Dialogo
tra un genitore di una studentessa e un ergastolano
Nel
progetto che coinvolge migliaia di studenti del Veneto in un confronto acceso e
serrato con i detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti, si aprono ogni
giorno prospettive nuove, che fanno capire che la discussione sul senso che
dovrebbero avere le pene, e che spesso non hanno affatto, per le condizioni in
cui versano le carceri italiane, riguarda tutti i cittadini, “liberi” e
reclusi. Nel dibattito entrano oggi due interlocutori nuovi, un detenuto
condannato a una pena che di senso ne ha poco, l’ergastolo senza speranza,
quello che assomiglia a una pena di morte al rallentatore, e un genitore di una
studentessa, entrato in carcere con la classe della figlia per assistere al
confronto tra studenti e detenuti.
A
cura della Redazione
Un uomo
ombra nel progetto “scuola/carcere” di Padova
Questa
esperienza mi sta aiutando a dare una svolta alla mia coscienza e a educare il
mio cuore
di
Carmelo Musumeci
Lo
sai, mettersi ad amare qualcuno è un’impresa. Bisogna avere un’energia, una
generosità, un accecamento. C’è perfino un momento, al principio,
in cui bisogna saltare un precipizio: se si riflette, non lo si fa.(Jean Paul
Sartre)
Il
progetto di portare dei ragazzi in carcere ad ascoltare le storie dei cattivi è
un’idea da matti.
E
la promotrice di questa “pazzia” si chiama Ornella Favero, volontaria,
giornalista e Direttore di “Ristretti Orizzonti”.
Il
progetto di Ornella assomiglia molto a quello che ha realizzato tempo fa la
direttrice Kiran Bedi nel carcere di Tihar, con ottimi risultati di abbassamento
di violenza dentro le mura del carcere e di recidiva esterna dei detenuti
ritornati in libertà.
In
quel carcere, uno dei più violenti e sovraffollati di tutta l’India, è stato
elaborato e realizzato un modello di “risveglio” della coscienza del
detenuto con incontri collettivi di dialogo che ha ben funzionato.
La
formula “Scuola carcere” dell’iniziativa di Ornella assomiglia molto a
quell’esperienza.
E
le modalità sono semplici: vengono intere classi di scuola superiore (a volte
più di una classe alla volta) e ascoltano tre storie di detenuti con dentro la
situazione familiare, sociale e ambientale di dove è nato e maturato il reato
senza trovare nessuna giustificazione per averlo commesso.
Poi
tutto il gruppo dei detenuti della Redazione di “Ristretti Orizzonti”, tutti
volontari che hanno deciso di scontare la pena in modo risarcitorio e
costruttivo, rispondono alle domande dei ragazzi.
Credo
che non sia facile per i detenuti raccontare il peggio della loro vita con onestà
e obiettività, ma penso anche che sia un modo terapeutico per prendere le
distanze dal proprio passato e riconciliarsi con se stessi.
Penso
che parlare a dei ragazzi, aiuti a formarsi una coscienza di sé e del
significato del male fatto agli altri.
E
guardare gli sguardi e gli occhi innocenti dei ragazzi aiuta molto ciascuno di
noi a capire quali sono state le ragioni dell’odio, della rabbia, della
violenza dei nostri reati più di tanti inutili anni di carcere senza fare nulla
di così costruttivo. Penso che non sia neppure facile per i ragazzi ascoltare
le nostre brutte storie dal vivo invece che sentirle alla televisione o leggerle
sommariamente nei giornali.
Credo
che in questo modo percepiscono meglio che molte volte dietro certi reati non ci
sono dei mostri, ma ci sono solo delle persone umane che hanno sbagliato.
Poi
dalle nostre risposte alle loro domande scoprono anche che il carcere
rappresenta spesso un inutile strumento d’ingiustizia.
Un
luogo di esclusione e di annullamento della persona dove nella maggioranza dei
casi si vive una vita non degna di essere vissuta.
Da
alcuni mesi in via sperimentale, perché sono un ergastolano in regime di
“Alta Sicurezza”, faccio parte di questo progetto più unico che raro e devo
ammettere che questa esperienza mi sta aiutando a dare una svolta alla mia
coscienza e a educare il mio cuore.
