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Ristretti
Orizzonti (anno
14, numero 2 Marzo - Aprile 2012) La
rieducazione e l’alibi del sovraffollamento di
Ornella Favero Parliamone La
rieducazione e l’alibi del sovraffollamento a
cura della Redazione Il
detenuto - cavia di Ornella
Favero Un
detenuto, se si sente solo osservato non crescerà mai di
Marco Libietti Ma
cos’è davvero la revisione critica testimonianze
raccolte dalla Redazione La
pedagogia è un sapere che non si occupa solo di infanzia di
Francesca Rapanà Prospettiva
lavoro Dalle
serre di Bollate ai giardini più eleganti di Milano intervista
a cura di Paola Marchetti Sprigionare
gli affetti Stare
con i miei figli mi fa capire quante soddisfazioni ci sono nella vita oltre ai
soldi di
Germano V. Io
mia figlia non l’ho mai incontrata da sola di
Dritan Iberisha Quando
un amico ti chiama dal Portogallo di
Antonio Floris Il
carcere entra a scuola, le scuola entrano in carcere Studenti
indisciplinati diventano “socialmente utili” Scuola
e pena di
Qamar e Miguel Come
evitare che il carcere diventi un trampolino di lancio per vivere
nell’illegalità di
Luigi Guida La
soluzione comunque non è mai la punizione che incattivisce di Alain Canzian Ma
come faccio a raccontare un gesto così tragico ed incredibile di
Ulderico Galassini Ma
com’è una giornata in carcere? Un’ordinaria
giornata di carcere “poco rieducativa” di Luigi
Guida Un’ordinaria
giornata in carcere almeno un po’ rieducativa di
Luigi Guida Oggi,
ieri, l’altro ieri: che differenza fa? di
Ulderico Galassini Spazio
libero Un
giorno di libertà non-ritrovata di
Elton Kalica Il
gruppo di discussione di Ristretti a
cura della Redazione
Editoriale La
rieducazione e l’alibi del sovraffollamento di
Ornella Favero Faccio
volontariato in carcere da quindici anni, e da quindici anni sento dire che la
“rieducazione” è una parola superata, che è meglio parlare di
“risocializzazione” e che, comunque la si chiami, si tratta sempre di un
sogno, perché nelle attuali condizioni di sovraffollamento e di mancanza di
personale è impossibile anche solo pensare alla rieducazione. Nel nostro Paese
si vive di emergenze, e l’emergenza è sempre stata l’alibi del non fare, o
del fare male. E lo è anche in carcere. Nella Casa di reclusione di Padova
abbiamo passato momenti in cui gli educatori erano tre per settecento detenuti,
poi sono diventati sei, oggi sono dieci per ottocentotrenta. Pochi, ma non così
pochi da non obbligarci a riflettere di più sul senso della pena, e su tutte le
possibili strade da percorrere perché le persone non siano PARCHEGGIATE in
carcere, e invece possano in qualche maniera scegliere di “farsi la galera”
in modo meno inutile. Ma, tanto per cominciare, bisogna allora affrontare la
questione non tanto di quelle persone detenute che hanno qualche risorsa
personale e che sono in grado di “farsi osservare” dagli educatori, dai
magistrati, dai volontari, quanto di quelle che stanno nelle sezioni, nelle
celle sovraffollate, incapaci di riprendersi in mano il loro destino, spesso
anche imbottiti di psicofarmaci (una delle organizzazioni sindacali della
Polizia penitenziaria più combattive, l’Osapp, sostiene che “oltre il 40%
dei detenuti in attesa di giudizio nelle Case circondariali, pari ad oltre
12mila individui, e oltre il 10% di detenuti condannati nelle Case di
reclusione, pari ad ulteriori 3.500 - 4.000, sono soggetti ad una sorta di
contenimento chimico nelle carceri italiane, a causa del massiccio uso di
psicofarmaci”). Una riflessione merita, in questo senso, la parola
“OSSERVAZIONE”, perché a me, che ho vissuto a lungo in Russia e ho sentito
i racconti di chi, ai tempi dell’Unione Sovietica, era continuamente invitato
a spiare vicini di casa, amici, compagni di lavoro per scoprire i possibili
traditori del comunismo, la parola “osservazione” fa venire i brividi. Nell’incontro
che abbiamo fatto in redazione con educatori, direttore, magistrati di
Sorveglianza siamo partiti allora proprio da questa parola, per capire se è
immaginabile oggi ripensare a una detenzione che non sia da cavie, da oggetti
che vanno osservati, ma da soggetti di un percorso di possibile cambiamento. I
tempi non sono certo facili, però si può osare, si può sperimentare anche a
partire da un ruolo nuovo dei soggetti “non istituzionali”, quelli cioè che
non fanno parte dell’equipe chiamata a formulare quel documento dal nome
assurdo che è la sintesi, ma che dovrebbero avere un ruolo fondamentale proprio
in quei Gruppi di osservazione e trattamento, che sono la fonte principale di
conoscenza della persona detenuta. Certo, le parole non ci aiutano, perché
“osservazione e trattamento” fanno pensare di non avere a che fare con
esseri umani, ma con topi da laboratorio, che possono essere studiati e
manipolati, però noi, volontari, operatori delle cooperative, insegnanti,
possiamo fregarcene delle parole e andare alla sostanza, che significa dire: noi
ci siamo, lavoriamo a fianco delle persone detenute, discutiamo con loro di
responsabilità, cambiamo anche, perché la rieducazione deve essere un percorso
che ci riguarda tutti e ci fa cambiare tutti, quindi intendiamo dire la nostra
anche quando si tratta di scrivere quella “sintesi”, che per il detenuto può
essere il passo fondamentale per lasciarsi alle spalle il carcere e ricominciare
a gustare un po’ di libertà.
Parliamone La
rieducazione ai tempi del
sovraffollamento Un incontro con magistrati di Sorveglianza, educatori, direttore Cosa un
detenuto può fare oggi per essere comunque soggetto attivo della sua
“rieducazione” e per non lasciarsi sopraffare e schiacciare dalla galera a cura della Redazione Parlare
di rieducazione “ai tempi del sovraffollamento” pare quasi un disperato
nonsenso, ma noi di Ristretti Orizzonti abbiamo chiamato a discuterne in
redazione i magistrati di Sorveglianza, gli educatori, il direttore della Casa
di reclusione di Padova proprio perché crediamo che, al contrario, oggi non si
debba nascondersi dietro l’alibi del sovraffollamento per “ingessare”
ancora di più il carcere, ma si debba al contrario costruire, dove possibile,
situazioni di maggior apertura e trasparenza, per tirar fuori le persone
detenute dalla passività e dar loro almeno una speranza. Ornella
Favero Ristretti Orizzonti: Vorrei spiegare subito perché è nata
questa nostra richiesta di fare una riunione con tutti intorno a un tavolo,
magistrati, educatori, il direttore e detenuti e volontari della redazione di
Ristretti Orizzonti. Noi riteniamo questo tema della rieducazione così
importante, tanto più oggi in queste condizioni di sovraffollamento, da avere
deciso di dedicargli il nostro convegno di maggio. Il titolo credo che sia
significativo: “Il senso della rieducazione in un Paese poco educato”. Perché
oggi parlare di rieducazione in carcere non è cosa semplice, si chiede alle
persone detenute di rispettare la legge e c’è di fatto uno Stato che non la
rispetta, che non rispetta i diritti delle persone detenute. La rieducazione
stessa è un diritto perché la Costituzione parla chiaro, però rispettarlo è
altra cosa. Qualcuno pensa che forse noi di
Ristretti Orizzonti vogliamo avere un ruolo troppo importante, ma tutte le leggi
in materia di rieducazione e le circolari parlano di un ruolo attivo dei
soggetti detenuti, allora io credo che una persona che deve fare un percorso in
carcere abbia diritto di capire che cosa le si chiede, ed oggi forse questo non
è sempre chiaro, quindi noi stiamo solo svolgendo il nostro lavoro, che è
quello di informare su questi temi. Anche perché noi riceviamo molte
sollecitazioni dalle persone detenute su questioni relative ai percorsi di
rieducazione, il detenuto oggi spesso non capisce che cosa ci si aspetta da lui,
quale deve essere il suo percorso. Tanto meno lo capisce una persona che è su
nelle sezioni e non fa niente dalla mattina alla sera, non per sua scelta, e non
ha modo, non dico di avere un ruolo ma di farsi “osservare”. Noi in questa
riunione vorremmo parlare di cosa si aspettano i magistrati e cosa l’équipe e
gli educatori da un detenuto e cosa lui può fare rispetto al suo percorso per
poter essere, appunto, soggetto attivo. E che cosa significa se gli viene
detto nella sintesi che c’è bisogno ancora di un periodo di osservazione
prima di permettergli di mettere un piede fuori, quale sarà
quell’osservazione e lui che ruolo deve avere. Allora noi crediamo che
si debbano ridiscutere le modalità di coinvolgimento delle persone detenute,
penso alle commissione culturale (che non c’è e vorremmo ci fosse, è
comunque un modo di coinvolgere le persone), così come al Progetto di Istituto,
ci piacerebbe poterci confrontare su questo, perché in un carcere con 830
detenuti c’è bisogno di mettere in moto tutti quegli strumenti che possono
far uscire dalla passività le persone. Così come ci piacerebbe che progetti
come il nostro con le scuole fossero valorizzati, perché misurarsi con dei
ragazzi che ti chiedono la tua responsabilità può essere un momento molto
significativo per chi è in carcere. Quindi forse, anche alla luce di queste
esperienze, andrebbero ridiscussi certi temi classici della rieducazione, così
come andrebbe valorizzato il ruolo di tutte le componenti di quelli che sono i
Gruppi di Osservazione e Trattamento, che noi, intendo dire persone che fanno
parte di associazioni di volontariato e cooperative che operano in carcere,
abbiamo insistito molto perché fossero attivati. Bruno
Turci, Ristretti Orizzonti: Noi di Ristretti Orizzonti viviamo nelle
sezioni come tutti gli altri detenuti, e ci accorgiamo che alla fine chi
partecipa ad un’attività come questa è sicuramente più fortunato di altri,
mentre nelle sezioni ci sono dei livelli altissimi di disagio, di disperazione
che sono anche dovuti al sovraffollamento, ma soprattutto alla più totale
inattività. Ci sono persone che
vivono la loro giornata supportate dagli psicofarmaci. Persone che non sanno che
cosa sia un percorso, non sanno che cosa sia la possibilità di rapportarsi con
l’Istituzione del carcere, con la figura stessa del magistrato, persone che
vivono in una situazione talmente stretta che non hanno neppure coscienza di
cosa deve accadere perché loro possano accedere ai benefici. Allora noi ci
interroghiamo sul fatto che sarebbe importante riuscire ad attivare dei
meccanismi che mettano a contatto queste persone con la realtà delle
istituzioni. E magari oggi qui può uscire qualche piccola risposta. Ornella
Favero: Si sa che il magistrato di Sorveglianza ha un ruolo fondamentale nel
percorso verso la libertà, però a noi piacerebbe capire per esempio che cosa
si aspettano i magistrati quando leggono una sintesi, quando conoscono una
persona, quando debbono prendere una decisione. Marcello
Bortolato, magistrato di Sorveglianza a Padova: Allora, forse è
meglio chiarire anche per i detenuti che cosa si intende per rieducazione. Perché
questo termine viene direttamente dalla Costituzione, l’Art. 27 dice che la
pena deve tendere alla rieducazione, e forse ci fa anche sorridere, sembra di
essere a scuola con i detenuti quali scolaretti che vanno rieducati perché sono
dei maleducati che hanno rotto le regole della convivenza (in realtà sono ben
più che maleducati, giusto?). Ma la Costituzione risale a più di 60 anni fa,
risente di una concezione della pena e del carcere che prendeva le mosse da
tempi precedenti in cui appunto si pensava l’istituzione carceraria come una
scuola che dovesse in qualche modo non solo contenere, ma guidare verso un
progetto di educazione quelli che si erano macchiati del reato. Questa
impostazione non è stata ancora superata come manifesta lo stesso gergo
carcerario: questi diminutivi come spesino, scopino, domandina, sono indice del
fatto che si vuole concepire il carcere come una scuola, si vuole in qualche
modo rendere più comprensibili, come a dei bambini che devono essere educati, i
ruoli che ai detenuti vengono assegnati all’interno del carcere. Ma
oggi siamo andati oltre perché la giurisprudenza ha declinato il termine
rieducazione in altre forme, cioè il significato della rieducazione più
profondo non è riportare la persona al rispetto delle regole elementari della
pacifica convivenza, ma è la risocializzazione; quello che interessa alla
collettività è che la persona che ha violato le regole, alla fine della pena
(che deve avere anche una funzione di contenimento oltre che di retribuzione per
il male commesso) rientri in società e ripristini il patto violato. Nel
1975 con l’Ordinamento Penitenziario è stato ben chiarito che cosa significhi
rieducazione. L’articolo 1 parla di trattamento individualizzo che va
preceduto dalla osservazione. Quindi i due termini fondamentali sono
osservazione e trattamento. L’istituzione deve porre in essere una serie di
attività che devono tendere al reinserimento sociale, ma per arrivare a questo
deve sottoporre il condannato all’osservazione che è scientifica perché
necessariamente abbisogna di un apporto tecnico, quindi sarà fatta dallo
psicologo, dall’educatore professionale, dal medico, dall’agente di polizia
e dall’assistente sociale, tutta una serie di professionalità tecniche che
devono osservare il detenuto. Allora
a che cosa serve l’osservazione del detenuto? a individuare prima di tutto i
suoi bisogni, ma poi l’osservazione deve anche (e lo dice l’Art. 27 del
Regolamento che prego tutti di tenere presente, perché è una norma
fondamentale della rieducazione!) indurre ad una riflessione sulle condotte
antigiuridiche. Perché? Perché attraverso una riflessione sulle condotte
antigiuridiche si possono capire le motivazioni che hanno portato a compiere il
reato e quanto sia alto il rischio che si possa ricompierlo una volta fuori dal
carcere. Ecco io penso di sapere
benissimo che cosa c’è sotto traccia a questa discussione oggi, questa
benedetta rivisitazione critica che i magistrati si aspettano da voi, no? Quante
volte non avete avuto un permesso perché non è stato raggiunto un livello
adeguato di rivisitazione critica o di riflessione sulle condotte
antigiuridiche? Perché è fondamentale per noi? Perché è fondamentale sapere
quanto il detenuto ha preso le distanze da quella condotta di vita che noi
chiamiamo deviante, e quanto lo abbia fatto genuinamente, non strumentalmente.
Perché se il sospetto è che ci sia una presa di distanza strumentale al solo
scopo di ottenere un beneficio, allora non va bene. Certo, un detenuto può
anche rifiutare il trattamento ed è libero di farlo, però - attenzione - come
il detenuto è libero di rifiutare il trattamento, come il detenuto è libero di
proclamarsi innocente, così il magistrato è libero di non concedere un
beneficio anche se nei termini giuridici il beneficio sia ammissibile. Cosa
mi aspetto dalla relazione di sintesi? Innanzitutto anche l’Art.1 del
Regolamento (che è un’altra norma importante) dice che nel detenuto bisogna
indurre una modificazione: la pena serve se modifica qualcosa, se non modifica
nulla non serve, questo è il senso profondo della finalizzazione rieducativa,
almeno secondo me. La modificazione di cosa? Ci sono studi
criminologico-giuridici che dicono che alla base del reato ci sono delle carenze
fisio-psichiche o fattori di disadattamento sociale. Quindi io devo indurre
delle modificazioni in queste condizioni oggettive per avere non la certezza, ma
la probabilità che una volta modificate queste condizioni il reato non si
ripeta. L’altro aspetto è costituito dalla modificazione degli atteggiamenti
personali che sono di ostacolo alla partecipazione sociale, e l’atteggiamento
che è di ostacolo alla partecipazione sociale non è altro che la mancata
rivisitazione critica. Sicuramente
nella sintesi mi aspetto di vedere tutti questi elementi. Quindi oltre ai
cosiddetti fattori di deprivazione sociale che hanno determinato un soggetto a
commettere un reato, le condizioni familiari, economiche, culturali, di
istruzione, ho bisogno di qualcosa di più, voglio conoscere la condotta
carceraria, perché l’osservare le regole prima di tutto di una piccola
comunità in cui si vive è una garanzia per assicurarsi che poi in futuro le si
osserverà in una comunità più grande. Ma mi aspetto anche una modificazione
nell’atteggiamento personale. Attenzione però: modificazione
nell’atteggiamento personale non significa pentimento o quello che si chiamava
una volta emenda, non mi interessa il percorso interiore di pentimento, mi
interessa una modificazione dell’atteggiamento personale. Quindi
queste sono le cose che io chiedo di vedere in una sintesi. La sintesi è
sicuramente l’elemento fondamentale di valutazione perché è la diretta
emanazione di un gruppo di persone che istituzionalmente, per la professione che
fanno, per il ruolo che ricoprono devono fornire questo aiuto che serve a tutti,
al magistrato ma anche al direttore, è dunque uno strumento indispensabile ma
non è l’unico. Voi avete anche visto che a volte ci sono delle decisioni
della magistratura di Sorveglianza che differiscono dall’ipotesi trattamentale
in un senso o nell’altro. Può esserci un’ipotesi favorevole e il magistrato
invece ritiene che quella persona non sia ancora pronta per il beneficio sulla
base di valutazioni che, purché siano motivate, sono del tutto legittime. Così
come può esserci che a fronte di un’ipotesi trattamentale negativa, il
magistrato invece, desumendolo da altri elementi (magari attraverso la
conoscenza personale del detenuto e da qui il ruolo fondamentale del colloquio
del magistrato con il detenuto), ritenga invece che la persona sia meritevole
del beneficio. Linda
Arata, magistrato di Sorveglianza a Padova: Intanto ringrazio per
l’invito a questo incontro, perché per me è il primo presso la redazione di
Ristretti Orizzonti, ci tenevo molto e sono anche un po’ emozionata. Dopo
l’esaustivo intervento del collega Bortolato, mi permetto di proporre alcune
osservazioni derivate dal mio approccio alla materia a seguito del mio recente
trasferimento presso l’Ufficio di Sorveglianza di Padova, anche con il rischio
di indicare temi scontati o già approfonditi in altre occasioni, ma che ritengo
opportuno precisare con riguardo alla “Sintesi dell’osservazione”. Innanzitutto
deve essere evidenziato che esiste un diritto dei detenuti ad avere un’ipotesi
trattamentale (art. 13 comma 3 dell’O.P.) formulata in un documento di Sintesi
dell’osservazione, che necessita ovviamente di un congruo periodo di studio ed
esame della personalità e del comportamento del detenuto, ma che deve essere
redatta in tempi compatibili con la durata della pena. Parlare di tempi è una
cosa delicata, perché tutti noi sappiamo com’è oggi la situazione dei
carichi di lavoro in relazione al numero dei detenuti oggi presenti presso la
Casa di Reclusione di Padova e anche io mi sento inadeguata quando provvedo in
ritardo in relazione ad alcune richieste, venendo meno alle aspettative dei
detenuti di avere una risposta immediata alle loro istanze e ai loro bisogni, ma
i tempi ed i carichi di lavoro sono quelli che sono ed è necessario riflettere
insieme su quali contributi si possono dare per assicurare questo diritto, anche
in relazione ai detenuti con condanne a pene più brevi e ai detenuti che hanno
subito vari trasferimenti da un carcere all’altro (spesso per motivi che non
dipendono da una loro condotta, ma per problemi di gestione della popolazione
carceraria) con la conseguenza di non essere mai inseriti in un calendario per
la redazione della sintesi. Detta situazione si è verificata in qualche
fascicolo da me esaminato nelle udienze del Tribunale di Sorveglianza alle quali
ho partecipato, in cui ho potuto constatare la situazione di detenuti, che dopo
molti anni di detenzione (anche tre anni e talora anche di più) non hanno
ancora avuto un’ipotesi trattamentale. In qualche caso il Tribunale, per far
fronte alla necessità di provvedere in merito all’adozione di misure
alternative in tempi compatibili con il fine pena, come pure in merito a reclami
avverso provvedimenti inerenti l’adozione di altri benefici premiali, ha
adottato delle decisioni, in mancanza di sintesi, ma sulla base di relazioni
comportamentali molto esaustive, complete nei vari elementi di valutazione,
redatte dagli educatori, evidentemente consapevoli dell’importanza della
decisione che doveva essere adottata e della necessità di colmare la lacuna
relativa alla mancata redazione del documento di sintesi dell’osservazione. Le
ulteriori osservazioni che vorrei proporre riguardano il contenuto del documento
di sintesi per riferire apprezzamenti sul contenuto di quelle che ho letto e per
suggerire alcuni spunti di riflessione su cosa vorrei fosse indicato in questo
documento. Ho letto documenti di sintesi in cui risulta ben espresso il vissuto
personale del detenuto prima della carcerazione e che forniscono una buona
conoscenza delle condizioni di vita del detenuto nel periodo antecedente e coevo
alla commissione del reato. Nella sintesi viene anche ovviamente descritta la
condotta del detenuto durante la detenzione e in questo caso quello che vorrei
venisse rappresentato con maggiore dettaglio è l’atteggiamento del detenuto
nei confronti degli educatori, dei volontari, delle persone con cui lavora e dei
compagni di detenzione, perché ritengo che questi siano dati concreti su cui
misurare e valutare il cambiamento o meno della personalità del condannato. Altra
questione che mi preme evidenziare è la “funzione” del documento di sintesi
nel percorso trattamentale del detenuto. Mi spiego, ritengo che il predetto
documento debba rappresentare non solo i risultati dell’osservazione della
personalità del detenuto, per evidenziarne le modificazioni di cui si è già
parlato, ma debba anche indicare allo stesso “che cosa si vuole da lui”,
soprattutto nel caso in cui l’ipotesi trattamentale formulata sia quella
intramurale; anche questo rientra tra i “diritti” del detenuto, che
presuppone, a mio parere, la conoscenza del documento di sintesi e non solo
dell’ipotesi trattamentale formulata. Ma non solo, l’altro aspetto su
cui bisogna riflettere è la condivisione o meno dell’ipotesi trattamentale da
parte del detenuto, che dovrebbe avere, secondo me, non solo la comunicazione
formale della menzionata ipotesi, ma anche un momento di confronto con gli
operatori sull’esito dell’osservazione e sui presupposti in base ai quali
l’équipe ha formulato le sue conclusioni, anche a prescindere dal cd.
“patto trattamentale” di cui si parla nella Circolare DAP del 14.6.05 n.
