Così lontani, così vicini

 

di Ornella Favero

 

Il confronto con le scuole, che ormai è diventato l’asse portante di tutta la nostra attività, è un lavoro delicato e complesso che ha come scopo di trovare la giusta distanza tra “i buoni e i cattivi”. Per riuscire a farlo, le testimonianze delle persone detenute toccano tutte le tappe del percorso che ha portato a commettere il reato. È lì, in ogni snodo, in ogni bivio di quel percorso, che avvengono due cose: i ragazzi da una parte capiscono che tanti reati non sono frutto di una scelta chiara, ma effetto di un lento “scivolamento” nell’illegalità, partito magari con la piccola trasgressione, con il comportamento un po’ fuori dalle righe; ma proprio sentendo smontare e rimontare pezzi di vite “sbagliate” si comincia anche ad accorgersi che le vite degli “altri”, dei diversi, non sono state sempre differenti dalle nostre, che le vite a volte deragliano e bisogna cercare di capire perché, per riuscire in qualche modo a rimetterle sui binari, e a prevenire altre possibili perdite del controllo.

Se si trattasse esclusivamente di sentir dire il reato commesso, nessun cittadino “regolare” potrebbe mai identificarsi in un uomo che ha ucciso, che ha rapinato, che ha rubato. Ma quando il racconto autobiografico parte da lontano, da adolescenze incerte, forte senso di inadeguatezza, incapacità di chiedere aiuto, voglia di uscire dai binari e di provare il brivido del rischio, allora comincia a ridursi la distanza fra chi i reati li ha commessi e chi è ancora “pulito” ed entra in carcere solo per ascoltare i racconti di vita delle persone detenute.

È la scoperta di una somiglianza che sconvolge di più: perché si vorrebbe tutti avere un DNA diverso dai delinquenti, e vedere e ascoltare in galera persone che in qualche modo raccontano vite simili alle nostre è spiazzante. Allora ci sono due atteggiamenti nei ragazzi: da una parte c’è chi si attacca alla propria razionalità e cerca di autorassicurarsi che a lui non succederà mai, perché lui sa quando fermarsi; dall’altra c’è in tanti ragazzi, e questo ci consola e ci ripaga della fatica di incontrare ogni settimana centinaia di studenti, proprio durante l’incontro in carcere un processo di presa di coscienza, una maturazione improvvisa, il raggiungimento della consapevolezza che nessuno di noi può sentirsi al sicuro. Quello che offrono loro i detenuti non sono lezioni su quello che si può o non si può fare, ma una attenta analisi dei comportamenti a rischio e una riflessione su come e dove si poteva fermare quel deragliamento che poi è finito in carcere.

Per inserire queste esperienze in un contesto teorico chiaro, abbiamo intervistato una docente di diritto penale, Elisabetta Palermo, e con lei abbiamo affrontato il tema dei “reati delle persone normali”, quelli cioè che potrebbe commettere chiunque, una madre che guida parlando al telefono cellulare, un padre che beve un bicchiere di troppo, un ragazzo che gira con un coltellino in tasca. Ed è sconvolgente vedere quanti sono ormai oggi questi reati, e quanto ognuno di noi sfiori tante volte nella sua vita la possibilità di diventare “uno di loro”, di quelli cioè che non hanno saputo rispettare le regole e apprezzare fino in fondo “il piacere dell’onestà”.

Il carcere allora, per quanti sforzi si facciano oggi per allontanarlo fisicamente dal cuore delle città, è molto più vicino di quello che si immagina.