Studenti
“in visita” al carcere: un momento di scuola vera
Ma
un’opportunità anche per i detenuti, che possono, nel raccontarsi, ritrovare
la loro umanità
Chi passa
nei paraggi della Casa di reclusione Due Palazzi, vede, ormai da anni, ogni
giorno schiere di ragazzi che scendono dagli autobus, che si intruppano
all’ingresso, che vengono accolti da agenti gentili e disponibili: sono gli
studenti delle scuole, di Padova ma anche di altre città venete, che su
iniziativa del Comune di Padova e di Ristretti Orizzonti entrano in carcere a
confrontarsi con i detenuti. Studenti che ti fanno pensare che i giovani sono
molto migliori di quello che tante volte ci mostrano certe trasmissioni
televisive. Ma anche i detenuti, in questi incontri, sono “diversi” dai
soliti stereotipi: non pongono al centro il disagio della loro condizione in
tempi di sovraffollamento, ma accettano piuttosto la fatica di mettere a
disposizione la loro esperienza negativa, perché almeno possa servire a
qualcuno. Lo scambio di riflessioni tra un detenuto, Altin, e una studentessa,
Federica, è un po’ il segno di questo incontro e confronto, che forse torna
utile a tutti: agli studenti che possono vedere da vicino le conseguenze di
certi comportamenti a rischio, ai detenuti che possono, nel raccontarsi,
ritrovare la loro umanità.
Il
confronto con i detenuti è la prevenzione migliore che si possa realizzare
Ciao
Altin,
mi
chiamo Federica e ci siamo conosciuti giovedì 24 febbraio, giorno in cui sono
venuta con la mia classe a visitare il carcere. Molto probabilmente tu non ti
ricordi di me e ti starai chiedendo il perché di questa lettera.
Non
so da dove cominciare, sono tante le cose che vorrei dirti.. Ricordo le tue
parole, e quelle degli altri detenuti, come se le avessi appena ascoltate, mi
hanno colpito molto e soprattutto mi hanno dato l’occasione di riflettere
profondamente. Questa è la prima motivazione per cui sento il desiderio di
mettermi in contatto con te per ringraziarti. Ho ascoltato la tua testimonianza
con molta attenzione, ma forse la cosa più significativa per me è stata il
poter osservare la tua comunicazione non verbale. Le tue parole erano
importanti, così anche le tue mani, che tremavano come la tua voce. Vedevo come
alle volte fissavi un punto fisso, pensando (o meglio cercando) le parole
migliori per poter raccontare la tua storia. Mi è piaciuta la semplicità con
cui hai avuto il coraggio di esporti a noi, ai nostri giudizi. Credo che
difficilmente dimenticherò le parole di uno di voi: “preferiamo avere dei
giudizi, non dei pregiudizi”. Penso che questo valga per tutti, ma soprattutto
per voi.
Credo
di aver fatto una cosa molto importante quel giorno: ho lasciato i pregiudizi
che avevo nei vostri confronti all’interno delle vostre mura, portando fuori
la convinzione di dover conoscere le persone e i fatti prima di poter esprimere
i miei giudizi.
Un’altra
cosa mi è successa mentre uscivo dal carcere: ancora prima di salire in
corriera, tra i mille pensieri, ho chiesto immediatamente alla mia professoressa
di diritto se era possibile mettermi in contatto con qualcuno di voi perché ne
ho sentito subito il desiderio. Credo che due ore siano state davvero poche per
potervi conoscere; ad ogni vostra parola la mia mente si affollava di domande, a
volte scontate ed altre delicate e difficili da porvi.
Ora
credo che ti starai chiedendo perché tra tutti voi ho sentito il desiderio di
mettermi in contatto proprio con te. Voglio provare a spiegartelo per quanto non
sia del tutto chiaro nemmeno a me in quanto è il risultato di un insieme di
emozioni, impressioni e sensazioni che non mi aspettavo di incontrare in quelle
circostanze. Ho visto nei tuoi occhi la speranza e allo stesso tempo la paura,
per un futuro davvero incerto. Io quest’anno sto frequentando la quinta
superiore, quindi a giugno il mio percorso scolastico terminerà. Si aprirà
un’altra fase della mia vita ed inizio a sentire la speranza di un futuro
pieno di soddisfazioni, ma allo stesso provo sento molta paura che i miei
desideri non si realizzino e di fare scelte sbagliate. Ho questo grande timore
per quello che sarà il mio futuro, anche se non è nemmeno paragonabile al tuo.
Devo anche dirti che la sera stessa della visita, appena tornata a casa, mi sono
collegata ad internet per visitare il sito di “Ristretti Orizzonti” e ho
letto con piacere i tuoi articoli. Ho colto la tua consapevolezza di aver
commesso un errore e il tuo credere che sia giusto pagare per ciò che si è
sbagliato. Tra le righe ho letto la voglia che hai di riscattare la tua vita, di
poter dimostrare il tuo cambiamento, di poter tornare libero di compiere le
piccole azioni quotidiane che il carcere nega, come ad esempio l’abbraccio
delle persone a cui vuoi bene. Cose che noi persone libere di poterle fare ogni
giorno, in qualsiasi momento, purtroppo diamo per scontate.
Sono
convinta che queste iniziative di collaborazione con le scuole siano molto
importanti per voi, e vi diano la possibilità di confrontarvi con persone
sempre diverse, ma allo stesso tempo anche l’opportunità di far uscire dal
carcere un’informazione che purtroppo i giornali e i mass-media non riescono a
trasmettere in maniera completamente veritiera, favorendo lo sviluppo di inutili
stereotipi.
Saremmo
potuti stare delle intere giornate sui libri a studiare cos’è un carcere e
tutte le sue leggi, ma credo che non sarebbero state altrettanto efficaci quanto
voi. Sono convinta che la prevenzione migliore che si possa realizzare su noi
giovani sia proprio questa, sicuramente più efficace di mille divieti. Quindi
penso che questi incontri siamo utilissimi per voi ma soprattutto per noi, per
farci prendere consapevolezza che le proprie scelte non riguardano solo noi
stessi ma anche gli altri.
Per
concludere, vorrei dirti cosa ho più apprezzato di te: la tua sincerità e il
tuo coraggio nel cercare di non presentarti per quello che non sei. Penso che tu
sia riuscito a trovare la forza di cambiare, di crescere, e di maturare in un
ambiente non sempre favorevole a questo. Tengo a sottolineare che tutto ciò che
ti ho scritto non vuole affatto essere un giudizio, ma una serie di
considerazioni e pensieri che volevo condividere con te. Ti ringrazio tanto per
quello che sei stato in grado, insieme agli altri detenuti, di trasmettermi con
grande semplicità e umiltà.
