono molto forti, a tratti sconvolgenti.
Nel caso di specie si tratta di un omicidio di un nero commesso da un bianco in
una città del nord: “Mentre lui parlava io pensavo: ‘Guarda
questi merdosi che vengono qui in Italia e vogliono farsi i fatti
loro, qui in Italia, non è una cosa giusta’. Io me l’ero presa perché
lui voleva violentare quella ragazza, quella è stata la causa scatenante,
però non fino al punto di ucciderlo. La foga, la cattiveria pura,
mi è uscita dopo. Ormai stava già succedendo di tutto, stava accadendo
una cosa che non avevo previsto, ma che può accadere anche se non
è detto che accada, cercavo di non farla accadere, perché io non
sono il giustiziere che va in giro ad ammazzare la gente. Anche se
tante volte mi metto nelle condizioni di giudicare le persone, è
successo esattamente con questo qui, è scattato un giudizio perché lui
è un negro, il punto primo è che lui è un negro, questa è una
convinzione fondata che io ho di loro, loro sono degli animali e
io sono una persona. Può anche sembrare contraddittorio, perché
dici tanto dei negri e poi ascolti la musica di Bob Marley, però
essere giamaicano è una cosa, perché quello non è un vero negro. I
negri sono delle bestie, io lo vedo anche con gli arabi e con i
marocchini, ti portano a essere razzista. Anche se questi ultimi
sono bianchi mi fanno schifo lo stesso per come si comportano,
perché non sono degli uomini che prendono delle posizioni. Poi
quando li prendi uno a uno si dimostrano degli emeriti deficienti, io,
invece, in compagnia di altre persone o da solo sono sempre lo stesso,
perché io sono così, ho questa posizione qui. Queste persone invece
quando sono in branco e gli vai a sparare addosso, fanno tutti i pecoroni e se
ne scappano davanti a una sola persona, secondo me non sono uomini, sono delle
bestie. Non parlo di tutti i negri, parlo di questi animali qua che vivono solo
bene in branco, la cosa che non mi piace è proprio quella, perché se io devo
farti qualcosa non vengo da te insieme al branco, vengo io, io in quanto persona
e come tale vengo e ti faccio del male, per dire il male come il bene”.
Ecco:
questo brano di intervista è, secondo me, estremamente utile per
iniziare a svolgere una riflessione collettiva. A partire da ora affronteremo
i concetti più difficili. Cercherò di renderli più semplici e accessibili
possibile.
Ora,
questa persona racconta che cosa si diceva nel momento precedente e
in quello in cui uccide.
Sono
pensieri ovviamente impregnati di emozioni, con-fusi. Eppure emerge
in modo estremamente chiaro che cosa l’autore di questo omicidio
pensa, nel momento in cui lo commette, di una persona che ha il
colore della pelle diverso dal suo, o che arriva da un paese diverso.
Egli aggiunge che la sua vittima è assolutamente “sacrificabile”,
“uccidibile”, e cerca di spiegarne anche le ragioni.
Ciò
che desidero rimarcare è che quest’uomo, come tutti gli altri che
abbiamo intervistato, era stato periziato e giudicato capace di intendere
e di volere. Ciò contribuisce ad erodere un altro mito che i criminologi
hanno alimentato per decenni: quello psicopatologico.
“Mito
psicopatologico” è un’espressione complessa attraverso la quale per molti
decenni si è proposto di pensare che chi commetteva atti violenti era affetto,
nella maggior parte dei casi, da problemi di natura psichiatrica. Ricerche
longitudinali svolte in molte università del pianeta nel corso di decenni hanno
progressivamente dimostrato che questa ipotesi era scorretta. Non è affatto
vero, in buona sostanza, che la maggior parte dei comportamenti violenti è
tenuta da soggetti mentalmente alienati. Anzi, è vero semmai il contrario. Più
in dettaglio, è stato dimostrato che certe forme di sofferenza psichica possono
incidere sul comportamento violento, cioè contribuire a causare un atto
violento, ma ciò accade quasi sempre se le persone in questione sono dei maschi
che hanno un’età compresa tra i 20 e i 35 anni e che oltre a un disturbo di
personalità (antisociale, border) fanno uso di sostanze stupefacenti,
principalmente la cocaina. Fatta salva questa relazione tra vari fattori, è
difficile pensare che la malattia mentale sia di per sé una spiegazione
decisiva del comportamento violento. Perché, possiamo chiederci, esistono
tantissime persone che soffrono di serie patologie e non commettono reati
violenti? Un piccolo esempio: esistono fratelli che crescono nello stesso
ambiente familiare e sociale, e uno dei due diviene un lavoratore onestissimo,
l’altro un delinquente violento. La scommessa, per noi, è di comprendere
dunque come per qualcuno, e non per qualcun altro, la violenza possa divenire
nel corso della sua vita uno strumento normale di risoluzione di un conflitto.
Per
spiegare adeguatamente questo passaggio occorrono molti strumenti teorici. Se
fossimo seduti in un’aula universitaria dovremmo citare svariati autori e
bibliografie ben precise. Ma in questo contesto, che reputo molto più
interessante, perché stiamo parlando tra uomini di qualche cosa che riguarda
tutti (un comportamento violento lo può tenere chiunque, davvero chiunque) il
metodo che seguirò sarà diverso. Non accademico, ma dialogico.
Abbiamo
accennato alle “cosmologie violente”. Avete idea di che cosa sia un cosmo?
Ciascuno di noi è un cosmo… Iniziamo a metterci dentro alla prospettiva che
ciascuno di noi è un insieme di pensieri, emozioni e di visioni del mondo.
Ognuno di noi ha degli occhi e guarda il mondo, ognuno di noi è un cosmo perché
è un insieme infinito di modi di guardare il mondo, e a noi interessa capire
come ciascuno guarda il mondo. Ciascuno di noi prende alcune decisioni. Quando
prendiamo una decisione, gli psicologi del profondo insegnano che non siamo
perfettamente consapevoli di tutto quello che stiamo decidendo di fare, perché
il senso, la provenienza dei nostri comportamenti è oscuro, anche quando
proviamo a interrogarci su di essi. E ciò accade perché il significato
profondo dei nostri gesti proviene da un luogo che gli psicoanalisti chiamano
“inconscio”. Quando voi cercate di pensare a quello che state facendo o che
avete fatto (compresi i vostri reati), vi rendete conto che non tutto – o
meglio ben poco – vi è sempre chiaro. Qualche cosa vi arriva in modo
sorprendente senza che voi riusciate a dare un nome a quello che sta accadendo,
e che riusciate a dire “io sto facendo questo perché questo è quello che io
voglio davvero fare”. Appena pronunciamo queste parole sentiamo che qualcosa
sfugge. Che nulla è limpido. C’è da qualche parte qualche forza che ci sta
guidando, o meglio che ci sta spingendo ad agire, rispetto alla quale noi non
sappiamo dire esattamente che cosa sta accadendo. I nostri movimenti psichici
sono estremamente complessi da individuare. Però quello che per noi è
importante capire, qui e ora, è che noi abbiamo una significativa possibilità
e capacità di dialogare con noi stessi. In altri termini, noi
possiamo parlare con noi stessi e dirci delle cose significative.
Torniamo
con la mente al brano che abbiamo letto. L’intervistato affermava che lui
voleva uccidere, innanzitutto, perché l’altro era un “negro”. I
criminologi definiscono questi crimini “crimini dell’odio”. In breve, puoi
cominciare a odiare delle persone perché appartengono a una “razza”
diversa, ma per farlo tu te lo devi raccontare, te lo devi dire e ripetere, devi
ascoltare quello che ti dici. Da qualche parte, dentro di te, devono risuonare
certe parole perché, arrivato a un certo punto, tu le possa agire.
Provate
ora a fare un piccolo esercizio, molto banale. Provate a pensare di essere di
fronte a un apparecchio televisivo e di dover scegliere un programma. Che so, un
film, una partita di calcio o un talk show. Per poter scegliere anche un
programma televisivo dovete parlare con voi stessi, dovete dirvi qualche cosa di
significativo. In estrema sintesi, ciò che Natali e io indaghiamo riguarda
quello che le persone si dicono quandomdecidono di fare qualcosa di estremamente
inquietante, e cioè commettere
un
gesto violento. Ci chiediamo come entrano in contatto con se stessi coloro che
prendono quella drammatica decisione.
Se
queste premesse sono chiare, la domanda che ora desidero porvi è la seguente:
quando cerco di dirmi qualcosa, io parlo solo con me stesso o, viceversa, sto
parlando anche con qualcun altro?
Per
fare un passo avanti rispetto a questo ragionamento – che so essere molto
complesso – dobbiamo ora concordare su un altro punto. Se è verosimile che
noi, tranne in casi molto rari, non siamo determinati dalla malattia mentale,
non siamo neppure una fotocopia di quello che ci circonda. Ovvero, se io cresco
in un ambiente violento, che accetta culturalmente la violenza, non
necessariamente sarò una decalcomania di quell’ambiente, la fotocopia esatta
di quello che accade là fuori. Una prova lampante di quello che vi sto
suggerendo è proprio la storia di Lonnie Athens, che a un certo punto della sua
vita ha fatto una scelta ben lontana dalla devianza.
Lo
sforzo che stiamo facendo, passo dopo passo, è quello di provare a capire come
nasce il comportamento violento, e prima di tutto con chi parliamo davvero quando
parliamo con noi stessi.
È
chiaro quello che ho detto fino a ora?
Dritan
Iberisha: Adesso tanti di noi
probabilmente pensano a che cosa si sono detti nel momento in cui hanno tenuto
un comportamento violento.
