Storie
di madri “imperfette”, nelle quali noi, madri “un po’ così”, ci
ritroviamo
Fra
tante madri lontane dallo stereotipo della “buona madre”, anche la storia di
Tiziana, detenuta con il figlio Simone alla Giudecca
recensione
a cura di
Paola Marchetti
Ho
smesso da un pezzo di credere in quella bella locuzione che da sempre ha
tranquillizzato l’essere umano: istinto materno. Locuzione con la quale
dividiamo le donne in due categorie: le buone, quelle che ce l’hanno, le
cattive quelle che ne sono prive. Anche le favole suddividono le madri in
categorie: quelle naturali e le matrigne. Biancaneve e Cenerentola avevano la
matrigna cattiva come se le madri non naturali, e al giorno d’oggi ce ne sono
una valanga, dovessero necessariamente essere “cattive”. Noi donne cresciute
in questa cultura, dove le storie raccontate sono storie di madri che rinunciano
a tutto per amore dei figli, ci troviamo un po’ in imbarazzo quando ci
dobbiamo confrontare con queste immagini, specie se siamo madri non eroiche,
madri che si arrabattano, madri che non vogliono – o più spesso, non possono
– lasciare il lavoro per seguire di più i figli.
Ricordo
che quando sono stata a ritirare le analisi e ho letto il risultato
“positivo” mi sono illusa per un attimo che il significato fosse il
contrario di quello che era. Avevo 24 anni. Non ero una bambina, ma non me la
sentivo di diventare madre. Sentivo di avere un uomo a fianco che, pur amandomi
tantissimo e io amandolo altrettanto, non era in grado di fare il padre. Questa
mia paura però non mi ha impedito di avere una gravidanza meravigliosa malgrado
tutti i brutti avvenimenti accaduti in quel periodo: un lutto in famiglia, due
ricoveri con TSO di mio marito al reparto psichiatrico. Ma la simbiosi che era
nata tra me e la mia creatura, il benessere che mi provocava dimostravano come
io avessi accettato in modo completo questa nuova vita che stavo per far
nascere.
Il
problema di sentirsi madri adeguate però si manifesta in un secondo tempo,
quando il figlio nasce e ti sembra di non fare abbastanza, di non essere in
grado di competere con lo stereotipo che ci hanno, fin da bambine, inculcato. Io
non sono mai stata una bambina “normale”, volevo competere nei campi
solitamente preclusi alle femmine (ero bambina negli anni 60), ero più brava
dei miei compagni di classe nelle materie “maschili” per eccellenza, al
patronato giocavo con loro e li battevo, quando mancavano di rispetto a me o a
una compagna li picchiavo. Insomma, non mi sentivo donna in un ruolo classico,
ma, nel mio piccolo, rivendicavo, senza rendermene ben conto, l’uguaglianza in
una società piuttosto maschilista e quindi non mi vedevo relegata nel ruolo di
moglie e madre, anzi.
Diventare
madre però è stata una scoperta che mi ha fatto perdere quel senso di
competizione nei confronti dei maschi. Purtroppo non sono riuscita a godermi la
prima infanzia di Giulia. Mio marito aveva così tanti problemi con la sua
malattia psichiatrica che vivevo in un costante senso di colpa: nei confronti di
Giulia che secondo me non seguivo abbastanza per stare dietro a lui, e verso di
lui per non poterlo seguire abbastanza perché c’era Giulia. Il lavoro era un
altro problema: lui non poteva fare il suo - i farmaci erano incompatibili con
quello che faceva – e io dovevo arrabattarmi per mantenerci tutti e tre.
Pensare
a tutto ciò mi viene spontaneo dopo aver letto il libro di Valentina Furlanetto
“Si fa presto a dire madre”, dove la giornalista attraverso 13 storie di
madri “particolari” tocca altrettanti temi sociali di attualità. Una di
queste madri, Tiziana, ha una cosa in più in comune con me: il carcere.
Simone,
però, il figlio di Tiziana, come dice l’autrice, è innocente, ma è stato in
carcere a “scontare” una pena non sua. Sì, perché in Italia sono molti i
bambini sotto i tre anni che stanno in galera con le madri, salvo il fatto che
il giorno del loro terzo compleanno, vengono strappati alle madri e messi “in
libertà”, di solito in affido.