217584, e di detto momento di riflessione condiviso dovrebbe essere portato a
conoscenza il magistrato di Sorveglianza. Il tema proposto dal Convegno di
Ristretti Orizzonti del 18 maggio prossimo ripropone una riflessione sul
trattamento intramurario, argomento affrontato anche dall’ultima circolare del
DAP sulle “Modalità di esecuzione della pena: Un nuovo modello di trattamento
che comprenda sicurezza, accoglienza e rieducazione” (circolare n. 3594/6044
del 24.11.11; trattasi della famosa circolare sui “bollini” incentrata sulla
disciplina delle modalità custodiali del “circuito di media sicurezza”) di
cui mi è piaciuto l’incipit, in cui si richiama la necessità di
“riportare attorno all’uomo detenuto tutto i modello della organizzazione
penitenziaria” (che altro non è che la ratio dell’Ordinamento
Penitenziario a seguito dei vari interventi legislativi e della Corte
Costituzionale) e in cui si richiamano i concetti di “trattamento
penitenziario”, ispirato alla esigenza di “definire le regole, scandire
i tempi e i contenuti della vita penitenziaria”, tenendo presente le
necessarie cautele per garantire ordine e disciplina e di “trattamento
rieducativo”, che “deve tendere secondo un criterio di
individualizzazione, al reinserimento sociale dei soggetti condannati ai sensi
dell’art. 27 Cost.”. Ma nel trattamento rieducativo, dopo le modifiche
normative di cui al regolamento dell’Ordinamento Penitenziario deve rientrare
anche la riflessione del detenuto “sulle condotte antigiuridiche poste in
essere, sulle motivazioni e sulle conseguenze negative delle stesse per
l’interessato e sulle possibili azioni di riparazione del danno” (art. 27
DPR 30.6.00 n. 230). E’ questa la norma di riferimento quando i magistrati di
sorveglianza accennano nei loro provvedimenti alla necessità di una
“revisione critica”, che comporta una riflessione sulle motivazioni che
hanno indotto a commettere un reato, sempre che ci sia un’ammissione di
responsabilità, che può non essere necessaria, o comunque una riflessione
relativa al contesto deviante in cui una persona ha vissuto e che deve
comportare soprattutto una riflessione sulle conseguenze del reato in relazione
alle persone offese. Questo, a mio modo di vedere, è il percorso di revisione
critica che diventa assunzione di responsabilità ed è su questo “concetto
di responsabilità che si riunificano il trattamento penitenziario e il
trattamento rieducativo” , espressione molto felice che propongo citando
ancora testualmente la circolare del 24.11.11. Oddone
Semolin, Ristretti Orizzonti: Io credo che un detenuto dovrebbe
essere dotato di strumenti per poter leggere diversamente la sua vita, per avere
delle possibilità e una strada percorribile nel momento in cui esce. Il che
comporta implicitamente una presa di responsabilità per il reato che ha
commesso e la capacità di costruirsi un’alternativa e così potersi
affrancare. Diversamente
un detenuto che esce dal carcere domani mattina comincia da dove ha finito prima
di essere arrestato. In linea di massima io credo, pur condividendo in buona
parte ciò che avete espresso, che bisognerebbe avvicinare la forma alla
sostanza. Cioè sostanzialmente se voi avete delle sintesi esaustive, questo non
vuole dire che la sintesi esaustiva corrisponda effettivamente al detenuto,
perché il detenuto oggi, per vari motivi, anche di sovraffollamento, spesso non
ha un percorso alle spalle, non ha un progetto, non ha una valutazione.
L’operatore non ha un feedback di ritorno che dice che questo comportamento è
mutato. In realtà la sintesi per lo più è molto formale, ma purtroppo, anche
se solo formale e non sostanziale, la valutazione che viene fatta va a
condizionare la permanenza in carcere o l’uscita di un detenuto, pur non
rispecchiando molte volte la sua personalità, perché il detenuto non viene
chiamato a nessun tipo di confronto. E parliamo noi che siamo a Ristretti
Orizzonti o che lavoriamo o che andiamo a scuola, ma la maggior parte delle
persone che sono in sezione, che percorso di risocializzazione, di
riavvicinamento alla libertà compiono? È il colloquio di un quarto d’ora che
fanno una volta ogni tanto con l’educatore? Ma io mi preparo per parlare con
l’educatore e gli dico quello che vuole. Non credo possa sostanziarsi solo in
quello. D’altra parte noi crediamo, pur rendendoci conto che ci sono delle
difficoltà oggettive date da mancanza di fondi, sovraffollamento, scarsità del
personale addetto, che ci siano delle possibilità alternative. Per esempio
tutte quelle persone che sono su in sezione inoperose potrebbero partecipare a
iniziative promosse dalle commissioni sportiva e culturale, cioè tutte quelle
iniziative a costo zero in cui potrebbero essere coinvolti gran parte dei
detenuti, perché vale molto di più osservare un detenuto nel momento in cui
“opera”, che in un colloquio di un quarto d’ora. Dopo di che se lo osservo
io non mi dice niente, ma se lo guarda una persona che ha una professionalità
alle spalle sicuramente sarà in grado di valutare se quella persona riesce a
socializzare, se riesce ad interagire con l’ambiente circostante, e adottare
misure simili anche in modo parziale sarebbe come dare un segnale di cambiamento
di direzione. Ornella
Favero: Questo pone di nuovo al centro la questione che io ho sottolineato
all’inizio, di attivare tutti gli strumenti affinché ci possa essere una
conoscenza delle persone che non fanno attività alcuna. Quando
si parla della sintesi, ma anche del percorso del detenuto, bisogna che tutti
quanti siamo onesti fino in fondo: se un detenuto si trova scritto
sull’ipotesi trattamentale che “necessita di un ulteriore periodo di
osservazione”, che cosa deve pensare se poi per mesi o per anni non succede
niente, nessuna azione volta a coinvolgere ulteriormente la persona? Che cosa si
riduce ad essere l’osservazione della persona detenuta in carcere oggi? La
dottoressa Arata parlava dell’ipotesi trattamentale, però l’ipotesi
trattamentale è fatta di poche righe in una lunga sintesi, della quale si dice
nelle circolari ministeriali che il detenuto deve essere messo a conoscenza.
Oggi la persona detenuta può accedere alla sintesi completa attraverso
l’avvocato, perché non può farlo direttamente? Il detenuto ha diritto a
conoscere per intero la sua relazione di sintesi, che significa anche capire
quello che gli operatori pensano e conoscono di lui. Un malato viene informato
anche se ha un cancro all’ultimo stadio, possibile che una persona detenuta
debba passare attraverso l’avvocato per leggersi la sua sintesi? Ma un
detenuto ha bisogno di capire che cosa si dice di lui, di essere soggetto
attivo, altrimenti parliamo di lui e lui chi è? Insomma è la sua vita in
gioco. Marcello
Bortolato: Mi inserisco brevemente riallacciandomi a quello che ha detto
Ornella Favero: allora, io parlo per me ovviamente, io non sono
l’Amministrazione Penitenziaria, l’osservazione scientifica non la faccio
io. Io prendo atto di un’osservazione fatta da altri e poi assumo le mie
determinazioni prendendomi le mie responsabilità. Quando nei nostri
provvedimenti leggete “Il detenuto necessita di un ulteriore periodo di
osservazione” - anzitutto la frase non è mai da sola, viene sempre spiegato
perché necessita, perché non è stato approfondito qualche aspetto, per
esempio il problema della tossicodipendenza – dovete capire che sono segnali
che vengono lanciati al detenuto, che lui dovrebbe saper cogliere, perché tutto
l’Ordinamento Penitenziario presuppone l’adesione del detenuto al percorso
trattamentale. L’adesione è qualcosa di attivo, no? Ecco perché anche la
sintesi non deve essere mai una fotografia statica di quello che è il detenuto,
dovrebbe essere invece un film, qualcosa insomma di dinamico, con un finale
aperto o quantomeno suscettibile di essere modificato e il detenuto deve essere
coinvolto nell’elaborazione del documento in prima persona. Dire “la persona
necessita di un ulteriore periodo di osservazione” forse potrà sembrare
un’espressione di stile un po’ troppo burocratica, però quello che io
intendo con quella frase è questo: non è avvenuta quella modificazione che si
richiede al detenuto per potergli aprire le porte per la prima volta, è tutto
qui. La Costituzione mi dice che “la pena deve tendere alla rieducazione”,
per cui a me non interessa che il detenuto stia in carcere, mi interessa che
quando esca sia una persona diversa. Allora, se tutto quello che è stato fatto
qui dentro non ha indotto quella modificazione, purtroppo uscirà uguale a
prima, e sarà stata una sconfitta per lui e per la società. Voglio fare un
esempio concreto, che è stato per me una grandissima sorpresa: ho incontrato
nei colloqui moltissimi detenuti che non avevano nemmeno letto la sentenza di
condanna. Come si fa a partire da un progetto trattamentale per una persona, che
poi si scopre che non ha neppure letto la sentenza di condanna? Per quanto mi
riguarda in questi casi si deve resettare tutto, io dico al detenuto: prima
leggi la sentenza e poi ci rivediamo. Questo implica ovviamente ancora un
periodo di osservazione, deve passare il tempo perché vuol dire che non hai
nemmeno la consapevolezza di quello che hai fatto. Linda
Arata: Ripensando anch’io alla motivazione degli ultimi provvedimenti in
cui ho scritto: “necessita di una ulteriore osservazione”, in alcuni casi la
collegavo alla necessità di un approfondimento della “rivisitazione
critica” del passato deviante, perché il detenuto si era limitato ad un
inizio di riflessione sulle motivazioni che l’hanno indotto a compiere il
reato e sulle conseguenze della vicenda sulla propria persona o sulla famiglia
del detenuto, ma senza alcuna riflessione, neanche minima, sulla vittima del
reato, argomento di approfondimento che veniva suggerito per l’ulteriore
osservazione, non solo tramite i colloqui con gli educatori, ma con tutti gli
altri operatori che vengono a contatto con il detenuto. Infatti altra questione
rilevante è la pluralità delle fonti di informazione sulle persone detenute
che devono essere portate a conoscenza del magistrato di Sorveglianza. Questo è
un aspetto forse scontato, ma almeno per me indispensabile, a maggior ragione in
una situazione di sovraffollamento, dove il momento del colloquio individuale
con l’educatore può non essere così frequente e dove è necessario vengano
predisposte delle prassi che consentano di portare a conoscenza del magistrato
di Sorveglianza tutte le informazioni sul percorso di vita durante la detenzione
di un soggetto da parte di tutte le persone che vengono in contatto con lui. Marcello
Bortolato: Infatti è fondamentale il rapporto tra tutti coloro che entrano
in contatto con il detenuto all’interno del carcere, non solo gli operatori
istituzionali. Quindi se il detenuto viene visto per otto ore al giorno dal suo
datore di lavoro interno, è evidente che l’apporto di quella persona che lo
vede tutti i giorni è fondamentale. Il GOT integrato con gli assistenti
volontari, noi lo riteniamo fondamentale. Poi è ovvio che l’interessato,
leggendo la sintesi, può vedere delle cose che non sono pertinenti, ma comunque
dopo della sintesi si discute anche con il magistrato. Quante volte abbiamo
visto il detenuto dire “Non è vero quello che c’è scritto lì, adesso vi
dico come stanno le cose”, cioè sono tutti elementi di cui si può discutere.
Cercate di non vedere la sintesi come questa pietra che non si può modificare,
che oramai ha messo una barriera ineliminabile tra me ed il mondo che mi aspetta
fuori, anche se certo a volte può deludere, può essere non
corrispondente alla realtà dei fatti. Sul calendario delle sintesi invece
osservo che recentemente si è verificato qualcosa che ha lasciato perplessi,
perché a volte si fanno sintesi per detenuti che non sono ancora ammissibili ai
benefici, mentre per quelli ammissibili non si fanno. Oppure per quelli che
hanno un fine pena breve ancora la sintesi non c’è, poi in qualche modo si
riesce a superare questo scoglio attraverso le relazioni comportamentali, che
sono utilissime. Però qui bisogna distinguere due ipotesi: se il ritardo
riguarda un detenuto per il quale i benefici sono inammissibili, si può anche
chiudere un occhio. Se invece i benefici sono ammissibili, allora
l’organizzazione interna deve cercare di velocizzare il più possibile
l’elaborazione di questi documenti. Non dobbiamo sottovalutare, per esempio,
il rapporto con lo psicologo, soprattutto in un Istituto come questo dove ci
sono detenuti con pene lunghe; l’apporto dell’osservazione psicologica è
fondamentale perché incide sia sulle cause del disadattamento, dove c’è, sia
sull’atteggiamento personale nei confronti delle proprie condotte passate e
presenti. Ma se il Ministero dimezza i fondi per lo psicologo, noi come possiamo
fare? Quindi i problemi sono tanti e sono gravi, noi cerchiamo di mettercela
tutta e di fare il possibile. Giovanna
Donzella, psicologa: Noi abbiamo calcolato che praticamente possiamo
dedicare sei minuti all’anno per ogni detenuto, a me arrivano effettivamente
delle richieste di colloquio verso le quali io sono obbligatoriamente
inadempiente. Questo costituisce una violazione del diritto del detenuto a
ricevere un trattamento, con una possibile proiezione esterna di difficile
applicazione se manca l’osservazione della personalità. Il non poter
osservare i cambiamenti della personalità del recluso rende più difficile alla
magistratura di Sorveglianza valutare la pericolosità sociale dell’individuo
e di conseguenza concedere delle misure alternative. E poi tra l’altro noi,
dopo che abbiamo fatto quel poco che possiamo fare di relazione, non possiamo più
vedere i detenuti. Cioè proprio nel momento in cui io devo entrare in contatto
con un detenuto e fargli capire perché noi abbiamo fatto una relazione negativa
o positiva, non possiamo più vedere il detenuto, perché abbiamo solo 23 ore al
mese, che continuano anche a diminuire. Salvatore
Pirruccio, Direttore della Casa di Reclusione di Padova: Mi aggancio
a quello che diceva la dottoressa Donzella, le ore sono poche e quello di cui
parlava era la restituzione al detenuto di ciò che si è scritto nella sintesi.
Questo lo abbiamo iniziato a fare da qualche tempo con gli educatori, il cui
compito è anche di discutere con il detenuto perché abbiamo scritto quelle
cose. Io stamane leggevo sulla
Rassegna Stampa che mi manda Ristretti che c’è stata una specie di ispezione
da parte dell’Onorevole Bernardini al carcere di Rimini, e una cosa mi ha
colpito: lì ci sono in servizio sei educatori per 254 detenuti non definitivi,
noi ne abbiamo 830 qui tutti definitivi e gli educatori sono ugualmente sei. Se
un detenuto deve fare 20, 25 anni io domani mattina non gli posso fare la
sintesi, perché per lui magari può essere utile, ma così tolgo spazio agli
altri! Allora una scelta va fatta, a meno che domani non arrivino 20 nuovi
educatori! Voi sapete poi che l’equipe è formata anche dall’assistente
sociale, figura fondamentale senza la quale non si può fare una sintesi, ma gli
assistenti sociali sono dimezzati negli ultimi anni e farli venire qui a parlare
prima con voi almeno una volta e poi riunirsi con gli altri addetti per fare
l’equipe è un’avventura! Questa è la realtà. Noi partiamo da questi
presupposti, ecco perché poi le sintesi cercano di tener conto di quello che è
possibile fare. Dovete capire che l’osservazione non è soltanto chiamare il
detenuto 3, 4, 5 volte anziché una, è altro, è chiedere per esempio
all’agente di sezione cosa gliene pare di quel detenuto, vedere quello che fa
il detenuto, con chi passeggia nei cortili, con chi gioca a biliardino nelle
sale socialità. Anche questa è osservazione! È giusto impostare il discorso
per far fare un percorso trattamentale al condannato, e il colloquio con
l’educatore è importante, ma è solo l’inizio, poi ci sono le altre attività.
Ma comunque le educatrici diranno cosa fanno nell’ambito dell’osservazione e
della restituzione al detenuto di quello che c’è scritto sulla sintesi. Sul
fatto poi di dare al detenuto la sintesi, io personalmente sarei anche
d’accordo, ma il Ministero ha fatto tante circolari, e tra le righe si
ribadisce sempre che la sintesi è una cosa che va al magistrato e basta, poi
finisce nella cartella del detenuto e l’avvocato la può richiedere. Marcello
Bortolato: Sì però effettivamente è un’incongruenza che si potrebbe
superare, visto che se c’è un procedimento di sorveglianza la sintesi
integrale confluisce nel fascicolo, e a quel punto il detenuto ha accesso a
tutti i documenti. Dritan
Iberisha, Ristretti Orizzonti: Con quello che il magistrato ha detto
prima sull’osservazione io sono d’accordo, ma non del tutto. Prendiamo il
lavoro, secondo me il datore di lavoro non può dire molto per quasi nessuno di
noi, perché che opinione può dare il datore di lavoro di chi lava i piatti per
quattro ore? il detenuto va in cucina e lava i piatti, termina il suo turno e
sale sopra. Lo stesso vale per i
lavoranti delle biciclette o delle valigie, secondo me non li conoscono se non
fanno un trattamento come il nostro. Qui a Ristretti ci stiamo da mattina a
sera, scendiamo alle 8.10, qualcuno risale alle 11.00, qualcun altro ritorna in
cella solo alle 15.30, e stiamo qui. Si parla, si discute, talvolta si litiga,
questo per migliorare qualcosa anche nel rapporto tra noi detenuti. Abbiamo
avuto ospiti importanti, persone come Agnese Moro, Benedetta Tobagi, loro sono
dei famigliari delle vittime e ci stanno facendo capire veramente cosa pensano
della revisione critica per noi autori di reati più o meno gravi. Ma nelle
sezioni la carcerazione non è quella che viviamo qui a Ristretti, la
carcerazione è un’altra! Nelle sezioni si parla di Milan, Inter, si parla del
reato per cui sei in galera, per rapine, per omicidi, droga, e nessuno può
permettersi di chiedere ai detenuti il motivo per il quale hanno fatto ciò che
hanno fatto. La vita della sezione è quella, calcetto, andare a camminare,
socialità, vita di cella, giocare a pallone, è difficile cambiare se si vive
così. Sì, sono molti gli elementi che concorrono all’osservazione,
famigliari, sociali, comportamentali, religiosi, ma non per tutti è così
chiaro come possano essere davvero parte di un percorso di rieducazione. Lorena
Orazi, Responsabile dell’Area pedagogica: Vorrei intervenire
anch’io, che sono la persona responsabile dell’Area trattamentale e da tanto
tempo mi confronto su questi temi. Pure io penso che questo incontro sia una
bellissima occasione, manca solo l’UEPE, altra importante componente
dell’Amministrazione Penitenziaria che partecipa all’osservazione
scientifica della personalità. Lo
“stato dell’arte” è quello che ha detto il dottor Bortolato, è l’Art.
27 del nuovo Regolamento di esecuzione insieme all’art. 15 dell’Ordinamento
Penitenziario in cui sono elencati gli elementi del Trattamento. Se parlo per
esempio di attività lavorative, in questo carcere ci sono 130 posti
dell’Amministrazione tra quelli a rotazione e quelli fissi su 830 persone, ben
pochi se non ci fossero le cooperative che aiutano a promuovere il lavoro, uno
degli elementi fondamentali del trattamento. Quindi debbo dire a Iberisha che
non sono tanto d’accordo con lui sulla riflessione rispetto al lavoro, nel
senso che l’osservazione su come una persona si inserisce al lavoro riguarda
proprio come la persona sta all’interno di quel gruppo, con i suoi compagni,
come magari accetta di imparare a svolgere i suoi compiti. Anche quello per noi
è oro, perché come facciamo noi educatori l’osservazione? La facciamo così:
dal momento in cui entrate la prima volta e vi prendiamo in carico con la vostra
storia di vita nell’Istituto precedente. Io sabato ho fatto quattro colloqui
di primo ingresso di persone con pene anche importanti e il mio impegno è stato
di comunicare loro che li stavamo accogliendo in un posto, che in qualche modo
avrebbe dovuto garantire una continuità nel trattamento. Due di loro prima
lavoravano fisse, con quale faccia io vado a dire loro che ne terremo conto? Io
devo dirgli che capitano in un posto dove ci sono 830 persone detenute, di cui
70 ergastolani, e comunque tutte persone che hanno pene rilevanti, che stanno
qui da anni senza riuscire a lavorare. Se io a quello che è appena arrivato
dovessi garantire una prosecuzione del trattamento, perché questo dicono anche
le Circolari, mentirei perché nei fatti non è così. Dopodiché inizia
l’osservazione, che è qualcosa di assolutamente dinamico in cui vale, in
primis, la relazione che si riesce a stabilire con la persona, ed anche da parte
nostra la capacità di intercettare tutti coloro con cui voi detenuti avete a
che fare: il volontario del gruppo di ascolto, piuttosto che l’insegnante, il
parroco della parrocchia che viene a fare il colloquio una volta ogni tanto...
Noi dobbiamo avere le antenne e nel corso del tempo valorizzare tutto
questo. Poi però ci sono tutti coloro che non trovano niente che li stimoli a
partecipare e quindi quelle sono le persone che andrebbero motivate a trovare un
interesse. La
sintesi rappresenta un momento importante per tutti, in cui confluiscono a volte
delle aspettative che poi non sempre sono rispettate nell’ipotesi
trattamentale. Quando io vado a parlare con il detenuto di come si è conclusa
l’ipotesi trattamentale, è chiaro che non posso prescindere dal perché siamo
arrivati a quelle conclusioni, mi sembra abbastanza logico che uno debba
motivare l’elaborato e le conclusioni di quel momento, che sono anche il punto
di partenza per il dopo. Ornella
Favero: Nella circolare sull’area educativa del 2005 si legge: ”Le
proposte trattamentali maturate durante l’osservazione ed ipotizzate dal GOT
devono essere rese note al soggetto interessato (per verificare la sua
collaborazione), già prima di consolidarle nel documento di sintesi…”. È
vero che c’è il sovraffollamento, però io personalmente credo che si debba
partire dal sovraffollamento (perché è un dato di fatto) proprio per dire con
chiarezza quali cose possono essere fatte, e ce ne sono molte, e quali no. Credo
che se vogliamo che ci sia una effettiva revisione critica (io parlerei di
acquisizione di responsabilità, di responsabilizzazione della persona, che mi
piace di più), la persona detenuta ha bisogno di capire di più. Altrimenti
succede quello che un detenuto ha detto di recente agli studenti “Io in
carcere cosa ho imparato? Ho imparato a vivere in carcere, ma la vita fuori è
un’altra cosa!”. Quindi c’è bisogno di misurarsi in concreto su che cosa
è questo reinserimento, ed è fondamentale capire come si forma il giudizio
sulla persona che poi dovrà iniziare un percorso verso l’esterno, anche perché
il detenuto non è l’oggetto dell’osservazione, non si può mettersi con la
lente di ingrandimento a guardarlo: lui è il SOGGETTO. Altrimenti chi uscirà
dal carcere alla fine della pena? Delle persone che simulano bene un cambiamento
o persone decisamente refrattarie a qualsiasi ipotesi di trattamento
concretamente realizzabile. Lorena
Orazi: Vengo adesso da un corso di formazione sul “Trattamento: prassi e
norma”, destinato ai responsabili di area, un laboratorio sulla conoscenza del
detenuto, proprio a partire dalla limitatezza degli strumenti, delle risorse
dell’Amministrazione penitenziaria, rispetto alla capacità di avvicinare la
persona che è in esecuzione di pena. Gli
stimoli sono sempre questi di cui siamo assolutamente consapevoli: riuscire a
valorizzare tutto l’esistente per raccogliere più elementi e punti di vista,
e questo deve essere l’orientamento del nostro lavoro. Anche attraverso questa
formalizzazione un po’ meccanicistica dei GOT. Ornella
Favero: Ma noi appunto abbiamo chiesto che i GOT vengano attivati veramente,
e non meccanicisticamente per un quarto d’ora, questa è la nostra richiesta. Lorena
Orazi: Appunto tutti questi
strumenti che poi devono essere calati nella realtà e uno gli deve dare
sostanza più che un nome, perché anche il “patto trattamentale” tra
Istituzione e detenuto è un nome per il quale a suo tempo, quando uscì la
circolare, ragionammo su qual era il significato. E devo dire che lo abbiamo per
due anni proposto alle persone che facevano le attività scolastiche e molti ce
l’hanno restituito, visto che non era obbligatorio firmarlo, perché
l’impegno che chiedevamo noi come amministrazione, ma anche gli insegnanti che
venivano a fare lezione, era che se iniziavano avrebbero dovuto impegnarsi a
finire l’anno scolastico. Alcuni me l’hanno restituito dicendo per esempio:
“Scusi, un patto significa che io e lei siamo più o meno sullo stesso piano,
allora io le chiedo: io vado a scuola, però vorrei anche lavorare”. E io
dovevo rispondere: “Guarda, per come è organizzata la scuola in questo
momento un lavoro fisso è un po’ incompatibile, però c’è il lavoro a
rotazione”. Ornella
Favero: Ma forse perché bisogna discuterne tutti di cos’è il patto
trattamentale, se no il detenuto firma o non firma il patto senza nessuna
consapevolezza. Lorena
Orazi: Certo, il patto con le persone è un patto che va non solo
codificato, ma conquistato sia da parte dell’operatore che della persona,
perché quando io dico a un detenuto che deve riflettere di più su come sono
maturati i reati, che cos’è questo se non un invito? Allora io devo
conquistare la fiducia della persona e il fatto che lui si impegni su questo lo
devo negoziare tutti i giorni, non una volta ogni due anni, o ogni volta che
c’è un aggiornamento di sintesi, perché quello è solo il momento in cui si
tirano le somme. Sandro
Calderoni, Ristretti Orizzonti: Ma voi spesso dite che una
persona deve attivarsi, noi però non parliamo delle persone che comunque hanno
degli strumenti e la capacità di proporsi, ma in sezione ci sono persone che
non hanno questi strumenti, o magari non conoscono le opportunità che ci sono.