Adolfo
Ceretti: È proprio su quello che vorrei che voi
iniziaste a riflettere. Per chi mi conosce sa che quando parlo di questi temi
non assumo un tono giudicante. Mi interesserebbe invece comprendere quanto
ognuno dei presenti, compreso chi parla, può prendere in mano, sotto certi
punti di vista, la sua vita cominciando a dialogare con se stesso, che è forse
la cosa più importante che ciascuno di noi può fare nel corso della sua
esistenza, a prescindere da dove si trova, da quello che sta facendo, dalla
situazione che sta vivendo. Noi siamo vivi, e uomini, solo se riusciamo a essere
autoriflessivi, altrimenti ci lasciamo vivere in una dimensione passiva e poco
interessante.
Sandro
Calderoni: Sicuramente tutti noi avremo
pensato o detto qualcosa nel momento in cui abbiamo fatto delle azioni violente.
Secondo me l’atto violento è però un linguaggio, un linguaggio che impari,
è come tu dicevi del criminologo Lonnie Athens che è nato in una situazione
violenta, e poi magari può aver cambiato perché ha trovato un altro
linguaggio. Ma se da ragazzo impari un linguaggio, se litighi e magari vai a
casa e hai degli amici o dei famigliari che ti chiedono perché non hai reagito,
tu impari un linguaggio che è quello della reazione di essere violento anche
tu, e magari di incominciare per primo. Perché c’è una cultura dietro, una
cultura che non è solo tua, che tu acquisisci in base al posto dove cresci. È
vero che non tutti nei posti, che sono malfamati, crescono in quel modo li,
perché se hai avuto un’opportunità di cambiare modo e linguaggio, cioè di
vedere altre cose, secondo me è quello che ti dà l’arma magari per dire:
aspetta e vediamo un attimo invece di agire in un certo modo.
Adolfo
Ceretti: Quando hai detto che l’atto violento
è “un linguaggio”, mio e soltanto mio, mi sono quasi commosso, perché è
esattamente lì dove sto cercando di arrivare. Vuol dire che siamo sintonici.
Visto che ci intendiamo, proviamo ad andare avanti. Ce la fate?
Provo
allora a introdurre un concetto, quello di “comunità
fantasma”, che è molto in sintonia con quello che
stavi dicendo tu, Sandro, adesso. Partiamo da un dato di fatto.
Quotidianamente tutti noi viviamo delle emozioni, e queste
emozioni, queste passioni, questi sentimenti sociali – quali l’orgoglio,
la vergogna, la felicità, la tristezza, l’odio, il rancore, il
risentimento, la rabbia – sono emozioni e sentimenti che proviamo spesso
repentinamente e prepotentemente. Ti odio: cosa vuol dire “ti
odio”? Se cominciassimo a soffermarci su che cosa significa odiare
qualcuno, fino al punto da ucciderlo, ognuno di noi direbbe qualcosa
di profondamene diverso da quello che sostiene un altro. Di
conseguenza, quello che desidero aggiungere è che nella visione che
Lorenzo e io abbiamo del comportamento violento, è molto importante
condividere il fatto che le emozioni per noi non hanno un
significato universale. La rabbia, l’odio, il rancore non sono dei
concetti che possiamo definire solo in astratto, con parole che
tutti condivideranno perché sono “vere” per ciascuno di noi.
Certo, una parte del significato del termine rabbia è sempre
definibile in termini generali. Ma se vogliamo capire che cos’è
la rabbia per te, o per te, dobbiamo ovviamente ascoltare quello
che ciascuno si dice quando la nomina, perché ognuno di
noi è un cosmo, ognuno di noi è una trama di complicatissimi simboli,
rappresentazioni, pensieri che ci portiamo dentro e che esprimiamo
appoggiandoci a un costante dialogo che intrecciamo con quella che, insieme ad
Athens, definiamo “comunità fantasma”.
Carmelo
Musumeci: Io ultimamente ho letto un
libro, “L’effetto Lucifero”, che parla di quell’esperimento fatto negli
Stati Uniti negli anni 60, dove sono state prese delle persone “normali”
all’università, degli studenti, di cui alcuni hanno fatto la parte dei
detenuti e altri degli agenti. Ebbene, questo esperimento dopo 15 giorni è
stato interrotto, perché ne è scaturita una violenza inaudita, cioè ognuno è
entrato talmente nella parte che sono stati costretti a interromperlo. Questo mi
sembrava un po’ in contrasto con quello che sta dicendo lei adesso.
Adolfo
Ceretti: È una domanda molto acuta e anche
molto pertinente. Per rispondere dobbiamo introdurre una distinzione che ho
omesso di fare all’inizio: quella tra i comportamenti violenti collettivi e
individuali. Oggi, e nel libro scritto con Natali, discutiamo delle violenze
individuali. Quando si agisce violentemente in gruppo si mettono in moto
dinamiche diverse da quelle che sto descrivendo, anche se vi sono molti
collegamenti con quello che sto dicendo. Nelle violenze collettive registriamo,
nei soggetti che formano i gruppi che agiscono distruttivamente, dei cambiamenti
molto più repentini, immediati di quelli che portano un soggetto singolo a
formarsi una cosmologia violenta.
Carmelo
Musumeci: Come è successo in Iraq con
gli americani…
Adolfo
Ceretti: Bravissimo. Chi è diventato un
torturatore, e tra essi certamente i soldati americani in Iraq, le masse di
persone che prendono attivamente parte ai genocidi, alle pulizie etniche e agli
stupri collettivi, sono tutti esempi di forme collettive di violenza. Purtroppo
sono infiniti. Ci sono biografie che hanno dell’incredibile. Sfogliando alcune
storie di vita degli “affiliati” alle Tigri di Arkan si legge di persone
notoriamente miti, che per hobby coltivavano i gerani sul terrazzo.
Ebbene, gli stessi individui, tre mesi dopo essere entrati in questo gruppo
paramilitare, sono stai accusati di aver commesso uno stupro etnico. La
questione allora è la seguente: che cosa è accaduto nel mezzo? Qui, le domande
e le risposte sono diverse da quelle che stavamo provando a edificare tutti
assieme, perché noi stavamo discutendo di violenze individuali, di persone che
arrivano ad attaccare il corpo di qualcun altro non all’interno di dinamiche
gruppali, ma da sole.
Provo
allora a tornare al mio ragionamento, che si era arrestato alle soglie della
domanda: che cos’è una “comunità fantasma”? Beh… tanto per cominciare
tutti noi abbiamo una comunità fantasma, che con Lorenzo definiamo spesso anche
come un “parlamento interiore”. Quando parliamo con noi stessi per prendere
una decisione, in realtà non dialoghiamo soltanto con noi stessi. La
proposta che emerge dagli studi dell’interazionismo simbolico quando affronta
questi temi è che quando dialoghiamo con noi stessi noi dialoghiamo anche con
“i nostri altri significativi”. Chi sono gli altri significativi? Provo a
rispondere in modo molto concreto, così che se vi interessa recepire questo
concetto non lo dimenticherete mai più. Partiamo dal presupposto che ognuno di
noi interloquisce, appunto, con un parlamento interiore. Avete presente com’è
composto un parlamento? In un’aula siedono i componenti del Parlamento. C’è
una maggioranza, una minoranza. Quando facciamo riferimento al parlamento
interiore al posto di deputati e senatori vi sono le persone che contano, che
hanno avuto e/o hanno un ruolo centrale, decisivo, nella nostra vita.
Sono,
in altre parole, i nostri interlocutori principali – per esempio i genitori,
chi ci ha educati, i preti, il capo della gang, un maestro di scuola.
Ognuno di noi è abitato da un parlamento interiore. Quando interloquiamo con
noi stessi lo facciamo attraverso gli occhi e le parole delle persone che
contano per noi, che in quel preciso momento hanno la “maggioranza” nel
nostro parlamento interiore. Per esempio, quando scrivo un libro penso sempre al
giudizio di quelle quattro o cinque persone che hanno la maggioranza nel mio
parlamento interiore. Se giudicheranno bene il libro, anche se venderò solo
dieci copie io vivrò quella pubblicazione come un successo, o un insuccesso in
caso di critica. Ma anche quando uno si innamora non si innamora mai da solo…
Lo sappiamo perfettamente. Ci si innamora sempre dovendo attraversare il
giudizio degli altri. Ci chiediamo: piacerà a mia madre, a mia sorella, ai miei
amici? Tradotto nel nostro linguaggio sappiamo perfettamente quanto il giudizio
degli “altri significativi” ha un potere determinante nell’indirizzare la
nostra vita.
Lo
stesso ragionamento lo si può lentamente far migrare verso la questione della
violenza. La nostra proposta teorica è che quando si inizia a commettere
sistematicamente dei gesti violenti lo si fa dialogando in accordo con un altro
significativo. Per esempio, se tu hai popolato il tuo parlamento interiore
soltanto di altri significativi non violenti, è quasi impensabile che tu
possa compiere un atto violento, a meno che non sia un gesto d’impeto o di
legittima difesa. Pensate al caso in cui un uomo tiene sua figlia per mano e
qualcuno cerca di rapirgliela. Lì, tu sei disposto a fare qualunque cosa.
Oppure,
pensate al caso in cui si è attaccati da qualcuno che vuole rapinarvi,
puntandovi un coltello alla gola. Per difendervi siete disposti a fare qualunque
cosa. Ma pensare e agire per distruggere la vita di un altro senza essere
preventivamente attaccati e messi in pericolo… beh… a mio giudizio lo puoi,
lo riesci a fare forse solo se sei in sintonia con un altro significativo che ti
suggerisce che quel conflitto lo puoi risolvere anche con la violenza.
Un
punto molto importante da rimarcare è che la nostra comunità
fantasma/parlamento interiore non è una fotocopia della “comunità fisica”
che abitiamo, perché la comunità fisica, cioè il contesto socio-ambientale
dentro al quale siamo gettati, composto da tutte le relazioni familiari e
sociali che ci compongono, tende a formare comunità fantasma differenti, a
seconda di come ciascuno di noi filtra simbolicamente l’ambiente sociale in
cui vive.