L’augurio
più sincero che mi sento ora di farti è quello di non smettere di trovare la
forza e il coraggio di affrontare le situazioni che incontrerai nel tuo
percorso, superando tutti gli ostacoli nella maniera migliore possibile,
cercando la serenità che dovrebbe appartenere a tutti noi uomini.
Un
caro saluto, Federica
Invidio
il tuo futuro che ti aspetta con tutte le esperienze che la libertà ti offre
Ciao
Federica
Ho
ricevuto la tua bellissima lettera e ti assicuro che mi ha fatto molto piacere
riceverla e leggere i sinceri apprezzamenti e giudizi che tu hai voluto
condividere con me. Federica mi scrivevi che io probabilmente non ti conosco, è
vero, ma adesso per lo più conosco i tuoi pensieri che condivido e apprezzo
tantissimo. Questa lettera mi rende felice e orgoglioso per il fatto che la mia
testimonianza ti ha dato l’occasione di riflettere profondamente, nel
giudicare gli altri dal punto di vista del loro vissuto. Questo è proprio ciò
che io e i miei compagni vogliamo trasmettere, come hai sottolineato tu noi
tutti preferiamo i giudizi ai pregiudizi. Mi ha fatto piacere anche sentire da
te che questa esperienza è stata più efficace di mille divieti, e molti
insegnamenti dei libri, per capire cos’è un carcere e tutte le sue leggi, non
sarebbero stati altrettanto efficaci quanto l’incontro con noi. Queste
affermazioni mi rendono più determinato a credere in quello che faccio in
questo progetto con le scuole, cioè che alla fine qualcuno si convincerà che
anche un detenuto può fare qualcosa, se gli sarà chiesto, per gli altri e per
se stesso.
È
vero che in due ore è difficile conoscere tutto del carcere e le cause che
portano le persone nel carcere, ma se veramente una persona vuole capire, fa
come te, che subito dopo sei entrata nel sito di Ristretti Orizzonti e hai letto
tutto ciò che ti incuriosiva su di me e sul carcere. Ho letto nella tua lettera
che avevi voglia di fare tante domande che sono delicate e difficili da porre,
adesso anche io sono curioso di sapere quali siano queste domande cosi delicate,
e se ti fa piacere t’invito a scrivere le tue domande, affinché io e la
redazione si possa in qualche modo risponderti. Federica, quando mi scrivi che
hai visto le mie mani che tremavano come la mia voce… che hai visto nei miei
occhi la speranza e allo stesso tempo la paura di un futuro davvero incerto…
ho capito che non solo tu mi hai ascoltato con tanto trasporto, ma hai anche
riflettuto con grande profondità. Nella tua lettera ci dimostri che sei una
ragazza sensibile, il tuo intuito è davvero notevole nel leggere le apprensioni
che ho, e che sono vere per quanto riguarda l’incertezza del futuro: è
proprio come scrivi tu del tuo futuro, della paura di fare scelte sbagliate. Ed
è giusto che tu abbia timore del futuro perché niente è scontato, quante
volte nella vita si fanno dei progetti che per cause di forza maggiore
imprevedibili, vanno persi.
È
questo pensiero dell’incognita del futuro che mi rende consapevole che non sarà
per niente facile. Per una serie di fattori che tu puoi immaginare, il mio
passato sarà sempre un ostacolo, e bisogna ricordarsi che non sempre le persone
cambiano opinione, niente è scontato. Se tu hai letto le mie testimonianze, ce
n’è una che si intitola “Ho paura di essere costretto ad abbandonare i
sogni che hanno riempito il mio tempo in galera”, dove scrivevo di un amico
che era uscito dal carcere incontrando tante difficoltà. Quell’articolo
esprime un po’ le mie paure e la mia consapevolezza nell’affrontare la vita
per quello che è. L’importante è cercare veramente di dare uno scopo alla
propria vita, trovando quella serenità di cui tu scrivi, che dovrebbe
appartenere a tutti gli uomini.
Adesso
ti saluto con tanta stima e devo confessare che invidio la tua gioventù, il tuo
futuro che ti aspetta con tutte le esperienze che la libertà ti offre, per la
semplice ragione che io tutto questo non l’ho vissuto.
Altin
Io
in due anni non ho spiccicato una parola con gli studenti
di
Andrea B.
Ma
oggi vedo tra di loro un gruppetto di “teste calde”, capelli pettinati con
creste ribelli, sorriso strafottente, battuta sempre pronta e quell’aria di
superiorità e menefreghismo che conosco molto bene: io ero come loro!
Auditorium
del carcere di Padova. Sono seduto su una vecchia sedia sgangherata e in fila,
vicino a me, ci sono i miei compagni di sventura.
Di
fronte a noi una cinquantina di ragazzi di quindici o sedici anni, sono gli
studenti di un istituto professionale di Bassano del Grappa.
È
una situazione strana, quasi paradossale: cosa avranno mai a che fare ladri,
rapinatori, spacciatori e assassini con questi ragazzi?
Si
tratta del “progetto scuole”, l’idea e la speranza è questa: mettere a
disposizione dei ragazzi l’esperienza di vita dei detenuti, dargli modo di
capire che le persone che commettono i reati non sono sempre dei mostri o dei
predestinati. Il superare i limiti, la ricerca della trasgressione, sono
atteggiamenti che si manifestano proprio in quell’età che è la loro, e
spesso evolvono, precipitano, ma è un lento scivolamento di cui all’inizio
nemmeno ci si accorge.
Noi
siamo l’esempio tangibile, la prova provata che il carcere è l’inevitabile
conclusione di una serie di scelte sbagliate, iniziate magari come un gioco, una
bravata da adolescenti, e terminate in un dramma.
Io
mi chiamo Andrea, ho 36 anni e gli ultimi cinque li ho trascorsi da detenuto.
Ne
dovranno trascorrere altri cinque prima che possa tornare una persona libera.
La
mia storia è difficile da raccontare, non ne ho mai parlato.
Sono
quasi due anni che partecipo a questo progetto, vedo i miei compagni che con
fatica raccontano la parte più brutta, più difficile della loro vita e lo
fanno perché credono che, se anche uno solo dei ragazzi si fermerà a
riflettere prima di compiere un gesto che potrebbe rovinargli la vita, sarà una
gran cosa.
Dei
detenuti che si mettono in gioco per fare prevenzione sui reati: è tutto qui il
progetto, per noi non ci sono vantaggi, sconti di pena o trattamenti di favore,
chi se la sente, chi crede sia giusto farlo, lo fa.