Noi qui cerchiamo di fare delle proposte, la richiesta di attivare in modo più
ampio e partecipativo le commissioni può essere una banalità, però il fatto
che una commissione comunque all’interno di una sezione organizzi qualcosa e
proponga questo all’educatore può essere importante. Lorena
Orazi: Quella delle commissioni è una inadempienza di cui sono
assolutamente responsabile, siccome io sono una persona di sostanza, penso che
se io nomino un tavolo di commissione devo essere in grado di stargli dietro, di
far incontrare le persone, di realizzare le cose che propongono, se no mi sento
davvero una nullità. Avete ragione comunque, la commissione sportiva bisogna
organizzarla. Ornella
Favero: Forse bisogna mettere in moto dei meccanismi diversi, che
all’inizio magari possono aggravare il carico di lavoro, ma poi quando
funzionano non è più cosi. Questo vale per le commissioni, per il progetto di
istituto, i GOT, e vale anche per le attività, se venite ad ascoltare un
incontro con le scuole, conoscete forse di più i trenta detenuti che vi
partecipano che non magari con i colloqui individuali. Quindi
ci sono tanti strumenti, bisogna discuterne seriamente. Quando noi in un
incontro con voi educatrici abbiamo voluto discutere della circolare che parla
della maggior presenza ai piani degli educatori, è sembrata una provocazione,
ma non lo è affatto, come non lo è quando per lo stesso motivo abbiamo
proposto che ci sia il medico di sezione. Lo hanno fatto in alcune carceri,
all’inizio è uno sconquasso, però poi quando entra a regime è una soluzione
che fa funzionare le cose meglio perché il medico è lì, è un punto di
riferimento, il detenuto sa che quello è il suo medico curante. Rossella
Favero: Ci sono davvero tanti strumenti, per esempio parlavamo con il dottor
Bortolato che sia lui che io abbiamo avuto al sesto blocco un’esperienza molto
interessante, chiesta da un volontario, di incontrare i detenuti semplicemente
per farsi fare delle domande. Secondo me questo è uno strumento utile per
tutti, nel senso di incontrare i detenuti a gruppi, anche perché così risolvi
dei problemi tecnici, ma soprattutto dai un senso di speranza. Io sono arrivata
qui come insegnante nel novantacinque, di educatori ce ne sono sempre stati
pochi, quindi abbiamo conosciuto questa criticità, però forse abbiamo perso
per strada alcuni strumenti. Faccio un piccolo esempio: una delle cose belle che
ha fatto la scuola è un vademecum, che ha due parti, carcere-scuola e
scuola-carcere, è il frutto di un lavoro comune, perché la scuola voleva
spiegarsi al carcere e il carcere voleva spiegarsi alla scuola. Allora, su
questi problemi bisogna che noi facciamo un salto di qualità, nel senso che
affrontiamo questi temi tramite dei seminari tipo quello sulla rieducazione, ma
anche la revisione critica, o altri temi che ci stanno a cuore, perché è
strano Lorena che tu dica qui che il GOT non è da fare in modo meccanicistico,
quindi molto rapidamente prima della sintesi, perché lo sappiamo bene che i GOT
cominciano appunto quando comincia il trattamento, e abbiamo chiesto noi di
farli. Io sono amaramente contenta
che si facciano adesso, i GOT, anche se li convocate proprio per un quarto
d’ora poco prima della sintesi, perché se non si riesce ad avere altri
contatti si fa anche questo, perché questo scambio fra diverse componenti è
fondamentale. Ci sono però volontari e operatori delle cooperative che mi hanno
chiesto “Ma cos’è questo GOT?”, allora non è che basta ricevere
l’invito al GOT, si dovrebbe ragionare su qual è il nostro ruolo di operatori
non istituzionali, però per fare questa cosa bisogna che ci sia condivisione su
questi temi. Perché è quello il problema, che le persone detenute torneranno
nella società, e devono avere uno spiraglio verso il futuro, e questa cosa va
condivisa dando una speranza, la speranza in se stessi e nel rapporto con il
mondo. Sara
Gambino, funzionaria della professionalità giuridico-pedagogica: Io
ho un’esperienza soltanto di due anni per cui non so di fatto probabilmente
molte cose già provate, sperimentate, fallite, da rinegoziare, diciamo che ho
poca conoscenza da questo punto di vista, ma ci sono tanti punti in realtà che
secondo me sono fondamentali: uno è il fatto che la condivisione di strumenti
nuovi o la possibilità di trovare alternative è fuor di dubbio che non sia
altro che una cosa positiva. Allora
nel mio lavoro quotidiano a me viene chiesta una cosa che è un po’ difficile,
quella sostanzialmente di entrare all’interno di un vissuto che cambia, che si
modifica e che si è stratificato rispetto a tante cose: la provenienza sociale,
le convinzioni, i sentimenti, l’affettività, l’esperienza, il livello
culturale, tante cose di una persona per cui io ho bisogno in qualche modo che
il detenuto si apra a me nella maniera più genuina possibile, ma perché? C’è
una qualità della relazione che secondo me è una cosa difficilissima da
raggiungere, nel senso che comunque nella relazione siamo pienamente consapevoli
che osserviamo le persone dentro un contesto, il carcere, che ha dei rimandi
alla società, ma che sicuramente non è quello della società. Però allo
stesso tempo si può creare una autenticità se si parte dalla consapevolezza
che la sintesi è di fatto un tentare di riassumere in forma scritta la lettura
di un vissuto di una persona. Cinzia
Sattin, funzionaria della professionalità giuridico-pedagogica:
Quello che mi ha sorpreso molto oggi è che la dottoressa Arata diceva che si
aspetta dalla sintesi di capire il grado di condivisione che il detenuto ha
sull’ipotesi trattamentale. Per me con il detenuto dal momento in cui lo vedo
al momento in cui chiudo la sintesi è un continuo rinegoziare, questo io non lo
racconto nella sintesi ma lo tengo molto presente nella relazione che instauro
con la persona, la novità grossa che è uscita oggi è che invece tutto questo
è importante e va documentato. Un’altra cosa, vorrei sottolineare che
l’osservazione è un lavoro continuo capillare, assillante, di raccolta di
informazioni, quindi è un’osservazione costante di comportamenti, di racconti
che noi vediamo in continuazione. Vi garantisco che viene fatta, impariamo anche
nel tempo perché una volta mi sembrava di perderle tutte, le informazioni, poi
piano piano riesco sempre più a fissarle, a condensarle, a capire cosa è
importante e cosa invece no. Noi non siamo assistenti sanitari, non funzioniamo
con la chiamata a campanello, non siamo delle mamme, svolgiamo il nostro ruolo
che è quello di dare un contributo all’osservazione e di promuovere il più
possibile queste attività. Ornella
Favero: Noi questo incontro lo abbiamo fatto per cercare di capire se nel
percorso della persona detenuta c’è la possibilità di attivare delle
iniziative per far fronte al fatto che molti di coloro che stanno nelle sezioni
sono dei signori nessuno, non hanno né le capacità, né lo stato mentale per
chiedere aiuto. L’idea
del detenuto “osservato” forse però bisogna cercare di definirla bene,
perché quello che si rischia di vedere è la passività del detenuto. Noi
vorremmo invece che ci fossero dei percorsi di condivisione capiti, in cui la
persona non si senta semplicemente osservata, ma abbia un ruolo attivo. La
rieducazione non può avvenire tutta dentro la galera Elton Kalica ha finito di scontare una
pena di quindici anni senza poter accedere a un permesso e a una misura
alternativa, facendo il doppio di fatica per non farsi divorare dalla galera e
dare un senso alla sua carcerazione. Ma non ci può essere pena sensata se non
si ha l’opportunità di rientrare gradualmente nella società per
“sperimentarsi” e affrontare a piccoli passi la vita di Ornella Favero Si
può scegliere un detenuto, anzi una persona, in una fase così delicata come
l’inizio di una nuova vita dopo quindici anni di carcere, per trasformarla in
una cavia, in una specie di esperimento su cui poi riflettere insieme per capire
meglio i comportamenti degli esseri umani liberati dopo anni di cattività? Io
l’ho fatto con Elton Kalica, con il suo consenso naturalmente, perché penso
che questo esperimento serva a dimostrare che è insensato far scontare una pena
detentiva senza nessuna misura alternativa, a causa di un reato “ostativo”,
che cioè non permette di compiere un vero percorso di rieducazione proiettato
verso l’esterno. Dal 2002, quando Elton è uscito da una sezione di Alta
Sicurezza ed è arrivato in redazione, ci siamo battuti perché, condannato a
una pena esagerata, sedici anni e otto mesi, per un sequestro durato due giorni,
senza armi, senza violenza, quando era poco più di un ragazzo, potesse almeno
accedere ai permessi e poi alle misure alternative. Ma niente, non c’è stato
niente da fare, se non assistere alla sofferenza di una persona che vedeva
uscire in permesso, e poi magari in semilibertà, uno alla volta i “vecchi”
della redazione, anche con reati pesanti alle spalle, come l’omicidio, e lui
invece nulla. E però Elton non si è arreso, non si è lasciato andare, ha
studiato, si è laureato, ha imparato perfettamente l’italiano, ha
immagazzinato tutta la cultura, l’istruzione, la capacità critica che
Ristretti Orizzonti, la scuola in carcere, l’Università gli hanno fornito,
facendo però sempre una fatica doppia, perché la legge gli ha impedito di
fatto un rientro graduale nella società, una “sana” ed equilibrata
rieducazione. Fermati,
il mondo non sta scappando I
primi giorni, dopo la scarcerazione, (per essere più esatti, dopo la seconda
scarcerazione, la prima dal carcere, la seconda dal CIE in cui era stato portato
e dove non gli è però stato convalidato il trattenimento), è iniziata la vita
nuova di Elton. Se dovessi dire il sentimento più forte che ho percepito in lui
in quei giorni, non è la felicità della condizione di uomo libero, ma
l’ansia, uno stato di ansia continuo, l’idea inconscia di dover fare tutto
subito, di dover incontrare gente, “abbracciare” tutto il mondo, vedere la
propria vita collocata già in spazi e luoghi ben definiti. Fretta, fretta,
fretta, così pressante che a un certo punto non ho saputo dirgli altro che:
Fermati, il mondo è qui, non sta scappando. Fermati e comincia a fare delle
scelte, non lasciarti fregare dalla voglia di “arraffare” tutto quello che
ti è mancato. Saper scegliere è la vera sfida, quando si arriva da una realtà
carceraria che ti toglie qualsiasi responsabilità, anche quella di decidere
l’ora in cui farai la doccia, come ricordava in una intervista a Ristretti
Lucia Castellano, la ex direttrice di Bollate, il carcere più “aperto”
d’Italia: “Com’è possibile tentare dei percorsi di rieducazione
togliendo ad un detenuto, nel momento in cui varca la soglia di un carcere,
qualunque possibilità di decisione? come faccio a educare una persona che non
può decidere neanche se vuole farsi una doccia alle dieci di mattina e non alle
otto? Allora come faccio io a testare la capacità di una persona di aderire
alle regole, se poi le regole gliele impongo io e la muovo io? Sarebbe come
insegnare a un bambino a camminare facendolo stare sempre in un girello, non
camminerà mai. Secondo me non esiste educazione senza capacità di scegliere”. La
decompressione che non c’è Quando
è uscito Elton, mi sono resa conto che per me per anni Elton “era la
galera”, perché lui restava sempre lì, e non riuscivo neppure a immaginarlo
da libero, mentre gli altri detenuti della redazione prima o poi ho cominciato
gradualmente a vederli fuori, con i primi permessi premio, con il lavoro
all’esterno, alla fine con l’affidamento ai servizi sociali. E mi ricordo lo
spaesamento dei primi piccoli permessi premio, fatti magari di poche ore in
famiglia, le difficoltà a ritrovare un ruolo all’interno del proprio nucleo
famigliare, mi ricordo la telefonata di Paola che, al secondo o terzo permesso,
questa volta di alcuni giorni, agli arresti domiciliari in casa dei genitori, a
quarant’anni, mi diceva che era tentata di “chiudersi” e di tornare prima
in galera, perché non reggeva la tensione e la fatica di ricucire un rapporto,
che la detenzione aveva spezzato e logorato. E mi ricordo anche le persone che
iniziano a lavorare col lavoro all’esterno o la semilibertà, e la fatica di
imparare a rispettare le regole, la battaglia quotidiana per spiegare che non
basta, quando si è fuori con una misura alternativa, rigare dritto e non
commettere niente di illegale, ci sono anche le regole, il rispetto di quel
patto che uno sottoscrive quando esce e che prevede di “contenere” i propri
comportamenti entro binari molto stretti. Sugli orari non si può derogare, non
si può rischiare di essere fuori ufficio quando il programma prevede di stare
in un determinato luogo, non si può frequentare il compagno uscito prima di te
dalla galera, e che adesso vorrebbe venire a darti un saluto. NON SI PUO’. Sto
misurando in questi giorni quanto rischioso sia invece uscire senza
“decompressione”: io non posso preservare le persone che escono dal carcere
dai mali del mondo, non posso stare perennemente a segnalargli i pericoli, però
sono certa che un detenuto che esce dal carcere senza passare per le misure
alternative è come un sub che dopo un’immersione riemerge senza fare la
decompressione rischiando un’embolia. Si
può fare a meno dell’età della giovinezza? Se
uno entra in galera a vent’anni, e ne esce dieci o quindici anni dopo, tutti
vediamo uscire “fisicamente” una persona con una faccia da adulto, i
lineamenti più definiti, i segni sul volto di una maturità marcata dalla
sofferenza del carcere, e ci aspettiamo di avere a che fare con un adulto. Ma le
cose non sono così semplici. La galera infantilizza, e invece di insegnarti a
crescere, e ad assumerti le tue responsabilità, ti fa regredire all’età
della dipendenza dagli altri, quando niente ti è concesso se non ubbidire. Poi
ti trovi di colpo fuori, a decidere di tutto, e dovresti essere quell’adulto
che fisiologicamente ha trentacinque o quarant’anni, però tu non sei mai
stato giovane, sei stato ragazzo e poi di colpo una scelta sbagliata, una
scorciatoia imboccata per cercare la “bella vita” ti hanno catapultato in
carcere. “Gioventù bruciata”, verrebbe da dire, perché la storia di chi
finisce in galera da giovane è esattamente questo, la storia di un brusco e
doloroso passaggio all’età adulta. Solo che è un’età adulta del corpo e
della sofferenza, ma non c’è maturità, non c’è nessuna crescita vera,
nessun equilibrio tra ragione e sentimento. Uno poi esce e si sente inadeguato,
incapace di scegliere se essere un ragazzo invecchiato e vagamente ridicolo o un
adulto senza esperienza, senza “pratica della vita”. Vorrebbe disperatamente
fare il ragazzo, concedersi un “tempo della giovinezza” un po’ ritardato,
ma tutti gli ricordano l’età vera, tutti lo richiamano alle sue responsabilità. I mezzi e i luoghi della vita a venti o a
quarant’anni Di
questi ragazzi cresciuti in galera mi spaventano l’accelerazione che
vorrebbero imprimere alla loro vita una volta usciti dal carcere, la voglia di
fare in fretta quello che le persone “normali” fanno nell’arco di molti
anni, il senso di frustrazione perché i loro coetanei hanno già una vita con
degli obiettivi raggiunti, e loro stanno appena cominciando a fare i primi
timidi passi nel mondo. Elton una settimana dopo l’uscita dal carcere è
tornato per qualche giorno in Albania, a casa, e una delle prime cose che mi ha
raccontato è di aver incontrato i suoi vecchi compagni di scuola, dei
trentacinquenni naturalmente “sistemati”, professionisti, con figli, casa,
vite “assestate”. Poi è tornato in Italia, e ha dovuto misurarsi con le
vite incerte e provvisorie di chi esce dal carcere: la bicicletta come mezzo di
trasporto, le case prestate, poi magari le case arredate con i mobili
raffazzonati della vita da studenti, la vecchia libreria regalata da un vicino,
un tavolo un po’ rovinato che ti ha dato un’amica, con l’aspirazione
massima di arrivare presto a permetterti un divano dell’Ikea.
E in queste circostanze, chi è che ti offre aiuto, e qualche volta anche
alloggio? Quelli usciti prima di te dal carcere, gli “amici di galera”,
magari sinceri e disponibili, ma anche poco adatti a una persona che sta
ricostruendosi faticosamente un futuro, e che sarebbe meglio che invece di
contare sulla “solidarietà” di quelli che ha conosciuto in carcere, potesse
contare su una rete di amicizie con qualche solidità. E non dite per favore che
non è il caso di preoccuparsi, che persone come Elton “devono camminare sulle
loro gambe” o cose simili, certo lo so, ma so anche che, dopo tanta fatica,
perché reggere la galera senza soccombere è una fatica disumana, basta un
niente per far tremare una situazione ancora fragilissima. L’uomo
senza relazioni E
che dire degli “affetti”? In carcere si usa sempre questa orrenda parola
“affettività”, che secondo il dizionario Zanichelli è “l’insieme dei
sentimenti; la capacità di provare affetto”. Una parola così astratta, una
definizione altrettanto fumosa, che forse viene usata per i detenuti perché per
loro si può parlare più di “capacità di provare affetti” che di affetti
autentici. Se uno poi entra in galera a poco più di vent’anni, e lascia fuori
magari una storia d’amore da quasi adolescente, si ritrova poi dopo quindici
anni a uscire con l’esperienza e l’impazienza di un ventenne, la maturità
mentale di un uomo e quella affettiva di un ragazzino. Recuperare quindici anni
di assenza, o di estrema povertà di relazioni, perché la galera è prima di
tutto vuoto affettivo, significa anche ricostruire faticosamente quelle figure
femminili, che sono state assenti o quasi dalla vita in carcere: la madre,
l’amica, l’amante, la compagna. Perché la vita di un detenuto, in Italia,
ha poco spazio per gli affetti, le sei ore di colloquio mensili sono una cosa
ridicola: il sesso poi, in un mondo pieno di continui richiami sessuali, è
invece il grande tabù, quello di cui non si parla e di cui si finge di ignorare
l’importanza. Poi è inevitabile che, quando la gente esce di galera, é
l’IMPAZIENZA che connota la nascita di ogni relazione, condita spesso
dall’illusione che Internet, Facebook e altri analoghi luoghi di incontri
virtuali possano tappare tanti buchi di amicizie, di affetti, di amori. Ed è
terribilmente complicato rimettersi in carreggiata, e cominciare ad apprezzare i
tempi lenti dell’amore, la costruzione faticosa di una relazione. Senza
orario, senza bandiera Dopo
tanti anni di galera, probabilmente verrebbe voglia di riprendere dalle canzoni
di Fabrizio De André questa idea del “senza orario, senza bandiera”, andare
incontro alla vita togliendo di mezzo qualsiasi rigidità, qualsiasi controllo,
qualsiasi forma di costrizione. Mi sono trovata, i primi giorni della vita
libera di Elton, a sentirmi il controllore, il poliziotto, l’occhio
eccessivamente protettivo che vigila sulla vita di uno che per anni non ha avuto
un momento di intimità, non ha avuto uno spazio suo, non ha vissuto un giorno
senza il controllo ossessivo della galera. Ecco perché dalla storia del
detenuto-cavia voglio trarre una semplice, elementare verità: non deve esistere
pena detentiva senza che sia prevista una fase di “decompressione” prima del
rientro nella società, non deve esistere pena detentiva che schiacci le persone
e le comprima al punto da togliere loro ogni contatto con la “vita vera” ,
non deve esistere pena detentiva che non dia alle persone la possibilità di
sperimentarsi “ritornando nel mondo” a poco a poco, ricostruendosi con
PAZIENZA un futuro. Un
detenuto, se si sente solo “osservato”,
non crescerà mai Ma
la società, difendendo se stessa, fa spesso come il genitore che, solo perché
ha sgridato e punito il figlio facendogli dire che non deve più farlo,
“estorcendogli” questa “presa di coscienza” si sente a posto con se
stesso di
Marco Libietti Vorrei
anch’io, dalla mia detenzione domiciliare, partecipare alla discussione della
redazione sulla rieducazione, più che altro perché la galera farà sempre
parte della mia vita, anche se conto proprio di non doverci tornare più...