Torniamo
all’episodio dell’omicidio del signore nero che ho già richiamato più
volte. L’autore del delitto era uscito da dieci giorni dal carcere, dove era
stato recluso per spaccio di stupefacenti. Era stato ospitato da un’amica,
alla quale aveva chiesto di procurarsi un po’ di cocaina. Lei non sapeva a chi
chiederla, e a un certo punto per procurarsela si era rivolta a quel signore
nero, che a sua volta si era detto disponibile a fornirle la cocaina in cambio
di sesso, non di soldi. Di fronte al rifiuto della donna l’uomo aveva cercato
di violentarla. Non vi era riuscito, ma ci aveva provato. Poi le aveva lasciato
un po’ di droga. La donna, in seguito a questo episodio, decise di raccontare
al suo amico tutta la vicenda. Quest’ultimo, ovviamente dopo aver dialogato
con la sua comunità fantasma, decise di uccidere il “nero” con quelle
modalità terribili che abbiamo descritto. In una vicenda come questa
incontriamo vari piani. C’è una situazione contingente, in cui una persona ne
ha di fronte un’altra con la quale ha un conflitto, perché ha cercato di
violentare una sua amica. Entrambi sono gettati dentro a una situazione che
devono in qualche modo risolvere. Ognuno di noi quando inizia a dialogare con se
stesso e con la propria comunità fantasma interpreta anche la situazione in cui
è immerso. È lì che qualcuno può cominciare a dirsi, a differenza di altri:
“Io questo lo ammazzo!”. D’accordo? Può avvenire? Anzi avviene, e anche
spesso. La domanda, giunti a questo punto, diventa la seguente: come posso
riuscire a dirmi qualcosa del genere? Come può essere credibile, nel mio
parlamento interiore, il suggerimento che ricorrere alla violenza sia qualche
cosa di non riprovevole ? Perché tutto ciò può avvenire?
Carmelo
Musumeci: Quindi, in poche parole,
decide la comunità fantasma, non decido io?
Adolfo
Ceretti: No, certo che no! Bravissimo Carmelo,
è proprio qui che volevo arrivare. Avete capito
tutti
la domanda? È decisiva. Ognuno di noi è un cosmo, e quando parliamo con un
interlocutore significativo del nostro parlamento interiore non obbediamo mai a
un comando altrui, ma traduciamo questo messaggio in un linguaggio che è
nostro, solo nostro, perché lo filtriamo attraverso il nostro Sé. Dobbiamo
spiegare bene quello che tu hai chiesto, perché è uno dei punti decisivi di
tutto il discorso.
Se
avete un po’ di pazienza, per articolare meglio questa risposta vorrei farlo
attraverso un esempio molto semplice ed estremamente indicativo. 1994. Ruanda.
Genocidio. Un milione di morti a colpi di machete in poche settimane. Gli Hutu
attaccano i Tutsi incitati da una radio, la radio Mille Colline, che sprona alla
violenza. Come è possibile che nel conteggio del milione di morti ce ne siano
anche 200 mila che appartengono all’etnia dei perpetratori, cioè di chi ha
inflitto il genocidio? Semplicemente perchè 200 mila Hutu decidono di
non prendere parte attivamente a quel genocidio, e per questa ragione vengono
loro stessi sterminati a colpi di machete. Quello che sto cercando di farvi
comprendere è che rispetto ai consigli, agli avvertimenti, agli ordini
impartiti dalla nostra comunità fantasma c’è sempre una possibilità di
autoriflettere, e c’è sempre uno spazio dialettico, di contrattazione.
Possiamo
vivere in contesti sociali che accerchiano prepotentemente la nostra vita (basti
pensare a un quartiere mafioso) e in quei luoghi alcune nostre convinzioni
morali possono essere congelate, messe sotto scacco. Ma noi non siamo mai
passivi rispetto a quello che accade. Viviamo in una costante dialettica con il
mondo che ci circonda. Gli Hutu che non hanno voluto aderire al progetto
genocidi ario sono lì a dimostrarlo, con il loro sacrifico umano. Pensiamo a
che cosa è stato il nazismo e ai “crimini dell’obbedienza” che lo hanno
contraddistinto. Nessuno di noi nasce necessariamente violento. Gran
parte del comportamento di chi agisce con violenza noi lopossiamo comprendere
attraverso l’accurata ricostruzione della sua comunità fantasma (violenta).
Nel corso delle interviste Natali e io abbiamo potuto constatare che le persone
che avevano commesso molti crimini violenti avevano alle loro spalle una
socializzazione violenta – che noi definiamo “violentizzazione”. I nostri
interlocutori erano stati cresciuti ed educati, come nel libro di Nicolai Lilin,
Educazione siberiana, a ricorrere alla violenza per
dirimere i conflitti – anche di leadership – con gli altri. Ma per
quanto complesso vi invito, quando parliamo del comportamento violento, a non
pensare in termini deterministici. L’ipotesi che vuole una relazione
deterministica tra un’educazione violenta e una vita violenta va decisamente
allontanata. È la vita stessa di Athens che lo dimostra! Siamo noi a
decidere, a un certo punto del cammino, che possiamo cambiare, perché qualcosa
sta cambiando anche intorno a noi. Lo vedremo meglio in un prossimo incontro,
analizzando il concetto di “cambiamento drammatico di sé”. Al contempo, però,
è altrettanto vero che quando troviamo qualcuno che ricorre normalmente alla
violenza è accompagnato da una comunità fantasma violenta, che si è edificata
in un percorso che definiamo, appunto, come “processo di violentizzazione”.
Come
dicevo, Lilin descrive molto bene questo processo in termini letterari. Cosa
vuol dire, per esempio, essere brutalizzati? Vuol dire che in molte vite di
persone violente noi ritroviamo episodi in cui i futuri attori violenti
subiscono un trattamento rozzo e crudele per mano di altri, e questo evento
produce un impatto drammatico e durevole per il prosieguo delle loro vite.
Provate
a pensare appunto a una persona adolescente o preadolescente, a un ragazzino che
comincia a subire una serie di esperienze distruttive. Alcuni di voi le hanno
certamente vissute. Alcuni di voi sono stati probabilmente brutalizzati e
sottomessi in modo violento. Che cosa vuol dire essere sottomessi in modo
violento? Vuol dire che una persona, che ricopre un ruolo sovraordinato, e che
può essere tuo padre, tuo nonno, il capetto di una banda giovanile, il boss di
una organizzazione della criminalità organizzata, inizia a esercitare su un
giovane delle forme di dominio. È una relazione nella quale chi “sta sopra”
esercita verticalmente il proprio potere nei confronti di chi “sta sotto”,
ricorrendo alla violenza fisica per essere più credibile, e rendendo assai
difficile al soggetto sottomesso la possibilità di liberarsi da questa
imposizione.
Un
altro modo per esercitare il proprio dominio in un processo di violentizzazione
è quello dell’“orrificazione”. In questi casi, chi esercita un ruolo
sovraordinato costringe chi è sottomesso ad assistere a una violenza nei
confronti di qualcuno al quale è affettivamente molto legato. Assistere a scene
di violenza – per esempio l’uccisione del tuo amato cane, il pestaggio di
tua madre – è una tappa che precede sempre la fase di un addestramento
violento, il cui obiettivo finale è di generare nel “discepolo”
l’intrapresa di una condotta violenta.
Reputo
che qui vi sono alcune persone che possono confermare che non è facile – e
che non va dato per scontato, o per automatico – decidere di attaccare il
corpo di qualcun altro. Bisogna aver edificato un Sé violento. Il che avviene
soprattutto attraverso un addestramento violento. Per indurre l’agire
violento, chi “sta sopra” inizia a insegnare che il mondo è abitato da
persone malvagie e malefiche, compresi quelli a cui siamo affettivamente più
legati, e che in situazioni ostili l’aggressione fisica è il mezzo più
idoneo ed accettabile per prevalere nello scontro con i rivali. Insieme a
Lorenzo, intervistando le persone che hanno accettato di parlare con noi,
abbiamo sempre riscontrato che a un certo punto della loro vita i futuri attori
violenti avevano incontrato una persona malefica che aveva esercitato questo
tipo di autorità e di potere nei loro confronti.
Tutti
noi sappiamo chi è un “coach” nel pugilato. È l’allenatore. Noi
reputiamo che le persone che nel loro futuro ricorreranno costantemente alla
violenza hanno in qualche momento della loro esistenza avuto un rapporto con
qualcuno che ha svolto un ruolo simile a quello di un coach. Quest’ultimo li
ha fortemente motivati ad avere relazioni violente. Quasi sempre c’è un
momento di questo addestramento in cui chi “sta sotto” si pone questa
domanda: “Quanta violenza posso ancora sopportare, quanta violenza posso
ancora sopportare da quello che mi sta sopra?”. Per molte delle persone che
abbiamo intervistato c’è stato un momento in cui esse si sono dette:
“Basta, non ce la faccio più”. Dopo questo punto, per chi era sottomesso al
dominio di qualcun altro, l’unica via di uscita era quella di dirsi: “Non
scappo più, non vado più via, non cerco alleati, mi sottometto e basta. Non ce
la posso più fare a sopportare tutta questa violenza”. Mettersi nelle mani
della persona che ci “sta sopra” produce in un primo momento un sollievo,
perché dopo tanto tempo non mi sento più in conflitto con qualcun altro. Ma in
genere questo sollievo dura poco e lascia spazio a un vissuto di umiliazione, di
rabbia, di desiderio di vendetta nei confronti di chi ricopre il ruolo
sovraordinato. Questo stato di confusione è quello decisivo con cui si entra in
una fase successiva, quella della belligeranza.