Per
Hannah Arendt il male è banale, ma senza profondità: solo il bene è profondo
e può essere radicale. Ecco il progetto “Scuola carcere” ti aiuta a capire
questo. E non è poco specialmente in un luogo infernale, sovraffollato e
illegale come sono le carceri in Italia, condannate spesso dalla Corte europea
per la loro disumanità.
A
un certo punto mi sono sentito io stesso il possibile carcerato che parlava con
gli studenti
di
Alberto, genitore di una studentessa
Buongiorno,
mi chiamo Alberto e oggi per la prima volta in vita mia, non solo mi sono
avvicinato ad un carcere ma ci sono pure potuto entrare, grazie a mia figlia,
appartenente al quarto anno del liceo linguistico dell’Istituto Scalcerle,
impegnata con altre quarte ad un progetto che prevedeva il colloquio con alcuni
detenuti, esteso gentilmente anche a qualche genitore.
Sono
rimasto abbastanza colpito di trovare persone come noi tutti e non solo persone
che hanno fatto della loro vita una scommessa con il diavolo. Ad un certo punto
del colloquio mi sono sentito io stesso il possibile carcerato che poteva
parlare con gli studenti, perché la realtà che ci circonda a volte, in momenti
incalcolabili per chiunque, ci spinge ad avere reazioni violente che, senza
volerlo, ci potrebbero portare al di là di quei muri e dietro le sbarre.
Mi
è venuta una irrefrenabile voglia di fare il possibile per poter permettere al
signor Carmelo, ergastolano e detenuto già da 22 anni, che ho sentito oggi
parlare della sua esperienza, di potersi togliere le scarpe per poter camminare
su un tappeto di erbetta fresca, fargli abbracciare un albero e magari riuscire
a portarlo al mare a fare un bagno.
Sì
lo so che non sarà mai possibile tutto questo, però almeno vorrei fare
qualcosa per lui e per quelli come lui che probabilmente non avranno mai più la
possibilità di uscire dalla struttura carceraria. Poter dare a Carmelo una
piccola speranza o comunque un appoggio morale, forse farebbe rifiorire una
persona nuova, quello che tuttora lo stato non gli permette di diventare
lasciando quelli come lui lì a fare niente se non progettare nuovi modi di fare
i soldi facili a qualsiasi costo, causa della sua detenzione. Vorrei trasmettere
al signor Carmelo la consapevolezza di non essere dimenticato dal mondo di cui
anch’io fino a ieri facevo parte.
Aspetto
pertanto di essere contattato dall’associazione perché mi dia un compito
seppure marginale, di poter operare in qualche modo all’interno
dell’associazione stessa per un possibile reinserimento nella società di
quelle persone che, dopo aver scontato la loro condanna, vogliono smettere di
essere delinquenti per rifarsi una vita onesta e quindi VERA GRAZIE.
Serve
attenzione ai sentimenti dei carcerati,ma anche a quelli delle vittime
Non
dobbiamo dimenticare la vita quotidiana di tutte quelle persone che hanno saputo
reagire di fronte alle sofferenze o che hanno dovuto affrontare il dolore
dell’uccisione di una persona cara
di
Maria Elena, Liceo classico Concetto
Marchesi
Nell’era
dei grandi mezzi di comunicazione ci confrontiamo continuamente con diverse
prospettive. Interessante è in particolare quella di chi nuoce alla società e
per questo è condannato alla reclusione.
Nell’ambito
del “Progetto Carceri” siamo venuti a contatto con esperienze di persone che
hanno certamente sofferto, ma che non hanno saputo reagire in modo adeguato,
cadendo così nel baratro della delinquenza. Oggi queste persone hanno finito, o
quasi, di scontare la loro pena e collaborano con l’associazione “Ristretti
Orizzonti”, che permette un graduale reinserimento nella società e un’opera
di sensibilizzazione dei giovani. Le loro parole invitavano, se non a
giustificare, almeno a comprendere le loro azioni.