Perché farà sempre parte della mia vita? per un motivo molto semplice, ci sono
esperienze che non possono essere né cancellate né dimenticate, ci sono
periodi della vita che ti accompagnano per sempre, nel bene e nel male. Io non
posso e non voglio allontanarmi da quel mondo di cui ho fatto parte per tre anni
e mezzo. Se
penso al concetto di rieducazione, parto sempre dall’idea che quando sei in
carcere hai la sensazione che per gli operatori siamo comunque prima di tutto
detenuti, cioè persone che hanno creato danni il più delle volte
consapevolmente e che farebbero e direbbero di tutto per uscire ma poco, in
realtà, per cambiare. I
concetti antichi, come l’idea che la rieducazione si basi su una osservazione
del condannato che assomiglia più a un controllo, covano sempre sotto le ceneri
e sono duri a morire, li scalfisci in tanto tempo e con tanto sforzo, ma si
riprendono come un’araba fenice nutrendosi della prima mossa sbagliata e dalla
loro hanno una forza unica, la consapevolezza che questa mossa errata prima o
poi verrà fatta da qualcuno. Da qui nasce una certa idea di osservazione, vista
come controllo assillante, di revisione e in ultimo ma non per ultimo di
delazione continua, che tutto comporta tranne che lo scopo essenziale, che un
detenuto deve essere condotto al reinserimento nella società. Ed è qui che sta
il nocciolo della questione: per far sì che questo percorso possa avere un vero
senso le persone che si occupano di costruire proprio questi percorsi devono per
prima cosa comprendere ed avere ben presente cosa e chi è veramente un detenuto
e perché si è ridotto in quello stato... Un
detenuto spesso è una persona che ha una bassa considerazione di se stessa,
poca autostima, tendenzialmente non si vuole un gran bene, altrimenti non ci si
spiegherebbe perché abbia deciso di buttare via la sua vita. Inoltre ha
pochissimo senso di responsabilità, sempre verso se stesso, una persona con
queste caratteristiche non la si può affrontare solo con i concetti coercitivi
e umilianti dell’osservazione intesa come controllo dei suoi comportamenti. Ma
è proprio così che viene per lo più vissuta l’osservazione, e viene vissuta
così perché, in definitiva, un detenuto altro non è che un adulto non
cresciuto che si impone di non piangere e di non farsi vedere debole di fronte
alla punizione. In tal modo però, se non ritrova un ruolo attivo e si sente
solo “osservato”, non crescerà mai, non maturerà, non comprenderà come
acquisire il senso di responsabilità verso la propria persona e,
conseguentemente, verso gli altri. Come si fa a non comprendere che è questo
che non è chiaro nella testa di un recluso? Qual è la persona responsabile che
si fa così tanto male? che fa male ai suoi cari? giusto un bambino che non è
consapevole delle conseguenze delle proprie azioni. Io
sono convinto che gli addetti ai lavori debbano comprendere proprio questo
passaggio fondamentale senza il quale non si arriverà da alcuna parte, né oggi
né mai. Un detenuto non va trattato a revisioni, che siano solo meccaniche, o
mea culpa sociali di cui non può comprendere realmente la sostanza, ma va preso
“per mano” e accompagnato alla comprensione. Se non si discute di questo è
tutto inutile. Il
punto è che la società si pone, dinnanzi a questa questione, solo nelle vesti
del giudice, di un giudice che difende se stesso e non pensa a come risolvere il
problema di un suo figlio che ha deragliato, vede solo che corre il rischio di
vederlo di nuovo deragliare. Non si pone il problema che, a parte qualcuno, chi
deraglia di nuovo lo fa spesso con il cuore in gola, con la morte nel cuore, sa
bene dove andrà a finire di nuovo, ma non ha spesso altra possibilità per
sopravvivere. Questo perché nessuno gli ha veramente fatto capire come stanno
le cose, è stato solo “sgridato” e punito. Per una situazione simile a
quella del carcere non vorrebbe più doverci passare perché non è certo un
masochista, ma non sa come fare. E qui subentra la responsabilità della società
che, difendendo se stessa, fa come il genitore che, solo perché ha sgridato e
punito il figlio facendogli dire che non deve più farlo, “estorcendogli”
questa “presa di coscienza” si sente a posto con se stesso. Non
è così che funziona, solo che è più facile. Educatori, assistenti sociali,
magistrati devono forse accettare come parte del loro ruolo che la persona
detenuta deve essere più coinvolta, altrimenti rendono un cattivo servizio alla
società e pure a se stessi. È impossibile prescindere da tutto questo se si
vuole veramente ottenere qualcosa di valido, migliorativo e duraturo. La società
è più matura, è più consapevole? Bene, che lo dimostri non solo sgridando,
punendo, “facendo la voce dura”, ma spiegando, comprendendo e insegnando
anche con molta fermezza. Si pongano tutti una domanda: serve in casa un
atteggiamento solo punitivo? Non credo... figuriamoci fuori e, in special modo,
lì in galera. Ma
cos’è davvero la revisione critica? Che cosa può portare la persona detenuta
a iniziare un percorso di cambiamento? Il lavoro, per esempio, è di
fondamentale importanza dentro e fuori, solo che all’interno di una situazione
totalmente coercitiva, come è il carcere, al lavoro il detenuto si può
semplicemente adeguare, però interiormente rimanere con le stesse idee e
“modelli” di vita precedenti Testimonianza
raccolta dalla
Redazione La
mia riflessione parte dall’esperienza che sto facendo con il Progetto Scuole
– Carcere: la partecipazione “attiva” delle persone detenute, che
intervengono con la propria testimonianza, non è da considerarsi come una sorta
di revisione critica? Rispondere alle domande degli studenti è importante,
perché spesso sono domande proprio mirate a conoscere chi eravamo e chi siamo
ora, e ci mettono nella condizione di rivisitare con onestà “il brutto” del
nostro vissuto. Ma qual è “la prova” ultima che sancisce che un detenuto ha
veramente fatto la revisione critica? Talvolta si ha l’impressione che le
relazioni di sintesi siano come qualcosa di ambivalente e cioè che ciò che
viene scritto abbia lo scopo, da un lato, da parte dell’equipe di tutelarsi
nell’ipotesi di un eventuale fallimento nel percorso di reinserimento da parte
del detenuto, e dall’altro di lasciare che, nonostante la sintesi ed il parere
della direzione non aprano nessuna possibilità di uscita, sia eventualmente il
magistrato che decide positivamente, assumendosi così tutti gli oneri nel caso
che al detenuto vengano concessi i permessi premio o altre misure.
La richiesta poi che fanno a volte gli operatori al detenuto di scrivere
una lettera alle vittime del suo reato nella quale lui si assume le proprie
responsabilità, è quantomeno una forzatura che il detenuto espleta solo per il
raggiungimento del tanto desiderato percorso graduale di riabilitazione. Inoltre
spesso le vittime non ricevono di buon grado uno scritto che può smuovere
nuovamente un processo di “accettazione” del dolore che forse è ancora vivo
e dolente. Quello che più preoccupa noi detenuti è la formula “manca la
revisione critica”, che anzitutto andrebbe inserita nel contesto della attuale
situazione delle carceri, nella quale è difficile scontare la pena per i
detenuti (le possibilità di attività lavorative o altro si assottigliano
sempre di più), ma è difficile anche lavorare serenamente, in primis per gli
educatori, che in questo carcere per esempio hanno da trattare ognuna più di
cento detenuti, spesso con arretrati di lavoro che si ritrovano già dal primo
giorno di assunzione. Detto questo credo non sia solo un problema di numeri,
l’impressione è che vi sia anche dell’altro. Parecchie sintesi che io ho
avuto medo di leggere in passato avevano al centro frasi come “Il detenuto ha
partecipato ad attività lavorativa, ha aderito a…, ha partecipato ad attività
sportive e corsi”, e venivano tralasciate di solito considerazioni relative al
“lontano fine pena”, che semmai spettavano, e forse spettano tuttora, alla
magistratura di Sorveglianza, oggi è più facile che ci siano osservazioni sul
fine pena, perché per tutto il resto, per il percorso del detenuto, c’è
ormai ben poco da osservare, perché sono troppi i detenuti che non sono
coinvolti in niente, o quasi. Le ultime
circolari del DAP in merito alla ridisegnata figura del funzionario
giuridico-pedagogico cercherebbero di riplasmare ed innovare quasi completamente
la figura degli educatori, schiodandoli di fatto (almeno in buona parte del loro
tempo) dall’Ufficio Educatori e portandoli come supporto nelle sezioni, con il
ruolo anche di stimolare e sollecitare le persone che rifuggono da ogni
trattamento, o piuttosto che ne sono escluse per effettiva mancanza di attività
accessibili a tutti. Non so se questa possa essere almeno in parte una
soluzione, so però che per lo meno sarebbe importante discuterne. Ma
è davvero il lavoro la “molla” del cambiamento? La
questione fondamentale però è che forse il concetto di rieducazione e
riabilitazione andrebbe rivisto con questa idea: che in carcere ti venga
insegnato a “vivere bene in carcere” non serve a niente! Il
lavoro effettivamente è qualcosa di fondamentale importanza dentro e fuori,
solo che all’interno di una situazione totalmente coercitiva, come è il
carcere, al lavoro il detenuto si può semplicemente adeguare, essendo in una
condizione fortemente costrittiva e ”ricattabile”. Mi spiego: io posso
riuscire ad essere solerte, impegnarmi, rispettare tutte le regole lavorative,
essere puntualissimo sugli orari, però interiormente rimanere con le stesse
idee e “modelli” di vita precedenti, quindi un’adesione puramente formale
e funzionale a ciò che uno si è proposto di raggiungere, il tanto agognato
pezzetto di libertà in più, o la legittima “scalata alla libertà”. Oggi
poi c’è “la gara con spintoni”, per chi riesce a farsi mettere a lavorare
prima, e sembra che in questa “gara” tutto sia ammesso: conversioni
fulminee, sparlare del proprio compagno di lavoro, lettere anonime. Il
“trattamento” del detenuto viene molto spesso inteso come prevalentemente
lavorativo. Questa è quasi una cosa naturale, vista l’importanza che ha fuori
il lavoro, solo che qui siamo in carcere e quando il lavoro c’è, spesso
ricalca i medesimi meccanismi carcerari “vecchio stampo”. Da parte
dell’autorità “io ti ordino, tu esegui”, e tra detenuti si sgobba di
buona lena, mantenendo però spesso intatto il proprio modo di pensare e
ricreando appunto vecchi meccanismi, che sono quelli che hanno contribuito a
farci arrivare qui. Le circolari “innovative” sono ovviamente spesso in
parte disattese, un po’ perché veramente non si riesce a metterle in pratica,
molto perché si vuole mantenere lo “status quo”. Lo studio e altre attività,
anche se partecipate in maniera attiva e costante, sono comunque spesso
considerate “minori”, questo perché in carcere il dibattito, la
partecipazione attiva del detenuto alla vita dell’istituzione che gli sta
facendo scontare la pena, per una buona parte degli addetti ai lavori è
fantascienza. E però rendere partecipe in modo critico il detenuto a ciò, che
invece spesso vive come un “subire” continuo, è una via che agevolerebbe
proprio la revisione critica. La
pedagogia è un sapere che non si occupa solo di infanzia Ma
un progetto autenticamente educativo, che voglia realizzare un cambiamento, deve
essere condiviso pienamente in tutte le sue fasi dai soggetti coinvolti,
che siano adulti o minori, detenuti o persone libere di
Francesca Rapanà, operatrice dello
Sportello di segreteria Sociale: nel 2002 ha svolto il tirocinio previsto dal
corso di Laurea in Scienze dell’Educazione nella C.R. di Padova Oggi
il mio sguardo su questa realtà, pur restando inevitabilmente parziale, è
arricchito dal cambiamento di prospettiva legato ad altri ruoli con cui
mi sono misurata in questi anni dopo quello di tirocinante educatrice, come
volontaria e come agente di rete nelle attività all’interno
dell’Istituzione, in particolare allo Sportello di Segretariato sociale e
Orientamento giuridico, e all’esterno, in quel difficile terreno in cui si
misura la reale possibilità di reinserimento. Soprattutto
da quando sono allo “sportello”, mi sono misurata con la difficoltà di
esercitare un ascolto paziente, calmo, attento, attivo, anche quando non devo
raccogliere un’informazione precisa, ma solo la volontà della persona di
raccontare qualcosa di sé. Non si tratta unicamente di parlare del documento da
rinnovare o dell’istanza da presentare, ma di accogliere l’ansia per una
risposta che non arriva, la preoccupazione per la famiglia che aspetta, e
qualche volta più che legittime “incazzature”, ma anche l’emozione per la
concessione di un permesso o magari solo la gratitudine per un documento
rinnovato che ti fa sentire forse un po’ meno detenuto, un po’ più
cittadino. L’isolamento
dell’intento rieducativo in carcere Al
di là delle funzioni assegnate all’educatore penitenziario, fare
l’educatore nel carcere italiano di oggi significa gestire quotidianamente una
situazione emergenziale, in cui la quantità di pratiche burocratiche da evadere
impoverisce di molto la frequenza e la qualità delle relazioni personali che
dovrebbero essere la base del suo lavoro. Non si dà possibilità di coltivare
un rapporto autenticamente pedagogico quando ad un educatore sono assegnate
cento-centocinquanta persone, che si incontrano una volta ogni tre, sette, dieci
mesi e più; oggi poi il lavoro dell’educatore è spesso appiattito
sull’elaborazione della cosiddetta “sintesi di osservazione della personalità”
e delle altre relazioni comportamentali richieste dalla Magistratura di
Sorveglianza. In queste condizioni la qualità delle informazioni rischia di
essere piuttosto superficiale, limitandosi spesso a registrare la “regolarità
della condotta”, la “positiva adesione alle attività trattamentali”,
l’“atteggiamento partecipativo e collaborativo”, riducendo la ricchezza e
la complessità della persona alla sola identità di detenuto e alla capacità
che ha di essere un “bravo” detenuto. Spesso
nelle relazioni con il personale dell’Amministrazione, si sottolinea il
rischio che il comportamento del detenuto possa essere “strumentale”, poiché
il detenuto ha tutto l’interesse a mostrarsi gentile, collaborativo, un
“bravo detenuto”, nella speranza che la relazione comportamentale redatta
dagli operatori, da cui dipende la possibilità di uscire ogni tanto o uscire
prima, sia positiva. Sinceramente questa possibilità non mi stupisce, né mi
scandalizza, è necessario tenerne conto; credo, però, che questo rischio non
sia legato tanto alla malafede di chi si trova in una situazione strutturalmente
caratterizzata da asimmetria di potere e di ruolo. Credo che sia abbastanza
comune l’esperienza di cercare di dare una impressione positiva ad una persona
che in qualche modo ha il potere di migliorare la situazione in cui siamo, basta
pensare ad un colloquio di lavoro. È solo con una conoscenza più
approfondita e rapporti più frequenti che quell’impressione potrà essere
confermata o modificata. La scarsa frequenza dei colloqui non consente una
conoscenza autentica, approfondita, così come non la consente una concezione di
relazione tra educatore e detenuto a volte rigida, superficiale, formale, in cui
il detenuto sa già a quale modello deve conformarsi per ottenere ciò che
vuole. Il contrario quindi di una situazione aperta, in divenire, dagli esiti
inaspettati e inattesi com’è quella propriamente educativa. Sta poi
all’educatore non confermare questo modello di relazione se è la persona
detenuta a proporlo. Sono convinta comunque che se questo atteggiamento può
essere esibito è perché i
contatti sono rari e credo che difficilmente potrebbe essere mantenuto nel caso
di incontri frequenti e approfonditi. Inoltre, ho visto spesso detenuti talmente
emozionati per quella preziosa e tanto attesa occasione di incontro con
l’educatore, da non riuscire ad ostentare quell’atteggiamento che in qualche
modo a volte l’Istituzione propone come desiderabile. Ma
non è solo il sovraffollamento e la sproporzione tra il numero dei detenuti e
il numero degli educatori ad osteggiare il fine rieducativo della pena, è un
contesto fortemente oppositivo, in cui tutto sembra “remare contro”:
rapporti di potere troppo rigidi, deprivazione affettiva, relazionale e
sessuale, scarsità di esperienze possibili, scarso rispetto della dignità
umana. Come scriveva il pedagogista Piero Bertolini (in uno dei testi più
significativi in tema di rieducazione anche se riguardo ai minori) “al di
sopra di una certa soglia le carenze materiali, affettive e intellettuali
limitano o annullano del tutto l’efficacia di qualsiasi intervento
educativo” (Bertolini, Caronia, 1993, p. 78). L’intervento
dell’educatore allora si muove su un doppio livello: da una parte, verso il
soggetto in quanto autore di reato, quindi persona problematica,
difficile, con esperienze di vita che spesso hanno ridotto la possibilità di
immaginare altri tipi di vita possibile; dall’altra verso il soggetto in
quanto detenuto, per cercare di neutralizzare gli aspetti distruttivi
della detenzione, che rischiano di frustrare sul nascere qualsiasi tentativo di
sviluppo personale. La privazione della libertà infatti si accompagna ad una
serie di privazioni aggiuntive che rendono insopportabile la detenzione, basti
pensare ai rapporti con la famiglia. La legge attuale prevede una telefonata a
settimana della durata massima di dieci minuti (artt. 37
e 38 reg. es.) e sei ore di
colloquio al mese con i familiari, in locali con altri detenuti e altre
famiglie, ambienti rumorosi, con controllo a vista, nei quali ogni forma di
privacy è impedita. Soprattutto in vista del reinserimento sociale, il
mantenimento dei rapporti con la propria famiglia è fondamentale e andrebbe
sostenuto e incoraggiato. Perché non considerare quegli elementi che potrebbero
sostenere un percorso di sviluppo di sé e quindi un processo di reinserimento
sociale senza compromettere la sicurezza negli Istituti? Avere rapporti con la
famiglia e rapporti affettivi e sessuali è funzionale ad una logica di
reinserimento, verso cui anche la collettività, ossessionata dalla
“sicurezza”, dovrebbe mostrare maggior interesse. Spesso
vedo fuori dal carcere i parenti che aspettano di poter incontrare i loro
familiari detenuti, che a loro volta da giorni si stanno preparando al colloquio
e per lungo tempo ne ripercorreranno mentalmente ogni fotogramma per
allontanarsi dal grigiore penitenziario, prima di ricominciare ad attendere
l’incontro successivo. Il tema dell’affettività è quello su cui si
concentrano molte delle ansie e delle frustrazioni della maggior parte delle
persone in stato di detenzione. La
pedagogia penitenziaria è pedagogia? Mi
chiedo a questo punto se la situazione delle carceri italiane e il
sistema di leggi su cui si fonda sono gli unici elementi contro cui cozza
l’istanza rieducativa. Quello che mi sembra è che la teoria pedagogica
generale si esprima poco o sia poco ascoltata nella costruzione di una struttura
teorica su cui organizzare la progettazione rieducativa dell’adulto detenuto,
rispetto invece al contributo di questo sapere agli interventi rivolti al minore
deviante. Una
prima indicazione di come il discorso dominante costruisce il suo modello di
progetto rieducativo si trova nell’Ordinamento Penitenziario. Nell’art. 1 si
legge: “(…) nei confronti dei condannati e degli internati deve essere
attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con
l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è
attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche
condizioni dei soggetti”. Il termine trattamento rieducativo, che
indica l’intervento educativo nell’ambito penitenziario, è estraneo ad un
lessico propriamente pedagogico, suggerendo un’azione esercitata su un
soggetto, che la subisce (il che è anti-pedagogico). Il regolamento esecutivo
all’art. 1 specifica “(…) il trattamento rieducativo dei condannati e
degli internati è diretto, inoltre, a promuovere un processo di modificazione
delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni
familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione
sociale” e ancora all’articolo 27 riguardo all’osservazione della
personalità: “L’osservazione scientifica della personalità è diretta
all’osservazione dei bisogni di ciascun soggetto, connessi alle eventuali
carenze fisico-psichiche, affettive, educative e sociali, che sono state di
pregiudizio ad una normale vita di relazione”. Queste indicazioni si basano su
una spiegazione deterministica della devianza, visione più che superata. Immediatamente
dopo trova spazio però un’importante specificazione (l’unica) che corregge
parzialmente tale visione: “Ai fini dell’osservazione si provvede
all’acquisizione di dati giudiziari e penitenziari, clinici, psicologici e
sociali e alla loro valutazione con riferimento al modo in cui il soggetto ha
vissuto le sue esperienze (corsivo mio)”. Questo passaggio riporta
finalmente la centralità del soggetto nel discorso che, qui sì, può
declinarsi in senso pedagogico: “La valorizzazione del soggetto inteso come
luogo di significazione della realtà e di riformulazione o di superamento delle
definizioni condivise della realtà, acquista una particolare centralità
all’interno dell’approccio pedagogico (Bertolini, Caronia, 1993, p. 36)”.
Bertolini spiega che è proprio nell’attività del soggetto di dare senso al
mondo che c’è la possibilità di un intervento pedagogico, contrariamente al
paradigma causale, che, “escludendo teoreticamente ogni partecipazione attiva
della soggettività alla costruzione della sua «realtà», impedisce di
cogliere le condizioni di possibilità di un cambiamento nella vita del ragazzo
difficile” (Bertolini parla di minori devianti, ma in questo caso il discorso
può valere anche per gli adulti) e individua “l’oggetto specifico di
riflessione e di intervento pedagogico: il contributo del soggetto alla
costruzione del proprio modello di interpretazione del mondo e di azione nel
mondo” (Bertolini, Caronia, 1993, p. 36). Le
leggi definiscono poi la finalità del trattamento rieducativo che deve tendere
“a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli
atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di
ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale (art. 1 comma 2 reg. es.)”.
Il tipo di intervento previsto dal Legislatore si concentra quindi sulla
modificazione di quelle che sono le condizioni oggettive che influenzano il
soggetto; rendere questo discorso pedagogico significherebbe insistere sulla
presa in carico globale del soggetto e sugli elementi soggettivi ed
esistenziali. Altri
due momenti mi sembrano ambigui nel testo legislativo: l’indicazione della
compilazione del programma di trattamento rieducativo e il richiamo a
favorire la collaborazione dei condannati e degli internati alle attività
di osservazione e trattamento (artt. 13 O.P. e 27 reg.es). Non è solo una
pignoleria terminologica, ma sarebbe stato diverso parlare di “progetto”
invece di “programma” e “condivisione” al posto di “collaborazione”:
il “programma” di solito è prodotto fuori dal soggetto e impostogli
dall’alto per raggiungere certi obiettivi, mentre il “progetto” privilegia
il soggetto e rimane aperto all’inatteso che inevitabilmente una relazione
educativa comporta (Schenetti, 2006); e la collaborazione è forse condizione
necessaria, ma non sufficiente, per un progetto che, se vuole realizzare un
cambiamento, deve essere condiviso pienamente in tutte le sue fasi dai soggetti
coinvolti, dall’inizio alla fine. Si
parla spesso di pedagogia penitenziaria proponendo modelli che di pedagogico
non hanno nulla o poco; il contributo della pedagogia stenta a farsi ascoltare
(qui come altrove) un po’ (molto) per la pigrizia di questo sapere che lascia
sempre che altri dicano la loro, senza alzare la voce per farsi ascoltare e un
po’ anche per quell’idea per cui la pedagogia è quella scienza che si
occupa dei bambini, magari in modo normativo e prescrittivo. Mi ha colpito che
Adriano Sofri, autore di riflessioni profonde sul carcere, parlando
dell’infantilizzazione dei detenuti la associ ad una “pedagogia punitiva”
1. Ma quella che non solo ostacola lo sviluppo individuale, ma addirittura
produce una regressione del soggetto, non è una pedagogia punitiva, né una
cattiva pedagogia, non è proprio pedagogia. Cosa
può essere un intervento autenticamente educativo rivolto ad individui adulti
segregati? Persone la cui condizione adulta viene percepita spesso come
impedimento sicuro per un cambiamento anche radicale, uno sviluppo di sé,
emancipazione da un vocabolario ristretto per dare senso al mondo. Non c’è
una risposta, e sicuramente non una o definitiva: ciò che l’educatore può
fare credo è recuperare la “responsabilità esistenziale, dare/ridare dignità.
(…) restituirgli la sua dignità di essere soggetto, pur sapendo che essa la
si deve riconquistare sempre di nuovo (Dallari, Ghirotto 2006, p. 235).
Responsabilità, dignità, parole che in carcere sono molto rare. Gli strumenti
a disposizione dell’educatore nel carcere di oggi, non sono molti, resta
comunque lo spazio del rapporto personale, la conferma al detenuto di essere un
soggetto degno di attenzione e di essere ascoltato. 1
Da
un intervista apparsa su L’unita il 22/08/2002 “Vi racconto il lusso della
mia cella” Prospettiva
lavoro Dalle
serre di Bollate ai giardini più
eleganti di Milano La
filosofia di “Cascina Bollate” non è quella di fare il classico prodotto
“da carcere”, per smuovere il senso di carità dei cittadini, ma di lavorare
sulle professionalità Intervista a cura di Paola Marchetti Amore
per il verde, passione ed entusiasmo, oltre a idee chiare sul reinserimento,
sono i tratti che caratterizzano Susanna Magistretti, presidente della
Cooperativa Cascina Bollate di Milano. L’abbiamo intervistata per capire come
funziona la sua attività all’interno della Casa di Reclusione di Bollate. In
cosa consiste la vostra attività? Avete una serra in carcere? Abbiamo
2 serre da 900 mq e circa 10.000 metri di terra scoperta che abbiamo variamente
attrezzato, tra orto, frutteto, ombraia. Abbiamo più di 100.000 piante, con
3-400 varietà. Sono piante da terrazzo, da balcone, da giardino. Ma io le
racconterei la storia dal principio: ad un certo punto, dopo aver peregrinato,
prima lavorando fuori poi nelle carceri, Beccaria e San Vittore, dove facevo
giardini con un progetto legato al Ser.T. a cui dedicavo mezza giornata a
settimana, non ero più soddisfatta di questa attività di volontariato per il
recupero e inclusione per tossicodipendenti. Poi, per una serie di motivi, da
San Vittore sono arrivata a Bollate dove ho lavorato 4/5 mesi in un reparto.
Bollate ha molto più verde di San Vittore, tra i due non c’è paragone. In
questo reparto, da sempre deputato soprattutto ai tossicodipendenti, e sempre in
forma di volontariato, abbiamo messo in piedi un giardinetto e nel 2006 è
arrivata l’inaugurazione delle serre a cui la direttrice di allora, Lucia
Castellano, mi aveva invitata. Serre meravigliose, fatte costruire dal Ministero
nel 2001/2002, però sottoutilizzate e fatte in maniera non consona alle
esigenze: una, molto sofisticata - alla faccia dei consumi energetici - sembrava
adatta alle orchidee, ma non c’era nessuno che sapesse coltivarle, mentre
l’altra era una serra nuda e cruda, senza irrigazione, in cui veniva coltivata
solo cipolla di Tropea. Se si fa una serra perché sia produttiva, bisogna
utilizzare il denaro in maniera ottimale! L’idea era quella di fare una
produzione all’interno del carcere per poi venderla. La produzione, scarsa, di
verdura c’era, mentre quella delle piante comprendeva tutte quelle specie
presenti già nei supermercati a costi meno elevati e più belle, anche perché
sono quelle che arrivano quotidianamente dall’Olanda con grandi tir
refrigerati. Quindi coltivare ciclamini o cipolle di Tropea non aveva molto
senso e soprattutto non avrebbe avuto mercato. Questo a conferma del mio
pensiero: normalmente il verde in Italia viene inteso come una delle
pochissime possibilità di miglioramento, di ri-socializzazione, per tossici,
matti e detenuti. Quindi c’è l’idea di un verde salvifico in sé e
per sé, senza un progetto che valorizzi l’uomo che lavora e il prodotto.