Io
in due anni non ho spiccicato una parola ma oggi vedo tra gli studenti un
gruppetto di “teste calde”, capelli pettinati con creste ribelli, sorriso
strafottente, battuta sempre pronta e quell’aria di superiorità e
menefreghismo che conosco molto bene.
Io
ero come loro!
Voglio
dirgli un paio di cose, quegli atteggiamenti mi sono fin troppo familiari, e so
che mi hanno condotto in carcere. Vorrei con tutto il cuore che a loro non
succedesse.
Sto
per parlargli ma mi succede una cosa che non mi sarei mai aspettato: emozione,
paura, imbarazzo, forse tutto insieme, non lo so ma la voce non mi esce.
Non
ci credo, per anni ho rapinato banche, ho impugnato armi, spaventato e intimato
a un sacco di persone di stare ferme, di non muoversi e di consegnarmi il
denaro.
Ora
invece sono qui davanti a dei ragazzini e sono bloccato, un nodo mi stringe la
gola, la voce non esce e la mia spavalderia mi ha abbandonato.
Poi
a un tratto la voce prende a uscire di getto, le parole che escono non sono il
frutto di un pensiero meditato, è più uno sfogo istintivo, e così mi rivolgo
al gruppetto ribelle apostrofando i ragazzi così: “Ascoltatemi testine, io
ero come voi!”.
La
mia uscita cattura subito la loro attenzione, gli racconto di quanto furbo mi
sentissi e di come sia andata invece male la mia vita.
Sto
pagando a caro prezzo i miei atteggiamenti e quel che mi fa più soffrire è che
lo stanno pagando anche le persone che amo.
La
loro unica colpa è di amarmi e di non volermi lasciare da solo, le vittime dei
miei reati non sono solamente le banche e le persone che si trovavano lì, c’è
anche la mia famiglia.
Alla
fine dell’incontro questi ragazzi sono venuti a salutarmi e alcuni di loro mi
hanno scritto.
Non
posso sapere se le mie parole gli faranno cambiare atteggiamento, ma sono sicuro
che, almeno per un attimo, la storia della mia vita sia servita a farli
riflettere.
È
servito anche a me, non ero abituato a parlare e confrontarmi, forse non sono
poi così cattivo, magari un giorno potrò ricominciare ed essere una persona
migliore.
Queste
cose inizio a pensarle ora, ho scoperto che il disagio, se non riesci ad
esternarlo, ti brucia dentro e ti rende solamente peggiore.
Non
sono ancora certo di essere cambiato, non è così facile, ma grazie a questi
ragazzi almeno sono sicuro che ci sto provando.
Qualche
giorno dopo l’incontro raccontato da Andrea, ci è arrivato un messaggio di
un’insegnante dell’Istituto di Bassano del Grappa:
Volevo
dirvi che l’incontro di giovedì è stato molto interessante e come sempre
significativo per i ragazzi e noi insegnanti. A riprova di ciò il pomeriggio
stesso, in cui avevo il ricevimento generale dei genitori, molti di loro mi
hanno riferito che i propri figli avevano parlato in famiglia dell’esperienza,
vissuta come qualcosa che li aveva profondamente colpiti. A tale proposito, devo
dire che l’intervento molto di sfogo e di istinto di Andrea ha colto nel
segno. Noto che esperienze di questo tenore sono tra le poche che riescono a
scalfire l’apatia e l’indifferenza dei ragazzi.
Complimenti
quindi per il vostro progetto. Un caro saluto alle persone che c’erano.
Alessandra
Bianchin,
insegnante Ipsia Scotton di Bassano del Grappa.
Esplorando
il mio passato rielaboro le cose peggiori che mi sono capitate
Ritornando
su certi fatti di cui siamo stati attori, riusciamo a capirne tutte le dinamiche
e a individuare le responsabilità disattese
di
Bruno Turci
Stavo
seduto sulla sedia sistemata nella fila, schierata di fronte agli studenti, e
guardavo i volti di quei ragazzi, così giovani, mi sembrava di avere davanti i
miei nipoti. Era la prima volta che mi sedevo di fronte ai ragazzi delle scuole
superiori che entrano in carcere, qui a Padova, per incontrarsi con noi detenuti
nella redazione di Ristretti Orizzonti. Ero emozionato a vederli entrare in
redazione con quella loro curiosità tipica dell’età, mista al timore della
scoperta, carichi di quell’energia giovanile che rende l’approccio più
facile. Pronti a vivere la loro avventura con il carcere. Anche oggi, spesso, li
osservo per cercare di decifrare nelle loro espressioni la reazione al carcere,
l’impressione che ne ho ricavato è che spesso mi paiono più incuriositi che
impressionati.
Avevo
già incontrato alcune volte gli studenti nelle scuole quando mi trovavo
detenuto a Milano-Opera, ero stato nelle scuole con un gruppo che si occupa dei
ragazzi con problemi di “sconfinamento” in comportamenti a rischio come il
bullismo e l’uso di droghe. Tuttavia, a Milano gli studenti non entravano in
carcere come succede qui a Padova. L’incontro in carcere lo trovo molto
importante per prepararli a misurarsi con la vita. Il carcere aiuta a
identificare le dinamiche da cui guardarsi per stare lontani dai guai: i
giovani, che nella scuola di oggi possono trovarsi il compagno di banco che
compie piccole trasgressioni, se hanno avuto un incontro con noi, sono preparati
anche per dare una mano ai loro compagni che hanno difficoltà a chiedere aiuto.
Ogni
incontro suscita emozioni nuove, è una scoperta ogni volta. Gli studenti hanno
un modo di approcciarsi con noi che è di solito privo di pregiudizi e
soprattutto privo di qualsiasi barriera che definisca la distanza da noi. Questo
forse anche grazie alla nostra disponibilità che li mette a loro agio e li
rende coscienti di uno scambio genuino.
Quello
che mi colpisce ogni volta delle ragazze e dei ragazzi è che loro mi pare che
capiscano tutto di quello che noi gli trasmettiamo, hanno un’enorme capacità
ricettiva. Sanno ascoltare e fanno domande. Loro partecipano prima a un incontro
nelle scuole in cui alcuni detenuti della redazione si recano con un permesso
per confrontarsi con le classi, successivamente la classe che ha incontrato gli
studenti nella scuola a sua volta entra in carcere per incontrare i detenuti
della redazione.
