Cosa ti manca di più della libertà?
C’è una
domanda che gli studenti rivolgono spesso ai detenuti, negli incontri di
confronto fra scuola e carcere che avvengono ormai sempre più di frequente in
molte città: che cosa vi manca di più della libertà? E le aspettative sono
sempre le stesse, ci si immagina che la perdita della libertà significhi
soprattutto perdita degli affetti, impossibilità di fare cose importanti, di
muoversi, di viaggiare, di vedere il mondo. In realtà, certo la lontananza dai
figli, dalle famiglie è pesantissima, così come è frustrante non avere
nessuna possibilità di scelta e dipendere per ogni minimo gesto da chi ti apre
e ti chiude la cella, ma quello che manca davvero a volte sono cose
apparentemente insignificanti, di cui nessuna persona libera saprebbe neppure
immaginare che sono quelle le cose che rendono insopportabile la galera. Piccoli
gesti, oggetti della vita quotidiana, ricordi che emergono dal passato.
Mi
manca sentirmi chiamare mamma
di
Lella
Dire
che mi mancano i figli, è una cosa scontata, è un dato di fatto, non è
semplice dire che cosa ti manca di più della libertà. Ti manca la libertà, la
libertà di guardare negli occhi i miei figli quando preparo loro la colazione,
avendoli svegliati prima con un bacio e una carezza. Ti mancano le mattinate in
cui io e mio figlio ci alzavamo all’alba, per guardare il sole sorgere dal
mare. Ti manca quel sentirti chiamare “mamma”.
Sono
tante le cose che mi mancano, mi manca la mia vita quotidiana, il mio lavoro,
pieno di gioie e di dolori, fatto di sacrifici e soddisfazioni. Mi manca il
buongiorno dei clienti, quando alla mattina venivano a fare colazione, mi manca
il mio ristorante che “amavo”, perché lo sentivo come una cosa viva che mi
faceva sentire utile.
Mi
mancano i complimenti dei clienti, quando mangiavano bene e uscivano sorridenti.
Mi mancano i suoni, le voci di tutti loro, quando alla sera si faceva karaoke.
Mi manca preparare un piatto speciale per i miei ragazzi, quando venivano a
mangiare al ristorante, mi manca quel loro sorriso con un, ”mamma ti voglio
bene, ci vediamo a casa”.
Mi
manca sedermi al bar della mia amica Barbara alla sera dopo la chiusura del
ristorante e parlare con lei dei nostri sogni, dei nostri problemi, mentre si
beveva un caffe. Mi manca l’aria del mare e i vari colori che il cielo assume
in ogni momento della giornata, mi mancano i meravigliosi tramonti con i loro
colori che vedevo dal terrazzo di casa mia, mi mancano le voci della gente,
specie quando è stagione turistica, mi manca la musica in lontananza, quando a
ferragosto c’è festa.
Mi
mancano le mie giornate invernali, quando scendevo giù in spiaggia e per il
freddo non c’era un’anima viva, mi manca il posto in cui vivevo negli ultimi
tempi, è una piccola isola semideserta d’inverno, ma mette tanta pace e ti dà
modo di riflettere e assaporare appieno le piccole cose della vita.
Mi
mancano le litigate con il mio socio e le risate che poi ci facevamo. Se ripenso
che litigavamo per come preparare un menù o come sistemare il bar, ora come ora
mi viene da ridere.
Mi
manca il tornare a casa la sera tardi dopo la chiusura del ristorante, salire in
casa, trovare mio figlio ancora sveglio che mi aspetta e sentirlo vicino nel
lettone mentre mi dice: “Mamma, fammi sentire i ghiri ghiri” e mentre lo
accarezzo, lui si addormenta sereno.
Mi
manca tutto questo e tanto ancora, ma alla fine di tutto mi manca il senso della
vita, la vita stessa.
Mi
manca tutto
di
Cinzia
Sono
sempre stata una ragazza molto insicura e troppo protetta, e questo in parte non
mi ha permesso di vivere e crescere, nonostante i miei 46 anni. Ma
l’insicurezza non la trovo del tutto negativa, ora.
