Prodotti
di gran qualità che arrivano dalla galera
Una
Banda tutta dolcezza
Nel
carcere di Verbania, i detenuti producono biscotti davvero artigianali, con la
consapevolezza di saper curare un prodotto dall’inizio alla fine
Intervista a cura della Redazione
Marco
Girardello è coordinatore di un Progetto con un nome curioso, che sa di
infanzia e banditi da fumetti: “Banda Biscotti”. In realtà, qui i banditi
comunque hanno fatto scelte di vita nuove, e si sono convertiti alla produzione
di biscotti all’interno del laboratorio di pasticceria della Casa
Circondariale di Verbania. Abbiamo intervistato Marco, nel frattempo gustando
questi deliziosi biscottini artigianali fatti a mano in galera.
Allora
“Banda Biscotti”, intanto chi sei? Che responsabilità hai rispetto a questa
“Banda Biscotti”?
Io
sono Marco Girardello e coordino le attività del CFPP* a Verbania, la “Banda
Biscotti” è una delle iniziative che abbiamo sviluppato in quella piccola
galera, che fermenta di attività legate alla formazione professionale.
Quindi
la “banda” si è sviluppata a partire da un corso di formazione… ci
spieghi meglio?
Sì,
ci sono due attività di formazione all’interno del carcere di Verbania: un
corso di aiutante cucina da 300 ore e un corso di servizi catering per 200 ore.
Da lì poi nasce e si sviluppa nel 2006 “La gattabuia”, che è un ristorante
che gestiamo fuori da Verbania, in collaborazione col Comune, dove lavorano due
detenuti in articolo 21. Per due anni abbiamo usato il laboratorio di cucina, al
pomeriggio, quando non c’era la formazione, mettendolo al servizio del
ristorante esterno, per fare pizze e dolci. Dopodiché, però, la cosa non ci
consentiva di avere dei volumi economici tali da finanziare due borse lavoro
dentro in carcere, allora l’idea è stata di provare a sviluppare qualcosa che
riuscisse a creare volumi economici per pagare due posti di lavoro in più, e
allora abbiamo provato coi biscotti. E la cosa funziona, forse proprio perché
ci è stato regalato questo marchio “Banda Biscotti” che fa la differenza.
Chi
l’ha inventato?
Una
ragazza che di mestiere fa la creativa per un’agenzia pubblicitaria molto
importante a Torino e ci ha voluto fare un regalo…
E
siete diventati una cooperativa per produrre biscotti?
In
realtà la cooperativa noi l’abbiamo creata quando abbiamo dovuto gestire la
mensa “La gattabuia”, perché, essendo partiti da attività formative, non
potevamo più gestire la mensa con l’ente di formazione professionale. E
allora abbiamo fondato la Cooperativa sociale “Divieto di sosta”, che adesso
sta al CFPP proprio come uno strumento per lo sviluppo e il consolidamento delle
sperimentazioni che facciamo nelle varie lavorazioni. Quindi “La gattabuia”
è partita come attività di formazione CFPP e quando poi è diventata autonoma
e sostenibile economicamente è passata alla Cooperativa sociale. La “Banda
Biscotti” è in una fase di passaggio, nel senso che adesso sono sei mesi che
è gestita da CFPP, grazie anche a un piccolo contributo della Fondazione CRT,
ma entro 4-5 mesi passerà alla Cooperativa, perché ormai siamo quasi
“sostenibili”.
Ma
quindi sono i detenuti che producono i biscotti e avete un laboratorio di
pasticceria all’interno del carcere?
È
il laboratorio dove al mattino facciamo i corsi professionali e al pomeriggio
“Banda Biscotti”.
E
quanti detenuti vi lavorano?
Due,
adesso. Potremmo arrivare a tre, il problema è che il forno ha sei teglie ed è
piccolino, magari se riusciamo a prenderne un altro…
E
come li commercializzate questi prodotti?