Sono
incontri in cui non si capisce bene se ne beneficiano di più gli studenti o noi
detenuti. So solo che a me fanno molto bene questi scambi, rispondere alle
domande degli studenti mi permette di ritornare su quelle realtà che riguardano
il mondo che mi ha portato qui dentro, per cui esplorando il mio passato mi è
possibile rielaborare le cose peggiori che mi sono capitate. Ritornando su certi
fatti di cui siamo stati attori, riusciamo a capirne tutte le dinamiche e a
individuare le responsabilità disattese.
Io
ho visto crescere la mia responsabilità, ho ritrovato il piacere della
responsabilità attraverso la rielaborazione del concetto di libertà, e la
consapevolezza che non vi è libertà senza responsabilità. La libertà è un
concetto così alto che non lo si può confondere con l’esercizio della libera
scelta, la libertà è anche il senso di appartenenza all’interno di una
condivisione di valori universali con gli altri.
È
un senso di appartenenza che ci consente di riconoscere l’altro e di essere
parte del tutto.
La
libertà è il sogno più grande per un detenuto, ma la libertà che conosco
oggi è molto diversa dalla libertà che apprezzavo nel mio passato, perché in
realtà non ero affatto libero, mi ero rinchiuso in una prigione di cui non
riuscivo a vedere le sbarre alle finestre e le mura di cinta. Non riuscivo a
vederle perché le aveva costruite un demone di cui non conoscevo l’esistenza,
che si occultava abilmente in me. Lo avevo inventato io, senza averne coscienza.
Era una specie di virus, come quelli che sconvolgono i sistemi operativi del
computer.
Oggi
mi sono liberato di quel virus. Questo lo devo anche al volto pulito e alla
splendida energia degli studenti e al confronto che abitualmente si svolge con
loro. Un confronto in cui decidono di mettersi in gioco uomini come noi, che
hanno vissuto esperienze forti nella loro vita e ad un certo punto capiscono che
per superare certe barriere diventa necessario condividere con altri quelle
esperienze, anche profondamente negative, per potersi godere il piacere della
responsabilità, nella libertà di esserci con la testa e il cuore.
Circa
un mese fa c’è stato un incontro con gli studenti a cui hanno partecipato
anche i genitori di alcuni di loro.
Mentre
ci si salutava con i ragazzi e i docenti, alla fine dell’incontro, mi ero
soffermato a scambiare delle opinioni con una signora che pensavo fosse
un’insegnante della classe. La signora mi ha spiegato, invece, che lei era la
madre di una ragazza, una studentessa che si è avvicinata subito dopo, e la
cosa mi ha impressionato molto favorevolmente, tanto più quando ho scoperto che
c’erano altri genitori dei ragazzi che avevano partecipato. Sono stato davvero
contento di questa capacità di un genitore di partecipare alla vita di un
figlio con tanta coscienza. È stata una scoperta. Mi è piaciuto e mi ha
gratificato moltissimo, significa che quei genitori apprezzavano i nostri sforzi
per riuscire a trasmettere ai loro figli qualche esperienza che potrebbe
essergli utile nella vita.
Un giorno, durante un incontro, uno studente ci ha domandato se intendiamo continuare a raccontare le nostre esperienze anche fuori dal carcere, dopo che avremo finito di scontare la pena. Insieme a qualcun altro della redazione ho risposto anch’io, e ho spiegato che il tempo del mio contributo è questo, per quel che riguarda il mettere a disposizione degli altri il peggio della mia vita, e quando sarò tornato fuori, a casa mia, sarà invece il tempo per dare un altro tipo di contributo alla società, trovando un mio ruolo per contribuire a lasciare un mondo migliore a chi verrà dopo di noi.
Oggi
non vado al campo sportivo
Parlare
con i ragazzi delle scuole mi fa sentire davvero libero. Ed è un privilegio per
cui vale la pena sacrificare la partita del martedì, anche se so che ci rimetto
in salute
di
Elton Kalica
Primavera
in galera
A
volte penso che il sole sia particolarmente affezionato alla nostra sezione,
altrimenti non si spiegherebbe come mai ci faccia visita per ben due volte al
giorno, soffermandosi a lungo. In realtà è il corridoio che, avendo alle sue
estremità una finestra orientata verso est e l’altra verso ovest, accoglie
volentieri i raggi solari, e su questo ha tutta la nostra comprensione dato che
anche noi, silenziosi abitanti della sezione “studenti” del carcere,
preferiamo di gran lunga restare in corridoio, approfittando di una concessione
della direzione del carcere che lascia le porte delle celle aperte, dalle otto
del mattino fino alle otto di sera.
In
realtà, la presenza del sole in corridoio non è tanto costante durante
l’inverno. Il freddo invade presto queste parti d’Italia, ed essendo in
pianura la nebbia campeggia trionfante per tutta la stagione. E poi, il sole con
la sua pigrizia invernale usa sollevarsi tardi. E anche nel caso in cui abbia
voglia di estendere i suoi raggi infreddoliti nel nostro corridoio, lo fa quando
ormai noi abbiamo già lasciato la sezione per andare da un’altra parte del
carcere, dove c’è una redazione e facciamo un giornale.
Oggi
fa caldo. L’inverno è scivolato via e noi, all’improvviso, ci siamo
ritrovati con il corridoio illuminato e riscaldato da un sole primaverile
voglioso di abbracciare tutto, compresi noi detenuti. Attirati dal luccicare del
sole sul pavimento, ci siamo avvicinati alla finestra e come trasportati da un
amore collettivo, abbiamo chiuso gli occhi offrendo il viso al tepore di una
mattina di marzo. Poi l’agente ha detto che era l’ora di andare in
redazione.
Dopo
due ore siamo ritornati, ma ormai in corridoio non era rimasto nemmeno un
raggio. L’ambulatorio però era pieno degli stessi raggi solari e, dato che
non c’erano visite mediche, ci siamo infilati dentro, abbiamo aperto la
finestra e siamo stati lì con le facce all’insù in cerca della stessa
sensazione primaverile.
Dopo
il pranzo siamo andati di nuovo in redazione per le due ore pomeridiane, e
quando siamo ritornati in sezione abbiamo ritrovato il sole, ma questa volta
entrava dalla finestra opposta del corridoio, proiettando sul muro e sul
pavimento la solita ombra quadrata delle sbarre. E noi ci siamo affacciati di
nuovo alla finestra, coprendoci di luce a quadrati e guardando il verde lontano,
oltre le mura.