Fatto senza dietro un progetto e un pensiero il verde ha zero senso. Se
si mette in mano ad un ex detenuto un decespugliatore, gli si dice che da quel
momento fa il giardiniere e lo si manda a fare il guard rail della
Milano-Brescia o a tagliar siepi, l’ex detenuto in questione, secondo me dopo
tre giorni, sopraffatto da un lavoro alienante, insalubre e di solito
sottopagato, rimpiange l’epoca in cui faceva rapine… Il giardiniere invece
è un mestiere in cui si coltiva il bello e il buono, un mestiere in cui è
molto importante la formazione professionale. E il tempo vuoto della
carcerazione si riempie e diventa proficuo, imparando davvero un lavoro che non
è quello del giardiniere muscolare che invece di menar le mani manovra un
decespugliatore. Così, dopo aver visto le serre di Bollate, con il consenso
della direttrice di allora, Lucia Castellano, mi sono messa in testa di fare un
progetto di vivaio specializzato, consultandomi con dei vivaisti con cui da anni
lavoro, tutti specializzati in piante destinate a un mercato di nicchia. Ho
deciso di iniziare a fare la vivaista, partendo da quella che era la mia
esperienza lavorativa di allora, centrata sulla divulgazione di temi verdi come
botanica e giardinaggio, con la collaborazione con alcune riviste, e sulla mia
pratica di giardiniera. Forse
il verde diviene terapeutico se il risultato è molto bello? Sì,
però, perché il risultato sia bello, sono necessarie alcune qualità: capacità
di aspettare, di reggere alle frustrazioni, disciplina. Diciamo che è un
insegnamento utilissimo per la riflessione e la perseveranza. Noi facciamo le
schede con il nome di ogni seme, il nome botanico, il numero dei semi
utilizzati, il tipo di terra, la data di semina, il risultato della semina, la
temperatura della terra e, l’anno dopo, si fanno i confronti. Una cosa
apparentemente da mentecatti ossessivi, ma in questo modo i detenuti di Cascina
Bollate piano piano imparano il mestiere. C’è una sociologa francese,
Florence Weber, che nel suo libro “L’honneur des jardiniers” parla
dell’aspetto riparativo del mestiere di giardiniere. Una persona può anche
aver commesso le azioni più turpi ma, nel momento in cui coltiva la terra e
produce il bello e il buono, cioè piante, fiori e verdure, almeno per
quell’aspetto della sua vita che riguarda il lavoro, recupera una onorabilità
perduta. Ai propri occhi e agli occhi di chi vede i risultati del suo lavoro. Come
ha accolto la proposta l’istituzione? Ci
sono stati 9 mesi, da marzo a dicembre 2007, di start up, che è stato molto
faticoso perché rappresentava una grande svolta per il carcere stesso.
Comunque, le persone che lavoravano lì erano quelle che già prima lavoravano
nelle serre e ho dovuto fare una selezione che non è stata semplice. Quello era
un posto consolidato, “di potere” e importantissimo per molti detenuti,
perché li fa stare fuori tutto il giorno, certo con due poliziotti, però fuori
tutto il giorno. C’è stato da far mandare giù all’istituzione il fatto che
io entravo con la sega, la vanga e la cesoia e che i detenuti le usavano. C’è
stato da fare un salto dalla logica del lavorante alla logica del lavoratore;
che è uno spartiacque fondamentale. Il lavorante scende un po’ quando gli
pare e può passare quando gli aprono, il lavoratore se deve cominciare alle
8:00, deve cominciare alle 8:00. Si
tratta di posti di lavoro vero, quindi? Così
come funziona fuori, noi facciamo dentro, anche se identico non sarà mai, perché,
ad esempio, quando mi arriva un camion di terra, devo far preparare
l’autorizzazione, devo spedirla al signore che arriva, etc. Tanto per fare un
esempio, c’è stato da convincere molti fornitori a perdere un po’ di tempo
in più solo per il fatto di dovere entrare in carcere per fare una consegna. Il
fuori e il dentro identici non saranno mai, però cerchiamo di andarci molto,
molto vicino. La qualità del prodotto è di alto livello; non facciamo né
gerani, né ciclamini, né prodotti commerciali come le “stelle di natale”,
non ci interessa farle, non solo perché io ho un cattivo carattere e mi fanno
schifo, ma soprattutto perché non sono vendibili, se messi a confronto con il
prodotto che si trova nei supermarket o nei garden center. Per stare sul mercato
la sola possibilità era creare un prodotto di nicchia. Siccome noi dobbiamo
fare fatturato, facciamo delle cose per cui abbiamo meno competitor
possibili. Il vantaggio di essere a Milano è che non c’era un vivaio
specializzato in piante perenni, e quindi non solo il giardiniere
dilettante o l’appassionato, ma anche i giardinieri professionali dovevano
andare a 30/40 km da Milano per trovare una pianta, che non fosse un ciclamino,
mentre ora vengono a Bollate. Non sono tantissimi perché, purtroppo, quello del
giardinaggio in Italia è un mercato povero, arretrato, però quelli che
vogliono fare un lavoro serio tendono ad usare le piante che, guarda caso,
trovano da noi. Organizzare
una attività lavorativa in carcere è sempre faticoso, però, se c’è una
direzione che dà una mano, e da questo punto di vista Bollate è una situazione
molto avanzata, le difficoltà si superano meglio. Le
difficoltà comuni a tutti quelli che lavorano in carcere sono date da alcune
assurdità o lentezze burocratiche, che anche gli addetti ai lavori conoscono.
In realtà negli ultimi anni gli intoppi burocratici sono molto migliorati, per
fortuna, è certo però che, per quanto a Bollate si faccia di tutto per far
passare l’idea che il lavoro dentro deve essere uguale (nei tempi, nelle
regole e nella produttività) al lavoro fuori, una qualche difficoltà in più
c’è. La
difficoltà maggiore non è tanto il portar dentro i prodotti, quanto le
persone, ovvero i clienti del vivaio. Abbiamo infatti il negozio dentro il
carcere: nell’intercinta tra il primo ingresso, che è quello da dove entrano
tutti, compresi i parenti, e l’ingresso del carcere vero e proprio. Lì c’è
un bel negozietto con un giardino didattico, aperto tre giorni a settimana, dove
tutti possono entrare facendo vedere la carta d’identità e possono comprare
quante piante vogliono. Poi, un detenuto in articolo 21 può portare le piante
fuori nel parcheggio. Capisco che questo trambusto possa portare scompiglio, e
all’inizio non è stato facile, ma ora è diventato una consuetudine, senza più
intoppi. Fate
una vera selezione professionale, che non c’entra niente con le selezioni che
si fanno di solito dentro alle carceri per far lavorare le persone? Io
faccio le selezioni, anche ascoltando cosa dicono gli educatori e dando le
priorità in base al bisogno di lavorare che può avere il detenuto. Cerchiamo
di capire se funzionano, come funzionano, e tutte quelle mille variabili del
carcere. L’importante è che lavorino. Quando capiamo come funzionano, li
suddividiamo in base alla responsabilità. In realtà all’inizio fanno un
periodo di formazione affiancati, in un rapporto tra pari, da un detenuto
anziano e girano per tutto il vivaio che non è proprio piccolissimo: c’è la
zona delle rose antiche, la zona degli arbusti, la zona delle graminacee, la
zona delle semine, della produzione e moltiplicazione e c’è la zona della
ombraia. Iniziano a imparare il mestiere affiancati dal detenuto più
anziano, da me, dal vice-presidente della cooperativa, da un altro giardiniere
che lavora con noi come volontario. Poi a ciascuno viene data una sua
responsabilità, ci sono cioè due detenuti che si occupano della parte della
produzione, nella serra calda, altri due che si occupano della zona del frutteto
e della serra fredda, un altro detenuto che si occupa del roseto, un altro che
si occupa dell’ombraia. Tutti quelli che hanno l’articolo 21 escono tre
volte la settimana per fare “le commesse” in negozio, a volte affiancati da
un volontario, a volte soli; di questi due o tre escono proprio dal carcere e
vanno a fare i lavori nei giardini e nei terrazzi. Questo vuol dire che ad
aprile, maggio, giugno, settembre, ottobre sono fuori, se non tutti i giorni
della settimana, quasi tutti. Certo
non voglio far la parte della nazi, perché non lo sono, ma quando un
detenuto non lavora bene, e non solo quando esce o viene trasferito, dobbiamo
rimpiazzarlo; quando abbiamo bisogno di qualche persona in più, perché
guadagniamo un po’ più di quattrini, e così lavoriamo tutti un po’ meno e
diamo più lavoro, dobbiamo assumere. Tenga conto che nel 2011 abbiamo
realizzato un fatturato di 168 mila euro, l’anno precedente di 130 mila euro.
Abbiamo assunto a seconda dei quattrini che avevamo e ora abbiamo, oltre ai 6
detenuti, anche due stipendi di giardinieri professionali “liberi”. Facciamo
un bando all’anno; un paio d’anni ne abbiamo fatti anche due, comunque
minimo un bando all’anno. Il fine pena deve essere almeno di quattro-cinque
anni, altrimenti che formazione vogliamo fare?! E non solo: cerchiamo di fare in
modo che la persona che prendiamo sia un detenuto che può ottenere l’articolo
21, affinché, se la persona funziona, nel giro di un semestre o, al
massimo, di un anno, possa accedere ai benefici, dato che, di sei detenuti che
abbiamo in questo momento, tre escono per andare a fare giardini e terrazzi e
fiere. Loro
sono soci della cooperativa? Sì,
sono soci della cooperativa. Facciamo una formazione sul campo retribuita, e
dopo un periodo di prova, li assumiamo a tempo indeterminato, con il contratto
delle cooperative sociali di tipo B. Poi,
ogni tanto, quando possiamo, facciamo un bando per delle borse lavoro del Comune
di Milano, che sono però limitate ai soli detenuti residenti a Milano.
Naturalmente, da questo punto di vista, gli stranieri sono discriminati. Il
Comune ci dà l’agio di avere sei mesi di lavoro pagato dalla borsa lavoro,
però, normalmente, a meno che uno in borsa lavoro faccia delle grosse cavolate
oppure non abbia voglia di fare niente, lo assumiamo. Non è che viviamo di
borse lavoro. Nella
vostra cooperativa lavorano tutti a tempo pieno? Lavorano
tutti a tempo pieno. C’è stato un caso di un part time di uno che andava a
scuola il pomeriggio. Tenga conto che la scuola è una priorità a Bollate, per
cui io assumo anche gente che va a scuola sapendo che faranno il part time. Il
problema di risolvere in qualche modo questo gap – o attraverso l’assunzione
di un altro detenuto che va a scuola e che fa il part time o spostando i
lavoratori da una parte all’altra – è un problema mio, non del carcere. Non
tenterei neppure di contrappormi a questa regola, in primo luogo perché credo
fermamente che la scuola sia fondamentale, e poi perché questo carcere non lo
accetterebbe. Come
organizzate i contatti con l’esterno? Prima
di tutto con le visite guidate aperte al pubblico: ne facciamo in primavera e in
autunno, fissando una data e un orario e mandando le mail a una mailing list
dove invitiamo a iscriversi alla visita mandandoci semplicemente il numero del
documento d’identità, oltre a nome e cognome.. Vengono dalle 30 alle 50
persone alla volta a cui facciamo fare un piccolo giro nel quale io spiego un
po’ il senso del carcere a custodia attenuata, poi li portiamo al vivaio dove
ci comprano un sacco di piante. Tenga conto che quando c’è l’ora legale le
visite si svolgono dopo le 18, il mercoledì o il giovedì sera fino alle
20.30/21.00 quindi c’è l’aperitivo e un po’ di buffet in serra con i
detenuti “tirati a festa”. Una cosa mondanissima! E anche questo è un mezzo
perché i detenuti si confrontino con l’esterno. È propedeutico di quel che
sarà fuori. Noi abbiamo una ventina di volontari, tutti in articolo 17 che
vengono di media mezza o una giornata alla settimana. L’età è “altuccia”
visto che la gente normale fino a 60/65 anni lavora, ma abbiamo anche alcuni
liberi professionisti di 35/40 anni più una ragazza di 30 che fa la paesaggista
ed è stata la nostra prima assunta libera. C’è uno scambio con l’esterno
fortissimo, ed è importantissimo perché così il detenuto fantastica meno e
tiene un po’ più i piedi per terra, si abitua alla relazione con gente
“normale”, con valori “normali”, con idee anche diverse. In un mondo così
chiuso, così piegato su se stesso qual è il carcere, in realtà, rompere
questa chiusura è importante soprattutto se non si perde mai di vista che
l’obiettivo vero è il reinserimento. Il carcere deve essere una sorta di vaso
comunicante con l’esterno. Il carcere deve vedere quello che c’è fuori e
fuori si deve vedere quello che c’è in carcere. La gente cosiddetta normale
deve capire che in carcere non c’è “l’idra a cinque teste”. Quando mi
chiedono se in carcere “sono sicura”, io rispondo che lo sono più che
fuori, e non solo perché ci sono gli agenti! La
distribuzione delle vostre piante è fatta attraverso il negozio interno? Ma
anche attraverso le fiere di giardinaggio che si fanno nella zona – non
potremmo andare a Roma per esempio, perché non saprei dove mettere a dormire
questi “sciagurati” – e poi abbiamo un punto vendita da “Cargo &
High Tech” che è un negozio di arredamento molto grande e bello a Milano, in
via Meucci 39. Facciamo terrazzi e giardini per privati, mentre non ci occupiamo
di verde pubblico tranne per una cosa che abbiamo fatto, sempre con Cargo &
High Tech,. Si è fatta un’operazione su Corso Como che è una strada dove di
giorno c’è moda e design, mentre di notte c’è una gran “movida” con
tutto quello che comporta, mettendo insieme una cordata di negozianti che hanno
sponsorizzato le aiuole che noi abbiamo realizzato. Il fatto che il vivaio di
un carcere non faccia solo la rotonda sfigata, ma si occupi di una delle strade
più trendy di Milano è importante per molti motivi, primo tra tutti la
visibilità che in questo modo si dà al “carcere”, ai detenuti, alle
condizioni di detenzione. Il livello del prodotto è alto, la professionalità
è alta – e questo vale non solo per me ma anche per tutte le altre
cooperative che lavorano a Bollate – perché la filosofia non è quella di
fare il classico prodotto “da carcere”, per smuovere il senso di carità dei
cittadini, ma di lavorare sulle professionalità. La nostra è un’attività a
tutti gli effetti, e vale come tale, per cui siamo molto lontani dall’idea
della “beneficenza”. Anche per i volontari il criterio di reclutamento si
basa su questi parametri: persone appassionate di giardinaggio e che vogliano
imparare. Non voglio gente che abbia come unica motivazione il voler “fare del
bene”, ma gente che abbia voglia di imparare e di confrontarsi, visto che
siamo in un carcere, con persone con cui normalmente non ci si confronta perché
vite così diverse non si incrociano mai. Ci sono un sacco di enti che fanno
beneficenza e quindi i volontari che vogliono solo far quello non devono
rivolgersi a me! Lei
è la presidente della cooperativa? Io
sono la presidente, mentre il vicepresidente è Massimo Iacopetti, un
giardiniere professionista molto bravo con cui ci dividiamo il lavoro. Lui si
occupa principalmente di tutte la parti tecniche all’interno del vivaio, nelle
quali io sono una vera bestia, mentre io, seguendo la parte che mi è più
connaturale ed essendo anziana, vado a scocciare, brontolando, quelli che
lavorano. Del resto sono anch’io tutti i giorni in vivaio, e, a parte gli
scherzi, mi occupo di più di altre cose come lo stabilire la collezione,
gestire i lavoratori – ogni 2 o 3 mesi
facciamo una riunione collettiva – gestire i rapporti con l’istituzione. In
queste riunioni ciascuno può dire la sua, ma lei sa che in carcere dire la
propria può aprire delle “faide” che vanno avanti all’infinito, quindi è
anche mio ruolo quello di “scardinare” questi meccanismi perversi – quello
che mi dice che il suo compagno non lavora se io non ci sono e cose così – e
improntare i rapporti sulla completa chiarezza, dove ci si abitui a far le
critiche ai colleghi in modo diretto e trasparente. “La critica non è
delazione” è il mio motto. Su questo, specie con i nuovi arrivati, c’è
molto da combattere. In realtà tutta la parte della “relazione” viene molto
(o il più possibile) curata, e di questo mi occupo fondamentalmente io. Sprigionare
gli affetti Stare con i miei figli mi fa capire quante soddisfazioni ci sono nella vita oltre ai soldi Una
lettera che ci arriva da un detenuto della redazione, ora in affidamento ai
Servizi sociali Il
ritorno a casa con una misura alternativa ti fa scoprire passo passo certe
piccole cose che avevi dimenticato, o forse non avevi mai apprezzato abbastanza Di
Germano V. Scusatemi
se vi scrivo su una tovaglietta del bar, ma ho colto al volo l’attimo
altrimenti, tra lavoro e pigrizia, non vi avrei mai scritto. Oggi invece a Roma
è una giornata di pioggia, quindi il lavoro è poco ed ho il tempo per
scrivere, è solo che non ho un block notes. Ho ricevuto posta e saluti da tutti
i ragazzi e mi fa davvero molto piacere, ne approfitto anche per salutarvi tutti
con molto affetto. Proverò magari, scrivendovi questa lettera, ad esternare
qualche pensiero sperando che li possiate poi utilizzare, intanto vi racconto.
Come sapete la mia carcerazione è stata divisa in due periodi e nella prima
parte il mio pensiero rispetto alla situazione che vivevo era molto
superficiale, mentre quando sono arrivato a Padova era diverso, era come se da lì
si fosse iniziato a fare sul serio. Dopo il percorso che ho iniziato anche
l’udienza per l’affidamento è stata diversa, non era come uno dei tanti
tentativi che si provano a fare, magari con l’avvocato durante la custodia
cautelare, dove la sensazione, nel caso di un esito positivo, è quella di
averla fatta franca. Dopo il percorso che ho fatto, le riflessioni sulle mie
responsabilità, è diverso e credo che sia così per molti.
So che rispetto a tanta altra gente detenuta che ho conosciuto, i miei
tre anni di galera si possono definire pochi, però credo che mi abbiano fatto
riflettere molto, e anche aiutato a capire qual è il percorso più giusto da
seguire in carcere prima che fuori. Quando poi si inizia un percorso alternativo
al carcere come l’affidamento, sembra come di aver raggiunto un obiettivo, un
traguardo. Sono sicuro però che il rischio che si corre è di credere di avere
finito, e invece non è affatto cosi. Io ritengo che sia giusto, e infatti cerco
di farlo sempre, ricordare di aver commesso un reato per il quale sei stato e
saresti potuto ancora essere in carcere, quindi anche nei momenti difficili
bisogna dar valore al fatto di poter essere a casa e di aver anche ripreso a
lavorare. I problemi tanto ci sarebbero stati comunque, solo che adesso si
possono affrontare di persona, mentre prima doveva farlo tua moglie o la tua
famiglia. Adesso è circa un mese e mezzo che sono uscito dal carcere, ho la
possibilità da pochi giorni di uscire di casa alle sei di mattina per venire ad
aprire il bar alle sei e mezza, poi continuo a lavorare fino alle otto di sera,
dopodiché potrei rientrare a casa alle dieci, purché io rimanga nel comune
di Fiumicino. Praticamente per tutta la settimana vengo al bar al mattino e ci
rimango fino a sera, senza mai spostarmi. Non ho mai lavorato così tante ore in
vita mia e a volte dico che per farlo dovevo essere costretto. A parte gli
scherzi, è uno stato di restrizione che può non pesare affatto se si è
abituati da sempre a vivere in modo regolare, nel mio caso per il momento, e
dico per il momento perché è poco più di un mese, sta servendo a farmi vivere
più regolarmente, a uscire di casa solo per andare a lavorare e rientrare la
sera. Rispetto al carcere ho sicuramente meno tempo per pensare, ma nei momenti
in cui lo faccio il pensiero è sempre rivolto alla famiglia prima di tutto.
Rifletto spesso su quanto in passato ho dato meno valore a ciò che ho, a quante
volte ho risposto frettolosamente perché dovevo scappare o ero preso da altri
interessi. Non dico di essermi trasformato, però su alcuni aspetti ci sto
pensando molto, forse anche perché so che non serve commettere un reato per
tornare in carcere a finire di scontare la pena, basta un piccolo errore, il
mancato rispetto di una delle regole previste nel mio programma, e questo mi
porta a rigare ancora più dritto, che poi per moltissima gente è la normalità.
Mi rendo anche conto che forse è solo l’inizio, ma che rispetto a ciò che ho
passato bisogna essere piuttosto certi di non voler più commettere certi
sbagli. Trovandomi in questa situazione e dovendo rispettare certe regole, è
come se mi si fosse aperta una finestra su un mondo diverso, e mi accorgo che
nella vita c’è altro, che si può e si dovrebbe almeno provare ad andare
oltre, che nonostante le difficoltà comunque vale la pena di provarci. Dico
cosi perché in determinati contesti regna l’egoismo, l’ipocrisia
soprattutto quando in ballo ci sono gli interessi e la libertà. Un
primitivo che guarda una posata di ferro o un bicchiere di vetro come una
scoperta Io
adesso mi rendo conto del tempo passato lontano dai miei cari. Mi rendo conto di
quante cose nella vita normale si fanno in un giorno, e che i miei figli tutte
queste cose le hanno fatte da soli: i compiti, lo sport, la scuola, come se
tutto fosse appunto normale e invece mancava a loro sempre il papà, una
mancanza che è sicuramente più forte di quella che io ho provato per loro.
Adesso che riesco a stare di nuovo con loro a volte anche tutto il giorno, mi
rendo conto di quanto sia veramente deprimente durante una carcerazione dover
vedere i propri figli in una sala colloqui, di quanto non serva assolutamente a
mantenere i rapporti, è solo il minimo che non ti permette di migliorare quasi
niente. Ora il rapporto con la mia famiglia è tornato alla normalità e i miei
figli sono molto più sereni. Stare con loro mi fa capire quante altre
soddisfazioni ci sono nella vita oltre ai soldi e quanto io sono importante per
loro. La mia impressione dopo essere uscito, nonostante durante il percorso in
carcere abbia usufruito di permessi premio, è di essere stato catapultato
violentemente nel mondo di prima. Mi sono ritrovato definitivamente a casa,
riprendendo pure a lavorare dopo alcuni anni. Però all’inizio la differenza
è tanta e direi che è in meglio. Questo ti fa capire in che modo si vive
dentro, quante piccole privazioni ci sono, quali accorgimenti devi prendere per
far sì che la convivenza con un compagno di stanza sia tranquilla. Ad esempio
il modo in cui si deve cucinare, con un fornelletto a gas nel bagno, tanti
prodotti forse pure stupidi ma che quando puoi mangi con piacere, e invece in
carcere non vedi mai, le posate e i bicchieri di plastica. Sono tutte cose
queste del mangiare, delle posate o delle possibilità che si hanno dentro di
vedere la famiglia, che se venissero migliorate non rendono certo un uomo
libero, potrebbero solo migliorare la condizione di chi vive in carcere e
aiutare a non estraniare troppo una persona dal mondo reale, a non renderla un
essere primitivo che guarda una posata di ferro o un bicchiere di vetro come se
fossero una scoperta. Un’altra
cosa di cui mi sono accorto uscendo è che le persone che incontri dopo tanto
tempo rimangono più impressionate di te. Sembra come se dovessi raccontare
chissà che cosa, come se fossi uno che torna reduce da qualche guerra. Quando
poi racconti qualcosa la gente che ti ascolta rimane a bocca aperta, a
dimostrazione che di carcere al di fuori delle mura ne sa pochissimo o niente la
maggior parte delle persone. Io solo uscendo mi sono reso conto che è passato
parecchio tempo, me ne sono accorto vedendo più che altro i figli di qualche
amico o cliente molto cresciuti, oppure i negozi nuovi o quelli vecchi chiusi.