Adesso
li stiamo commercializzando coi Gruppi d’acquisto equo-solidali, filiera corta
con un po’ di contatti diretti, botteghe del commercio equo, soprattutto
quelle “indipendenti”, perché poi entrare nel mondo del commercio equo è
un po’ complicato, nella misura in cui Ctm (il Consorzio Ctm
altromercato è la maggiore organizzazione di commercio equo e solidale in
Italia e la seconda a livello mondiale) tende a farla un po’ da “padrone”,
e in alcune situazioni a mettere in atto delle logiche un po’ imperialiste,
secondo me… Però anche con Chico Mendes si sta facendo un’ottima
collaborazione, a Garabombo, lo spazio espositivo che fanno a Natale ogni anno
qui a Milano, è stata incredibile la risposta dei biscotti, tant’è che
ancora adesso tanta gente si ricorda. Per cui è un po’ questo il circuito:
adesso dovremmo chiudere un contratto con la COOP, però con grande cautela,
perché noi riusciamo a fare 15 kg al giorno. Stiamo cercando di far partire
anche la cucina di Saluzzo per far biscotti “Banda Biscotti”, però il
discorso deve mantenere un certo rigore di artigianalità, io non voglio che
diventi una produzione industriale, non mi interessa. A me interessa che la
gente impari a fare tutto: adesso i ragazzi fanno dalla A alla Z, prendono i
prodotti grezzi, fanno gli impasti, curano il confezionamento di ogni biscotto,
uno a uno con le mani, infornano, controllano i tempi di cottura, insacchettano,
preparano tutto… E io voglio che si mantenga questa attenzione al processo, la
consapevolezza di saper curare un prodotto dall’inizio alla fine; se invece
diventi troppo grande, inizi a ragionare più sui volumi e perdi un po’ quelle
caratteristiche. Quindi dobbiamo trovare un punto di equilibrio tra la
sostenibilità economica e lo spirito di questa iniziativa.
Ma
il carcere di Verbania è un Circondariale?
Sì,
e c’è un grande turnover.
Quindi
voi adesso state facendo parallelamente il corso di formazione e la produzione,
ma il corso poi quando finisce viene rinnovato?
Noi
riusciamo a fare due corsi, la formazione va dalla fine di novembre alla fine di
giugno ogni anno. Rimangono fuori quindi 5 mesi, ma di solito riusciamo sempre a
far fronte a ogni necessità con persone formate e poi c’è un passaggio di
competenze tra quelli che lavorano nel laboratorio e gli altri. Quindi finora ci
stiamo riuscendo, ma è sempre tutto molto in un equilibrio delicato… Poi c’è
il nostro maestro artigiano che viene a fare supervisione, che è un pasticcere
esterno.
Anche
da noi a Padova c’è una pasticceria, però la nostra è una Casa di
Reclusione, quindi la gente ha pene medio-alte, c’è meno turnover… La
vostra esperienza comunque insegna che anche nelle Case Circondariali puoi
creare delle attività, e a noi questo interessa molto, perché spesso le Case
Circondariali sono dei “parcheggi”, dove uno entra e non fa niente.
Certo,
ma dipende da che interlocutori hai, secondo me, nel senso che noi abbiamo un
comandante e un’educatrice che credono nel progetto, per cui ci si dà da fare
tutti assieme per trovare ragazzi che abbiano le caratteristiche di affidabilità…
i detenuti poi lavorano totalmente “sconsegnati” e sono in sezione, quindi
c’è un’attenzione a chi si sceglie, perché in dieci anni non è mai
successo niente, e questo significa che sono sempre state scelte persone
responsabili e che hanno dato delle garanzie.
Quindi
anche nelle Case Circondariali questo è possibile, se però hai operatori che
sono convinti, partecipano, cercano le persone, non ti fanno aspettare tre mesi
per avere un nome, ma trovano subito delle soluzioni, perché l’obiettivo è
mandare avanti la produzione.
Invece
“La Gattabuia” è un ristorante vero e proprio?
Sì.
È uno spazio del Comune di Verbania, la Villa Olimpia, e nel 2006, quasi per
scherzo, l’allora assessore alle Politiche Sociali ci ha proposto di gestirla,
visto che era in scadenza di appalto. Alla fine io non volevo, ero spaventato
dall’impresa, ma l’insegnante ha voluto provarci e il ristorante va davvero.
Ora ci lavorano due detenuti in articolo 21, con una cuoca; però anche lì c’è
turnover e quindi si fanno periodi di 6-8-20 mesi e poi si cerca di
trovare qualcosa fuori. Anche perché da noi il settore turistico è uno dei
pochi che più o meno resiste, perché a Verbania non è rimasto più niente di
industrie, quindi c’è solo terziario e turismo e perciò ha senso lavorare
con questo tipo di professionalità.
Per
cui lì c’è una convenzione col Comune per il servizio di mensa sociale,
facciamo mangiare i bambini delle scuole, diamo i pasti a domicilio per il
Comune, e poi la sera il ristorante è aperto a gruppi, a chi vuole.
E
molte cose le preparate in carcere?
Una
volta facevamo così, però il problema è che il laboratorio quando lavorava
per il ristorante non riusciva a generare volumi tali da mantenere due persone a
lavorare dentro, mentre i biscotti hanno più potenzialità. La pasticceria
secondo me ha un minimo margine in più, anche perché lavori su una filiera non
di fresco, per cui hai molti meno scarti, hai una conservazione che non è
lunghissima, ma comunque è media. Noi nei biscotti non mettiamo nessun
conservante, però comunque i biscotti durano tranquillamente tre mesi, per cui
è un buon compromesso.
