La
droga oggi riempie le carceri di ragazzi sempre più giovani
È
iniziato in questi giorni il processo in cui sono imputati tre agenti, sei
medici e tre infermieri per la morte di Stefano Cucchi, il ragazzo arrestato a
Roma la notte del 15 ottobre del 2009 per detenzione di stupefacenti e morto il
22 ottobre successivo nel reparto detenuti dell’ospedale Sandro Pertini, dove
non gli sarebbero state prestate le cure necessarie, nonostante il suo stato di
totale debilitazione, dovuto forse a maltrattamenti subiti. Per capire il
calvario di Stefano, ma anche di tanti tossicodipendenti che stanno in carcere,
e invece avrebbero bisogno di stare in luoghi di cura, riportiamo le
testimonianze di un detenuto e di una detenuta, che in galera ci sono finiti per
problemi legati alla droga.
La
droga allora mi sembrava l’unico rifugio
di
Laura
Sono
stata molto sola nella mia infanzia e adolescenza, ma forse queste sono solo
scuse, l’ho capito col tempo. Erano gli anni 80 e 90, la gente lavorava
tenacemente per dare un avvenire ai figli, invece io ho preso una strada
sbagliata ma ero troppo piccola per capire realmente che la droga è una
momentanea calma, che poi si scatena per farti entrare in una voragine dove non
vedi oltre. Nel periodo in cui dovresti andare a scuola, avere i primi
batticuori, a me aveva già tolto tutto. Vivevo per lei. Quante volte sono
scappata di casa per aggregarmi ad altri sbandati come me! Ma non capivo,
cercavo l’affetto in quella droga che allora mi sembrava l’unico rifugio. Ho
rimosso tanti dolori che mi sono capitati, troppi. Ho iniziato molto presto a
giocare con la mia vita, perché è realmente un vero suicidio mentale,
spirituale, fisico, ma sono sopravvissuta, e di questo devo ringraziare la mia
piccola grande figlia. Ho smesso quando sono rimasta incinta, immediatamente.
Farsi male da soli è un conto, ma non puoi fare male a chi ti vive nel grembo.
E così ho fatto un lungo periodo di vita tranquilla crescendo quella figlia
tanto voluta e amata. Finché un cancro al colon ci portò via suo padre in 6
mesi. Dove rifugiarsi da un dolore così grande, da un lutto mai elaborato?
L’inquietudine mi fece ricadere in quel vortice, anche se ormai ero grande e
sapevo a cosa andavo incontro. Eppure per anni nessuno si è accorto di niente,
avevo un buon lavoro, poi è crollato tutto perché ho commesso un reato legato
alla mia dipendenza.
Quanto
soffro quando vedo entrare qui dentro delle ragazzine che vorrei consigliare,
parlando loro della mia esperienza, ma come non ascoltavo io allora non
ascoltano neanche loro! E spesso forse mi rispecchio in loro e vorrei tornare
indietro col tempo.
Quando
prendi coscienza che hai fatto tanti errori nella tua vita, inizia il lungo
cammino per risalire. Non voglio dire che il carcere mi ha rieducata, ma
certamente non ci voglio tornare. La rieducazione viene dal dentro, da una
figlia che piange ai colloqui, da una madre anziana che mi ha detto un giorno:
“Se potessi la farei io al tuo posto la carcerazione, ma non posso”. Era la
prima volta che ho sentito l’affetto che mia madre e la mia famiglia provano
per me.
Ho
capito una cosa di tutta questa vita incasinata, per lenire i rimorsi, le
sofferenze e gli errori dovrò sicuramente ripartire dal centro di me: quale
figlia, quale madre, quale donna adesso realmente sono e voglio essere.
Nel
corso degli anni “farmi” era per me l’unica ragione di vita
di
Nicolò
Mi
chiamo Nicolò, ho cominciato a fare uso di sostanze stupefacenti a 12 anni, non
immaginando assolutamente le conseguenze che ne sarebbero potute derivare.
Adesso, a 50 anni, posso fare un’analisi della mia vita e raccontare a chi
ancora ha poca esperienza a che cosa si può andare incontro facendo uso di
certe sostanze, che all’inizio vengono prese alla leggera, soprattutto perché
il loro effetto è “molto piacevole”. La sensazione di piacevolezza è
proprio la ragione per cui si entra in un vortice dal quale non si esce.
Io,
contrariamente alla convinzione comune per cui si pensa che uno passi per gradi
dalle droghe leggere a quelle più pesanti, ho iniziato con le pesanti, più che
altro per la curiosità di provare. Le prime volte è stata un’esperienza di
gruppo, poiché, essendo ben consapevoli di fare una cosa sia proibita che
pericolosa, si vuole dimostrare al gruppo che si ha il coraggio di rischiare.
Poi si diventa sempre più disinvolti e audaci e si aumenta la quantità delle
dosi, e di conseguenza aumenta il piacere. In quell’esplodere di nuove
sensazioni sempre più eccitanti, non ci si rende conto che il fisico si sta
assuefacendo. Ci si accorge di questo solo quando si rimane per un po’ di
giorni senza. Allora iniziano i malesseri, dolori alle ossa, vomito, però uno
pensa che si tratti di una forma di influenza o di qualcosa che si è mangiato.