Della
mia non proprio imminente libertà mi spaventa il dopo, il futuro.
Premetto
che ho una nonna che amo con tutto il cuore, che ha 88 anni, ma mi rendo conto
di essermi troppo ancorata a lei, il mio grande punto di riferimento. Una volta
fuori di qui, nulla sarà facile, anche perché non ho mai lavorato, la mia
tossicodipendenza è iniziata molto presto, avevo solo 14 anni, il mio sogno era
fare l’avvocato, ma con la droga di mezzo, non puoi fare niente, perché non
riesci a mantenere una doppia vita.
Ancora
devo fare un anno e tre mesi di carcere, da una parte una delle cose che mi
spaventa di più è l’età di mia nonna, dall’altra non vedo l’ora di
uscire di qui, e questa volta ho cercato di impegnarmi con me stessa per
mantenere tutti i buoni propositi che ho elaborato da sola.
Vorrei
dire, e si potrebbe dire moltissimo di questa Cinzia – incasinata, infarcita
di fragilità e forza allo stesso tempo - , ma spero che il mio futuro sia dalla
mia, non sempre è facile, non sempre volere è potere, ma a 46 anni si
raggiungono con gli sbagli e la maturità determinate sicurezze.
Certo
che il nostro futuro ed il nostro destino sta solamente dentro ognuno di noi.
Mi
manca e molto il riappropriarmi della mia dignità di donna, di madre e di
nipote.
Alla
fine di tanti ricordi la cosa che mi manca di più è la mia libertà
di
Mimoza
Domani
sono dieci mesi che sto in carcere e tante volte nella mia mente passo e ripasso
i giorni, le ore, i minuti e i secondi che ho vissuto quando ero in libertà. Se
mi devo descrivere che cosa mi manca della mia libertà non bastano ore, giorni,
settimane, mesi ed anni, perché qui dentro ricordi con nostalgia tutto, anche
quando mi sono fermata davanti ad un passeggino di un bambino che piangeva perché
gli era caduto il ciuccio e sua mamma era distratta nel chiacchierare con
un’amica. Ricordo che l’ho salutato, gli ho parlato per calmarlo, l’ho
coccolato per un po’ e poi ho tirato fuori un fazzoletto e con cura ho pulito
il ciuccio e gliel’ho dato e lui per ringraziarmi mi ha donato un sorriso.
Mi
ricordo anche un piccolo sorriso che ho fatto ad un anziano mentre stavo
aspettando in fila alla cassa del supermercato per pagare: ecco, ora è come se
fossi lì, e gli faccio la cortesia di farlo passare davanti anche se ho fretta
e sono in ritardo per andare al lavoro mi aspetta una signora, tutta ferma
immobile perché ha avuto un incidente ed è rimasta costretta a letto. Questa
signora la accudisco da ben sei lunghi anni ed ogni giorno, alla fine del lavoro
mentre la saluto dovrei guardare le sue labbra, perché avendo subito una
tracheotomia non ha la voce, quando lei mi ringrazia e mi dice: “Se non avevo
te come facevo io?”.
Ogni
giorno della settimana ho un suo ricordo, ma la strana cosa è che spesso mi
ritorna in mente il sabato che mi svegliavo presto la mattina, accendevo la
macchinetta del caffe e mi mettevo sul fuoco il tegame per preparare da mangiare
alla mia cagnolina. Poi prendevo il telefono e chiamavo a casa in Albania per
dare il buon giorno ai miei figli e ai miei genitori, che anche loro erano già
svegli e stavano prendendo il caffe. Era molto importante che a casa andava
tutto bene e avevo sentito la voce dei miei figli.
Mentre
scambiavo i saluti con loro avevo già preparato il caffe e andavo verso la
camera da letto e con molta delicatezza svegliavo il mio compagno, prendevamo il
caffe assieme e con calma facevamo colazione e se la giornata era bella ci
preparavamo per fare un giro in moto. Verso l’ora del pranzo si andava da sua
madre per pranzare con lei. Tra una chiacchiera e l’altra il tempo passava e
dopo un bel pranzo tornavamo a casa per riposare, perché la sera si andava a
ballare. Prima di uscire la sera c’era sempre la telefonata con i ragazzi per
sapere come era andata la loro giornata e per tranquillizzarmi che loro non
erano usciti, erano in casa e stavano bene. Dopo una bella serata al ritorno a
casa ci fermavamo in qualche bar che era aperto anche di notte per fare
colazione.