Quello
che voglio sottolineare è che noi costruiamo lentamente una cosmologia violenta
e diveniamo attori violenti non così d’improvviso, ma dentro a delle
relazioni. Solo quando questo percorso di violentizzazione, di socializzazione
alla violenza, è terminato, una persona è pronta per commettere un gesto
violento accettando, senza nessun conflitto morale, che la violenza è qualche
cosa che può tranquillamente appartenere al proprio arsenale sanzionatorio nei
confronti degli altri. Non c’è nessun conflitto morale, a questo punto,
nell’agire violentemente. L’etica pubblica, lo Stato, il Diritto penale,
sono cose lontane, invisibili. Io ormai appartengo a un gruppo, a un mondo, a
relazioni che mi suggeriscono in modo anche prepotente che la violenza è
qualche cosa che può aiutarmi a risolvere, in modo molto semplice, situazioni
molto complesse.
Nel
corso di una delle nostre interviste un soggetto ha raccontato come è arrivato
allo stadio della belligeranza, ovvero di quando ha iniziato a sperimentare la
“bellezza della violenza”, perché occupare una posizione di dominio è
molto gratificante per tutti, ovviamente. Basti pensare a ciò che riporta
Athens in alcune sue pagine. Un detenuto da lui intervistato è arrivato a
riscrivere un principio evangelico (“Non fare agli altri ciò che non vorresti
fosse fatto a te”) in questa prospettiva: “Fai agli altri ciò che
non vorresti che fosse fatto a te, ma fallo prima di loro”, perché
se lo fanno prima loro, tu sei finito.
A
costo di essere pedante e noioso ribadisco però che anche quando siamo in
presenza di un processo di violentizzazione non è mai automatico che questo si
traduca in chi lo subisce in un delinquente aggressivo. Anche se la maggioranza,
nel mio parlamento interiore, è formata da interlocutori violenti, il filtro
simbolico dato dal nostro Sé lascia sempre una possibilità di pensare
altrimenti. C’è sempre questa possibilità. Tutto ciò lo capiremo – come
ho già anticipato – quando potremo affrontare il concetto di “cambiamento
drammatico di sé”.
Per
concludere e per riassumere. Abbiamo cercato di inquadrare alcuni concetti che
aiutano a chiarirci che tutti noi siamo riflessivi, ovvero che tutti, nessuno
escluso, dialoghiamo con noi stessi: siamo riflessivi
ogni volta che scegliamo un programma televisivo, che iniziamo una relazione
amorosa, e anche quando ci comportiamo violentemente. Non c’è differenza
sotto questo punto di vista.
Dialoghiamo
con noi stessi, dialoghiamo con la nostra comunità fantasma ma siamo sempre noi
che dialoghiamo con essa, motivo per cui siamo noi che decidiamo rispetto
a quello che gli altri ci chiedono di fare o non fare. Sotto questo punto di
vista sembra che il livello della nostra capacità di rispondere alle situazioni
che incontriamo sia alto. Discorriamo con gli altri, con noi stessi, ascoltiamo
i consigli e i suggerimenti della nostra comunità fantasma, ma poi decidiamo.
In realtà non è così semplice. Tutto avviene dentro a una dimensione molto più
opaca. Per esempio, il nostro inconscio interferisce prepotentemente in
tutto questo percorso e questo ci rende sempre meno consapevoli di quanto
riteniamo quando siamo chiamati a decidere. Ancora, ci sono dei momenti in cui
siamo assordati dalla nostra comunità fantasma, che è così prepotente da non
lasciarci nessuno spazio dialettico.
Ma
non dimentichiamoci che, qualunque sia la posizione che noi occupiamo, possiamo
sempre cambiare.
Dopo
l’incontro con Adolfo Ceretti
Una
infanzia che mi ha segnato violentemente tutta la vita
di
Alain Canzian
Qualche
giorno fa, qui da noi in redazione, è venuto il professor Adolfo Ceretti, un
noto criminologo e anche esperto di giustizia riparativa. Non è stato molto
semplice capire tutto quello che lui diceva, anche perché è un argomento che
non ho mai affrontato prima. Ma parlando di violenza, molte cose sono venute
alla mia mente, specialmente andando indietro con gli anni, fino a tornare alla
mia giovinezza. Purtroppo ho perso mia madre in tenera età, avevo solo due
anni, ed eravamo appena tornati dalla Francia dove i miei genitori erano stati
costretti ad emigrare perché in quegli anni in Italia non c’era lavoro, io
ero molto piccolo e non ho dei grandi ricordi, ma con il passare del tempo la
mancanza di mia madre incominciò a farsi sentire. Fino all’età di 7 anni,
quando mio padre si risposò, sono stato cresciuto dai miei nonni paterni che
cercavano in tutti i modi di non farmi sentire quella grave perdita. Purtroppo
questa matrigna non si presentò a noi, a me e mio fratello, come una amorevole
madre e in un attimo i problemi non tardarono ad arrivare. Mio padre era sempre
via tutta la settimana per lavoro, e non capiva quella violenza che noi
giornalmente subivamo, il sabato era diventato il giorno delle botte perché
lei, la matrigna, raccontava a mio padre di tutto e di più, invece noi avevamo
solo il “difetto” di essere bambini. Passavano gli anni, e io non la potevo
soffrire più, appena potevo scappavo dai nonni, per poi venire ripreso e
riportato a casa. Io cercavo di raccontare le cose ai miei amati nonni, ma non
sempre venivo creduto avendo un’età molto giovane. Le mie fughe da casa
oramai non si contavano più e ogni volta andavo sempre più distante, non
andavo più dai nonni, perché lì era il primo posto dove venivano a cercarmi.
All’età di 11 anni, dopo la mia ennesima fuga, mi trovai in un paese dove
avevano allestito un circo e con molte frottole convinsi i responsabili a
tenermi con loro, ero felice, ora ero uno che dava da mangiare ai leoni e
giravamo per tutte le cittadine del Veneto. Purtroppo anche quella bella storia
finì, loro dovevano andare con il circo all’estero e non potevano più
portarmi con loro, a malincuore dovetti lasciare quel posto a me molto caro.
Incominciai a vagare senza meta, fino a che venni fermato da una pattuglia che
mi riportò a casa. Per qualche giorno le cose sembravano a posto e un po’ ero
anche contento, ma quella felicità non durò molto, e in un attimo
ricominciarono le violenze e con quelle anche le fughe, lei la matrigna
incominciò a portarmi da vari psicologi, anche per avere la coscienza a posto,
che lei qualcosa stava facendo per me, e fui rinchiuso in un ospedale per malati
di mente, avevo sì e no 12 anni. Ero quasi tutto il giorno legato con la
camicia di forza, per paura che io scappassi, io gli dicevo “slegatemi, tanto
non scappo”, ma non venivo creduto, io ci sarei anche stato lì piuttosto di
tornare a casa con la “megera”. In un attimo di distrazione dei dottori
scappai da una finestra, ero tornato alla libertà, ma purtroppo anche quella
durò poco, e per l’ennesima volta fui preso e riportato a casa. Qualcuno
volle capire tutte quelle mie ribellioni, e in una sede, da una Assistente
sociale, per la prima volta sentii quella parola. “Suo figlio non ha nessun
tipo di problema, il problema in questione è lei!”. Venni richiuso in un
monastero, non ero più a casa ma purtroppo le violenze sulla mia persona non
finirono, anzi questi che parlavano di Dio e del Paradiso, e menavano a più non
posso, oramai avevo fatto il callo e lì ci rimasi per tre anni, finché dopo
aver finito i miei studi ritornai, questa volta dai miei nonni. La mia vita
cambiò e finalmente ripresi a vivere a tutti gli effetti da quelli che sempre
mi avevano voluto bene, anche se tutto quello che avevo subito non si poteva
cancellare con un “colpo di spugna”, oramai stavo crescendo e dentro di me
rimaneva la rabbia e pensavo che dovevo in qualche modo fargliela pagare.
Ricordo
che un giorno, mentre ero in macchina con un mio amico, la vidi (la matrigna),
lei era in bicicletta
e
io in un attimo la puntai, non so cosa sarebbe successo se il mio amico non mi
avesse preso il volante, evitando un’inutile tragedia, e così ho imparato che
non si può pagare una violenza con un’altra violenza, ma purtroppo questa mia
infanzia mi ha segnato tutta la mia vita, una vita fatta di sofferenze, di
quella droga che mi ha portato in carcere, anche di qualche piccola gioia.
Ho
cercato di riflettere sulle ragioni che mi hanno spinto a commettere dei reati
di
Clirim Bitri
Ho
sentito qui in carcere per la prima volta i concetti di violentizzazione e
parlamento interiore.
Io
sono nato e cresciuto in un paese comunista, l’ALBANIA, da bambino sono stato
viziato perché ero il più piccolo della famiglia, fino ai miei 14 anni mi è
stato insegnato di amare la mia famiglia, non rubare, rispettare i più grandi,
e che era necessario studiare. Ma prima di tutti questi principi dovevo AMARE lo
Stato e ODIARE il Nemico.
Anni
90, crolla tutto, lo Stato diventa il nuovo NEMICO e il vecchio NEMICO diventa
la terra promessa. Un trauma che non riesco a spiegare, tutto quello che ricordo
è che si doveva distruggere il vecchio per costruire il nuovo. Ma del vecchio
facevano parte i 14 anni della mia vita. Altri 4 anni di liceo fra incertezza e
disordine perché si studiava ancora sui vecchi libri e si sperava nel nuovo
futuro.
1996,
decido di lasciare casa per andare nella terra promessa per realizzare i miei
sogni (aiutare la famiglia e avere le risorse sufficienti per proseguire gli
studi universitari).