Una
“giornata tipo” in redazione
“Scuole
o passeggi?” chiede l’agente. “Scuole” è il modo di chiamare un’area
del carcere che raccoglie non solo le aule scolastiche, ma anche tutto il resto
delle attività culturali, come la biblioteca, la nostra redazione del giornale
e altri corsi. Invece per passeggi si intende il cubicolo di cemento dove si può
andare per sgranchire le gambe. I cubicoli sono cinque costruiti in fila, e ogni
piano ne ha uno. Il nostro cubicolo è il primo, quindi a ridosso
dell’edificio di cinque piani. Poi le altre aree seguono in una fila che si
allontana sempre di più dall’ombra del carcere. Questo per noi è considerato
una vera sfortuna, poiché abbiamo tre file di finestre sopra la testa e spesso
dalle celle vola giù la spazzatura.
Per
quelli che vanno all’area dei passeggi nelle due ore della mattina, c’è a
disposizione un sole che riesce a scaldare gran parte del quadrato. Però,
all’una e mezza, l’orario in cui ci si potrebbe andare di nuovo e starci
fino alle tre, i raggi del sole cadono solo su un triangolo dell’aria, che si
riduce velocemente, inseguito dall’ombra dell’edificio sovrastante. E a quel
punto ci si ritrova all’ombra, aspettando l’ora del ritorno in cella.
Dico
all’agente “scuole!”, e mi unisco al gruppo dei detenuti che aspettano di
andare ai passeggi. Durante la stagione fredda, la maggior parte preferisce
rimanere in cella, steso al caldo della branda, mentre ora vedo che al richiamo
del bel tempo hanno risposto in tanti. Quando arriviamo al corridoio del
pianoterra le nostre strade si dividono: loro si dirigono verso i passeggi e io
verso la redazione, dove ci aspetta un incontro con una classe di liceali.
In
redazione trovo altri detenuti scesi prima di me dai piani. Cominciamo a
svuotare la stanza delle riunioni per preparare l’incontro. Quindi via i
tavoli lunghi. Giù le sedie. Quattro lunghe file dove potranno sedersi una
dozzina di ragazzi per fila. Di fronte a loro, una linea di sedie per noi, che
pazientemente dovremo rimanere seduti tutto il tempo dell’incontro. Nel
frattempo continuano ad arrivare anche altri compagni, che sono stati fatti
uscire in ritardo dalle celle.
Molti
si salutano, chiacchierano nell’attesa. Ornella, la direttrice del giornale,
invita al silenzio, ma a parte qualcuno che si siede subito, quelli che stavano
discutendo si limitano solo ad abbassare la voce, continuando nella complicità
dei loro sussurri.
“Allora,
mentre aspettiamo, qualcuno prenda il pennarello e scriva le date dei prossimi
incontri”, dice Ornella. Vado alla lavagna e prendo nota: giovedì mattina
Liceo Curiel, venerdì mattina Liceo Marchesi. La settimana si chiude con due
incontri. Poi Ornella continua, “martedì della prossima settimana istituto
Marconi, mercoledì pomeriggio Liceo… lascia stare che stanno arrivando!”,
annuncia smettendo di dettare., e all’improvviso l’ingresso della stanza si
riempie di studenti che entrano esitanti, mentre io vado a prender posto vicino
agli altri detenuti. Pochi minuti e cala il silenzio. Ragazzi e ragazze ci
guardano incuriositi dalle sedie sistemate con ordine. La fila di noi detenuti
è più disordinata. C’è che guarda il vuoto, chi osserva i ragazzi e chi
fissa un punto sul pavimento, nascondendo lo sguardo. Mentre Ornella introduce
l’incontro, io guardo i ragazzi uno per uno, senza fretta. È una tecnica che
utilizzo recentemente per non emozionarmi nel momento in cui dovrò parlare, e
quindi cerco di prendere confidenza con i loro visi e ripeto con la voce della
mente che loro non sono degli sconosciuti, che devo stare calmo, non mi devo
emozionare ma devo parlare piano e senza balbettare.
Una
classe di ragazzi curiosi
I
ragazzi non trovano subito il coraggio di farci delle domande, allora iniziamo a
raccontare le nostre storie. Ulderico racconta la sua vita serena da direttore
di banca, finché non iniziano i problemi in famiglia, per la depressione della
moglie, e poi sul lavoro, e lui comincia ad abusare di psicofarmaci, fino a
perdere il contatto con la realtà, ma soprattutto perdere il controllo di sé,
compiendo un atto tragico. Altin racconta come è nata in lui la pessima
abitudine di portare sempre con sé un coltello, convinto di usarlo solo per
difesa, fino al giorno in cui, durante una rissa, uccide un altro ragazzo, ed
ora da diciassette anni sconta una condanna che di anni ne prevede ventisei.
Filippo racconta i suoi trascorsi di tossicodipendente e i suoi reati che da
trent’anni lo portano dentro e fuori tra carcere, comunità di recupero,
tentativi continui di uscire dalla droga.
Ascoltate
le storie, Ornella invita i ragazzi a fare delle domande, e loro partono: uno
vuole sapere il rapporto di Ulderico con il figlio; una ragazza vuole capire se
ad Altin era mai passato per la testa che quel coltello l’avrebbe usato un
giorno; un altro chiede a Filippo se attualmente si considera uscito dalla
dipendenza. Le risposte sono pesate, chiare, e soddisfano i ragazzi. Poi uno
chiede come immaginiamo il giorno in cui usciremo. Decido di rispondere. Mi
mancano circa otto mesi al fine pena, e la febbre della libertà è già
iniziata da un bel po’. Allora inizio a raccontare la mia storia. Descrivo
come, senza nemmeno rendermi conto, all’età di vent’anni mi sono trovato
con una condanna lunghissima; spiego come in quattordici anni trascorsi qui
dentro, le mie relazioni affettive si sono ridotte a dieci minuti di telefono
settimanali con i miei genitori, e qualche colloquio sporadico con mia madre,
quando riesce ad avere un visto; racconto come il mondo che ho lasciato fuori
era il mondo di un ventenne, con amici ventenni e una ragazza di diciott’anni,
e che il mondo che mi attende sarà un mondo che pretende che io mi comporti da
trentacinquenne, in casa, al lavoro e con gli amici; spiego insomma tutte le
paure che il futuro proietta nella mia testa, che è rimasta lontana dal mondo
terribilmente a lungo.
