I
murati vivi rispondono
L’uomo
del delitto e quello della pena
Se
la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, non può prevedere anche
la sua “morte viva”
a
cura della Redazione
Sono
tanti gli ergastolani che, da diverse carceri italiane, hanno accettato di
rispondere alle domande dei “cittadini liberi”, anche a quelle più
taglienti, più “fastidiose”. Ne è nata così una rubrica sul sito di
Ristretti Orizzonti, dal titolo “I murati vivi rispondono”, a cui i nostri
lettori possono inviare le loro domande.
Alle
domande di Mario Spada, urbanista, fondatore e coordinatore della
Biennale dello Spazio Pubblico, risponde Carmine Aquino
Se
non fosse in regime ostativo e potesse uscire dal carcere almeno durante il
giorno, sarebbe disponibile a fare il mediatore sociale in un quartiere come lo
Zen a Palermo o Scampia a Napoli per dissuadere i giovani dall’adesione alla
criminalità organizzata, anche a rischio della vita per la guerra che la
criminalità le farebbe?
Che
l’uomo del delitto sia veramente diverso dall’uomo della pena lo dimostra
che molti ergastolani-ostativi svolgono da anni in un certo senso la funzione di
mediatore sociale nell’ambito familiare, ovvero verso i propri figli, nel
senso di non fargli intraprendere la strada della devianza: e molti di noi hanno
ottenuto proficui risultati nel vedere i propri figli onesti lavoratori, tra cui
parecchi laureati.
Chi
è nato e cresciuto in un contesto malefico, dove regnava la maledetta
sub-cultura deviante, ha vissuto per sopravvivere alle angherie della
vita, per cui gli viene naturale dissuadere i giovani dall’adesione alla
criminalità organizzata. E questo lo si può fare anche senza rischiare la
vita, ma con iniziative culturali di vario genere con modalità civili e
intelligenti.
È
d’accordo sulla confisca dei beni della criminalità organizzata che diventano
patrimonio comune di tutta la collettività?
Un
uomo normale che ha rovinato la sua vita (innocente e/o colpevole) non è più
legato agli errati valori materiali della vita stessa, il suo patrimonio è la
riconquista della sua stessa esistenza, se i beni sono frutto di illeciti possono
diventare patrimonio della collettività. Ma lo Stato dal canto suo non concede
affatto alla collettività la vita “rieducata” degli
ergastolani-ostativi, in spregio ai principi enunciati dalla Carta
Costituzionale di cui al comma 3 dell’art. 27 «la pena ... deve tendere alla
rieducazione del condannato» e non alla morte viva del condannato.
Se
lo Stato le concedesse la libertà in cambio di un’attività da infiltrato in
una organizzazione mafiosa tesa a smantellare la struttura di comando,
accetterebbe?
Anzitutto,
a mio avviso, gli errori commessi è giusto che si paghino, servono altresì a
riconquistare la propria dignità in un paese civile e democratico che dovrebbe
consentire la rieducazione del condannato. Tuttavia, non intendo sindacare “le
proposte vantaggiose ... e/o i vari baratti “ che nel mondo sono sempre
esistiti. Ma, a prescindere da ciò, dopo circa trent’anni di pena espiata
(almeno io) mi ritrovo letteralmente “consumato” nel fisico e nella
mente, mi restano pochi anni di vita.
Quindi,
vuoi che non mi sentirei all’altezza di affrontare un compito cosi arduo
(sarebbe come inviare un vecchio ammalato in guerra in Vietnam), ovvero di avere
il coraggio di rischiare la vita per la libertà, vuoi che mi sento lontano anni
luce da tali contesti malefici, vuoi che ho dedicato le mie restanti energie ingobbito
sui libri che hanno contribuito a rivoluzionare tutto ciò che di
inutilmente nocivo albergava in me, sicché non credo di dovermi guadagnare la
libertà dovendo mettere a rischio quel po’ di vita che mi resta da vivere,
credo, invece, che lo stato a chi si è distinto nell’aderire ad un serio
percorso rieducativo dovrebbe proporre altre iniziative meno cruente, più
proficue e più pacifiche.