Ma
nella terra promessa trovo lavoro solo come bracciante agricolo malpagato, realtà
che non corrispondeva ai miei obiettivi. Anche qui un altro trauma, anche qui
delusione.
Da
qui credo che arriva la mia violentizzazione. Si può dire che la mia
violentizzazione deriva dal TRAUMA e dalla delusione?
Lontano
dalla famiglia, abbandono gli studi, comincio a rubare e non rispettando nessuno
entro in una strada che non conoscevo prima, e vedo che i miei obiettivi si
stavano realizzando. Ma realizzandosi gli obiettivi, cambiavano i sogni. Ero
diventato un giovane adulto che
credeva di poter fare tutto “prima io, dopo di me dio”.
Dal
1997 al 2001 ho accumulato 6 condanne e 15 anni di carcere. E qui è entrato in
gioco il mio parlamento interiore che mi ha impedito di fare male ad altre
persone, bastava che loro credessero che tu potevi farlo.
Alla
fine a me mi ha salvato chi mi ha denunciato, sono stato latitante dal 2001 al
2009, un tempo che mi ha permesso di allontanarmi da quel giro.
Se
io non sono riuscito a fermarmi, cosa fare per aiutare altri a fermarsi prima di
commettere un atto violento?
di
Ulderico Galassini
L’incontro
con Adolfo Ceretti mi ha coinvolto richiedendo una attenzione e concentrazione
non indifferenti. A tutti è rimasto impresso l’uso di definizioni quali:
Parlamento interiore – Comunità fantasma che, mi pare di capire,
interagiscono costantemente con ogni persona.
Personalmente
l’incontro mi ha fatto riflettere parecchio e dolorosamente mi ha portato alla
data più nera della mia famiglia, e in questa riflessione ho cercato di
ripescare quella mia comunità fantasma, quel parlamento interiore, ma non penso
che a distanza di tempo io sia in grado di riportare a galla quello che posso
essermi detto in quei minuti terribili.
Mi
è più facile ricordare le riflessioni dei tanti giorni precedenti e legati a
situazioni lavorative, che mi toglievano la tranquillità dell’essere persona
serena, distesa, e mi impedivano di gestire con consapevolezza nel mio lavoro ciò
che fino a qualche mese addietro avevo seguito e gestito senza difficoltà.
In
quella tremenda mattinata in cui ho cercato di distruggere, e in parte ho
distrutto la mia famiglia, non ricordo dei dialoghi interiori ma dei
comportamenti automatici e senza senso, che però mi hanno tolto anche la
sensibilità dei sentimenti e delle emozioni, e portato a non capire che stavo
distruggendo delle vite, eppure l’ho fatto, ma perché?
Questa
comunità e parlamento sono ora ancora presenti dentro di me, ma non hanno o non
vogliono rispondere ai miei perché, sono sempre attivi, ma non hanno deciso di
raccontarmi, di spiegarmi perché non abbiano detto: fermati! Cosa stai facendo?
Io so solo che per problemi di lavoro avevo paura di perdere tutto quello che
avevamo raggiunto e invece ho perso, anzi ho distrutto non tanto le cose
materiali, ma gli affetti più cari, mia moglie che era da 35 anni assieme a me,
e ho ferito in tutti i sensi un figlio di 15 anni, che ora ne ha 21, e
nonostante tutto non ha voluto abbandonarmi.
Non
c’era mai stata nessuna brutalità tra di noi, ma condivisione di obiettivi e
di scelte di vita. Forse qualcosa di simile alla violentizzazione è iniziata e
si è innescata in modo subdolo in me, a partire da una forma di violenza che ho
subito sul lavoro, un lavoro di direttore di banca che mi è sempre piaciuto, ma
per farlo avevo bisogno di strumenti che per mesi non sono riuscito ad avere. La
responsabilità che ho caricato su di me e il senso di impotenza nel non
riuscire a rispondere a chi attendeva da me risposte, mi hanno portato a
rinchiudere, a nascondere il disagio e la vergogna che mi assalivano ogni volta
che i clienti mi chiedevano se avessi risolto i problemi. Così cercavo di
fuggire dagli ambienti del paese più frequentati, avevo paura anche di entrare
al bar di fronte al mio ufficio a bere un caffè. Perché? Tra tante persone
c’erano pure quelle che da me attendevano risposte e mi vergognavo di non
potergliele dare.
Col
senno del poi penso che forse avrei dovuto cambiare lavoro, o prendermi un lungo
periodo di aspettativa, non sapevo che ero in fase depressiva e tanto meno
pensavo che avrei potuto arrivare a gesti estremi. Ma il mio “parlamento
interiore” era pieno delle ossessioni e delle paure di fallire sul lavoro, e
di non reggere il peso di un periodo di difficoltà. E allora se io non sono
riuscito a fermarmi, cosa fare per aiutare altri a fermarsi prima di commettere
un atto violento?
La
violenza dello Stato sulle donne, madri figlie compagne di detenuti
Donne
brutalizzate da consuetudini e leggi ottuse che rasentano il sadismo di Stato
perché pretendono il distacco sociale, affettivo e sessuale dalle persone che
amano
di
Carmelo Musumeci
Quando
sua figlia lo andava a trovare in carcere e la abbracciava gli rimaneva
l’odore del suo amore per alcuni giorni.1
La
Redazione di Ristretti Orizzonti si sta preparando alla giornata Nazionale di
Studi dal titolo “Il male che si nasconde dentro di noi”.
Qualche
giorno fa abbiamo discusso della violenza degli uomini contro le donne e a me è
venuta in mente la violenza che lo Stato fa pagare alle compagne, alle madri e
alle figlie che continuano ad amare i loro uomini, i figli e i padri dentro le
mura di una prigione. Donne violentate e brutalizzate da divieti medievali, da
consuetudini e leggi ottuse che rasentano il sadismo di Stato perché pretendono
il distacco sociale, affettivo e sessuale dalle persone che amano.
La
legalità è l’affermazione dei diritti, ma in carcere si fa fatica a trovarli
specialmente quando si pensa che le nostre compagne non fanno l’amore con i
loro uomini da decenni.
E
ci sono molte figlie e madri che non ricevono un abbraccio, un bacio, una
carezza perché i loro congiunti sono sottoposti al regime di tortura del 41 bis
da anni e anni.
Eppure
molte persone di buon senso ripetono che fra tutti i diritti, l’amore è
quello più importante che non solo fa abbassare la recidiva più di qualsiasi
altra cosa, ma è anche la medicina migliore perché chi ama e viene amato
ritorna in carcere di meno.
Non
ho niente contro gli animali anzi vorrei solo che anche i prigionieri avessero i
loro stessi diritti come quello di scambiarsi effusioni, perché le sofferenze
affettive non migliorano le persone ma, piuttosto, le peggiorano.
Poi
per quale motivo la donna che ama un prigioniero non può fare l’amore con lui
anche se non è responsabile del reato che ha commesso il suo compagno?
E
soprattutto perché impedirle di ricevere e dare amore?
Non
è ragionevole pensare di risolvere i problemi della delinquenza impedendo alle
donne dei detenuti di essere amate.
Spero
che in questo periodo in cui si parla molto della violenza che commettono gli
uomini sulle donne si discuta anche della violenza che lo Stato infligge alle
donne dei detenuti e degli uomini ombra (come si chiamano fra loro gli
ergastolani ostativi), colpevoli di continuare ad amare fra le sbarre i loro
congiunti. Nessuno parla e nessuno affronta il problema dell’amore in carcere,
invece un giudice, in particolare quello di Sorveglianza, dovrebbe farlo e
assumersi le sue responsabilità prendendo provvedimenti coraggiosi anche contro
lo stesso Stato italiano.
1
“Gli uomini ombra”, di Carmelo Musumeci, Gabrielli Editori
La
violenza delle parole, la violenza contro le istituzioni, la violenza della
lotta
E
poi la domanda che più ci sta a cuore: che cosa avrebbe potuto aiutarci a
fermarci?
di
Bruno Turci
Parole
violente
Le
parole, quelle che in qualche maniera richiamano alla violenza, quando diventano
il linguaggio più praticato da una persona sono il sintomo di un malessere che
può sfociare in una violenza non soltanto verbale, e anche se non si dovessero
tradurre in violenza fisica, ne sarebbero comunque il presupposto principe. Le
parole violente non sono le stesse per tutti, ma funzionano sempre come un
campanello d’allarme che mette in guardia la mente e aiuta a fermarsi in
tempo.
A
me è capitato talvolta di usare delle parole violente proprio per avvisare, per
prevenire, prima che la violenza degenerasse, per lanciare un segnale
all’altro affinché capisse che oltre le parole ci sarebbe stata solo la
violenza… talvolta le parole violente sono un estremo tentativo di difesa,
utilizzate per non essere costretti a compiere gesti violenti. Questo, però,
non vuol dire affatto che la violenza abbia qualche utilità per “esorcizzare
se stessa”.
Personalmente
mi è capitato di utilizzare, qualche volta, delle parole violente per
“condurre a buon fine” dei reati. Ad esempio può capitare di usare parole
violente durante lo svolgimento di una rapina, per costringere le persone a
obbedire senza metterne a repentaglio l’incolumità e per garantirsi l’esito
cercato con la commissione di un reato. Possono essere molte le circostanze in
cui si utilizzano in maniera scientifica delle parole violente e in quei casi si
tratta di violenza pura, giacché le persone a cui sono rivolte non possono
sapere se a quelle parole si aggiungeranno azioni di violenza fisica, quelle
persone resteranno traumatizzate per quelle parole, per quella violenza.
La
violenza contro le istituzioni molto spesso è la conseguenza di un’evidente
incapacità di relazione, del rifiuto di rielaborare antiche paure che si
trascinano fin dall’infanzia e che hanno generato
un complesso d’inferiorità che infantilizza il pensiero e le azioni di
chi lo subisce. Da questo si può affermare che la violenza riduce la qualità
dei pensieri e della vita di coloro i quali ne fanno uso.