Ma
ci sono anche altre storie di madri, sono storie vere, raccontate con
leggerezza, da cui esce una società così diversa da quella “televisiva”,
storie di madri che non assomigliano agli stereotipi da “mulino bianco”, e
proprio per questo madri vere, e proprio per questo madri così normali, che ci
si consola a sapere di non essere sole. Attraverso queste storie la maternità
viene fuori come un rapporto d’amore, senza eroismi e senza perfezione, con i
suoi momenti di “calo” ma proprio per questo amore vero.
C’è
anche una critica, neppure tanto velata, alle istituzioni per il frequente
disinteresse verso politiche sociali che aiutino e sostengano la maternità: il
paese più “mammone” che esista, è quello che spende meno per il welfare.
Oltre
a Tiziana, madre detenuta, la Furlanetto racconta la storia di Liliana, madre
affidataria con 153 figli di cui 3 partoriti (già, non possiamo dire 3 suoi e
gli altri no, perché Liliana li sente suoi tutti!), dove tocca il tema delle
case-famiglia; quella di Marta, che pur vivendo su una sedia a rotelle insegna a
camminare a suo figlio. Le morti sul lavoro, altra piaga sociale
“dimenticata”, vengono affrontate attraverso la storia di Cristina che ha
perso il figlio che faceva il postino trimestrale e al quale – oltre il danno
la beffa – non viene riconosciuta la morte sul posto di lavoro, malgrado fosse
stato investito da un’auto durante la consegna della posta. Il dolore per la
perdita di due figlie, Doretta l’ha “ovattato” attraverso la messa in
scena di uno spettacolo teatrale scritto da lei, perché la sua storia ha
qualcosa di kafkiano: la burocrazia “prende possesso” del corpo di una delle
sue due ragazze sostenendo che quella era un’altra persona e solo
l’ostinazione di questa madre fa sì che alla fine venga fatto l’esame del
dna. Nel libro si parla anche di razzismo - a Rosarno “Mamma Africa”,
anziana insegnante in pensione aveva “adottato” alcuni lavoratori africani,
ai quali preparava il pranzo della domenica, tra le critiche e le minacce dei
compaesani. Si parla di omosessualità, coppie di fatto e fecondazione,
raccontando la storia di Silvia e la sua compagna che vogliono un figlio, che in
Olanda riescono a coronare il loro sogno come una qualsiasi coppia
eterosessuale, e che hanno una figlia, Caterina, che con ostinazione, sicurezza
e orgoglio rivendica il suo “avere due mamme e nessun papà”, raccontando
anche come “una volta spiegato come stanno le cose, la maggior parte delle
persone se ne fa una ragione e la curiosità si spegne”. E a proposito di
genitori non eterosessuali, c’è anche l’argomento della transessualità
affrontato attraverso la storia di Antonella, che in origine si chiamava Antonio
e che con Simonetta ha avuto una figlia, che ama a distanza per non
imbarazzarla. “Non posso chiamarla mamma, perché una mamma ce l’ho già,
papà sarebbe ridicolo. La chiamo per nome così non si creano imbarazzi”
dice Laura, la figlia quindicenne, in modo piuttosto pragmatico. E sulla
transessualità del padre ci scherza su, dimostrazione del fatto che un grande
amore per un figlio vale più di qualsiasi altra cosa. Il tema delle adozioni
internazionali con il loro carico di sofferenza e di difficoltà, viene
affrontato nel capitolo dedicato a Michela, donna in carriera con nessun
desiderio di far famiglia e di avere figli, che per caso si ritrova a dover
farsi carico di un bimbo rumeno in “vacanza” in Italia (erano gli anni in
cui le famiglie accoglievano i bambini, specie orfani, dell’est europeo per i
mesi estivi). E tutte le sue certezze sulla sua mancanza di istinto materno
crollano, e si ritrova a combattere con leggi che le precluderanno la possibilità
di portarsi Nicolae a vivere in Italia e di diventare madre.
C’è
poi la violenza di un marito e padre che terrorizza e infine fa fuggire una
donna con i suoi tre figli, che si ritrova sola a dover affrontare, oltre alla
paura, anche tutte le difficoltà che una donna in queste condizioni si trova
davanti nella lotta per la sopravvivenza. E c’è un altro tema che affiora da
un’altra storia: quello del senso di colpa di una madre che da anni accudisce
un figlio in stato vegetativo perché non l’aveva mai accudito quand’era
sano. Storie, insomma, di madri come tante, nelle quali noi, madri “un po’
così”, ci ritroviamo. Storie che ci fanno sentire un po’ meno
“inadeguate”.