Quindi
adesso non si lavora più per “La Gattabuia”, capita magari una volta al
mese, quando dobbiamo fare le pizze per i bambini.
Com’è
la situazione all’interno del carcere di Verbania rispetto al
sovraffollamento?
Secondo
me non è un carcere dove si sta male, l’unico problema è che non ha aree
verdi. Era una vecchia struttura, restaurata circa 30 anni fa; è stato uno dei
primi istituti in Italia ad avere il bagno dentro le celle, quando c’è stata
la riforma del Regolamento penitenziario, perché in quegli anni avevamo una MOF
(Manutenzione Ordinaria dei Fabbricati) eccezionale, quindi siamo riusciti
velocemente e in economia a fare i bagni interni.
È
un carcere un po’ piccolo, non ha grandi spazi, però ci sono tante attività.
Il rapporto tra il numero degli articolo 21, degli ammessi al lavoro
all’esterno e i semiliberi, e il numero dei detenuti a Verbania è circa del
10-15%, per cui è elevato, cioè mediamente ogni giorno sono in 15 che escono a
lavorare su 100 persone. E dentro ci sono circa 15-20 detenuti impegnati in
servizi.
*
L’Associazione
CFPP Casa di Carità Onlus
è una agenzia formativa che si occupa di orientamento, formazione professionale
e inserimento socio-lavorativo prevalentemente rivolti a persone svantaggiate,
detenuti, ex detenuti, giovani a rischio, stranieri, tossicodipendenti. Opera
all’interno e all’esterno degli Istituti di pena di tutto il Piemonte.
Intervista
a Michelina Capato, attrice, regista, drammaturga
Un
teatro che più libero non si può
Parliamo
di un teatro in galera, ed è difficile perfino immaginare che dietro le sbarre
si possa fare teatro come succede a Bollate, con tanta libertà, provando di
sera, facendo entrare ex detenuti, aprendosi alla città per sessanta sere
l’anno
Intervista a cura della redazione
Il
progetto Teatro in-stabile ha dato a Milano un nuovo teatro, in tempi in cui le
sale teatrali chiudono, ma un teatro particolare, che ha sede dentro un carcere,
quello di Bollate, e però apre alla città con orari e modalità anomali per
una galera. E offre anche uno sbocco lavorativo ai detenuti che lavorano nella
compagnia, come attori e come tecnici qualificati, grazie alla cooperativa
E.S.T.I.A.. Di questo “strano teatro” abbiamo parlato con Michelina Capato,
attrice, regista, drammaturga, che ne è l’anima da sempre.
Quando
è nato
il tuo teatro in-stabile?
Abbiamo
iniziato a fare teatro in carcere nel ‘92 e piano piano con l’apertura di
Bollate abbiamo potuto trasferirci in un luogo, dove è stato possibile
costruire un teatro, coniugando sempre l’elemento dello spettacolo con le
tecniche per il teatro. Quindi formiamo tecnici luci, tecnici del suono, abbiamo
una falegnameria per fare scenografie, cerchiamo di costruire un progetto che
sia abbastanza integrato tra dentro e fuori, cioè persone che si formano
dentro, lavorano dentro, poi c’è il passaggio all’esterno e c’è
una cooperativa esterna che gestisce questa attività ed altre.
Quindi
fare teatro a Bollate significa anche avere delle prospettive lavorative?
Si,
perché per noi è una attività lavorativa, cioè gli attori sono pagati, nelle
condizioni sindacali previste dal contratto nazionale di lavoro, il nostro è un
teatro di produzione. Così due anni fa, quando la Fondazione Cariplo ha dato
vita a una nuova linea di progetti che si chiamano Progetto Être - Esperienze
teatrali di residenza, attraverso un bando che intende promuovere e incentivare
la qualità del lavoro artistico, delle migliori realtà della scena lombarda,
noi lì ci siamo presentati, sia pur nella nostra differenza, e siamo stati
riconosciuti. Quindi abbiamo questo supporto che ci ha permesso, non solo
economicamente, di darci una struttura produttiva, ma soprattutto di definire
con chiarezza il rapporto fra la cooperativa, l’istituzione carcere e il
territorio, attraverso delle convenzioni, per cui noi per esempio abbiamo una
convenzione con l’Istituto di Bollate e il Provveditorato, che ci permette di
aprire al pubblico sessanta sere l’anno.
Il
pubblico si prenota, paga normalmente e viene agli spettacoli in carcere.
Hai
detto 60 sere l’anno?
Sì,
possiamo arrivare a 60, in realtà al dato attuale sul primo anno di apertura
del teatro abbiamo fatto 42-43 serate aperte al pubblico, a volte sono nostri
spettacoli, l’anno scorso un test che abbiamo fatto è stato di ospitare altre
compagnie, quest’anno finalmente riusciamo ad ospitare compagnie di
teatrocarcere, c’è chi viene da Rebibbia, chi da Saluzzo, da Volterra, da
Padova.