Istituzioni
violente
Le
istituzioni però rischiano di diventare il “nemico perfetto” per le persone
private della libertà, incarcerate, rinchiuse in una cella sporca e stretta,
troppo piccola per potervi contenere in maniera decorosa un numero così alto di
persone, alle quali si riserva una detenzione per nulla attenta alle funzioni
risocializzanti della pena. Le pessime condizioni in cui versano le carceri
italiane determinano una detenzione che non rispetta l’umanità delle persone
detenute e questo veicola la violenza contro le istituzioni, se non c’è
rispetto per le persone detenute come si può credere che le persone detenute
abbiano rispetto per le istituzioni?
In
questo caso le persone detenute debbono difendersi e spesso lo fanno in maniera
forte, violenta, per poter sperare di arrivare perlomeno a vedere da vicino le
cause del male che le schiaccia. Questo è ciò che sta all’origine della
violenza contro le istituzioni. Le istituzioni non raccolgono certe
problematiche, non si fanno carico di risolvere i problemi che vivono le persone
che sono costrette a subire le condizioni disumane, invivibili della pena che
devono espiare. Pena che talvolta non dà speranza di vita e neppure speranza di
morte, una vita sospesa… vite da ergastolani, sospensione delle garanzie della
Carta Costituzionale. È il caso dell’ergastolo senza benefici, una condanna
che non consente alle persone di sperare di uscire dal carcere se non dopo la
morte. Paradossalmente in quei reparti d’isolamento le persone detenute non
soffrono la disumanità del sovraffollamento, stanno tutti dentro le loro celle
rigorosamente singole, la cui unica umanità è rappresentata dalle foto dei
familiari, dei figli e dei nipoti. Una famiglia e affetti a cui non potranno mai
sperare di potersi riunire, salvo che non venga cambiata la legge barbara che
glielo impedisce. Questa è la violenza fredda e cinica di una legge figlia
dell’emergenza criminale di oltre vent’anni fa.
In
questi casi la situazione la salvano i direttori delle carceri. Certi direttori
“illuminati” riescono a farsi carico, per l’istituto di pena che dirigono,
delle difficoltà in cui vivono le persone detenute ed esercitano il potere che
hanno per garantire loro una pena che abbia un “senso” e garantisca il
rispetto delle leggi, che impongono il criterio della risocializzazione per
tutti coloro i quali stanno scontando una pena.
Lotte
violente
La
violenza di certe lotte è uno dei principali nodi che impediscono che una lotta
abbia successo. Le lotte a cui ho partecipato in carcere negli anni della mia
detenzione sono state sempre caratterizzate da una violenza nei toni se non
anche nelle modalità della lotta stessa.
Non
so se esistono davvero lotte non violente, anche lo sciopero della fame è
violento proprio per il modo in cui si caratterizza proponendosi di usare
l’autolesionismo, di fare del male al proprio corpo. In questo senso è chiaro
che una lotta è quasi sempre violenta. Si può affermare tranquillamente che
molto spesso il motivo che sta alla base del fallimento di una lotta è da
individuarsi nella violenza di cui non può liberarsi. La mia esperienza va in
questa direzione, nel non aver saputo usare, per cambiare lo stato delle cose,
strumenti che fossero privi di violenza.
Infine,
credo che quello che ci potrebbe aiutare a fermarci prima di compiere un atto di
violenza sia proprio il pensiero della nostra famiglia. Cioè quelle persone
che, a volte inconsapevolmente, abbiamo trasformato nelle nostre vittime più
eccellenti infliggendo loro le sofferenze peggiori. Proprio per questo hanno
acquisito un tale potere su di noi. Sono i nostri genitori, i figli, la moglie,
i fratelli, le sorelle. È la famiglia che ci ha sostenuti nei momenti più
difficili, senza farci pesare l’infinita sofferenza che le è toccata in sorte
per averci voluto bene. E sarà ancora la famiglia a farlo adesso con il seme
della pazienza e dell’amore, a darci la forza di fermarci. Le famiglie sono il
primo baluardo per il recupero alla legalità di una persona condannata. Per
affidabilità e autorevolezza costituiscono il principale interlocutore per
avviare a un percorso rieducativo i giovani. Le famiglie sono le prime vittime
che un reo si porta dietro dal momento dell’arresto fino all’ultimo giorno.
È proprio per questo che il loro ruolo nella nostra risocializzazione, nel
reinserimento sociale è primario. Eppure la famiglia è quella parte che molto
spesso viene colpevolizzata e penalizzata solo per il fatto che sono nostri
parenti. I parenti dei mostri! Quanta violenza devono subire anche le persone
che ci sono care!
Ero io che
sceglievo di commettere reati
Ma
oggi faccio ancora molta fatica a non ricordarmi dell’indifferenza di tante
istituzioni, che non capiscono che la persona negli anni può essere davvero
diversa dal suo passato, e negano di fatto la possibilità del cambiamento
di
Luigi Guida
Sono
un paio di mesi che, all’interno della redazione di Ristretti Orizzonti,
stiamo discutendo per prepararci al convegno “Il male che si nasconde dentro
di noi”, che è focalizzato sul tema della violenza. La nostra capo
redattrice, Ornella Favero, ci ha chiesto di parlarne partendo non solo dai
nostri reati, che sono quelli che ci hanno portato in carcere, ma da una
riflessione molto più ampia e complessa, iniziando dal linguaggio, dalle parole
che usiamo e dai comportamenti che adottiamo nella vita di tutti i giorni, che
molto spesso sono quelli che ci hanno fatto rompere il legame con la società e
quindi ci spingono a commettere reati e vivere in un mondo fatto di devianza.
Ci
sarebbero tantissime cose da dire da parte mia in una occasione come è questa,
visto che sono una persona che i primi reati li ha commessi per il gusto di
trasgredire qualche regola, e per seguire la logica del gruppo di cui facevo
parte, ma poi, con il tempo è diventato un vero stile di vita: ero io che
sceglievo di commettere reati, era diventato quasi come fosse un lavoro e quindi
la cosa più normale del mondo, ma non ci riesco. Forse perché, nonostante
siano passati oltre due anni e mezzo da quando sono arrivato
qui
a Padova, in un carcere dove per la prima volta si è cercato di mettermi a
disposizione strumenti diversi da parte della direzione di un carcere rispetto
al passato, per farmi riflettere sugli errori che ho commesso, e nonostante io
abbia quindi maturato tantissime consapevolezze che prima non avevo, non è
semplice fare una revisione realmente critica sul mio trascorso deviante, capire
come e quali siano le reali ragioni che mi hanno spinto a passare gran parte
della mia giovane età in carcere e le mie responsabilità in merito ai reati.
Faccio
ancora molta fatica a non ricordarmi dell’indifferenza di tante istituzioni,
che non capiscono che la persona negli anni può essere davvero diversa dal suo
passato, e negano di fatto la possibilità del cambiamento.
Quindi
vorrei partire dalle violenze delle istituzioni, che sarebbero quelle che
dovrebbero educarci a cambiare il linguaggio e l’atteggiamento. Ma come lo si
può fare in un ambiente carcerario dove invece di farti capire cosa sia la
differenza tra il bene e il male, ti reprimono fino all’inverosimile,
tenendoti stipato in spazi angusti, dove non puoi fare nulla se prima non trovi
un accordo con gli altri coinquilini, spogliando così il detenuto di ogni
possibilità di scelta, e quindi di assumersi le proprie responsabilità, e
negandogli la propria dignità e talvolta, in casi più estremi, riducendolo a
meno di un essere umano.
Ma
questo è solo un piccolo esempio, perché all’interno delle carceri si vivono
linguaggi e comportamenti violenti tutti i giorni, come può essere una
domandina che fai e magari ti viene buttata o va persa perché non vai a genio a
chi dovrebbe darti ascolto, alle mortificazioni che devono vivere le famiglie e
i figli all’entrata dei colloqui, dove vengono perquisiti come se fossero dei
criminali, e in tante realtà debbono passare quasi tutta la notte fuori dal
carcere per potersi mettere in fila e arrivare alle dieci del mattino a fare
un’ora di colloquio con il proprio congiunto, come succede sempre a
Poggioreale. Ma mi fermo qui, perché altrimenti non so per quanto tempo
dovrebbero sentirmi, tuttavia già le poche cose sopracitate potrebbero bastare
per far capire come sia difficile per chi sta da questa parte partire solo dalla
violenza dei propri errori, dimenticandosi di fatto di quella che ha vissuto in
passato, e quella che in molti casi continua a vivere tutti i giorni.
Come
faccio per esempio a non parlare del carcere da cui provengo, Genova, dove in
una vasca di cemento di pochi metri quadri passeggiano oltre trecento persone di
etnie diverse, che più che veri e propri criminali sono persone che si sono
spinte a commettere reati perché non hanno saputo far fronte alle difficoltà
della vita di tutti i giorni. E lo Stato ha contribuito a farli “rifugiare”
nel mondo deviante, varando alcune leggi propagandistiche perché non ha saputo
dare risposta in termini di politiche sociali, vedi la Bossi-Fini
sull’immigrazione? Ma penso anche a tanti che ho visto qui dentro per effetto
della Fini-Giovanardi, che ha rinchiuso in carcere anche quelle persone che
avevano come unica colpa quella di acquistare un po’ di hascisc in più il
fine settimana, e poi la ex Cirielli che toglie quasi ogni possibilità ai
recidivi di accedere alle misure alternative, quindi di poter iniziare un
percorso rieducativo vero, e in cambio la stessa legge favorisce però la
prescrizione dei reati di chi ha buoni avvocati, i cosiddetti colletti bianchi
che fanno reati del tipo finanziario riducendo magari intere famiglie sul
lastrico. Quelli sono veri criminali e quindi il male più grande della società,
ma per loro la punizione spesso non arriva mai, per quelli come me arriva
sempre.