Nel
caso mio, dopo circa una settimana che stavo male, incontrai dei ragazzi del mio
vicinato e, parlando del mio stato di salute, loro mi dissero semplicemente che
ero così perché ero “in bianca”. Solo allora ho capito che ero diventato
dipendente dalla sostanza, ma tanta era la sofferenza che l’unica maniera per
riprendere a stare bene era quella di “rifarmi”. E così ricominciai a fare
uso delle sostanze anche più di prima.
Nel
corso degli anni “farmi” era la sola ragione di vita, come aprivo gli occhi
la mattina pensavo a bucarmi, e l’unica maniera per procurarmi le dosi era
rubare. La prima volta che sono finito dietro le sbarre avevo 14 anni compiuti
da tre giorni. In totale sono stato arrestato e scarcerato una decina di volte,
sempre per reati legati alla droga, collezionando oltre 23 anni di carcere.
Adesso che ho 50 anni, la metà dei quali passati in carcere, mi rendo conto di
aver sprecato la mia esistenza senza aver concluso niente o quasi di positivo.
Penso che se solo avessi avuto la forza di smettere all’inizio avrei potuto
fare tante cose, avrei potuto avere una famiglia mia e forse sarei stato un
signore, perché a dire la verità le buone occasioni non mi sono mancate.
È
morto Federico: un’altra vittima del sospetto di simulazione?
In
carcere si muore spesso giovani, i suicidi, ma anche le morti per malattia
riguardano persone che a quell’età non dovrebbero proprio morire
di Elton Kalica
Qualche
giorno fa, nel carcere di Padova, è morta una persona. Si chiamava Federico
Rigolon. In carcere dal 2004, doveva scontare una lunga condanna, ma credo che
ormai non abbia tanto senso parlare di cos’aveva fatto, e quale fosse la sua
condanna. Voglio invece parlare della sua morte. Avvenuta in modo assurdo, come
molte morti in carcere.
Federico
ha cominciato a stare male nella tarda notte tra sabato e domenica, e ha
chiamato l’agente per lamentarsi della sua condizione. I compagni delle celle
vicine mi hanno raccontato che l’intervento dell’agente è stato rapido, e
nonostante le difficoltà che richiede il movimento dei detenuti a quell’ora,
in pochi minuti Federico era stato portato nell’infermeria del carcere.
Dopo
la visita, era ritornato in cella dove aveva passato la notte tra dolori e
lamenti. All’alba aveva ripreso a lamentarsi e l’agente di turno aveva
chiamato il medico. Una dottoressa era andata in reparto per visitarlo,
l’aveva fatto chiamare in ambulatorio, lui era entrato e dopo qualche minuto
era venuto fuori dalla stanza lanciando degli insulti.
Ritornato
in cella, Federico aveva raccontato l’accaduto ai detenuti che l’avevano
raggiunto incuriositi dalle sue urla. Mettendo in dubbio la professionalità di
quel medico, aveva spiegato come, in risposta alle sue richieste di essere
portato d’urgenza al Pronto Soccorso, lei gli aveva dato due pastiglie,
“stai simulando... mi ha detto che sto simulando perché non voglio lavorare,
vi rendete conto? e io le ho detto: sei una t… incompetente, e lei ha chiamato
l’agente e gli ha chiesto di farmi un rapporto disciplinare”. Poi Federico
era andato di nuovo dall’agente per spiegare i motivi della sua reazione, ma
ormai il medico era andato via, e l’agente aveva fatto la sua relazione
informativa.
Poi
all’una, mentre gran parte del reparto era uscito per l’ora d’aria,
Federico si era messo a dormire. Rientrato alle tre, fatta la doccia, e messo su
la pentola per riscaldare la cena, Claudio, il suo compagno di cella, era andato
per svegliarlo, accorgendosi però che quell’uomo non respirava più.
Avvisato
l’agente, avevano atteso l’arrivo dei soccorsi.
Prima
la stessa dottoressa, che aveva accertato la gravità delle condizioni del
paziente ed era corsa a chiamare il Pronto Soccorso. Poi c’è stato per tutta
la sera il via vai di medici, agenti, esperti della scientifica, magistrati, e
infine, a mezzanotte, hanno portato via il corpo di Federico, salutato dal
silenzio dei settantacinque detenuti della sezione.
Sicuramente
le autorità aspetteranno l’autopsia e poi faranno accertamenti, indagini e
alla fine ci faranno sapere a cos’era dovuto il malessere, e cosa lo ha ucciso
a 38 anni. Tuttavia, conoscere le cause della morte è l’ultima cosa che
interessa i detenuti della Casa di Reclusione di Padova. La domanda che tutti
qui si pongono è: quanti detenuti devono morire ancora affinché nessun medico
dica più “tu stai simulando”?
Ormai
di morti in carcere ne ho visti tanti. Molti, vittime del sospetto di
simulazione. Ed è sempre la stessa scena che si ripete: il detenuto che si
lamenta, il medico che non gli crede, e poi la morte che “dà ragione” al
paziente. Perché è questo il punto: noi siamo pazienti, ma alcuni medici
continuano a vederci come detenuti che si fingono malati, e sembra che stare
attenti a non essere presi in giro sia a volte per certi medici la priorità
assoluta, più importante persino della salvaguardia delle nostre vite.
Noi riconosciamo le nostre colpe e ci assumiamo le nostre responsabilità, ma siamo stanchi di essere trattati come “diversi dal genere umano”, e vorremmo che almeno i medici si dimenticassero di ciò che abbiamo fatto per finire qui, e ci trattassero come pazienti, quindi come esseri umani.