Quindi
si cerca di fare in modo che anche questo finalmente sia legittimato come un
lavoro, perché la cultura nostra, soprattutto in Lombardia, è quella che se
lavori è una cosa, ma se non c’è profitto o ne esce poco vuol dire che ti
stai divertendo e basta, e quindi il passaggio significativo è stato questo. Le
persone vengono, provano e la cosa buona è stata anche quella di trovare piano
piano gli accordi con la magistratura di Sorveglianza, con la Direzione e con il
Provveditorato, in base ai quali una persona che ha lavorato con noi 3-4 anni e
che poi esce, in affidamento o in altre forme alternative o ha finito proprio,
possa rientrare in carcere per lavorare.
Quindi
noi abbiamo persone che sono o libere o affidate, che il pomeriggio alle cinque
entrano per provare, grazie a questa “giornata lunga”, perché dalle nove e
mezza alle cinque lavoriamo in ufficio, in cooperativa, in giro con il furgone,
poi una pausa di circa mezz’ora e si rientra in carcere tutti quanti a provare
fino alle undici e mezza.
Alle
undici e mezza di sera?
Devo
dire che la nostra fortuna è stata che affianco al luogo in cui proviamo,
dentro al carcere, hanno aperto un Call Center, che dovrebbe essere in funzione
ogni giorno fino a mezzanotte, e dato che anche noi siamo una attività
lavorativa e non ricreativa-culturale, intanto che sono aperti di là perché
lavorano, siamo aperti anche noi perché lavoriamo, quindi ci sono investimenti,
contratti, rischi: come qualunque teatro esterno, si fa un progetto annuale, si
definiscono delle linee.
Voi
quindi vi
finanziate con gli spettacoli, poi avete una linea di finanziamento stabile
oppure ogni anno presentate progetti?
Allora
noi in questo momento abbiamo un’unica linea di finanziamento, che è quella
della Fondazione Cariplo, poi abbiamo il sostegno dell’Assessorato alla
Cultura del Comune e della Provincia di Milano.
Quindi
in tutto stiamo parlando di 60.000 euro l’anno, che in realtà sono pochi
rispetto al costo, poiché il progetto è di circa 200.000 euro l’anno, sono
quei progetti in cofinanziamento, insomma tu ti assumi la responsabilità di
produrre lavoro per oltre il 50 per cento di quello che ricevi, però con una
fatica infinita. Noi siamo partiti dall’idea di autoproduzione, nel senso che
per cultura del nostro gruppo, ma anche per consapevolezza del tempo storico in
cui viviamo, se aspetti di essere finanziato per fare qualcosa rischi di restare
fermo. Intanto iniziamo a fare, e mentre facciamo arriveranno degli aiuti, che
sono sempre dei finanziamenti su quelle linee di progetto, su quelle azioni, che
con le forze interne non puoi fare, però il resto è autoproduzione.
Probabilmente
è anche la continuità che dà senso e qualità al progetto, perché in
carcere, e lo vediamo anche noi con le nostre attività, quello davvero è un
valore aggiunto, di esserci sempre, di garantire una presenza senza
interruzioni.
È
vero, la qualità del progetto è data prima di tutto dall’esserci con
continuità. La nostra comunque è una macchina complessa, sul lavoro siamo 20
persone, sono 20 stipendi, quindi stiamo parlando di un’economia non così
semplice… Noi abbiamo una cooperativa sociale, quindi secondo i fatturati ci
ridistribuiamo il valore all’interno, non c’è un rapporto tra datori di
lavoro e dipendenti, in cooperativa non c’è nessun dipendente tranne
un’amministrativa esterna, ma devo dire che sta diventando socia anche lei.
Quindi il concetto è quello del riconoscimento delle ore di lavoro, certo non
sempre va bene, il 2009 è stato un anno di difficoltà, tutti quanti ci siamo
ridotti lo stipendio.
Come
lavoro ci sono le attività tecniche e quindi i falegnami, i tecnici luce, i
fonici, alcune attività sono più sull’esterno, perché ci sono alcune
persone che sono uscite e continuano o a essere soci della cooperativa, o a
collaborare, facendo service tecnico, con le luci, per altre manifestazioni.
Poi
c’è un settore organizzativo e amministrativo in cui siamo in tre, e poi c’è
un’altra rosa di collaboratori, che hanno a che fare con la programmazione e
l’attività commerciale.
In
fine c’è l’attività teatrale che si muove per periodi: il laboratorio
funziona cinque giorni a settimana, quindi noi lavoriamo sempre, però i periodi
in cui riusciamo a pagarci in base ai progetti sono i periodi di prova degli
spettacoli.