Ti accorgi che il mondo fuori si muove, le cose cambiano, mentre dentro no, le
giornate sono tutte uguali o quasi, e sembra come se venissi ibernato. Se trovi
delle persone lungo il percorso in carcere con cui confrontarti, o hai qualcuno
caro per cui vale la pena riflettere e provare a migliorare, forse dalla
detenzione puoi ricavarne qualcosa di positivo, altrimenti c’è il rischio di
uscire e avere la sensazione che dal giorno prima dell’arresto a oggi non sia
successo niente, tutto è come prima, te per primo. Oggi come oggi non posso
davvero lamentarmi, perché sono riuscito ad ottenere qualcosa, e già solo
questo basta per ritenersi fortunati, visto che, al contrario di quanto si
pensa, non è affatto scontato usufruire di misure alternative. L’unica cosa
di cui mi piacerebbe lamentarmi, ma che so che non posso assolutamente fare, è
con i carabinieri: sanno che esco alle sei di mattina e che rientro alle nove di
sera, dopo una giornata di lavoro, e sanno che in casa ci sono due bambini
piccoli, e però puntualmente effettuano i controlli alle quattro di mattina. Ma
comunque anche nei momenti più difficili, è meglio ricordare dove si stava
fino a poco tempo fa. E
ora che potrei farlo, ho paura di non riuscire a entrare con delicatezza nella
sua vita, perché non sono mai stato una persona delicata di Dritan Iberisha L’estate
scorsa mia figlia da pochi mesi aveva compiuto 18 anni. Un giorno al telefono mi
ha chiesto improvvisamente: “Ma adesso papà io posso venire in carcere a
trovarti da sola?”. Io sono rimasto un po’ così, poi le ho detto “No, no!
Come da sola? Perché? No!”. E lei mi ha risposto “Come perché? Io ho
diciotto anni adesso, quindi posso venire”. Io ho preso tempo, e le ho detto
che ne avremmo riparlato dopo, perché non sapevo cosa dire. Ma la verità è
che io dicevo “No, ne parliamo dopo”, perché ho avuto paura.
Ho avuto paura, perché io mia figlia non l’ho mai incontrata da sola,
in tutta la sua vita. Era piccolissima quando mi hanno arrestato, così ho
pensato “Ma come faccio a parlarle quando ci troveremo io e lei, uno di fronte
all’altra, da soli dopo tutti questi anni?”. E questa è la mia grande
paura. Quando manchi da tanti anni è difficile, io tra un po’ tornerò, finirò
la pena, ma ho paura che tornando potrei rovinarle la vita; lei è abituata a
vivere da sola con la madre, e con un padre in carcere da tanti anni, assente.
Certo, loro dicono che mi vogliono bene, mi chiamano padre e marito. Ho nipoti e
nipotine che non ho mai visto e che mi chiamano zio, ma io ogni volta che sento
le parole padre, marito, zio, mi sento una persona inutile, perché non ho mai
svolto concretamente né il ruolo di padre, né di marito, né di zio, e queste
bellissime parole uno le deve meritare, e io cosa ho fatto per meritarmele?
Niente, anzi ho lasciato la famiglia della vittima senza un figlio, mia figlia
per 16 anni senza un padre, mia moglie senza marito.
Ecco perché io so che posso rovinare la vita di mia figlia, perché lei
è cresciuta senza usare la parola “papà” e se la usava, la usava una volta
alla settimana nella telefonata di 10 minuti, o nelle sale dei colloqui visivi
ogni 5-6 mesi, perché le possibilità che loro avevano di venire a trovarmi
erano queste. Adesso che esco mi devono conoscere ed abituarsi alla mia presenza
di nuovo, io non lo so se l’idea che loro hanno di me corrisponde a quello che
sono io, so che nutro la speranza di poter ricominciare una vita insieme nella
stessa casa, ma ho anche molte paure. Ho paura di non riuscire a entrare con
delicatezza nella loro vita perché non sono mai stato una persona delicata.
Devo cercare di non avere fretta di recuperare il tempo perduto (ma come si fa a
recuperare il tempo perduto? Secondo me è impossibile), ma devo allo stesso
tempo cercare di essere loro utile per il futuro. Sono così orgoglioso di come
è cresciuta mia figlia, di che donna sta diventando (e faccio anche fatica a
pensare che adesso è una donna e non una bambina). Non smetto mai nella mia
mente di pensare a ringraziare anche mia moglie, che per molti anni ha cresciuto
mia figlia da sola. Se sono così orgoglioso per mia figlia lo debbo proprio a
lei, che oltre a crescere “la mia bambina” ora donna, per molti anni mi ha
seguito nelle numerose carceri dove sono stato, entrando ed uscendovi per fare i
colloqui familiari con me, portandomi sempre mia figlia senza mai perdersi
d’animo e senza un momento di cedimento (o almeno cercava di non farmi vedere
i momenti di scoraggiamento per non farmi pesare la situazione…).
I colloqui con loro e il pensiero di avere comunque ancora una famiglia
sono stati quello che mi ha tenuto in contatto con la vita anche nei momenti più
duri, dove tutto mi sembrava buio e infinitamente faticoso. Ora si tratterà di
rinsaldare questo forte legame, con pazienza soprattutto da parte mia, tenendomi
bene a mente che il tempo passato “non torna più” e che bisogna sempre
avere la forza di ricominciare comunque e ovunque.
Questi ultimi anni di carcerazione mi sono serviti per capire tante cose,
per guardare il mondo in un’altra maniera, dico ultimi anni perché nei primi
anni passati in carcere non ho fatto niente, se non combinare guai e andare
avanti con la testa vuota, invece negli ultimi cinque anni, da quando faccio
parte della redazione di Ristretti Orizzonti, la mia vita carceraria è cambiata
(c’è voluto un po’, ma ha funzionato). Mi hanno aiutato tanto le
discussioni che ogni pomeriggio dal lunedì al venerdì intorno a un tavolo noi
detenuti facciamo, i preziosi e faticosi incontri scuole/carcere che le
primissime volte consideravo quasi inutili, e così ho fatto un mio bel pezzo di
strada, durato anni qui in redazione, e che continuerà ancora per qualche anno.
Certo è stata anche l’occasione per incontrare persone “civili” libere,
che mi hanno, anche solo per attimi, fatto vedere l’esistenza di un altro
mondo che non fosse solo carcere e prepotenza. La
cosa è interessante perché quell’amico
è in carcere, e può
telefonare liberamente ai fissi
e ai cellulari, agli amici, ai parenti, a tutti di Antonio Floris Durante
l’ultimo permesso un giorno mi è squillato il telefonino. Alla parola
“pronto….” ha risposto una voce che diceva “sono Paolo”. “Paolo chi?
“ ho chiesto io. “Paolo il portoghese”. Paolo il portoghese è tale Paolo
Vicente Barata, detenuto fino al mese di ottobre scorso qui, nel carcere Due
Palazzi di Padova e poi trasferito in Portogallo per finire di scontare il
residuo della pena nel suo Paese di origine. Con questo Paolo siamo stati in
cella assieme per quasi due anni, durante i quali è capitato spesso di fare
delle considerazioni su come si vive nelle carceri degli altri stati e sulle
differenze che ci potevano essere tra le carceri italiane e le altre
dell’Unione Europea, e del Portogallo in particolare. A sentire lui tra le
tante differenze tra le carceri del Portogallo e quelle dell’Italia c’era
quella che da lì un detenuto può telefonare quando vuole e a chi vuole, per di
più senza limiti di tempo. La cosa a sentirla dire così mi pareva
inverosimile, in quanto qui in Italia il sistema delle telefonate è molto,
molto diverso. Per chi non lo
sapesse nelle carceri italiane le telefonate funzionano in questa maniera:
se uno è condannato per reati particolarmente gravi, tipo associazione
di stampo mafioso, riduzione in schiavitù ecc. (i cosiddetti reati ostativi
indicati nell’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario) può fare solo due
telefonate al mese per la durata di dieci minuti ciascuna. Tali telefonate
possono essere fatte solo su apparecchi fissi intestati a familiari stretti. In
casi particolari la telefonata può essere autorizzata anche su apparecchi
mobili. Inoltre le telefonate sono sempre ascoltate e registrate. Se uno invece
è condannato per reati cosiddetti comuni, il numero delle telefonate è di una
a settimana, sempre per la durata di 10 minuti, sempre su apparecchio fisso
intestato a familiari stretti (con rare eccezioni sui cellulari) e anche in tal
caso esse sono ascoltate e registrate. Quando
Paolo Barata stava ancora qui in Italia, io già cominciavo ad uscire in
permesso e durante i permessi è consentito telefonare dove uno vuole, anche
facendo uso del telefonino. Lui sapendo che io avevo un telefonino e sapendo
anche che da un giorno all’altro poteva essere trasferito in Portogallo, mi
chiese il numero dicendo che una volta arrivato lì mi avrebbe telefonato
(naturalmente nei giorni nei quali io ero fuori in permesso). Così successe che
dopo arrivato in Portogallo mi scrisse per farmi avere sue notizie. Io gli
risposi e tra le altre cose gli dissi anche in quali giorni sarei stato fuori in
permesso. Così è successo che ho ricevuto la sua telefonata. Sentendo la sua
voce al telefono la prima cosa che mi è venuta in mente di dire è stata:
“Quando sei uscito?”. La risposta è stata che non era affatto uscito e che
la telefonata la stava facendo dal carcere di Lisbona, visto che da lì poteva
telefonare tutti i giorni e a chi voleva. Una cosa questa in Italia, almeno per
il momento, inconcepibile. La
domanda che viene da farsi allora è questa: se in Portogallo, e non solo in
Portogallo ma in tanti altri stati d’Europa, le telefonate sono libere perché
in Italia non lo devono essere? Perché il tutto si riduce a un massimo di 10
minuti a settimana? La motivazione
principale di tale restrizione starebbe nel fatto che il telefono può essere
usato anche al fine di commettere dei reati, trasmettendo dei messaggi a qualche
ipotetico complice che vive fuori libero. Ma che genere di reati potrebbe
commettere uno per telefono? Tutti i detenuti, anche i più sprovveduti, sanno
bene che le telefonate sono ascoltate e registrate e sapendo che è così chi
sarebbe così ingenuo da rischiare di dire per telefono cose illecite?
Tantissime persone sono finite in carcere proprio a causa di intercettazioni
telefoniche e quindi bisognerebbe essere dei folli per ricadere ancora negli
stessi errori. Poi, ammesso e non concesso che uno sia davvero così folle,
sarebbe semplicissimo per coloro che ascoltano (la Polizia Penitenziaria)
informare tempestivamente le Procure e prevenire la commissione dei reati. Ci
sono tanti buoni motivi per liberalizzare le
telefonate A
veder bene, i motivi della limitazione delle telefonate a soli 10 minuti a
settimana non sono tanto validi. Ci sono invece tanti buoni motivi per
liberalizzarle. Ora come ora nelle telefonate che durano appena dieci minuti
malamente si riesce a salutare e a chiedere come stai che il tempo è già
passato e per poter ritelefonare bisogna aspettare un’altra settimana, o in
certi casi 15 giorni. C’è poi da tenere in conto il particolare che tanti
detenuti non fanno mai colloqui visivi (vedi il caso di tantissimi stranieri)
oppure ne fanno pochissimi, perché magari le loro famiglie vivono in posti
lontani centinaia di chilometri dal carcere e hanno pochi mezzi economici.
Questi detenuti si trovano penalizzati rispetto agli altri che fanno i colloqui
tutte le settimane. Se loro non possono tenere i contatti con i loro familiari
attraverso i colloqui, si dovrebbe sopperire a questa carenza almeno permettendo
loro di telefonare con frequenza maggiore di una volta a settimana e oltre il
limite dei 10 minuti. Le telefonate tra l’altro sono a carico di chi le fa e
quindi a costo zero per l’amministrazione. Chi non è stato mai in carcere non
può capire quanto importante possa essere una telefonata in certi casi. Quando
uno ad esempio è abbattuto o depresso per una infinità di ragioni, o perché
quel giorno non ha fatto colloquio e non sa cosa può essere successo, o perché
magari aspettava qualche lettera che poi non è arrivata, o peggio ancora perché
sa che a casa sua qualcuno sta male e non ha notizie, una semplice telefonata e
il sentire una voce amica dall’altro capo della linea lo può aiutare e non
poco a superare quel momento difficile. Tanti
disgraziati che si sono suicidati forse non lo avrebbero neanche fatto se nel
momento così buio nel quale hanno compiuto l’atto estremo che li ha portati
al suicidio avessero avuto la possibilità solo di alzare la cornetta e sentire
dall’altro capo una voce amica che diceva parole di conforto.
Un’altra cosa che non viene presa per niente in considerazione è che
si pensa che le telefonate riguardino solo il detenuto senza pensare mai ai suoi
familiari. I familiari che non hanno nessuna colpa devono soffrire pure loro di
queste restrizioni. A un bambino non può che fare un gran bene il sentire la
voce del padre detenuto o della madre detenuta, due, tre volte la settimana o
magari anche tutti i giorni. Così come può far bene a una madre sentire la
voce del figlio o a una moglie sentire la voce del marito. È l’Ordinamento
stesso alla fine che raccomanda che una particolare cura deve essere dedicata al
mantenimento e al rafforzamento dei legami familiari.
Se tutto ciò avviene nella maggior parte degli stati dell’Europa,
perché in Italia no? Il
carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere Studenti
indisciplinati diventano“socialmente utili” Un
progetto per trasformare la sospensione dalle lezioni per motivi disciplinari in
un’attività che il ragazzo sospeso deve svolgere in una associazione di
volontariato Quando
si chiede a un detenuto se ritiene la sua pena giusta, la risposta è più o
meno sempre la stessa: il vero problema non sono gli anni di galera, ma come uno
li sconta, che senso riesce a dare alla sua pena, se vive la carcerazione
riuscendo a trovare qualcosa di utile nelle sue giornate. Di recente sui
giornali si è parlato di un progetto, messo a punto dal Centro di Servizio per
il volontariato insieme all’Ufficio scolastico provinciale e alla Provincia di
Padova, che prevede tra l’altro di trasformare la sospensione dalle lezioni
per motivi disciplinari in un’attività che il ragazzo sospeso deve svolgere
in una associazione di volontariato. I
detenuti ne hanno discusso con la sensazione che quella “pena” abbia davvero
più senso della pura punizione, così come per tanti reati non gravissimi
avrebbe più senso, anche per gli adulti, usare di più i lavori socialmente
utili o altre modalità per “mettere alla prova” l’autore di reato invece
di cacciarlo semplicemente in carcere. Un modo, tra l’altro, per far capire a
ragazzi, ma anche ad adulti che con i loro comportamenti non hanno saputo
rispettare gli altri, che lavorare gratuitamente in ambito sociale insegna a
pensare un po’ meno a se stessi, a confrontarsi anche con la sofferenza e ad
appassionarsi a un mondo, quello del volontariato, che ti può davvero rendere
la vita meno noiosa. Quelle che seguono sono alcune riflessioni di persone
detenute che hanno provato a immedesimarsi nella condizione di studenti che
hanno trasgredito alle regole. di
Qamar e Miguel Qualche
giorno fa, scorrendo le pagine di un quotidiano locale, ci siamo imbattuti in un
articolo che ha attirato la nostra attenzione e che ci ha spinti a riflettere su
un tema che riguarda la disciplina nelle scuole e le punizioni che vengono
adottate per gli studenti che non la rispettano. L’articolo parlava della
possibilità di applicare agli studenti, puniti con una sanzione disciplinare
per comportamento scorretto, un nuovo tipo di “pena” diverso dalla
sospensione, che oltre a punire svolgesse anche una funzione educativa. Insomma
la stessa funzione che in base all’articolo 27 della Costituzione dovrebbero
svolgere gli istituti penitenziari di questo Paese. Noi,
che sappiamo cosa vuol dire essere puniti pesantemente con tanti anni di
carcere, ci poniamo una domanda: è sempre giusto punire in maniera dura?
Secondo noi certi comportamenti più che puniti andrebbero analizzati caso per
caso, i ragazzi invece di essere esclusi dalla scuola andrebbero stimolati a
seguire le lezioni, responsabilizzati, posti di fronte a delle situazioni che li
facciano riflettere, che li rendano consapevoli che all’interno di una comunità
bisogna imparare a rispettare gli altri. Punire, senza riuscire a dare un senso
alla punizione, non educa e tantomeno rieduca. Se partiamo proprio da quella che
è stata la nostra esperienza, ci sembra che il volontariato sarebbe la miglior
soluzione per i giovani, così loro possono rieducarsi, e possono rendersi conto
dei loro sbagli. Noi siamo venuti in Italia che eravamo ancora giovanissimi, e
nel nostro percorso scolastico qui nel vostro Paese abbiamo avuto anche noi una
sospensione, ma in quegli anni non c’era l’attività di volontariato, ci
mandavano a casa senza rendersi conto che lì, da soli perché i nostri genitori
lavoravano, potevamo fare quello che volevamo. Vedendo le attività di
volontariato nelle quali possono impegnarsi ora gli studenti ne ricaviamo una
buona impressione, così ci sembra che i ragazzi possano capire la loro
responssabilità. Quanto alla nostra esperienza carceraria, per noi che siamo
entrati in giovane età in carcere, quello che abbiamo capito è che non sempre
punire con la galera è una soluzione sensata, perché le carceri italiane sono
sovraffollate, e in questa situazione nessuno ti dà la possibilità di
rieducarti, di cambiare, di imparare qualcosa, di crescere davvero. Come
evitare che il carcere diventi un trampolino di lancio per vivere
nell’illegalità di
Luigi Guida Io,
che sono stato fin da ragazzo “un soggetto difficile”, mi sono subito
incuriosito alla notizia che in alcune scuole di Padova si sta adottando un
criterio diverso di punizione per i soggetti più indisciplinati, tramutando la
classica sospensione dalla scuola in lavori di volontariato, lavori
“socialmente utili”. Si è rovesciato il criterio con cui trattare i
ragazzi, un po’ come dovrebbe succedere, secondo la Costituzione, anche in
carcere: da punitivo a rieducativo. Facendo una riflessione sulla mia esperienza
personale credo che un provvedimento del genere sia più utile per rieducare un
ragazzo, che magari durante il giorno lavora o va a scuola e nel tempo libero
deve dedicarsi al volontariato, riflettendo così sicuramente sui comportamenti
che lo hanno portato a non poter trascorrere quel tempo con i suoi amici. Credo
invece che l’allontanamento per alcuni giorni dalla scuola possa diventare per
lo studente addirittura un “premio”, come accadeva con me quando venivo
sospeso, e passavo le intere giornate a non fare nulla, o giocando al computer.
Il risultato era quello di non aver speso nemmeno un minuto di quel tempo a
riflettere sul perché fossi stato allontanato dalla scuola, senza peraltro
neppure rendermi conto di non aver elaborato il senso della punizione
ricevuta.Ho vissuto la mia prima esperienza con il carcere minorile per un
piccolo reato proprio mentre ero al secondo anno di liceo, penso che se invece
di chiudermi in carcere mi avessero fatto svolgere un lavoro di pubblica utilità
non avrei abbandonato gli studi, e forse non sarei diventato una persona
peggiore di quella che ero prima di varcare la soglia del carcere minorile. Dico
questo perché quel tipo di esperienza per un minore, che quasi sempre è poco
cosciente dei suoi errori, non lo renderà una persona migliore, anzi io sono
uscito con una carica di aggressività che non avevo mai avuto prima, senza
trovare più nessuna motivazione per continuare a studiare, e così mi sono
allontanato dall’ambiente scolastico e mi sono rifugiato in quello
dell’illegalità, che si era radicato in me dopo quell’esperienza. Noi,
all’interno della redazione, molto spesso ci confrontiamo su questi temi, sul
senso della pena e su come abbiamo vissuto la carcerazione, soprattutto quelli
di noi che hanno cominciato a entrare in carcere da ragazzi. Agli studenti che
partecipano al progetto di confronto fra la scuola e il carcere cerchiamo di
spiegare che la pena non dovrebbe essere semplicemente punitiva, ma dovrebbe
tendere a far riflettere sugli errori che hanno portato a commettere il reato,
e il carcere non deve essere il primo rimedio, ma l’ultimo, almeno per quelle
persone che fanno piccoli reati e in particolar modo per i ragazzi minorenni. Se
si permettesse loro di svolgere lavori di pubblica utilità, si riuscirebbe
forse ad evitare che l’esperienza carceraria diventi un trampolino di lancio
per vivere nell’illegalità, come è avvenuto per me. La
soluzione comunque non è mai La Punizione Che Incattivisce di
Alan Canzian Ogni
giorno, sfogliando i quotidiani, noi qui dal carcere non possiamo non guardare
con ansia al problema dei ragazzi che incominciano a violare le regole in una età
giovanissima. È per questo che organizziamo un progetto che ha come scopo
principale quello di parlare con gli studenti. È un progetto importante non
solo per i giovani, ma anche per noi, che ci apriamo a loro parlando del perché
uno finisca in carcere, e non è facile tirare fuori quei momenti del nostro
passato che più ci fanno male, però noi siamo convinti che ai ragazzi i nostri
racconti portino il beneficio di vedere concretamente le conseguenze di certi
comportamenti a rischio. Noi prima di essere detenuti siamo padri e facciamo non
poca fatica a metterci davanti a loro e a portare la nostra testimonianza.