L’eco
delle parole dell’organizzatrice risuona ancora nella mia mente: il
sovraffollamento delle carceri, le pessime condizioni di vita, la necessità di
un graduale reinserimento nella società. Mentre la Costituzione, però,
sottolinea come la detenzione debba essere finalizzata alla rieducazione, Cesare
Beccaria ci ricorda come la pena debba essere certa. È necessaria dunque la
coesistenza di due elementi: da una parte, una detenzione dignitosa,
dall’altra, la certezza della pena.
Ripercorrere
le esperienze di queste persone ha significato addentrarsi in un altro universo,
quello della vita di carcerato. Se da una parte ci lasciamo trasportare da
legittimi sentimenti, non dobbiamo però dimenticare la vita quotidiana di tutte
quelle persone che hanno saputo reagire di fronte alle sofferenze o che hanno
dovuto affrontare il dolore dell’uccisione di una persona cara. Il punto di
vista dei carcerati rischia infatti di adombrare quello delle vittime,
altrettanto importante e significativo. Tutti siamo cittadini, sia che abbiamo
compiuto o subito un torto, e tutti abbiamo uguale diritto di esprimere la
nostra opinione, seppure nel rispetto reciproco.
Senza
dubbio riconosco che il fine di questo progetto è approfondire le tematiche
giudiziarie riguardanti la detenzione, ponendo particolare attenzione al
pensiero illuminista. Ritengo però che, nonostante la trattazione quasi
scientifica, non si possa prescindere dalla necessità di considerare non solo i
sentimenti dei carcerati, ma anche quelli delle vittime.
Ogni
possibilità di allargare i propri orizzonti, considerando le difficoltà e i
desideri degli altri, deve essere accolta in modo positivo. Questa esperienza,
in particolare, mi ha permesso di conoscere un punto di vista opposto a quello
comune. Mi ha procurato dispiacere però il fatto che l’argomento sia stato
sostanzialmente osservato da un solo lato, mantenendo nascoste o comunque in
secondo piano le sofferenze delle vittime.
Una
stessa questione può avere aspetti tanto positivi quanto negativi: una
trattazione completa richiede che vengano trattati entrambi, senza giudizi di
parte. Senza dubbio quest’associazione è di parte, come peraltro è implicito
in ogni organizzazione, ma uno sguardo sul problema nel suo complesso sarebbe
stato, almeno a mio parere, proficuo.
Le
storie dei detenuti ci aiutano a fare più attenzione ai nostri comportamenti
Quando
le persone detenute “mettono in piazza” il peggio di sè, solo perché
sperano che il disastro della loro vita possa servire ad evitare a qualcuno di
cadere negli stessi errori, questo proprio per le vittime può essere un atto
importante, perché le vittime hanno bisogno che chi gli ha fatto del male ne
sia consapevole fino in fondo
di
Ornella Favero, responsabile del
progetto,
“Il
carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere”
Gentile
Maria Elena, ho letto le sue riflessioni e cerco di spiegarle perché il
progetto è focalizzato sulle testimonianze delle persone detenute. Quando le
persone detenute “mettono in piazza” il peggio della loro vita, e lo fanno
senza ottenerne alcun vantaggio, ma solo perché sperano che il disastro della
loro vita possa servire ad evitare a qualcuno di cadere negli stessi errori, io
credo che questo proprio per le vittime sia un atto importante, perché le
vittime hanno bisogno prima di tutto che chi gli ha fatto del male ne sia
consapevole fino in fondo. Non so sinceramente cosa significhi essere una
associazione “di parte”, perché io personalmente sono durissima con i
detenuti nel chiedergli di assumersi senza esitazioni la loro responsabilità. E
del resto, se va a vedere nel sito di Ristretti, troverà che da anni noi
portiamo nella nostra redazione in carcere vittime di reati, anzi con noi fa
volontariato Silvia Giralucci, che ha avuto il padre ucciso daiterroristi. Se
vuole, le regalo volentieri il nostro libro “Spezzare le catene del male”
che parla proprio di questo, del rapporto tra vittime e autori di reato. Nei
nostri incontri con le scuole però noi parliamo delle storie delle persone che
hanno commesso reati e meno delle vittime non per impietosirvi, o per difendere
una parte, né tanto meno per giustificare, perché cercare di capire non ha
niente a che fare con giustificare azioni che non sono in alcun modo
giustificabili. Lo facciamo perché le loro storie ci possono servire a fare più
attenzione ai nostri comportamenti, a non illuderci che a noi “non capiterà
mai”.