Che
spettacoli preparate, che testi avete messo in scena?
Noi
facciamo un lavoro di teatro danza, quindi partiamo da una dimensione corporea e
arriviamo al testo, seguendo un percorso che è quello innanzi tutto di
interrogarci su quali sono le cose di cui abbiamo urgenza, che cosa abbiamo
bisogno di fare. Quindi quando pian piano emerge nel lavoro fisico, nel lavoro
d’improvvisazione una tematica che sembra poter ricomprendere le differenti
sensibilità di ognuno di quelli che ci lavorano, allora cominciamo a
raccogliere tutta una serie di materiali, che possono essere non necessariamente
teatrali. Noi infatti molto spesso lavoriamo su testi non teatrali, per esempio
abbiamo lavorato sul testo Psycopathia criminalis di Oskar Panizza, che è un
saggio di uno psichiatra del 1898 che è un attacco al concetto politico di
istituzione totale straordinario, e parlarne da dentro un’istituzione
detentiva è vivere un teatro politico di un certo tipo.
E
da lì si inizia a rielaborare, il nostro è un linguaggio di teatro fisico,
quindi il testo è fondamentale, ma la coreografia lo è altrettanto. È un
processo di lavoro che richiede una quantità di tempo davvero infinita,
veramente tante ore e ricerche.
Prima
di Bollate dove hai lavorato?
Ho
iniziato nel ‘92 a S. Vittore, lavoravamo in una cella di 3 metri x 2, eravamo
in 18 ed utilizzavamo un tavolo come palcoscenico, ma è stato importante perché
è proprio grazie alla difficoltà del percorso che sono stata obbligata a
capire dov’ero. Uno arriva in un posto con un suo pensiero e poi cerca di
inserire nella sua progettazione il materiale umano, in carcere si tratta un
po’ di fare il contrario, cioè di mettersi dietro a chi è lì e da lì
procedere.
Però
ci pare che riuscire a creare una realtà come la vostra sia possibile solo in
un carcere come Bollate.
E’
evidente che si, inoltre è chiaro che si rende necessario coniugare più
aspetti, capita spesso che per progetti europei io vada in altri istituti del
nord Europa, o in Spagna ed è vero che ogni contesto detentivo è diverso da un
altro, che ogni carcere è un mondo a sé ed inevitabilmente ti trovi di fronte
degli ostacoli, dei muri invisibili interni, a volte basterebbe capire se quel
muro sta lì per abitudine, se ha un vero motivo per stare lì, o qual è il
falso problema che impedisce almeno di spostarlo. Spostarlo perché tanto il
muro non lo butti giù, purtroppo nella testa di tutti la galera viene vista in
questo modo, ma si tratta solo di spiegare che spostando anche solo di poco quel
muro potrebbero accadere cose che non creano problemi a nessuno, se non un
piccolo spostamento culturale per tutti, ma è sempre una gran fatica capire che
si può fare altro e che si può fare meglio anche in carcere.
La
grande difficoltà è capire che il carcere è già il luogo dove tutti
rivendicano tutto, quindi non serve entrare nel mondo della contrapposizione, io
dico sempre che bisogna spostarsi verso un concetto che è quello del
“corretto conflitto”. Siamo in una realtà conflittuale, se cerchiamo di non
negarla, ma ci situiamo correttamente in una dialettica conflittuale, che ha
anche come oggetto condiviso un processo di migliore qualità per tutti, ci
rendiamo conto che non è poi così difficile.
Hai
detto “spostando anche solo di poco”, pure noi lavoriamo con piccoli
spostamenti pazienti, piano piano abbiamo iniziato per esempio da tre anni a
lavorare con le scuole, e piano piano abbiamo contribuito ad aprire il carcere a
migliaia di studenti.
Noi
lavoriamo in un contesto dove il tempo è il governatore assoluto, la persona
detenuta per esempio ha bisogno di “ritualizzare” il tempo, perché se io
dovessi immaginarmi 30 anni di un tempo fisso non lo potrei fare, allora devo
pensare che a quell’ora faccio il caffè, poi vado all’aria, poi faccio la
doccia… Il tempo è in realtà il limite e quindi è l’ostacolo sul quale si
lavora, io ad esempio sono consapevole del fatto che se una persona entra nel
progetto e uscirà magari tra sei mesi o un anno, non c’è tempo per fare un
vero lavoro.