Sono
contento della domanda poiché credo di aver fornito una fotografia abbastanza
eloquente della galera, e ora possono capire che passare quindici anni in
carcere nulla ha a che fare con l’immaginario eroico che molti film
hollywoodiani spesso creano. D’un tratto, mentre osservo i loro sguardi
attenti, penso che, se mi ascoltasse qualche arrabbiato esponente di partiti che
credono che il carcere dovrebbe essere un luogo dove “marcire” fino alla
fine della pena, manifesterebbe il suo disappunto ricordandomi che comunque sono
stati quindici anni in una cella a cinque stelle, perché qui ho perfino la
televisione e tre pasti caldi. Ma nessuno mi fa questa obiezione e sento
gonfiarmi il cuore dalla gioia di vedere dei ragazzi che mi convincono che le
persone ragionevoli e intelligenti esistono ancora.
La
presenza degli agenti alla porta ci ricorda che le due ore sono terminate. Gli
studenti ci regalano un applauso. Certamente battono le mani in segno di
gratitudine, ma l’applauso non spiega i veri motivi di questa riconoscenza, e
allora ognuno di noi si prende la libertà di dare una sua spiegazione. A me
piace pensare che hanno apprezzato le nostre testimonianze perché sentono di
aver arricchito la loro conoscenza, di aver appreso almeno una cosa importante:
che la galera c’è, esiste, e oggi, come mai prima d’ora, ci vuole davvero
poco per finirci.
Ancora
sole
Torno
in sezione pensando all’incontro. Ho l’impressione di aver visto una bella
classe, attenta, curiosa. Le domande che ci hanno fatto erano ragionate. Si vede
che dietro ci sono degli insegnanti bravi a preparare i propri alunni a
partecipare anche a discussioni difficili.
In
fondo al corridoio, il pavimento lancia un abbagliante riflesso del sole.
Raggiungo la finestra calpestando la macchia scintillante e sollevo il viso
verso il cielo. “Occhio che rischi di prendere un’abbronzatura a
quadrati”, mi dice D. mentre si accende una sigaretta. “Non mi importa”
rispondo io, “sento che ho bisogno di ristabilire un contato con questi
raggi”.
“Ma
perché non andiamo al campo martedì?” mi domando.
“Perché
abbiamo una scuola in redazione”, rispondo io, ma già comincia a prendere
forma l’idea che in fondo potrei pure andarci.
Il
campo sportivo è un campo da calcio dove ogni sezione può andare una volta a
settimana. Il nostro turno sarebbe il martedì, ma l’orario è sempre quello
dei passeggi e delle scuole. Quindi all’una e mezza l’agente chiede
“passeggi, scuole o campo?”, e uno deve decidere a cosa rinunciare. Ho
sempre rinunciato alla partita a pallone, ma questa volta la tentazione è
grande. “Sai che hai ragione... martedì andiamo al campo”, rispondo deciso.
“Non
so perché, ma non ti credo”, mi prende in giro D., che poi mi domanda,
“saranno nove anni che vai in redazione, quante volte sei andato al campo il
martedì?”. Non rispondo. Non ce n’è bisogno. “Comunque voglio vedere se
per una volta rinunci alla redazione, sono pronto a scommettere” mi sfida,
mentre io continuo a guardare il sole, immaginando il giorno in cui non avrò più
i quadrati delle sbarre proiettate sul viso.
Il
martedì: partita di pallone o ancora scuole?
Come
ogni martedì, i più giovani della sezione si preparano per la partita a
pallone. C’è chi si mette delle vere scarpe da calcio. C’è chi ha perfino
i pantaloncini e la maglietta della squadra del cuore. Altri indossano colori
che fanno pensare piuttosto ad una giornata in spiaggia, ma lo spirito è
comune. Diversi sono impegnati lungo il corridoio in scomposte posizioni di
stretching.
“E
allora sei pronto per il campo?” mi chiede D. entrando nella mia cella. Non
rispondo. Sulla branda rimane piegata la mia maglietta a strisce nere e azzurre
dell’Inter. Esco e mi unisco agli altri. “Passeggi, scuole o campo?”, mi
chiede l’agente al cancello. “Lui scuole, io campo”, sento la voce di D.
dietro il mio orecchio.
Arrivato
in redazione, mi accorgo che siamo già una ventina di detenuti. Dietro di me
arrivano due classi. Sono tutti maschi. É una scuola professionale e
l’atteggiamento di molti di loro fa intuire un ambiente “agitato”.
All’introduzione di Ornella appaiono composti. Ascoltano con una certa
attenzione Marco mentre racconta la sua storia di tossicodipendenza, di come ha
iniziato ad usare la droga, di come poi, per riuscire a pagarsela, si è messo a
spacciare, e di come ora, dopo anni di dipendenza e poi di latitanza, stia
pagando non solo con la galera, ma anche con tutti i problemi di salute che
l’utilizzo degli stupefacenti causa a lungo termine. Segue la storia di
Sandro, che racconta la sua idea di “bella vita” da giovane, le rapine in
banca, e poi il carcere, da trent’anni.
Molti
dei ragazzi sono attenti, ma in altri il livello d’attenzione si rivela più
basso, qualcuno chiacchiera. Allora Ornella li invita a fare delle domande. Si
innesca una “consultazione” generale. Molti parlano con il compagno
affianco, si agitano, scivolano nelle sedie per diventare invisibili. “Dai
ragazzi, tirate fuori il coraggio e discutiamo”, dice Ornella, “pensate che
ci sono anche nelle vostre compagnie comportamenti che potrebbero diventare
rischiosi?”. Altre consultazioni, commenti sottovoce, sorrisi complici. La
domanda di Ornella è strategica. Una tecnica che spesso funziona perché i
ragazzi sono portati a dire “non io, ma conosco uno che ha cominciato a fare
questo o a fare quello...” e allora noi abbiamo l’appiglio per intavolare
una discussione su quanto sia rischioso quel particolare comportamento. Ma in
questa classe sembra che nessuno voglia sbilanciarsi. Finché Andrea lancia
alcune frasi che riempiono tutta la sala e attirano l’attenzione di tutti i
presenti. Essendo di queste zone, conosce il gergo che usano i ragazzi da queste
parti dell’Italia, e dopo solo un paio di frasi, come per magia, cala il
silenzio.