Io
poi le assicuro che ritengo importante la “certezza della pena”, ma non
credo che la certezza della pena significhi “certezza del carcere”: una
parte della pena può essere scontata in una misura alternativa, questo non
significa che non si tratti di pena certa, tutti i sistemi penali prevedono
delle modalità di scontare la pena che non siano esclusivamente il carcere, se
si ricorda Paola, l’ex detenuta che avete incontrato e che è stata processata
e condannata in Germania, ha detto che in Germania, se una persona è al primo
reato, sconta metà pena e poi, se si comporta bene, esce dal carcere. Eppure la
Germania è un Paese serissimo nel suo sistema penale, però ritiene che a una
persona incensurata debba essere data la possibilità di essere “messa alla
prova” e di scontare una pena più mite, e questo è un investimento sulla
capacità degli esseri umani di capire l’errore fatto e cambiare davvero vita.
Non è detto quindi che la pena “certa” significhi essere condannati a un
certo numero di anni e scontarseli tutti rinchiusi in gabbia: i sistemi penali
prevedono anche altre modalità, e se lo fanno è perché danno risultati
migliori della pura e semplice galera. Grazie delle sue riflessioni, che per noi
sono utilissime.
Nella
discarica del carcere non tutto è da buttare via
Un
piccolo esempio di come il male può anche diventare bene è il nostro progetto
con le scuole, incontrare degli studenti e confrontarsi con loro e cercare di
far capire con le nostre storie come non commettere gli stessi sbagli che
abbiamo fatto noi
di
Sofiane Madsiss
Tante
volte ho sentito dire che il carcere è una discarica umana, non so se lo
chiamino così perché i detenuti sono considerati i rifiuti della società, ma
per me questo è vero, perché quando sei dentro, a volte l’istituzione ti fa
sentire veramente come un sacco di spazzatura buttato dentro un cassonetto,
perché non fai niente dalla mattina alla sera, e quasi nessuno applica
l’articolo 27 della Costituzione, che vuol dire farti un programma di
rieducazione e di reinserimento, ma anche perché c’è tanta indifferenza da
parte della società. E questo forse succede perché la società è male
informata della situazione carceraria, ma c’è una cosa che la società
dovrebbe capire, che se siamo dei rifiuti, veniamo comunque da fuori e là fuori
ci siete voi, allora siamo i vostri rifiuti e spero che non vi dimentichiate di
noi, perché noi eravamo voi, e voi siete anche noi. Mi scuso per questa
osservazione, ma ripeto che non basta fare la raccolta differenziata per pulire
le nostre città e le nostre coscienze, e forse è meglio fare attenzione a
quello che si getta via per sempre. Io penso che come esiste il male, così il
male si accompagna sempre con il bene, ad esempio in tutto il mondo ci sono
delle mani che frugano tra i rifiuti, e in tutte le ore e tutti i giorni tra
questi rifiuti riescono a trovare qualcosa di buono e di utile.
Con
questa riflessione vorrei dire che noi detenuti (rifiuti) abbiamo sì sbagliato
e dobbiamo pagare, ma non siamo inutili, e come tutti i rifiuti anche in noi si
può trovare qualcosa di buono che può servire alla società nel futuro, basta
un piccolo sforzo e tanta attenzione a cosa buttare via.
Un
piccolo esempio di come il male può anche diventare bene è il nostro progetto
con le scuole: incontrare degli studenti e confrontarsi con loro e cercare di
fare capire a loro con le nostre storie come non commettere gli stessi sbagli
che abbiamo fatto noi. Io continuo a sperare che arriverà quella mano che fruga
tra i rifiuti umani in carcere che mi porterà lontano da qui, continuo ad
aggrapparmi alle piccole attese perché questo mi aiuta ad allontanare dalla
mente i problemi più gravi, e a non sopprimere la speranza di un futuro
migliore, in cui anch’io potrei diventare utile per la società.