Ma
se io penso a come è delicato per me fare un piccolo cambiamento, nella mia
personale esperienza, allora poi in qualche modo, consapevolmente o meno, mi
rendo conto che stiamo chiedendo alle persone detenute di fare dei processi di
evoluzione talmente grossi… Ora, io in galera ho sempre trovato persone che ci
sono arrivate soprattutto perché fuori avevano ricevuto poco e malamente, non
necessariamente deprivate, ma che avevano ricevuto confusamente, malamente,
disorganicamente. E il rischio è che si ritrovino poi in un contesto ancora più
nevrotico, perché quando una persona esce in affidamento, e magari si è appena
fatta 6-7 anni là dentro, nel frattempo ha la moglie che ha perso la casa, i
bambini hanno problemi a scuola, insomma tutte queste questioni gli cadono
addosso al momento in cui inizia a lavorare all’esterno e non è facile far
fronte a tutto. Magari deve incontrarsi con l’assistente sociale all’UEPE
una volta alla settimana, poi l’educatore che lo segue lo vuole vedere a una
data ora, in tutto questo però hai la stessa persona che deve mediare con il
datore di lavoro e gli deve dire: guarda scusami ma alla mattina io non vengo
perché devo andare dallo psicologo tra le 10.45 e le 11.50, (o
dall’educatore, o al Ser.T), quindi alla mattina se vengo qui poi devo andare
lì.
Per
noi che lavoriamo all’esterno con il furgone, e l’organizzazione è
millimetrica, perché di furgoni ne abbiamo uno, e di persone ne abbiamo due che
si occupano di questo, sono difficoltà non da poco. Venerdì uno dei due ha
fatto il cambio di firma sulla sorveglianza e ha passato la giornata a cercare
di capire l’attuale nuova posizione e da quale questura dipendesse, alla fine
ne ha girate quattro. All’altro finalmente eravamo riuscite a trovargli un
dentista, vuoi non mandarlo dal dentista? quindi quel giorno ci siamo trovati
senza il furgone e senza due persone. I problemi sono tanti, adesso non voglio
neanche esagerare però dovremmo imparare a coordinarci meglio noi, anziché
chiedere a queste persone di risolverci le nostre incapacità di coordinamento.
Hai
detto che ogni tanto partecipi con progetti teatrali a iniziative in altri
Paesi. Rispetto al carcere che tipo di difficoltà trovi, o che tipo di
opportunità diverse da quelle che riusciamo ad avere qui in Italia?
La
cosa più terribile che posso dire, ma la più vera, è che l’amministrazione
penitenziaria italiana mi sembra essere la migliore rappresentata in Europa,
anche se è vero che c’è una certa maggiore “freschezza” in Spagna, lì
c’è un’attenzione a certi temi come gli affetti, in Spagna un detenuto può
telefonare a una signora fuori, e invitarla in una camera da letto in carcere e
vedere rispettato un bisogno primario, rispetto al quale l’abbrutimento che
noi vediamo qui proprio non è contemplato, non esiste. Ma se tu a una persona
detenuta dai tutto ciò di cui ha diritto, puoi fargli sentire davvero la natura
della pena, che non è la natura del sopruso o della privazione coatta, è una
mancanza di libertà e non altro, e solo una pena sensata fa assumere la
responsabilità del proprio vissuto. Così com’è oggi non ha senso la pena,
non ha senso.
É
il discorso che fanno molte persone detenute che arrivano a Bollate, e che a
Bollate riescono ad avere un programma, un percorso vero, poi magari escono e
possono dire finalmente: io questa volta sono uscito non arrabbiato, sono uscito
e ho sentito che c’era una possibilità per me. Chi viene accompagnato
all’esterno in un modo intelligente non è così facile che rientri, è che
invece spesso viene massacrato prima e abbandonato poi.
Le
sarte di Bollate e San Vittore
Alice,
e i suoi Gatti Galeotti
Una
cooperativa che insegna alle donne detenute a fare lavori di sartoria, e anche a
pensare al loro futuro. E infatti ben sei persone uscite dal carcere sono
riuscite ad aprire un’attività propria di sartoria o di riparazioni
A
cura della Redazione
Luisa
Della Morte è responsabile della Cooperativa Alice, quella che associamo
soprattutto alla coppia di “Gatti Galeotti” che, alla Fiera “Fa’ la cosa
giusta” a Milano, abbiamo visto occhieggiare su tanti oggetti da regalo
spiritosi e divertenti: un marchio che non passa inosservato. Abbiamo
intervistato Luisa per farci raccontare come lavora la sua cooperativa, e che
progetti ha per il futuro.
Dove
opera la cooperativa Alice?
La
cooperativa Alice, di cui sono responsabile, lavora nelle carceri di Bollate e
San Vittore con dei laboratori all’interno dei due istituti e un laboratorio
esterno, che si occupano di attività sartoriali. Quindi principalmente
lavoriamo con le donne detenute da una parte e quelle in misure alternative
dall’altra.
Tra
Bollate e San Vittore ci sono delle produzioni diverse?
Diciamo
che quello di Bollate è un laboratorio abbastanza recente, di due anni
all’incirca, da quando è nata anche la sezione femminile in quest’istituto.