Andrea
si rivolge al gruppetto più scatenato di ragazzi guardandoli negli occhi, e gli
racconta che anche lui era esattamente come loro, furbo e strafottente, che
trovava sempre un motivo per ridere e sbeffeggiare tutti in qualsiasi
situazione, ma che ora, qui dentro, ha smesso di fare il furbo. “Accetto le
umiliazioni di tutti i giorni e sto zitto”, dichiara ai ragazzi, “perché
sono costretto a chiedere il permesso per andare in doccia e devo chiedere il
permesso per telefonare a casa, e se l’agente mi dice di no, sto zitto, perché
qui dentro non conviene fare lo strafottente”. Vedo gli studenti che lo
guardano attenti, mentre Andrea continua a spiegare come nemmeno in galera aveva
realizzato veramente di essersi bruciato la gioventù, finché non si è messo
ad ascoltare in redazione i racconti degli altri detenuti, e a riflettere; mi
viene da sorridere perché i ragazzi, quelli che sembravano davvero
incontenibili, ora sono stati disarmati con le loro stesse armi, spogliati di
quell’aria da bulli che avevano fino a pochi minuti fa, e ora ascoltano senza
perdere una parola di questa che è davvero una “lezione di vita”.
Quando
Andrea finisce, vedo sollevarsi diverse mani. Vogliono sapere com’è il primo
impatto col carcere, perché qualcuno finisce per suicidarsi, come sono i
rapporti con la famiglia, se si litiga tra di noi, ed altre domande simili. Sono
entusiasta del loro interessamento, perché so che più si incuriosiscono, più
conoscenze accumulano su questo posto orrendo, maggiore è la speranza che
imparino a starsene alla larga. Io rispondo alla domanda sul rapporto con la
famiglia, e racconto come ci siano voluti due anni per lenire l’ira di mio
padre, che non mi ha mai perdonato ciò che ho fatto, e come l’unica persona
che viene a trovarmi sia mia madre, in media una volta all’anno.
Il
tempo finisce mentre ci sono altre mani alzate e Ornella invita i ragazzi a
mandarci le loro domande per iscritto. Ci salutiamo. La scolaresca se ne va.
Subito dopo, raccogliamo le sedie e rimettiamo i tavoli al centro. Domani ci sarà
riunione di redazione.
Ho
perso la scommessa
Ritorno
in sezione che penso ancora a come Andrea è riuscito a far ragionare i ragazzi.
In corridoio trovo un gran movimento. Tutti si affrettano per cambiarsi ed
andare in doccia. Sono di ritorno dal campo sportivo e non possono correre il
rischio che finisca l’acqua calda mentre sono ancora sudati. La finestra è di
nuovo piena di sole, quindi mi appoggio per ricevere la mia solita dose di
abbronzatura.
“Qualcuno
qui ha perso la scommessa”, sento la voce di D. vicino a me. “Eh, sapevo che
non avresti mollato la redazione”, conclude.
“È
vero!” rispondo, “non riesco ad allontanarmi da quel posto nemmeno per un
giorno”. Penso a quante ore ho trascorso in quella redazione. Mi viene in
mente il primo giorno in cui vi ho messo piede. È stato come innamorarmi.
Venivo fuori da cinque anni di un regime carcerario in cui si poteva uscire
dalla cella solo per andare al cubicolo dei passeggi. Niente scuole o redazione,
niente professori o volontari. Solo partite di carte, discorsi di malavita e
litigi per cose banali, e una guerra continua con gli agenti che mi sembravano
interessati solo a riaffermare il loro potere.
Dopo
solo un paio di giorni in redazione, ho capito subito che si trattava di uno
spazio diverso. E a distanza di nove anni, sono ancora convinto che la redazione
non è galera, non tanto per l’arredamento, per i computer o per gli scaffali
pieni di libri e di riviste, quanto invece per le dinamiche diverse che si
sviluppano all’interno. Fare riunioni, preparare interviste, approfondire
argomenti su cui scrivere articoli, discutere e litigare su un concetto emerso
durante la riunione, sono tutte dinamiche che contrastano la classica realtà
del carcere: in redazione non ci sono domandine e non ci sono concessioni, non
ci sono imposizioni e non c’è obbedienza, c’è invece un quotidiano
riappropriarci di quella cultura propria del rispetto delle persone, della quale
siamo costantemente spogliati, sin dal momento dell’ingresso in carcere.
“Sai
perché non posso mancare dalla redazione?” chiedo a occhi chiusi, con la
faccia all’insù. “Ora ti spiego. Per anni abbiamo scritto articoli e li
abbiamo pubblicati sulla nostra rivista, ma sentivamo che c’era qualcosa che
non andava. Poi abbiamo fatto il sito internet, per essere al passo coi tempi,
ma ancora ci mancava qualcosa. Abbiamo aperto anche un profilo su Facebook, dove
abbiamo più di duemila amici, ma non era questa l’informazione che avevamo in
mente. Poi ci siamo accorti che, nonostante la tecnologia abbia rivoluzionato il
modo di fare informazione, per il tipo d’informazione che vogliamo fare noi,
la forma migliore di comunicazione rimane l’incontro diretto con le persone.
Così abbiamo deciso di ritornare al metodo più antico usato per trasmettere
conoscenza: raccontare storie. Come si faceva quando le persone si riunivano
intorno al fuoco, e tutti raccontavano storie, vicende, leggende, ci siamo
accorti che raccontando personalmente le nostre vicende, i nostri disastri e le
nostre sofferenze, riusciamo ad informare i ragazzi meglio di quanto possa fare
ogni pagina, che sia su internet o stampata su carta. Perché se ci guardano
negli occhi e ascoltano la nostra voce, capiscono meglio i pericoli che
nascondono certi comportamenti”.
“Va
bè” mi interrompe D. “ho capito che fare del bene agli altri ti fa sentire
meglio, ma anche una partita di pallone ti fa bene ogni tanto, no?” continua a
provocarmi.
“Guarda,
sicuramente parlare con i ragazzi mi fa sentire meglio, ma non perché mi sento
un benefattore,” rispondo, “se questi incontri mi appassionano in modo
particolare è anche perché, mentre siamo tutti seduti di fronte a loro, io
guardo i miei compagni e non vedo dei detenuti ma delle persone. In quel momento
non siamo più numeri di matricola e il potere dell’istituzione rimane fuori
dalla porta della redazione. Quando ragioniamo con loro, non siamo più diversi,
non siamo più i cattivi, i mostri. Siamo persone, con una brutta storia da
raccontare, ma sempre persone. Ed è una cosa importante per me vedere che
nessuno in quella stanza pensa di ricordarmi che sono un detenuto, che devo
soffrire, che devo espiare e che mi devo redimere, o sentire che nessuno mi
tratta con altezzosità o minaccia punizioni disciplinari. Parlare con i ragazzi
mi fa sentire davvero libero. Ed è un privilegio per cui vale la pena
sacrificare la partita del martedì, anche se so che ci rimetto in salute.”
concludo la mia riflessione. Poi mi ricordo che a rimanere fermo a lungo rischio
davvero di farmi un’abbronzatura a quadrati. Mi sposto di pochi centimetri
senza aprire gli occhi e sento D. che fa un respiro prolungato.