Appena arrivano con le loro classi sono molto spaesati, non è facile entrare in
un posto come questo: allora cerchiamo di metterli a loro agio, piano piano
incominciano a farci qualche domanda, lì vedi che vogliono capire anche
ascoltando le nostre storie poco felici, e in qualche modo si sentono un po’
partecipi, perché fuori forse hanno un amico che magari ha usato della droga, o
per mostrarsi forte davanti a una ragazza ha tirato fuori un coltellino. Un
ragazzo davvero non dovrebbe conoscere il carcere al primo reato che fa, così
come non dovrebbe essere punito troppo duramente se a scuola non rispetta le
regole, le istituzioni dovrebbero cercare di aiutarlo nel modo più costruttivo
possibile: per esempio se per caso ha danneggiato delle cose, la miglior
punizione è che in qualche modo ripari i danni prodotti, aiutato da una
associazione di volontariato, così che la sua “pena” si trasformi in
qualcosa di utile per la società. Molte associazioni hanno preso a cuore questo
problema e già ci sono i primi sviluppi, speriamo che in futuro tutte le scuole
adottino il metodo dei lavori di pubblica utilità. Noi dal carcere cerchiamo di
far capire che la soluzione comunque non è mai la punizione che incattivisce e
basta, e lo facciamo portando agli studenti la nostra esperienza. Ma
come faccio a raccontare un gesto così tragico ed incredibile? Eppure
è possibile mettere a disposizione dei ragazzi delle scuole la propria
esperienza, anche la più tragica, non per cercare giustificazioni, ma per
aiutarli a capire di Ulderico Galassini Ristretti
Orizzonti l’ho conosciuto in modo superficiale attraverso la rivista che
arrivava nella Casa Circondariale di Rovigo, ma solo perché mi occupavo del
ritiro di alcuni giornali che mi venivano consegnati in quanto responsabile
della biblioteca. Poi sono stato trasferito qui a Padova e dopo quattro mesi
sono stato inserito nella redazione. Pensavo di occuparmi di scrivere alcuni
articoli per la rivista come già facevo sempre a Rovigo per “Prospettiva
Esse”. La grande sorpresa e soddisfazione l’ho avuta quando ho visto tanti
giovani entrare in contatto con noi. Ho ascoltato, ho scrutato i volti, cercato
di analizzare e capire le reazioni dei ragazzi, dei loro insegnanti ma anche dei
detenuti che raccontavano il peggio della loro vita e rispondevano ad ogni tipo
di domanda che gli studenti ponevano. Vedevo il mutare delle espressioni del
viso di chi raccontava, i ritmi e toni di voce, gli sguardi spesso verso il
basso, l’abitudine di cincischiare con qualcosa tra le mani per smorzare le
tensioni, il silenzio di chi ascoltava, rispettando la dignità della persona e
cercando forse di cogliere i punti critici che hanno portato a commettere un
reato e ad essere privati della libertà. Anche i ragazzi mostravano le loro
emozioni, a volte esprimevano imbarazzo nel porre le domande, forse per non
ferire ulteriormente la persona che stava portando la sua testimonianza e che
magari raccontando riproponeva mentalmente il “film” del suo incubo, del
male fatto, non solo a se stesso, ma anche alla propria vittima e ad entrambe le
famiglie coinvolte. Quante domande
mi sono posto, quante volte, alla fine degli incontri con i ragazzi, mi dicevo:
“Domani ci provo anch’io!”. Ma come faccio a raccontare un gesto così
tragico ed incredibile? Come reagiranno al
mio intervento? Ma perché devono credere o ascoltare una storia tanto
incomprensibile anche per me stesso? E tante altre domande, dubbi, paure e
tensione. Un duello con me stesso. Il giorno dopo tornavo giù, ma non mi
esponevo con Ornella, né lei mi forzava; appena i ragazzi si sedevano c’era
la gola che si chiudeva e mi sembrava di avere davanti mio figlio, e questo mi
impediva di proferire parola. Ci
sono voluti alcuni mesi e tante altre riflessioni personali. Ad un certo punto
mi sono chiesto: “Ma se fosse mio figlio a pormi alcune domande e volesse
capire cosa ha determinato in me quell’esplosione, sino ad arrivare ad un
imprevedibile gesto che avrebbe potuto decimare l’intera famiglia, cosa gli
direi? E se questo servisse a lui per riconoscere i limiti che io ho superato e
imparare a fermarsi prima?”. Forse questo ha rimescolato tante cose nel mio
atteggiamento e messo in moto una più approfondita ricerca di quali, secondo
me, potessero essere state le molle che hanno scatenato quel mio gesto tragico,
l’aggressione a mia moglie, a mio figlio, a me stesso, dopo una vita senza mai
un gesto o una parola violenta. Certo che subito dopo il mio risveglio dalla
sala di rianimazione non ho fatto altro che rivedere i momenti del passato e
cogliere quello che forse ha spento il mio cervello, l’ha staccato da quella
che era stata una lunga vita con la mia famiglia. Quante volte sul mio diario
personale ho trascritto emozioni, dolore, amarezza, sconfitta, delusione, paure,
ma mai certezze sul perché l’uomo possa arrivare a tanto, ad azioni
mostruose: una macchina fuori dagli schemi, un automa incontrollabile. Ecco che
allora una mattina ho trovato quella spinta in più che mi ha permesso di
mettermi a disposizione dei ragazzi. Nessuno
di noi si racconta
per chiedere pietà Noi
certo non raccontiamo semplicemente i fatti accaduti come fanno i giornali e le
TV, ma ripercorriamo la nostra vita di prima del reato, non per cercare
giustificazioni, ma solo per far emergere quelli che molto probabilmente sono
stati i momenti in cui abbiamo superato i limiti della legalità e posto in atto
qualcosa di mostruoso. Se solo chi ti ascolta potesse essere spinto così a
riflettere, facendo di questa esperienza un “tesoro”, un archivio di
prevenzione e attenzione al quale ricorrere, per evitare di cadere nelle nostre
stesse situazioni di oggi, questo mi farebbe sentire bene, mi ripagherebbe della
grande difficoltà che incontro nel riportare a galla il mio dramma, che è
anche quello di mio figlio, principalmente di mia moglie e di tutti quelli che
sono collegati al mio gesto terribile. Con questo progetto poi i ragazzi hanno
la possibilità di conoscere anche il carcere nelle sue molteplici
sfaccettature, invece di affidarsi in modo acritico all’informazione dei media
che spesso distorce, non conosce, non usa terminologie appropriate, vuoi per la
superficialità con cui affronta questi temi, vuoi per esigenze commerciali,
perché “tirano” di più le storie raccontate calcando la mano ed esagerando
i toni. Con questo non vogliamo insegnare ai ragazzi che la pena non deve
esserci, ma che deve essere usata per ricomporre quel patto con la società, che
con il reato è stato spezzato. Oggi però la pena e il luogo dove viene
scontata non sono più in grado di assolvere al loro compito, il carcere è un
luogo dove non si rispetta la Costituzione e l’Ordinamento penitenziario ed è
la stessa Comunità Europea che ci sollecita un ritorno alla legalità,
arrivando anche a considerare il trattamento dei detenuti una “tortura”.
Nessuno di noi si racconta per chiedere pietà, né vuole giustificarsi, ma
cerca di insegnare a fermarsi prima di arrivare a scivolare in comportamenti
illegali e a finire per non sentirsi più persone. I
detenuti poi vorrebbero che fosse concesso loro di sentirsi utili, responsabili,
di percepire nella loro carcerazione un po’ di autonomia e considerazione e
non sentirsi solo animali da osservare. Può un animale tenuto sempre in gabbia
o a catena essere docile o è più facile che una volta slegato inizi ad
azzannare il primo che trova sulla sua strada? Non pretendiamo neppure che i
ragazzi cambino la loro idea sulle pene e sul carcere, ma che almeno abbiano
avuto la possibilità di confrontarsi, entrando nel carcere, che sempre più
spesso è posto in un luogo isolato, il meno visibile possibile. Noi
della redazione vorremmo che anche negli altri luoghi di detenzione fossero
attuati progetti come il nostro, un modo civile di far incontrare due realtà
come quelle della scuola e del carcere, ed ampliare la conoscenza di un luogo
dove prima di entrarvi molti hanno pensato: “A me non capiterà mai!”. Certo
che queste nostre realtà esistono perché ci sono dei volontari che credono in
un progetto ed hanno trovato la disponibilità anche di una Direzione che ha
capito che è necessario far dialogare “I buoni con i cattivi”. Anche quando
frequentavo le elementari si scrivevano sulla lavagna i nomi di chi era stato
bravo e chi no; cerchiamo allora di lavorare per far aumentare la colonna dei
buoni, o perché non sia più necessario dividere il mondo in buoni e cattivi. Ma
com’è una giornata in carcere? È
la domanda apparentemente più semplice, questa, in realtà è la più
complicata: perché non c’è niente da raccontare, e perché
è difficile dare un senso alla noia e alla ripetitività della galera In
ogni incontro con le scuole, c’è
sempre uno studente che chiede: “ma com’è la giornata in carcere?”, e
paradossalmente le persone detenute, che magari hanno già risposto a domande
difficili, che andavano a scavare nella loro vita, invece di tirare un sospiro
di sollievo per una domanda così, facile facile, si ritrovano imbarazzati e a
non saper rispondere. È la domanda apparentemente più semplice, questa, in
realtà è la più complicata: perché non c’è niente da raccontare in una
ordinaria giornata di carcere, e perché è difficile dare un senso alla noia e
alla ripetitività della galera, e ancora perché una vita senza la possibilità
di decidere nulla non è una vita che si possa narrare. Un’ordinaria
giornata di carcere “poco rieducativo” Un
carcere dove sono diventato una persona peggiore di quando vi sono entrato di
Luigi Guida Sono
Luigi, ho trent’anni. Le
mie esperienze con il carcere sono partite quando avevo l’età di sedici anni,
già nelle carceri minorili, per ritrovarmi oggi all’età di trenta ad aver
fatto fuori e dentro dal carcere come se fosse diventata la cosa più normale di
questo mondo, ma soprattutto senza aver mai riflettuto sulla gravità dei miei
errori. E così ho collezionato un lungo fine pena, accumulando dal mio primo
reato ad oggi oltre venti anni di carcere, per essere diventato per un buon
periodo una persona peggiore di come ero entrato. In molti istituti addirittura,
nonostante avessi poco più di vent’anni, mi è stato detto da parte degli
operatori che ormai ero una persona irrecuperabile, invece io penso che siano
stati gli stessi anni passati in carcere a farmi diventare come loro mi hanno
definito. Gli ultimi cinque anni li
ho trascorsi tra il carcere di Genova Marassi e Lanciano, devo dire che,
nonostante fossimo chiusi per ventidue ore al giorno, il carcere riservava molte
attività per il recupero del condannato: come cultura la TV, come sport giocare
a carte, o fare qualche flessione chiuso in bagno, perché essendo in otto in
cella era l’unico posto dove evitare il fumo delle sigarette, e come corsi di
formazione e rieducazione c’era la possibilità di incontrare altri detenuti
nel passeggio dell’istituto nell’ora d’aria, questo sì che è il
trattamento previsto dalla nostra Costituzione, voluto dai nostri padri
costituenti per fare diventare una persona migliore di come è entrata in
galera! Le giornate che ho trascorso in carcere negli ultimi anni erano tutte più
o meno così: Ore
7:00 come sveglia c’è un gentile poliziotto che viene ad aprire il blindo, ci
si alza tutti e otto per fare la fila per andare in bagno. Ore
8:00 lo stesso agente che aveva aperto il blindo, accompagnato da altri
colleghi, viene a contarti e a fare la battitura delle sbarre alle finestre, da
cui fuoriescono dei rumori assordanti. Subito dopo passa il carrello del caffè
e del latte, un liquido bianco spesso allungato con l’acqua per far sì che ce
ne sia un po’ in più nei bicchieri, e i detenuti non si lamentino per la poca
quantità che altrimenti gli spetterebbe. Ore
9:00 arriva il primo appuntamento “formativo” della giornata, si scende a
fare l’ora d’aria, tre sezioni con celle da otto, tutti ammucchiati in una
vasca di cemento con alle estremità pezzi di ferri a punta per evitare che ci
salti sopra. Lì si apprendono le novità del carcere, chi entra, chi esce, tra
le discussioni più gettonate c’è quella di riuscire con uno scambio di idee
a trovare il modo di diventare più furbi per non entrare più in un posto così
orribile, ma non perché si pensa di voler ritornare a vivere nella legalità,
viceversa perché ci si illude che alla prossima saremo più furbi nel non farci
beccare, aspettando e sognando quel colpo che sistemi per sempre la tua vita,
senza accorgerti che questi tipi di ragionamenti ormai la vita te la stanno
sottraendo. Ore
10:30 si ritorna in cella e si riprende il resto delle attività culturali,
guardare la TV. Tra i programmi più gettonati tra noi giovani c’è Uomini e
donne o Grande fratello, dove il confronto tra noi è di altissimo livello
culturale, comprende lunghi apprezzamenti sull’aspetto fisico dei personaggi e
tante volte si conclude ricordando qualche esperienza personale avuta con
ragazze, magari che avevano una vaga somiglianza con la ragazza in TV. Ore
11:30 si mangia, ripassa il carrello del vitto, oggi come ieri e per tutto
l’anno ci sarà un menù stabilito, che come primo offre pasta spesso scotta e
poco condita, di secondo quando sei fortunato c’è la carne che non sarà mai
del peso che ti spetta, stabilito da una tabella ministeriale, e sarà piena di
grasso e di qualità scadente, a tal punto che quando la mangi sembra di
masticare un chewingum. Vorresti protestare, ma ti accorgi che è inutile farlo
perché, se lo fai, ti ritrovi con un rapporto disciplinare e in isolamento, per
accorgerti che al tuo rientro in sezione non è cambiato nulla se non il fatto
che tu hai perso quarantacinque giorni di liberazione anticipata dal tuo fine
pena. Tra il confort che trovi in questi luoghi, tante volte ti può capitare
che lo stesso pranzo verrà consumato con persone che in mancanza di sgabelli
sono costrette ad usare il letto per sedersi. Ore
13:00 un nuovo appuntamento formativo, si ritorna tutti all’aria, ovviamente i
temi che si affrontano sono sempre gli stessi, possono al limite cambiare gli
interpreti della discussione. La conseguenza di questo tipo di socializzazione
ti porterà minimo due volte alla settimana a partecipare a delle risse nei
passeggi, dove quasi sempre le motivazioni che portano a gesti del genere sono
futili, conseguenza di una rabbia repressa, accumulata all’interno delle
persone che subiscono questo tipo di trattamento, la classica guerra tra poveri,
che invece di riunire insieme le loro forze e combattere un sistema che non
funziona, magari con una penna per raccontarlo, finiscono per scontrarsi con
altri detenuti che come loro subiscono lo stesso trattamento. Ore
14:30 Si ritorna in cella, si abbandonano i vestiti del giorno per rimettersi la
gloriosa tuta che in questi posti è di una comodità unica. Si inizia a dar
vita a lunghissime partite a carte intorno ad un tavolo, dove per far diventare
meno noiosa la partita ci si aggiunge una scommessa, che prevede che chi perde
lavi i piatti dove ceniamo… dopo pochi minuti verrà interrotta da una nuova
conta fatta dall’agente, che ci fa capire che da lì a breve passerà il
vitto, perché coincidono gli orari delle due attività. Ore
17:00 Passa il carrello della cena, di solito come primo ci sono avanzi di
verdura bollita chiamati minestra, per secondo quasi sempre uno tra questi
alimenti che meritano poco lavoro, formaggio, uova sode, wurstel, la domenica ti
perdi anche il piacere della minestra perchè il vitto di sera non passa, ti sarà
consegnato all’orario di pranzo, uno tra i tre alimenti sopra indicati da
doverti gestire da solo fino alla sera. Ore
19:30 L’ora più attesa dalla maggior parte della popolazione detenuta,
l’ora degli psicofarmaci, lì sì che c’è l’imbarazzo della scelta,
l’amministrazione non bada a spese, purché la persona dorma e non dia
fastidio. Questo tipo di trattamento non permette così ai detenuti di avere la
giusta lucidità per combattere la violazione dei loro diritti, anche quelli più
elementari, ecco allora che le amministrazioni ottengono l’obiettivo di tirare
a campare in attesa che qualcosa cambi. Ore
20:00 Una voce nel silenzio della sezione annuncia un’altra conta ed è la
quarta dall’inizio della giornata. Ore
21:00 Nelle celle si spengono le luci e si inizia a lottare con i propri
pensieri per dormire, sarà forse a causa delle troppe attività culturali e
rieducative che abbiamo svolto durante la giornata se non siamo abbastanza
stanchi da fare un bel sonno profondo? Non
è che per caso il fatto che tante persone che sono state in carcere
ricommettono reati è quasi sempre la conseguenza di avere sperimentato solo
questo tipo di trattamento penitenziario?- Un’ordinaria
giornata di carcere almeno un po’ rieducativo Un
carcere dove invece cerco di diventare una
persona migliore di quando vi sono entrato di
Luigi Guida Ho
descritto in precedenza gli aspetti negativi delle esperienze che ho avuto in
lunghi anni di carcerazione ed ho evidenziato come quel tipo di trattamento non
faccia altro che rendere un detenuto peggiore di come è entrato, con la
conseguenza che quasi sicuramente una volta fuori, dopo aver scontato la sua
pena, ritornerà a vivere nell’illegalità, come è successo spesso a me in
passato. Ora voglio provare a sottolineare la diversità che c’è tra quella
realtà e quella che ho trovato nella Casa di reclusione di Padova, dove da un
anno e mezzo, se pure con fatica, mi è stata data la possibilità di iniziare
quel percorso di rieducazione che qualsiasi carcere dovrebbe predisporre nei
confronti dei detenuti, ma che è sempre più difficile trovare. Ore
7:00 Inizia l’apertura da parte degli agenti del blindo che ti fa capire che
da li a poco ti faranno uscire per partecipare a qualche attività, che nel mio
caso è quella con “Ristretti Orizzonti”, dove tra le tante iniziative e
progetti ho anche la possibilità di scrivere questo tipo di articoli. Ore
8:30 Dopo aver fatto la colazione si scende giù in redazione, dove inizia la
mia giornata formativa (altri detenuti vanno a lavorare o vanno a scuola,
purtroppo per il sovraffollamento una buona metà degli 830 detenuti presenti
non è impegnata in nulla). Fra le molte attività ci sono gli incontri con gli
studenti, un progetto che permette ai ragazzi di conoscere la realtà del
carcere e le persone che ci vivono all’interno, e permette a noi di
raccontarci con mille difficoltà, ma proprio questo continuo confrontarsi
raccontando le proprie esperienze negative ci permette in molti casi di
elaborarle e cambiare idea su molti aspetti della nostra vita passata. Ore
11:30 Si ritorna in sezione, dove viene distribuito il mangiare
dell’amministrazione, che anche qui non sarà mai della quantità prevista
dalla tabella ministeriale, ma almeno la qualità sembra migliore di quella
degli altri istituti che ho citato in precedenza. Ore13:00
Si ritorna in redazione, dove tutti i detenuti intorno ad un tavolo confrontano
le proprie idee e discutono di vari argomenti da trattare, tra essi si trova
anche lo spunto per scrivere articoli che verranno poi inseriti nella nostra
rivista o pubblicati sul quotidiano Il Mattino di Padova. Ore
15:30 Si ritorna in sezione, dove le celle sono aperte, io in attesa della cena
vado a fare un po’ di attività fisica all’aria, che è prevista per chi va
a scuola. Ore17:00
Dopo aver fatto la doccia si inizia a cenare, ma quasi sempre sei obbligato a
cucinare qualcosa sul fornelletto da campeggio, altrimenti il carrello del vitto
dell’amministrazione non basta, perchè anche qui si adotta il metodo di tutte
le altre carceri, passano alimenti già pronti come formaggio, prosciutto e uova
e come primo una minestra che è acqua bollita con avanzi di verdura, ma la
diversità tra gli altri istituti è che qui noi della redazione abbiamo
denunciato le cose che non funzionano per farle migliorare, e l’effetto non è
stato quello di trovarti con un rapporto disciplinare o una denuncia e in
isolamento per farti smettere di esprimere le tue idee, ma c’e stato un
confronto con il direttore. Ore18:00
Le celle sono aperte, quindi si ha la possibilità o di andare in saletta a fare
socialità (giocare a carte, calcetto etc.) o di passeggiare in sezione e fare
due chiacchiere con altri detenuti, dove la differenza con altri istituti è che
tra noi detenuti si parla molto meno degli aspetti che ci hanno portato in
carcere, ma si pensa di più a quando ci verrà data la possibilità di un
reinserimento o l’accesso a qualche beneficio. Ore
19:30 Si ritorna tutti in cella, c’e la chiusura del blindo e io inizio a
scrivere qualche spunto che mi può venire utile per qualche articolo in
redazione, in attesa che inizi un film in prima serata che guardo e poi vado a
dormire. Attualmente
sono a Padova da un anno e mezzo, il risultato di questo tipo di trattamento mi
ha permesso, per la prima volta dopo quasi dieci anni di carcere, di presentare
la richiesta della liberazione anticipata prevista come sconto di pena quando il
detenuto adotta un buon comportamento, e soprattutto ho visto la volontà da
parte degli operatori di iniziare un lavoro con me e nessuno mi ha detto che
sono irrecuperabile nonostante la mia giovane età. Quindi non so dirvi se in
futuro riuscirò a cambiare radicalmente, e a “redimermi” del tutto, ma sono
felice già dei risultati che ho ottenuto fino a questo momento, modificando
alcuni aspetti della mia personalità sia nel modo di pensare che di agire, e
sarebbe una grande vittoria da parte mia, se in questa detenzione riuscissi a
diventare una persona migliore di quella che ero quando sono entrato, e non
peggiore come è sempre accaduto in altre carcerazioni. Oggi,
ieri, l’altro ieri: che differenza fa? di
Ulderico Galassini Oggi,
ieri, l’altro ieri, in carcere è tutto ripetitivo, meccanico, sempre gestito
da altri. Basta pensare al fatto che alla mattina devi attendere un agente della
Polizia penitenziaria che ti apra la prima porta - il blindo - e la seconda che
è un cancello con tante sbarre e pure lui saldamente chiuso a chiave e a più
mandate, non per proteggere un bene prezioso, ma per recludere quello che prima
fuori era un uomo e che, come nel caso mio, all’età di 54 anni, dopo anni
vissuti con obiettivi molto diversi, ora, per il reato commesso, si chiama
detenuto. Quella cella che nella
Casa di reclusione di Padova è stata progettata e costruita per “contenere”
un detenuto, ora ne accoglie quasi sempre tre. E già qui sorgono le prime
difficoltà del gestire “i flussi” o “turni” di movimento, per alzarti,
lavarti, attendere la colazione. Fortunatamente io ho un impegno e quindi non
rischio di rimanere chiuso in cella per più di 20 ore al giorno. Sono inserito
dall’aprile 2010 nella redazione di Ristretti Orizzonti, che cerco di vivere
come se fosse “quasi” il mio ex lavoro e quindi la mia presenza è assidua,
mattino e pomeriggio, partecipo anche con piacere ai tanti incontri con gli
studenti delle scuole che hanno aderito al Progetto Scuola – Carcere. Ma ci
sono detenuti che escono dalla sezione solo per andare all’aria due ore alla
mattina e due il pomeriggio. E la vita quotidiana poi com’è? Faccio alcuni
esempi: a casa sei tu che decidi di farti la doccia come e quando ti pare; in
carcere prima devi chiamare l’agente che ti dovrebbe aprire il cancello, ma se
non viene devi avere la pazienza di attendere e se poi arriva vai nella sala
docce che solitamente anziché avere 5 erogatori (che erano previsti per massimo
25 persone rinchiuse nelle sezioni) magari ne ha solo due che funzionano e in
quelle due ore di tempo a disposizione di 75 persone, tutti dovrebbero riuscire
a lavarsi. Se ti lavi, devi rinunciare alle due ore di “aria” (significa
uscire dalle celle e dalle sezioni per scendere a piano terra, in una zona
all’aperto, ma dove di aperto c’è solo il cielo, perché tu, assieme a
tanti altri ti devi muovere in una specie di vasca di cemento, una piscina, non
tanto grande, ma senza l’acqua). Ma se hai anche bisogno del medico, devi
segnarti il giorno prima ed attendere nella tua cella e sempre in quelle stesse
due ore, ammesso che venga. L’unica cosa libera è il pensiero e nessuno può
punirti nel caso tu sfoghi dentro di te la tua sofferenza o ribellione
soffocata, ma covare rabbia non fa bene a nessuno.
Qui a Padova è un po’ migliorato il servizio telefonate, da quando
hanno introdotto un sistema a schede. Noi abbiamo diritto (se abbiamo i soldi
per farla) a una telefonata alla settimana per un tempo massimo di 10 minuti, ma
in ogni caso devi chiamare per farti aprire e recarti in una stanzetta dove è
collocato l’apparecchio telefonico per parlare con i tuoi familiari, che
devono avere un telefono fisso. Diversamente ci si deve far autorizzare a
chiamare ad un cellulare ma non devi avere avuto, nei 15 giorni precedenti, né
colloqui né altre telefonate. Nel mio caso, essendo mio figlio all’università
mi è stata autorizzata una telefonata al suo cellulare, ma dobbiamo
accontentarci di un’unica chiamata al mese e di soli 10 minuti.
La cosa più difficile è parlare con gli specialisti, psicologi o
psichiatri, per le persone, e sono tante, che hanno la necessità di un percorso
di sostegno maggiore, che di fatto non avviene. Una psicologa ha dichiarato che
può incontrare i detenuti per solo 6 minuti all’anno. Anche questo la dice
lunga sulle condizioni delle carceri e del mancato recupero e rieducazione.