Principalmente
a Bollate vengono creati prodotti gadgettistici per la nostra linea che si
chiama “Gatti Galeotti”, ad esempio grembiuli, cappelli da cuoco e vari
articoli di questo tipo. È un lavoro quindi abbastanza seriale e semplice.
A
San Vittore invece la formazione è stata più lunga e quindi si è arrivati ad
una produzione più varia e complessa, come ad esempio capi di abbigliamento da
donna.
Il
laboratorio esterno invece è la massima nostra specializzazione, dove ci siamo
allargati anche alla sartoria teatrale, ma soprattutto abbiamo completato il
ciclo della produzione in sartoria con la figura di una modellista che crea
l’idea iniziale.
Come
vengono commercializzati i diversi prodotti?
Noi
produciamo principalmente per conto terzi, ovvero per proprietari di negozi e
show room. Vengono da noi con una collezione, noi la ideiamo e realizziamo anche
la vera e propria produzione. Diciamo che all’80% sono commissioni che ci
arrivano da altri. Il restante 20% è invece la nostra produzione vera e propria
con il marchio “Gatti Galeotti”, che vendiamo in occasioni come la fiera
“Fa’ la cosa giusta”, e attraverso il passaparola, e in ultimo a settembre
apriremo un negozio con la gadgettistica di “Gatti Galeotti” e i capi di
abbigliamento col marchio “San Vittore”.
Quante
detenute lavorano in questo progetto?
A
Bollate ce ne sono quattro, a San Vittore cinque, mentre nel progetto esterno
tredici persone; diciamo che siamo in totale venticinque persone che si occupano
del progetto, tra chi è in misura alternativa, ex detenute e persone che invece
non hanno mai avuto alcuna esperienza di reclusione. Alcune persone se ne sono
andate, chi per anzianità, chi perché è tornata al suo Paese di origine. Ma
io che sono qui da vent’anni ho visto passare molta gente attraverso la
cooperativa, forse più di cento persone.
La
cosa interessante è che sei persone sono riuscite ad aprire un’attività
propria di sartoria o di riparazioni. Due ragazze in particolare si sono messe
assieme e, avendo ereditato un cliente della cooperativa che commissiona molti
capi, sono riuscite a mettersi in proprio.
Voi
organizzate dei corsi di formazione permanente?
Anche
due volte l’anno. In particolare a San Vittore, dove c’è una maggiore
affluenza di detenute, che vengono formate attraverso dei corsi magari più
brevi per un minimo di 180-200 ore che sono quelle base per la sartoria.
Nelle
selezioni cerchiamo di privilegiare chi ha già avuto esperienze in questo
campo.
Il
laboratorio “Libere di fare” per le donne detenute nel carcere di Pesaro
Riù
Ludoteca del riuso
Nella
Casa circondariale di Pesaro è presente la cooperativa sociale Il Labirinto,
che si occupa
di attività artigianali, offrendo una possibilità lavorativa a diversi
detenuti attraverso la realizzazione di particolari oggetti. Ne abbiamo parlato
con Valentina Tonucci e Gina Iacomucci, rispettivamente psicologa presso la Casa
circondariale e responsabile settore infanzia della cooperativa
A
cura di vanni Lonardi
Come
è nata la cooperativa e quali sono gli obiettivi che vi siete prefissi?
Il
Labirinto è nata nel 1979, quando un gruppo di educatori ha pensato di crearsi
una occupazione più stabile e qualificata decidendo di costituirsi in
cooperativa. Il 1992 è invece l’anno di nascita di Labirinto come cooperativa
sociale, infatti quell’anno la cooperativa fa proprie le indicazioni della
normativa nazionale e regionale (381 del 1991). Il Labirinto è una cooperativa
sociale di tipo A, e offre servizi alla persona: educativi, socio assistenziali
e di animazione. Tra i suoi obiettivi c’è quello di creare opportunità di
lavoro nei servizi, tra i quali opere di asili nido, centri educativi per
disabili, residenze per anziani, e partecipare alla costruzione del sistema del
welfare locale.
Operate
all’interno del carcere di Pesaro: quali sono i tipi di lavori che realizzate?
“Libere
di fare”, questo
è il nome del laboratorio, è un progetto pilota volto a conciliare
l’attenzione all’ambiente e l’impegno sociale. Per la prima volta abbiamo
portato il messaggio critico e creativo di Riù all’interno di una istituzione
carceraria: quello di non cedere al dilagante consumo vorace e indiscriminato
delle cose, idee e relazioni e di diffondere attenzione e cura per lo spazio e
gli oggetti che ci circondano.