Come
scrive Dino BUZZATI alla fine del suo romanzo “Il deserto dei tartari”: “E
dall’amaro pozzo delle cose passate, dai desideri rotti, dalle cattiverie
patite, veniva su una forza che mai lui avrebbe osato sperare. Con inesprimibile
gioia Giovanni Drogo si accorse, d’improvviso, di essere assolutamente
tranquillo, ansioso quasi di ricominciare la prova”.
Non avevo
previsto di passare i migliori anni della mia vita dietro le sbarre
E
non mi sono neppure reso conto del male che facevo a tutte quelle persone che mi
incontravano mentre inseguivo i miei obiettivi e le mie illusioni
di
Clirim Bitri
Arrivo
in Italia come clandestino nel 1996 appena finite le scuole superiori, la mia
intenzione era di lavorare qualche mese, guadagnare due milioni di lire e
ritornare in patria a proseguire gli studi universitari.
Trovo
lavoro come bracciante agricolo in nero, ricordo che per arrivare al posto di
lavoro dovevo camminare un’ora a piedi. Andando al lavoro, in una casa di
campagna vedo due vecchie biciclette, una mattina decido di risparmiarmi
quell’ora di cammino e ne rubo una. I giorni successivi ero meno stanco e
lavoravo di più, la mia vita era diventata più facile.
Un
giorno per caso incontro un mio connazionale che mi chiede se volevo vendere la
bicicletta e che mi offre quello che guadagnavo in un giorno di duro lavoro
(50.000 lire). Accetto, accetto perché sapevo dove trovare l’altra bicicletta
dove ho trovato la prima, in quella casa di campagna. 50.000 lire! Quelle 50.000
lire, guadagnate senza fare fatica, mi hanno dato l’illusione che c’è una
maniera per fare soldi facili e subito.
Con
questa illusione sono passato dalla bicicletta rubata per necessità a rubare
macchine, con le macchine rubate ho cominciato a trasportare clandestini,
trasportando clandestini non mi sono fermato al posto di blocco, non fermandomi
ho mandato in ospedale un carabiniere.
Quando
ho guadagnato i due milioni di lire che volevo, ho pensato che me ne servivano
quattro, quando ne ho avuti quattro me ne servivano otto. Il mio obiettivo si
spostava sempre di più. Inseguendo l’obiettivo mi buttavo in ogni cosa
(lecita o non) dove si poteva guadagnare. Non vedevo le persone che calpestavo.
Questa
è stata la vita che ho fatto per tre anni. E questa scelta mi ha portato molte
volte in carcere, mi ha portato a mentire ai miei genitori, dicendo che ero
molto impegnato con il lavoro e non li potevo chiamare, mi ha portato ad
accumulare oltre 13 anni di carcere.
Inseguendo
il mio obiettivo, non ho visto il male che ho fatto al proprietario delle
biciclette, al proprietario della macchina, non ho visto la paura dei
clandestini e non ho visto quanto dolore ha sopportato in un mese di ospedale il
ragazzo che svolgeva il suo servizio mentre passavo io, e ha cercato di
fermarmi, non ho visto il male che ho fatto a tutte quelle persone che mi
incontravano mentre inseguivo la mia illusione. Non avevo previsto il male che
ho fatto ai miei genitori quando hanno scoperto che avevano un figlio
delinquente. Non avevo previsto il male che ho provato non rispondendo alle
lettere della donna che amavo così tanto da lasciarla andare perché mi
sembrava meglio per lei, sperando che facesse una propria vita. Non avevo
previsto di passare i migliori anni della mia vita dietro le sbarre.
La
mia intenzione era di lavorare, il mio sogno erano due milioni di lire, ma
quella decisione apparentemente senza importanza di rubare quella bicicletta mi
ha portato oggi qui.
Fra
qualche anno finirò di scontare il mio debito verso la giustizia e sarò
libero, ma non so se potrò rimediare al male fatto verso chi ha avuto la
sfortuna di trovarsi sulla mia strada mentre inseguivo la mia illusione,
cercando di raggiungere quell’obiettivo che si allontanava sempre di più.
Perciò, se dovessi dare un consiglio direi di cercare sempre di fare la scelta giusta, perché anche un piccolo illecito commesso per superare una piccola difficoltà può portare in questa situazione.