Tutti
questi ricordi mi capita spesso di rivederli qui dentro, dato che il mio
compagno viene sempre di sabato per fare colloquio. Ma alla fine di tutti questi
ricordi la cosa che mi manca di più è la mia libertà, perché con la libertà
tutto questo non è un ricordo ma è la mia vita.
Di
che cosa ho paura dopo il carcere
Prima
di pensare al futuro non voglio dimenticare il passato
di
Luminita
La
mia prigionia mi ha colpito più di tutti i dolori che ho avuto nella vita. È
la prima volta che mi succede e per questo un giorno ci sarà anche un primo
giorno oltre le sbarre. Cosi come da quel primo giorno in carcere mi sono
domandata come facevo a sopravvivere allo stato di ristretta, lo stesso mi
domando sempre come sopravvivrò psicologicamente dopo.
Sono
ristretta da due anni e sono sopravvissuta creandomi il mio mondo, il mio
universo, ho adattato ogni cosa in modo tale che tutto quello che faccio sia
utile in qualche modo alla mia psiche.
Questo
lo considero essenziale per la sopravvivenza come cura per la salute mentale,
provo sempre a dare il meglio di me per ignorare dove mi trovo in modo tale, che
il giorno che dovrò varcare la porta per la libertà non dovrei subire grandi
traumi.
Tante
volte gioco con la mia mente proponendomi dei giochi di concentrazione,
immaginandomi che mi trovo altrove e non in carcere, ritornando alla realtà
lentamente per non subire traumi.
Certe
volte cammino nel corridoio e immagino di trovarmi in un viale al centro della
città e le finestre e le inferriate sono delle vetrine. Chiudo gli occhi e non
mi fa male, provo a fare un contatto immaginario con la realtà e riesco, lo so
che riuscirò a superare ogni ostacolo che troverò nel percorso di trasloco
dalla mia condizione di oggi a quella della mia libertà.
Mi
ripeto continuamente questo slogan: “Chi ignora il proprio ieri non può avere
un domani”, però…. esiste un però. Devo avere la forza di affrontare una
realtà che è difficile descrivere a parole. Vent’anni fa partorivo la cosa
più bella e preziosa che io potevo avere dalla vita – mia figlia. In un
momento cruciale della vita lei è diventata dal bene più “prezioso” al più
atroce nemico; per motivi che anche oggi provo a scoprire, mi sono trovata per
tanti anni in carcere e posso dire che sono già 1133 giorni e notti che mi
domando ogni secondo: perché?, non lo so se avrò la risposta a questa domanda,
però il peggio comincerà il giorno della mia libertà.
Libertà
di cercare la figlia che non è più quella che doveva essere, di ritornare a
casa, di entrare nella sua stanza e di non ritrovarla più, di sperare di
guardarla negli occhi, e invece di dovermi fare la domanda: ma ritornerà più?
Sedermi a tavola pensando: il suo posto sarà sempre vuoto? Voglia di sentire i
suoi CD con le canzoni preferite, di cucinare il piatto che più le piace, di
passeggiare negli stessi posti immaginandomi di vedere le sue trecce e sempre
domandandomi: perché? Ma c’è un’altra cosa che mi fa ancora più paura:
ritornerò ancora a farmi male?
Finora
1133 giorni in carcere li ho vissuti cosi, però il resto della mia vita come lo
vivrò? Con quante paure? Quante ansie? La società mi accetterebbe ancora? un
datore di lavoro mi assumerà? i miei amici saranno amici come prima? o qualcuno
mi toglierà la fiducia? Si o no, poco mi importa. Per me conta ritrovare mia
figlia e allungarle la mano per aiutarla. E lei accetterebbe di riabbracciarmi e
di vedermi quando si sposerà e di lasciarmi tenere in braccio i suoi bambini?
Spero di non invecchiare senza trovare la risposta a queste domande.