L’attività
è proposta secondo progettazione, tutti i martedì pomeriggio dalle 13,00 alle
16,00 presso la sezione femminile della Casa circondariale di Villa Fastiggi di
Pesaro. Consiste in laboratori che hanno come obiettivo la produzione di oggetti
per bambini, utilizzando materiali recuperati da aziende o già usati ma in
ottimo stato, al fine di promuovere un pensiero intorno all’educare, al
rispetto dell’ambiente e alla tutela della bellezza.
Gli
oggetti sono stati progettati da un’esperta in design, Roberta Pucci, che
collabora da anni con la cooperativa, e si inseriscono nel progetto della
Regione Marche “Riù Ludoteca del riuso”. Il laboratorio viene condotto da
una delle operatrici della cooperativa. Gli oggetti consistono in animali in
cartone ricoperto da carte particolari (15 euro) per abbellire camerette per
bambini/e; sedie con schienale e sgabelli per bambini/e in cartone a doppia onda
molto resistenti, eco-compatibili ed economiche (30-40 euro), cassettiera per
bambini (40 euro), e un gioco in scatola “memory tattile” costruito con
materiali di riuso, nel quale vince chi azzecca più coppie tattili…
naturalmente ad occhi chiusi!
Che
tipo di formazione professionale è previsto?
Non
è prevista formazione professionale, le tecniche utilizzate per la
realizzazione degli oggetti sono abbastanza semplici, è richiesta alle ospiti
un’attenzione, cura e precisione rispetto a ciò che si sta costruendo. Gli
strumenti che si utilizzano sono taglierini, forbici da sartoria, colla
vinilica, colla spray, colla bostik, pennelli, ago e filo, righe e squadre.
Quante
persone può assumere la cooperativa e quante di loro sono detenute?
L’esperienza
con il carcere per noi è un’esperienza nuovissima; nata da una contaminazione
di luoghi (Ludoteca Riù – Biblioteca - Casa circondariale) nei quali si sono
incontrate le persone (responsabili delle istituzioni) con i loro impegni e
progetti.
Il
laboratorio “Libere di Fare” è iniziato a settembre 2008, stiamo valutando
questo primo anno di esperienza, che per noi vuol dire considerare i punti di
forza e i punti deboli, pensare a prospettive ed evoluzioni. Non sappiamo quante
persone troveranno lavoro nei servizi di Labirinto, comunque ci definiamo come
una impresa meticcia, perché fatta di confluenze, incontri, svolte. Sempre più
possiamo definire Labirinto come “un cantiere aperto”, nel quale attualmente
operano 501 lavoratori di cui 301 soci. Un cantiere nel quale si stanno
immaginando e creando nuovi scenari d’incontro con tante realtà esterne,
perché questo pensiamo sia l’obiettivo di chi opera nella solidarietà:
mettersi ogni giorno in gioco.
Pensate
che il vostro progetto migliori la vivibilità del carcere?
È
difficile da dire, il laboratorio è un appuntamento, un pomeriggio insieme in
cui è possibile discutere, raccontare il quotidiano, può essere utile al fine
di far conoscere un po’ di più le persone tra di loro anche se vivono a
contatto ogni giorno. Può, dal nostro punto di vista e per la piccolissima
esperienza di quest’anno, essere utile per finalizzare le risorse su un
obiettivo che la persona può portare avanti dal primo all’ultimo particolare,
o di contro decidere di costruire un oggetto tutte assieme, in cui tutte possano
rispecchiarsi ed essere in quel piccolo soddisfatte. Tre ore in cui le persone
possono stare un po’ sospese, tirare qualche piccolo sospiro a volte,
scherzare ed essere tristi. “Libere di fare” è un progetto pilota
espressamente nato per la sezione femminile, si è concluso per una breve pausa
estiva a fine luglio ed è ripreso a settembre, con ulteriori oggetti da
costruire per incrementare il nostro catalogo.
Ci
sono stati enti, pubblici o privati, che vi hanno sostenuto nel progetto?
Sì,
per questo biennio il progetto è stato finanziato dall’ambito territoriale, e
stiamo già cercando di ottenere risorse presso la Caripesaro per le annualità
future. La Biblioteca San Giovanni di Pesaro sta attualmente esponendo alcuni
degli oggetti prodotti e anche una libreria per l’infanzia della nostra città,
Le Foglie d’oro, si è prestata a titolo gratuito per la vendita dei
manufatti, inoltre l’associazione Il gatto e la volpe in via Castelfidardo a
Pesaro ha adibito un locale alla vendita degli oggetti prodotti da noi e dalla
falegnameria che si trova nella sezione maschile.
Come
risponde la società nei confronti del negozio e dei lavori che realizzate?
Mi
sembra un po’ prematuro rispondere, penso che sia necessario del tempo per
consolidare il nostro lavoro e creare un piccolo legame con il tessuto sociale
interessato o che, forse, anche grazie a progetti come il nostro, si interesserà
alla Casa circondariale.