Non ho
ricette per la recidiva, ma qualcosa ho capito
Ho capito
che al mio primo arresto qualcuno mi avesse fatto vedere l’altra parte, quella
che subisce il male che facciamo noi, se mi avessero imposto un confronto vero
con la società, e con le vittime, avrebbe risparmiato tanta sofferenza a chi ha
subito le mie azioni
di
Clirim Bitri
Nella
nostra redazione si fa un grande lavoro per capire le ragioni che riportano in
carcere ex detenuti e per riflettere su quello che potrebbe impedire la
recidiva. In condizioni normali, il recupero del reo dovrebbe avvenire
attraverso tre linee principali LAVORO, SCUOLA e RELIGIONE. O almeno così dice
l’Ordinamento Penitenziario. Io come detenuto mi sono fatto la domanda: cosa
mi servirebbe davvero per non rischiare di ritornare di nuovo in carcere?
La
Religione? La religione serve ed è importante in carcere, ma così come la fede
è una strada per trovare la tranquillità interiore, non credo che potrà
aiutarmi a inserirmi nella società dopo tanti anni d’interruzione della mia
vita sociale, e ad affrontare i problemi quotidiani fuori dal carcere.
La
Scuola? La scuola serve, mi serve per accrescere la mia cultura, è importante
perché è un posto dove mi posso confrontare con persone esterne all’istituto
e capire quello che si fa fuori, ma con la crisi che c’è, iniziare gli studi
a un’età in cui uno dovrebbe averli finiti da tempo e dovendo aggiungere al
curriculum la qualifica di “ex detenuto”, ho qualche dubbio che questo mi
aiuterebbe a trovare lavoro fuori.
Il
Lavoro? Il lavoro (se ci fosse) serve, serve a non umiliarmi per un po’ di
tabacco o una sigaretta, è molto importante per aiutare la mia famiglia, ed è
conveniente perché ti permette di avere qualche euro a fine pena. Ma come si
sa, su 67000 detenuti, fanno un lavoro “vero” meno di 900.
E
dopo vari anni di galera non ho ancora capito il valore rieducativo che ci può
essere nel lavare il pavimento o avvitare bulloni tutto il giorno all’interno
del carcere. Oltretutto gli ultimi tempi qui dentro incontri sempre più spesso
persone che fino al momento del reato avevano lavorato onestamente, e quindi ti
rendi conto che non basta il lavoro per essere rieducati.
Negli
incontri che si fanno con gli studenti (progetto scuola/ carcere) ho visto delle
persone detenute riflettere sulle loro azioni, ammettere che avevano sbagliato,
senza ottenere nessun beneficio ma solo per onestà di fronte alle domande
innocenti dei ragazzi. Quella ammissione del reato che avevano rifiutato davanti
alle lusinghe della legge, che magari ti prometteva di abbassarti un terzo di
pena se collaboravi.
Abbiamo
riflettuto sull’importanza dei “benefici”, ma forse è meglio parlare di
MISURE ALTERNATIVE, che preparano la strada per un rinserimento nella società
di persone che stanno finendo di pagare il loro debito con la giustizia e
iniziano a capire che fuori dal carcere le aspetta la pena senza fine della
coscienza.
Oggi
si fanno tante ipotesi su come si può abbassare la recidiva, e si danno tante
risposte diverse, qualcuna convincente, altre meno.
Io
non so quale sia la risposta giusta, ma so cosa mi sarebbe stato utile e avrebbe
impedito a me di essere oggi qui: farmi capire, durante la mia prima
carcerazione, che non ero in carcere solo perché avevo infranto la legge, ma
che con le mie azioni avevo fatto male a delle persone.
E
poi mi sarebbe stato utile non essere buttato in cella a non far niente, con
l’ordine “rieducati”, perché dentro di me, a fine pena, so che sarebbe
rimasta solo la convinzione che non dovevo più niente a nessuno, anzi avevo
pagato più del dovuto. Ma farmi confrontare con chi aveva subito un reato, e
quindi una autentica sofferenza, commesso da me o da qualche altro mio compagno,
perché le sofferenze di cinque anni di galera sono state niente in confronto
con quello che ho provato in due ore di colloquio con le vittime dei reati.
E
nell’ultimo periodo della pena avrei dovuto essere messo in una misura
alternativa svolgendo anche dei lavori sociali, che mi aiutassero a darmi
un’alternativa alla vita di prima. E invece non avrei dovuto essere messo
fuori all’ultimo giorno con l’invito a non tornare, perché sono tornato dai
vecchi amici.
In
carcere siamo dei delinquenti, ma siamo anche delle persone, delle persone tante
volte poco responsabili, e molto egoiste, perché quando rubiamo una macchina
vediamo il modello ma mai il proprietario, vedere il proprietario e i sacrifici
che ha dovuto sostenere per comprare quella macchina forse ci insegnerebbe a non
rubare.
Oggi
sono qui ma se al mio primo arresto qualcuno mi avesse fatto vedere l’altra
parte, quella che subisce il male che facciamo noi, se mi avesse imposto un
confronto vero con la società, e con le vittime, avrebbe risparmiato tante
sofferenze a chi ha subito le mie azioni, e a me avrebbe risparmiato tanti anni
di carcere.
Quando la
violenza si riveste di legalità
Ma perché?
Se tu sbagli sei punito e se sbagliano gli organi che amministrano le nostre
leggi tutto va bene?
di
Santo Napoli
Ultimamente
nella redazione di Ristretti stiamo parlando molto di violenza, e noi ne abbiamo
fatta coi nostri reati, ma io vorrei parlare anche della violenza psicologica ed
afflittiva arrecata dallo Stato alle persone detenute. Innanzi tutto so che le
persone detenute devono scontare una pena e per chi vive fuori in libertà noi
dobbiamo solo stare male, e anzi si dovrebbe buttare la chiave, ma in carcere
non si sta bene e per alcune persone la chiave la si butta nel vero senso della
parola, e chi sostiene il contrario vuol
dire
che nelle nostre patrie galere non c’è mai stato e non ha idea delle
condizioni di vita connesse al sovraffollamento.
Io
ho riflettuto molto sulla questione della violenza inflitta e penso che anche lo
Stato non si comporti bene, ma con violenza e non come la legge stabilisce. È
vero che una persona che commette un errore, grave o lieve che sia, deve essere
punita, ma nella punizione non ci si dovrebbe accanire con violenza.
invece la violenza nella carcerazione c’è e deriva dal fatto che già
vieni rinchiuso al di fuori del mondo, poi ancora ti fanno violenza quando a
questa chiusura si aggiunge la sofferenza perché ti concedono solo sei ore di
colloquio al mese con i familiari, ti fanno violenza quando ti concedono dieci
miseri minuti a settimana di telefonata con i parenti, per non parlare di quei
detenuti che hanno i colloqui limitati a uno o due al mese e due telefonate
sempre al mese. In pochissime realtà come Padova quei minuti sono sessanta e già
ti sembra un miracolo.
Poi
ti fanno violenza quando un detenuto viene trasferito dalla sua regione ad
un’altra regione e questo non ti permette più nemmeno di fare i colloqui con
i tuoi, vuoi per la lontananza, vuoi perché i tuoi
genitori o non guidano, o non sono più in condizioni per farlo a causa
di una malattia o non possono venire spesso a trovarti per motivi economici, e
ce ne sono tanti ridotti in queste condizioni, cosi poi si
perdono i contatti con le persone care, che diventano sempre più rari e
faticosi, in alcuni casi addirittura c’è chi viene abbandonato al suo destino
in carcere.
Ecco
io penso che bisognerebbe riflettere di più anche su questi fattori e su questo
tipo di violenza, uno che commette reati non si vuol sentire vittima e secondo
me non c’è, però in alcuni casi lo diventi tuo malgrado, e questo non è
legalmente e umanamente giusto. Ma allora perché se tu sbagli sei punito e se
sbagliano gli organi che amministrano le nostre leggi tutto va bene? Questa è
un’altra forma di violenza di cui secondo me discutere.
La
violenza della Giustizia
Invece di
scrivere della violenza dei cattivi parlerò di quella dei buoni: perché se dal
carcere si esce umiliati, offesi, arrabbiati, accecati dall’odio, intrisi di
dolore è peggio per noi, ma è anche peggio per la società
di
Carmelo Musumeci
“L’ubbidienza
non sempre è una virtù” (Don
Milani)
Il
nostro Direttore, Ornella Favero, mi ha chiesto di scrivere qualcosa
sull’argomento e lo faccio volentieri ma io sono un bastardo anarchico ed
invece di scrivere della violenza dei cattivi parlerò di quella dei buoni, di
quelli che hanno la fedina penale pulita e che vanno spesso a messa la domenica.
Inizierò
a parlare dell’esistenza e della violenza in Italia della “Pena di Morte
Viva”, una pena (tortura?) di morte a gocce, che ti preclude ogni speranza di
tornare un giorno libero senza togliere la libertà a qualcun altro.
Ed
è sbagliato dire, come fanno in molti, che assomiglia alla pena di morte, perché
questa dell’ergastolo è molto peggiore dato che si sconta da vivo invece che
da morto.
Ed
è come essere morti rimanendo vivi perché con l’ergastolo continui a vivere,
ma smetti di esistere.
Qualsiasi
pena dovrebbe servire a migliorare (guarire) e non a distruggere, ma come fa una
pena che non finisce mai a migliorarti? Non c’è nessuna giustizia a tenere
una persona in catene tutta la vita, sotto un certo punto di vista ce n’è di
più quando la ammazzi subito.