“È
chiaro che ormai ti sei fissato con quella redazione e idealizzi qualsiasi cosa
fai, ma ti dico una cosa, quando uscirai di qui, non ti daranno da mangiare le
scolaresche, e dovrai andare a lavorare, e per farlo dovrai essere in salute”,
dice D. con tono contrariato e si allontana. Mentre io rimango aggrappato alle
sbarre della finestra, in compagnia del sole di primavera che mi riscalda,
mentre penso a cosa farò il prossimo martedì.
Un
ripasso “autoconvincente” sul progetto tra carcere e scuola
Perché
davvero è così difficile raccontare la propria esperienza, che ogni volta
bisogna prima convincersi dell’importanza di questo progetto
di
Filippo Filippi
Perché
io, persona detenuta tossicodipendente, ritengo che il progetto carcere/scuola
sia così importante per me?
BÈ,
innanzitutto è un modo per poter vedere un po’ di gente libera, giovane ed
“in borghese”. Inoltre… è un probabile modo per tentare di andare in
permesso. E per giunta, una volta superati l’iniziale timidezza e
l’imbarazzo comprensibilmente reciproco, è anche un modo per rivisitare (via
via raccontandosi) le proprie disgraziate e gravi o gravissime cazzate, le
miserevoli storie vissute e i reati commessi, dei quali talvolta intimamente ci
vergogniamo.
È
anche giusto, al di la delle fatiche personali enormi che il parteciparvi
attivamente comporta, narrando le nostre storie, che io riesca a trasmettere ai
ragazzi (con dovizia e attenzione particolare alle parole ed ai ”messaggi”
che inevitabilmente potrei dare), con semplicità e genuinità la mia esperienza
di vita ”sballata” e le sue origini apparentemente invisibili o di poca
importanza.
Anche
perché cerco di calarmi in ciò che vivono i ragazzi oggi, ripensando a come
ero io, molto o poco prima che iniziassi il mio personale percorso
“autodistruttivo” e sballato. Inoltre perché mi piace immaginare che io
sarei potuto essere uno di loro, e che avrei forse potuto continuare la mia fase
adolescenziale di crescita senza l’intervento di “agenti chimici esterni”.
Per
giunta, se anche solo per un attimo avessi avuto voglia di dare ascolto a
qualcuno che cercava di starmi vicino, i problemi che comunque avevo o stavo
attraversando avrebbero potuto causarmi ”danni contenuti” e non magari
irreversibili.
E
poi semplicemente è giusto, mi sembra giusto, nonostante tutto quello che i
miei occhi possono vedere e vivere oggi, parlare con loro, gli studenti. Parlare
con loro, interagire, non è come parlare con un adulto, loro, per quanto
influenzati da continue informazioni martellanti e che possono dare un senso
distorto della realtà, sono come una lavagna sulla quale si può ancora
scrivere qualcosa di mite e positivo, senza necessariamente tradurre tutto in
rabbia o in vincitori e vinti (non siamo in guerra o non ancora almeno!).
E
aggiungo che, al di là della precisa attendibilità dei racconti (le verità
sono talvolta molteplici e soggettive, per esempio una è quella sancita dal
tribunale e per quella stiamo espiando le nostre condanne) la trasmissione delle
esperienze è ancora e nonostante tutto fondamentale.
Attraverso
quali passaggi, consapevoli o meno, siamo arrivati a fare ciò che abbiamo
commesso, ci siamo resi rei, ecco questo se raccontato senza piangersi addosso o
lamentandosi di quanto la vita è stata dura e cattiva con noi, credo che possa
essere utile per i ragazzi, ma… anche per noi persone attualmente detenute,
che possiamo così ripercorrere quelle che sono state le tappe iniziali e
salienti del nostro fallimentare (ma comunque ricco) vissuto.
Ed
aggiungo che qualche volta nel corso di quest’ultimo decennio sono stato colto
dal forte dubbio che, se io principalmente, ma anche la mia famiglia (tutto
sommato, paziente e santa famiglia che una volta smesso di far finta di nulla,
come ha fatto nei primi due anni, le ha veramente provate tutte…), ecco se la
mia famiglia all’unisono con suore (asilo), maestre/i, educatori, insegnanti,
professori, allenatori, fosse riuscita (e credetemi non era impresa da nulla!),
a canalizzare, indirizzare, far convergere in esperienze magari grintose, ma
positive la mia curiosità irrefrenabile, il desiderio di sentirmi più grande
di ciò che ero, la curiosa ed iperattiva, e però dispersiva e infantile
genialità di piccolo ma in fondo “buon diavoletto”, ecco credo che allora e
in seguito le cose avrebbero potuto evolvere diversamente. Ripeto, io ero
qualcosa di apparentemente ingestibile ma…
Inoltre
credo che, nonostante tutti i limiti di tempo e concisione che questi incontri
tra studenti e detenuti impongono nel racconto di sé, le possibili gelosie e
regressioni infantili di vario carattere, o le manie d’esibizione, una volta
spazzato via tutto ciò, la portata dirompente ed ”esplosiva” di questo
progetto si mostrerà in futuro in tutta la sua essenza.
È
evidente che vanno prese in considerazione però anche le caratteristiche delle
classi che si incontrano (“preparata” o meno, interessata o con una soglia
d’attenzione bassa…), e la differenza tra istituti o di metodica
d’insegnamento, ma a parte queste, che non son solo sfumature, il progetto
conserva le sue potenzialità strategiche. Credo però che ogni incontro si
debba adattare a seconda del tipo di classe che si incontra: importante sarebbe
osservare non solo l’età, ma anche che cosa studiano, in prevalenza di che
giovani persone son composte le classi (se a prevalenza femminile per esempio, o
altro).
Molta
differenza poi tra una classe e l’altra la fanno i docenti che riescono o meno
a suscitare interesse, attenzione, presenza anche mentale, da parte degli
studenti. Un prof ”appassionato” viene sentito, percepito dagli studenti,
come degno della loro attenzione anche se ”matusalemme” o insegnante di
materie “pallose”.
In ogni caso con chiunque venga in “visita carceraria” (universitari o studenti delle scuole superiori), sarebbe meglio spazzare subito via qualcosa che definirei come ”atteggiamento didattico”, cioè detenuti che “insegnano” e studenti che hanno come principale interesse le nostre esperienze di vita miserevoli come studio fine a se stesso. Così il senso del progetto scuole/carceri perderebbe di molto le sue particolari potenzialità dirompenti.