Ogni sera poi senti il rumore delle chiavi che velocemente e
rumorosamente ti chiudono e ti danno proprio il senso di un animale chiuso in
gabbia. Ed allora devi avere la creatività, sempre per chi se lo può
permettere, di trovarti un passatempo, compagni permettendo: scrivere, leggere,
studiare (per chi frequenta le scuole o l’università), perché se ti rifugi
solo nella visione dei programmi televisivi rischi di perdere del tutto il senso
della realtà. Ci sono poi tante persone qui dentro che non hanno alcuna
possibilità di inserimento in attività lavorative organizzate dalle
cooperative o dall’amministrazione (scopino, spesino, portavitto ecc.), che
sono riservate a pochi (nelle carceri solo il 20 per cento dei detenuti lavora),
che non hanno accesso alla scuola, che per far passare le ore si affidano agli
psicofarmaci che ti appiattiscono sul letto e ti fanno dormire. Nessuno va a
stanarli da questa condizione di passività o a provare a coinvolgerli anche
solo in incontri di gruppo, che sempre per il sovraffollamento nessuno ha il
tempo di gestire. Fortunatamente non
è il mio caso. Spazio
libero Un giorno di libertà non-ritrovata Succede
sempre più spesso agli stranieri: dalla galera al CIE di
Elton Kalica Il
primo giorno di libertà Quattordici
anni, tre mesi e nove giorni fa, con la faccia sanguinante di una notte in
caserma e il petto rigonfio dell’orgoglio dei miei vent’anni, attraversavo
il cancello del carcere. Oggi è il mio primo giorno di libertà. Ho finito di
scontare la mia condanna ma mi è stato detto di attendere l’arrivo della
polizia. In piedi, all’ingresso del carcere, ho visto tutti gli operatori che
si recavano nei loro uffici. Qualcuno si è anche fermato a stringermi la mano e
augurarmi buona fortuna. Alla fine, ricevo l’ordine di uscire. Pochi passi e
sento chiudersi dietro le mie spalle il cancello del fine pena. Piove. La
macchina della polizia è coperta di gocce aggrappate che resistono alla sua
forma aerodinamica. È una Alfa Romeo, nuovo modello, almeno per me. Il sedile
posteriore dell’auto è scomodo, ma la guida è rilassata. L’agente al
volante pare non avere tutta la fretta che ostentavano i furgoni blindati
penitenziari durante i trasferimenti. Il mio finestrino si è appannato
velocemente nascondendomi la città bagnata, le strade, i marciapiedi, le
persone, l’odore di questa città. Tutte cose che sogno da anni e che per ora
mi rimangono sconosciute. Ma posso aspettare. La certezza che fra poche ore mi
troverò immerso nel nuovo mondo accantona la mia curiosità: stanotte dormirò
a casa mia. Guardo avanti. Una grossa auto ci precede. Le sue forme accattivanti
catturano la mia attenzione. Il poliziotto alla guida si annoia e decide di
superarla. Ora, di fronte a noi, il posteriore di un’altra grossa cilindrata
dal marchio famoso. Sento svegliarsi il bambino che c’è ancora in me. Vorrei
stringere il suo volante, ma provo paura di non riuscire a controllare i suoi
cavalli. Decido di non guardare più fuori e sprofondo nel sedile posteriore.
Chiudo gli occhi e aspetto in silenzio il mio primo giorno di libertà. Alla
fine arriviamo in questura. Il guidatore fa diverse manovre in un parcheggio
pieno di auto blu. Infine, si ferma di fronte ad una porta di vetro. Scendo.
Prendo le mie due borse e salgo delle scale strette. Mi indicano una panchina in
corridoio. Mi siedo. Due poliziotti in borghese mi invitano a seguirli nella
stanza in fondo. Mi alzo. Uno di loro mi prende la mano e accompagna, uno alla
volta, tutte le dita su un piccolo scanner. Poi ci appoggia i palmi delle mie
mani. Misura la mia altezza, mi scatta una foto. Ritorno a sedermi in corridoio.
Un poliziotto esce fuori da un altro ufficio e mi dice che ci vorrà un po’.
“Ci sono delle procedure da seguire”, spiega, “e devo raccogliere
informazioni”. Cerco di non considerarlo un dramma. Tiro fuori dallo zaino un
libro. È di un autore giapponese, diventato famoso in questi anni, e sembra
scritto bene. Leggo due pagine e delle voci rompono il silenzio. Risate, passi
rumorosi accompagnano l’arrivo di un gruppo di cinque militari. Entrano nella
stanza, di fronte a me. Uno di loro si siede sulla scrivania. Gli altri lo
circondano. Sono tutti giovanissimi. Il poliziotto li raggiunge. Si gira con la
schiena verso di me, e gli comunica qualcosa. Gli sguardi dei militari mi dicono
che sta parlando di me. Un militare si avvicina e con un tono perfino troppo
cortese mi chiede di accomodarmi in uno stanzino vicino. Mi alzo. Mi accorgo che
quella parete di vetro che avevo visto di sfuggita, in realtà era una camera di
sicurezza. Entro. La porta di vetro si chiude piano dietro di me. La stanza mi
accoglie con un’aria soffocante. C’è un odore forte di sporco umano. Lungo
i lati ci sono due panche di cemento attaccate a due muri lisci color crema. Di
fronte, una larga finestra dal vetro blindato si stende fino al soffitto. La
camera di sicurezza dell’ufficio immigrazione è una gabbia di vetro che fa
entrare luce in abbondanza, ma che non fa uscire nemmeno una molecola di puzza.
Mi domando come hanno fatto quelle pareti a catturare così tanto tanfo. Quanti
stranieri hanno trascorso la notte qui per impregnarle in modo così
irrimediabile? Mi
siedo sul cemento. Il romanzo ha tutto ciò che serve per assorbire bene la mia
angoscia: un adolescente con la saggezza di un adulto che scappa di casa e si
rifugia in una biblioteca; la responsabile della biblioteca, una donna che
affascina irrimediabilmente il giovane; una ragazza che si traveste da uomo; un
uomo con l’intelletto di un adolescente che scappa dal luogo di un omicidio e
viaggia in un mondo surreale. Riesco a staccarmi da questa storia tutta
giapponese solo quando la porta di vetro si apre. Mi alzo. Fuori è già buio.
Fisso il pezzo di corridoio vuoto. Sento i passi avvicinarsi, entra Fabio, il
mio professore di diritto, poi amico e ora anche il mio avvocato. Dietro di lui,
Ornella, la direttrice di Ristretti con la quale ho condiviso in questi anni
gioia e dolori. La loro presenza e le loro facce cupe annunciano dolori. Fabio
non riesce a parlare. Ha gli occhi lucidi. Si gira verso Ornella. Lei che è
sempre brava con le parole, ora le cerca con difficoltà. Alla fine Fabio si
compone e fingendosi formale mi dice che ci sono dei problemi, che pertanto non
mi lasceranno andare, che quindi posso dare a loro borse, soldi, telefonino e di
tenermi solo l’indispensabile. Ornella piange. Fabio abbassa la testa e a
denti stretti sussurra: “Mi vergogno di vivere in un Paese che tratta le
persone così… questa è un’ingiustizia… mi dispiace tantissimo”. Cerco
di tranquillizzarli. Non so cosa mi aspetta, ma non mi spavento, e non sono
nemmeno arrabbiato. Quello che doveva essere il mio primo giorno di libertà sta
per finire nella peggiore delle ipotesi, ma mi sento preparato, come se
l’avessi sempre saputo senza mai rendermene conto. Stesso
cancello Sono
sul sedile posteriore di un’altra auto della polizia. Il finestrino appannato
non riesce a nascondere le luci di questa notte bagnata. Ci fermiamo. Un
cancello come quello del carcere si apre. Scendo dall’auto della polizia. Di
fronte una porta blindata di ferro da galera si apre. Anche i muri sono di
cemento da galera. Entro in un locale ampio. Alla mia destra ci sono tre file di
tavoli lunghi con le panchine saldate. Alla mia sinistra un grappolo eterogeneo
di divise. C’è il grigio della guardia di finanza, indossato da un ufficiale
che pare avere il comando. C’è il blu della polizia, due graduati che mi
ordinano di togliermi tutti gli effetti personali. Ci sono quattro militari in
mimetica, ragazzi giovani, e un loro superiore di qualche anno più vecchio.
Vengo perquisito e accompagnato nell’ufficio del magazzino. Il personale del
Centro ha una divisa fosforescente, gialla e verde. In un’altra circostanza li
avrei scambiati per paramedici della croce verde, ma qui è l’uniforme usata
dai membri della cooperativa che gestisce il Centro: ho dedicato un intero
capitolo della mia tesi di laurea ai Centri di identificazione e di espulsione,
e ho imparato qualcosa sulla cooperativa “Misericordia” leggendo i vari
rapporti del Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Una ragazza
dall’accento straniero mi chiede il numero delle scarpe. Un altro ragazzo, con
lo stesso accento balcanico, mi propone una XL. Scopro presto che si riferiva ad
un paio di tute e a una maglietta che mi porta velocemente. Dietro la scrivania,
un uomo dai capelli brizzolati trascrive l’elenco degli effetti personali
ripetendoli a voce alta con un forte dialetto campano. Poi mi gira il foglio.
“Prendiamo in custodia gli oggetti di valore, così non te li rubano”,
precisa. Almeno in galera avevano l’onestà di chiamarlo “sequestro di
oggetti non consentiti”. Firmo. Dietro di me, due medici richiamano la mia
attenzione. Li seguo nella stanza affianco. L’ambulatorio è uguale a quello
del carcere. La dottoressa invece è più cordiale di quella della galera. Mi
visita, mentre il suo collega riempie la prima pagina del mio nuovo diario
clinico. Dopo aver finito di rispondere a tutte le domande, ritorno nella stanza
di prima. Mi spoglio. Consegno tutto quello che possiedo e ricevo un sacco nero
della spazzatura. Guardo dentro con la certezza di chi è già stato in galera.
C’è tutta la fornitura. Stessa
cella Un
militare mi invita ad aspettare vicino ai tavoli. Vado a sedermi. Una donna
dalla divisa della cooperativa si avvicina e mi dice: “I tavoli sono per i
colloqui con gli avvocati”. Dopo un giorno intero nella camera di sicurezza
dell’ufficio stranieri di Padova, non sono nella forma migliore per discutere
con lei sul regolamento del Centro. Intreccio le dita e fisso un punto sul muro,
ignorandola. Sento i suoi occhi addosso per un po’, e poi i suoi passi si
allontanano. Il militare rimane ritto accanto a me. Quindici minuti di silenzio
e arriva un gruppo di tre militari e un finanziere. Ci raggiunge anche la donna
di prima con in mano un mazzo di chiavi. “Prenditi il sacco e andiamo”, mi
ordina mentre guarda le chiavi. Apre una porta che dà all’interno del Centro.
La seguo, io e le cinque divise dietro di me. Attraversiamo una stradina.
Sceglie una chiave e apre un’altra porta che ci conduce in un corridoio lungo.
Lei cammina veloce. Passiamo di fronte ad una grande porta di ferro, dipinto
d’azzurro. “Tu sei stato assegnato al terzo blocco” dice lei proseguendo.
Ci fermiamo di fronte ad una seconda porta di ferro. Lei sceglie una chiave, la
apre. L’interno è buio. Diverse persone ci vengono incontro, guardandomi. “È
arrivato uno nuovo” annuncia lei. Entro dentro senza aspettare il suo ordine.
Gli occupanti si fanno largo per permettermi l’ingresso. Sento il portone
chiudersi dietro le mie spalle. Appoggio il sacco nero per terra. Gli occhi si
abituano subito all’oscurità aiutati dallo schermo di un televisore fissato
in alto. Si tratta di una sala comune. Ci sono quattro tavoli lunghi. Le persone
mi guardano per un po’ poi prendono posto sulle panchine e fissano il
televisore, ignorandomi. In galera sarebbero stati più curiosi, mentre qui un
nuovo giunto non desta interesse. Mi giro alla ricerca di un interruttore per la
luce. Riesco a distinguerlo. Accendo la luce. “Ciao a tutti”, dico
guardandomi intorno. Alcuni si girano a guardarmi. C’è una rappresentanza
molto significativa della popolazione terrestre. Alcuni hanno i tratti somatici
dell’estremo oriente, altri dell’Africa subsahariana e di quella maghrebina.
Ci sono anche due uomini che sembrano essere creoli sudamericani. Poi al tavolo
in angolo tre ragazzi dal biondo caucasico e un uomo dai riccioli mediterranei
continuano a fissare il televisore. Mi guardo intorno per capire dove mi devo
sistemare. A destra e a sinistra ci sono due corridoi piccoli con delle aperture
buie. Di fronte un’altra apertura ampia. Sulla traversa della sua cornice,
legate con dei lacci, due coperte marroni pendono a mo’ di battenti senza
toccare il pavimento bagnato. “Da
dove sei?” sento una voce provenire dal tavolo degli africani. “Albanese”,
rispondo. I due biondi e il riccio si alzano in piedi e si avvicinano, seri. “Dove
ti hanno fermato?”, mi chiede il riccio in albanese. “Vengo
dal carcere”, rispondo. Allunga
la mano. Gliela stringo. Si chiama Kastriot. Gli altri due fanno lo stesso. Uno
si chiama Armand e l’altro Gjovalin. Mi invitano a sedermi al loro tavolo.
Prendiamo posto, salvo Gjovalin che prende il mio sacco nero e sparisce nel
buio. Stessa
branda Mi
siedo sulla panchina. Il televisore proietta sulla mia schiena immagini e suoni.
Appoggio i gomiti sul tavolo. In centro, un portacenere carico di mozziconi e un
pacchetto di Diana. Di fronte, Kastriot e Armand mi guardano in silenzio, senza
nascondere la curiosità di sentirmi raccontare. Anche in galera, quando
arrivava uno nuovo, il suo racconto, altrettanto nuovo, diventava sempre
interessante. Di fronte a quattordici anni di galera da raccontare, la quantità
d’interesse naturalmente diventa direttamente proporzionale. Al tavolo
accanto, le fronti alte e illuminate dai colori in movimento, otto ragazzi
guardano il televisore stringendosi su due panche. La fase di suspense del film
impone un rigoroso silenzio, ma penso con un certo sollievo che annuncia anche
l’avvicinarsi della fine. “Quanti
anni ti sei fatto?”, mi chiede Kastriot. “Quattrodici
anni e tre mesi, circa”, arrotondo io. “Tutti
di fila?”, s’incuriosisce Armand. “Senza
mai mettere piede fuori”, rispondo. “Troppi”,
sentenzia Kastriot. Poi solleva anche lui la fronte e fissa lo schermo del
televisore. Va in atto la scena finale. Mi giro anch’io, appoggio la schiena
sul tavolo e guardo il televisore con la testa altrove. Gjovalin ci raggiunge.
Si siede accanto a me e accende una sigaretta. Guarda anche lui il film, ma
ormai l’eroe è riuscito a uccidere il cattivo e a disinnescare la bomba,
salvando tutti, compreso me. Qualcuno accende la luce. Quasi tutti si alzano e
spariscono nei due corridoi. Mi giro. “Io sono stanco”, confido guardando
Kastriot. “dove si dorme qui?”. “Vieni
con me”, mi ordina Kastriot. Lo seguo per il corridoio di sinistra. Ci sono
delle aperture senza porte. Attraverso la prima distinguo delle docce e dei
lavandini. Il secondo ingresso è di un camerone scuro. I letti ordinati.
Kastriot entra nella camera di fronte, in fondo al corridoio. La
camera è grande. Sulla sinistra, per terra, un materasso coperto accuratamente
con lenzuola e coperta. Di fronte, tre letti, altrettanto ordinati. Rimango
sull’uscio. “Questo qui è il tuo letto”, mi indica quello in mezzo.
“Dopo quattordici anni di carcere non puoi dormire per terra, Gjovalin è il
più giovane, dormirà lui per terra”, spiega. Poi se ne va. Mi spoglio e mi
infilo sotto le lenzuola. Gli occhi cercano il vuoto nel soffitto. Un vuoto
nuovo, ma che c’è sempre stato: fino ad un giorno prima credevo di sapere,
conoscevo il motivo perché ero chiuso e sul soffitto della mia cella leggevo
ogni sera la data del fine pena, sicuro che sarebbe stato il mio primo giorno di
libertà. Tanti progetti, troppi desideri, tutte certezze che ora si nascondono
nel buio di questa nuova galera, mentre scopro di aver guardato sempre il vuoto,
l’illusione di essere abbastanza “grande” da affrontare il mondo, mentre
appena fuori dalla galera ritrovare la libertà è significato entrare in
un’altra galera, leggermente più grande. Il
Gruppo di Discussione di Ristretti La
redazione “si allarga” al resto del carcere, e tenta di trasformare la
galera in un laboratorio dove
avviare un confronto su quei temi caldi della
giustizia e del carcere, che la politica e l’informazione oggi spesso hanno
paura di affrontare A
cura della Redazione Se
dovessimo “salvare” solo una delle tante attività che Ristretti Orizzonti
fa, forse salveremmo proprio la meno “redditizia”, quella che non ci ha dato
vantaggi particolari, né ci ha fatto conoscere all’esterno: le faticose,
estenuanti, rabbiose discussioni intorno al tavolo della redazione.
È per questo che abbiamo pensato di cercare di allargarle, organizzando
un Gruppo di Discussione che almeno due volte al mese (per ora il giovedì dalle
13.30 alle 15.30) si riunisca nella Biblioteca Tommaso Campanella della Casa di
reclusione e coinvolga più soggetti. Chi
vorremmo coinvolgere Persone
detenute delle diverse sezioni, che magari, come succede oggi sempre più di
frequente, non sono impegnate in nessuna attività, ma hanno voglia di tirarsi
fuori dalle sezioni e di far parte di un gruppo di confronto, che per qualcuno
può diventare anche un modo per accedere alla redazione di Ristretti Orizzonti
Docenti e studenti di facoltà che possono avere un interesse ad
approfondire temi attinenti alla Giustizia, alle pene, al carcere (Facoltà di
Sociologia, di Scienze della Formazione, Psicologia, Giurisprudenza), studenti
che hanno fatto o sono interessati a fare un tirocinio nella redazione di
Ristretti o a fare tesi di laurea sul carcere Insegnanti coinvolti nel progetto
scuole/carcere, che da anni lavorano con le loro classi per sviluppare percorsi
sulla legalità e la prevenzione dei comportamenti a rischio I
temi su cui confrontarsi Al
centro del lavoro di questo Gruppo non c’è comunque il carcere, ma la
riflessione su come si arriva a commettere reati, anche perché l’esperienza
con le scuole ci insegna che è questo il percorso di approfondimento più
interessante. Per avvicinare davvero il carcere al mondo esterno bisogna
lavorare ad accorciare la distanza fasulla che l’informazione crea tra chi sta
dentro e il resto della società, e il modo migliore per farlo è riflettere
sulle storie di vita, capire dove le vite deragliano, far percepire a tutti che
dire “a me non capiterà mai” è soltanto un modo di coltivare
un’illusione. Non esistono “I totalmente buoni e gli assolutamente
cattivi”, gli esseri umani sono ben più complessi, anche se spesso si
conoscono poco, a dispetto del fatto che la frase che più incontriamo tra i
ragazzi delle scuole è “Io… conoscendomi”. I
modi del confronto La
discussione può iniziare da una parola, su modello di discussioni già fatte in
redazione per esempio sulla parola “orgoglio”, a partire dal fatto che
all’origine di tanti reati c’è proprio l’orgoglio, o su
“scivolamento”, perché i reati sono più il risultato di un lento
scivolamento in comportamenti sempre meno rispettosi della legge che una scelta
chiara e definita. Oppure si può partire dalla visione di un film, o dalla
lettura di un articolo, o da un testo letterario, o ancora da una canzone, come
abbiamo fatto per la discussione sulla canzone di Giorgio Gaber “I mostri che
abbiamo dentro”. Gli
ospiti Se
si decide di affrontare un tema che richiede un particolare approfondimento, si
possono invitare ospiti che abbiano la competenza per preparare il Gruppo anche
a un lavoro di studio, di lettura di testi, di ricerca. Per esempio il tema del
rapporto tra vittime e autore di reato, che la redazione di Ristretti ha
particolarmente a cuore, sarà uno di quelli più seguiti, a partire proprio dal
confronto con alcune vittime del terrorismo, sul modello dell’incontro
dedicato all’ergastolo che Ristretti Orizzonti ha fatto con Agnese Moro. La
giustizia riparativa sarà in ogni caso uno dei cardini del lavoro del Gruppo di
Discussione, perché è proprio a partire da una idea diversa della Giustizia,
non basata sul concetto che al male si deve rispondere con altrettanto male, ma
sulla riparazione del danno sociale provocato dal reato, che vorremmo proporre
un dibattito sul senso della pena e sul carcere, più che mai urgente nel nostro
Paese. L’informazione Il
tema dell’informazione resta centrale, anche perché l’arretratezza del
dibattito sulle pene nel nostro Paese è legata a una informazione
particolarmente scadente e imprecisa. Nel Gruppo si leggeranno e commenteranno
quegli articoli che spesso contribuiscono a condizionare pesantemente
l’opinione pubblica e si “smonteranno” certe notizie, lavorando sulla
PRECISIONE, la PULIZIA dell’informazione, le REGOLE, proprio in un luogo come
il carcere, dove rispettare le regole è una doppia sfida: con i professionisti
dell’informazione, che spesso le regole, soprattutto sui temi della giustizia
e del carcere, le massacrano tranquillamente, e con se stessi, nel senso che chi
sta in carcere le regole proprio non le ha viste, non le ha accettate, non le ha
mai condivise, e ora è chiamato a farlo più e meglio di chi sta fuori, nel
“mondo libero”. Arrieta
Guevara Miguel, Aslam Abbas Qamar,
Belegu Gentian, Boscarino Vincenzo, Cana Fatjon, Canzian Alain, Cappuzzo
Gianluca, Cavallini Marco, El Ins Mohamed, Filippi Filippo, Floris Antonio,
Frignani Stefano, Galassini Ulderico, Guida Luigi, Iberisha Dritanet, Ismaili
Bardhyl, Kola Pjerin, Kovac Davor, Lazarov Miroslav, Malin Enos, Monzoni Bruno,
Munteanu Igor, Napoli Santo, Pupi Elvin, Salem Rachid, Semolin Oddone, Spahija
Flamur, Tlili Mohamed, Tripodo Mirko, Turci Bruno, Vacaru Gheorghe, Vitali
Serghei Redazione
Giudecca Alessandra,
Cinzia, Elda, Lella, Luminita, Margareth, Mimoza, Nawal, Sandra, Tamara, Tania,
Vanessa Direttore
responsabile Ornella
Favero Segreteria
Redazionale Gabriella
Brugliera, Vanna Chiodarelli, Lucia
Faggion, Silvia Giralucci Ufficio
stampa e Centro studi Andrea
Andriotto, Elton Kalica, Francesca Rapanà, Francesco Morelli,
Paola Marchetti Servizio
abbonamenti Sbobinature Fotografie Realizzazione
grafica e Copertina Responsabile
per cinema e spettacolo Direttore
editoriale Giovanni
Vianello, Associazione di volontariato penitenziario “Il Granello di Senape” Collaboratori Adriana
Bellotti, Angelo Ferrarini, Carlo Lucarelli, Daniele Barosco, Davide Pinardi,
Elisa Nicoletti, Fernanda Grossele, Giovanni Viafora, Giulia, Patrizia, Marco
Rigamo, Mario Salvati, Paolo Moresco, Tino Ginestri, Roberto Rampanelli
Menotti, Germano Vetturini, Cesk Zefi Stampato Tipografia
Veneta di Rizzo Corrado Via
Elia Dalla Costa, 4/6 - tel. 049.8700757 Pubblicazione
registrata del Tribunale di Venezia n° 1315 dell’11 gennaio 1999. Spedizione
in A.P. art.
2 comma 20/C. Legge 662/96 Filiale di Padova |