E
che dire della violenza della giustizia istituzionale del carcere? Inizio a
citare voci più autorevoli e credibili delle mie:
-
Il capo dello Stato Napolitano tra i detenuti: “Lo Stato viola la
Costituzione”. La voce gli si incrina prima di entrare al sesto raggio, dove
si vive in otto e più in celle da quattro. Commentando la condanna di
Strasburgo Napolitano ha detto che rappresenta “una mortificante conferma
dell’incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi
in attesa di giudizio e in esecuzione di pena”
(Corriere
della Sera 7/02/2013).
-
Napolitano: sulle carceri l’Italia si
gioca l’onore. (La Stampa 7/02/2013)
-
Il capo dello Stato in visita a San Vittore “Le nostre carceri vergogna per
l’Italia”. (Il Fatto Quotidiano
7/02/2013).
-
Napolitano in visita a San Vittore. È la prima volta di un Capo dello Stato.
“Situazione insostenibile” violata la Costituzione. In celle dove dovrebbero
stare due persone ne vivono quattro o addirittura sei. E negli spazi pensati per
ospitare sei detenuti coabitano in dodici. (L’Unità
7/02/2013).
Benché
la violenza burocratica/ istituzionale stimoli indignazione in tutti i ceti
sociali, c’è chi lo ritiene un
male necessario, ma non è così, perché se dal carcere si esce umiliati,
offesi, arrabbiati, accecati dall’odio, intrisi di dolore è peggio per noi,
ma è anche peggio per la società. Infatti:
-
Misure alternative, l’unica cura efficace. Luigi Pagano (Vice Capo del
Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria): ”Abbattano la recidiva
dell’80%” (Avvenire 7/02/2013).
Purtroppo
il carcere in Italia è il luogo più criminogeno di qualsiasi altro posto, ed
è come andare in un ospedale dove, invece di farti guarire dal male, finiscono
per ammazzarti con altro male, sofferenza ed illegalità.
-
Resta alta la tensione nelle carceri italiane. Nel 2012 ben 1.300 detenuti hanno
tentato il suicidio, 7.317 gli atti di autolesionismo e 4.651 le colluttazioni.
56 i suicidi e 97 le morti per cause naturali. Oltre 1.500 le manifestazioni su
sovraffollamento e condizioni di vita intramurarie”. (Ansa,
10 marzo 2013).
La
vita in carcere oggi è fatta sempre più spesso di parole e gesti violenti
La
vita in carcere è caratterizzata oggi più che mai da forme di violenza: perché,
in condizioni di sovraffollamento, le persone perdono la loro dignità, sono più
sole, e difficilmente possono essere ascoltate. E allora, ogni cosa può
diventare fonte di ansia e di paura: il linguaggio delle sentenze e di tutte le
forme di comunicazione che la persona detenuta ha con chi rappresenta la Legge,
i rapporti con l’amministrazione, che comunque è quella che ti tiene
rinchiuso, la convivenza tra detenuti che spesso non hanno niente da perdere, e
niente che li possa aiutare a controllare la propria aggressività.
In
carcere a volte feriscono anche le parole
di
Ulderico Galassini
Cosa
fanno i genitori con i figli? Sin
dalla tenerissima età ti parlano,
vogliono trasmetterti con le parole
le loro emozioni e con gesti,
carezze, abbracci, baci dimostrarti
tutto il loro amore.
Ma
poi nella vita impari che sia i gesti
che le parole possono anche farti
male.
Un’educazione
civile dovrebbe essere sempre quella che ti aiuta a comunicare con chiarezza e
tranquillità, per farti conoscere, capire, collaborare con gli altri. In
carcere invece capita di avere a che fare con comunicazioni per motivi di
giustizia, sia orali che scritte, che non sono sempre chiare e trasparenti, e a
volte danno adito a molteplici interpretazioni e quindi finiscono per scatenare
reazioni aggressive e violente. Io lo sto sperimentando da quando sono diventato
responsabile di un reato e nell’accostarmi alla lettura di istanze, atti
giudiziari, comunicazioni da e tra Tribunali, valutazioni di psichiatri,
psicologi,
amministrazione
penitenziaria, mi accorgo che mi mettono in difficoltà e mi provocano ansia.
Il
fatto poi di essere detenuto, e quindi privo di autonomia, di dipendere in tutto
dagli altri, di non poter in alcun
modo essere padrone della mia vita, ecco che fa aumentare la sensazione di
disagio, di impotenza, la frustrazione perché non hai nessuna autorevolezza per
controbattere a certe imposizioni e non hai neppure la possibilità di un
dialogo, perché solitamente tutto ti viene comunicato per iscritto, e per
capire le comunicazioni che ricevi dovresti avere sempre al tuo fianco un
avvocato. Ma l’avvocato non è li a tua disposizione, e non sempre hai i soldi
per pagarlo, non sempre hai qualche volontario sensibile e disponibile che ti può
aiutare. Ecco che anche certe frasi che leggi negli atti che ti riguardano
diventano ferite, fonti di stress che devi digerire, portare avanti nel tempo
sino a che, magari dopo mesi o dopo anni, ti vengono date delle risposte che
spesso non sono neppure quelle che speravi. Con queste premesse l’unica parola
chiara e che aiuta a continuare a muoverti in questo labirinto è: Pazienza!
Ma
se uno non ce la fa ad aspettare, se si convince di non avere speranze, quali
risposte si dà? Non è un caso che da alcuni anni le cronache delle carceri
sono piene dei suicidi o degli atti di autolesionismo di tante persone che qui
dentro si sono sentite perse. Ecco che anche i silenzi di chi non dà risposta
alle tue richieste, le lungaggini burocratiche, l’illegalità diffusa
dovrebbero essere fermati in tutti i modi, perché in un contesto carcerario di
tali dimensioni si rischia col tempo di diventare più criminali di quando si è
entrati. E allora chi gestisce le politiche della sicurezza con gli slogan
“tutti in galera” e “buttiamo le chiavi”, e cerca di convincere tutti
che aumentare le pene significa fare positivamente prevenzione, non dice la
verità. La verità è che le persone che restano per anni “parcheggiate” in
carceri senza essere ascoltate, senza essere seguite, senza essere considerate
nella loro umanità, perché sono troppe, perché non c’è personale a
sufficienza, da queste galere usciranno solo più pericolose.
Quando
si è in troppi si diventa numeri
di
Angelo Meneghetti
Nei
diversi incontri che si svolgono all’interno del carcere discutiamo spesso dei
nostri comportamenti violenti, e di come è possibile mettere sotto controllo la
nostra aggressività. Essendo detenuto, mi è molto difficile scrivere e parlare
della violenza, perché non c’è solo la violenza dei reati, la violenza
DENTRO al carcere è una cosa reale, a partire dai rumori insopportabili di
sezioni dove dovrebbero esserci venticinque persone e ce ne stanno
settantacinque. Anche un mazzo di quelle grosse chiavi che ci rinchiudono, se
cade a terra dà origine a un frastuono violento, figuriamoci poi il tono della
voce di tanti detenuti o dei pochi agenti che dovrebbero tenere sotto controllo
un numero così enorme di persone.
Sento
dire: visto che siete detenuti, e spesso la violenza l’avete usata, dovete
essere i primi a convincere gli altri che non si può vivere con la violenza.
Sinceramente io credo sia impossibile, in quanto per la maggior parte i
detenuti, al di là di quello che può essere il loro passato, cercano quasi
sempre di non essere violenti, ma la situazione reale è spesso così insensata,
che si trasforma in violenza pura. E capita così tante volte che si deve
subire, e si è costretti a difendersi, che anche la pazienza non ti sorregge più,
perché la pazienza ha un certo limite, oltre il quale rischi di reagire male.
A
volte poi anche frasi scritte su carta, ad esempio qualche rigetto di una
richiesta, “non si autorizza”, o “non è consentito”, ti distruggono,
soprattutto se ti sembra che non abbiano un motivo valido, e che magari ti siano
spiegate con parole del tutto incomprensibili. Non può essere anche questa
violenza? No, non è violenza, ti senti dire, è la procedura di questo sistema,
che tratta tutti come numeri perché siamo troppi, dunque devo rimanere in
silenzio e cercare di riflettere senza reagire.
L’educazione
che mi è stata data da piccolo era di comportarsi bene, di studiare, di andare
a messa alla domenica, di non litigare con i compagni di classe, di rispettare
gli anziani, di non guardare mai gli altri con invidia. Da giovane ho sempre
lavorato e ho imparato diversi mestieri, ma durante il percorso della mia vita
ho conosciuto il carcere e vi ho trascorso diversi anni. Ho visto tante cose in
questi anni, ed è qui che sorgono i miei dubbi. Si parla tanto di rieducazione,
ma è una parola a mio avviso non del tutto giusta, colpevole o innocente che un
detenuto possa essere si dovrebbe parlare di reinserimento, e pensare di più a
un rientro graduale nella società, in quanto già sappiamo che vivere in
carcere è una vita piena di violenza, dunque se si pensa di rieducare le
persone tenendole solo dentro, sarebbe una rieducazione con violenza pura.
Oggi in carcere si vive in una situazione di sovraffollamento, le celle sono intasate da esseri umani e se non vuoi vivere in quella cella intasata sei punito. Un detenuto, nel corso della sua carcerazione, è sottoposto a cosi tante forme di illegalità, che è più che mai difficile che poi esca dalla galera sapendo controllare la sua aggressività. E quando le istituzioni ti dicono che se vuoi cominciare a uscire devi fare una riflessione critica più profonda sul tuo passato deviante, io mi faccio una domanda: chi te lo dice tiene presente la situazione reale che c’è nel carcere? Tengono presente che un detenuto subisce una condizione che è di degrado e illegalità tutti i giorni e sta vivendo nel modo più deviante che esista, ed è in questo sistema che dovrebbe reinserirsi nella società?