Intervista
a Lucia Castellano, direttrice della Casa di reclusione di Milano-Bollate
Cambiare
il clima che si respira in un carcere
E
se un carcere più aperto fosse anche un carcere più sicuro?
A
cura della Redazione
Lucia
Castellano, direttrice del carcere di Bollate, è anche autrice, assieme a
Donatella Stasio, giornalista del Sole 24ore, del libro “Diritti e
castighi”. L’abbiamo invitata in redazione per confrontarci con lei
sull’esperienza di Bollate, a cui si riferisce tutto il suo libro, che è
particolarmente interessante proprio perché parte da Bollate, ma poi ne esce
per fare delle osservazioni generali sul sistema delle pene nel nostro Paese.
Lucia
Castellano: Intanto vi ringrazio molto per avermi invitata, perché credo
che comunque il confronto sia importante per tutti e devo dire che anch’io
sono qui con qualche domanda da fare a voi, e poi perché credo che a stare
chiusi in carcere, dall’una o dall’altra parte delle sbarre, anche noi ci
stiamo dalle sette alle otto ore al giorno e siamo sempre calati negli stessi
problemi, si finisce poi per dimenticare che ci sono altri mondi. Quindi io
credo che sia sempre importante la contaminazione e l’incontro tra le realtà
e per questo ho accettato molto volentieri questo invito.
Da
che cosa partiamo? Dal fatto che tutti dicono: “Bollate è un’isola felice,
Bollate è un posto diverso dagli altri”. Allora andiamo a vedere perché è
un posto diverso dagli altri e che cosa lo fa diverso. Quando io ho cominciato a
fare questo mestiere, cioè quasi vent’anni fa, avevo studiato l’Ordinamento
penitenziario, quindi andavo a fare un lavoro che ritenevo bello perché,
nonostante fosse bruttissimo tenere la gente chiusa dentro, è uno dei lavori più
brutti se ci pensate, però era bello farlo in questo Paese, che aveva un
apparato normativo che ci consentiva di concepire il carcere come un posto sì
penoso, terribile, però comunque pieno di garanzie e di diritti, con
un’impostazione della giornata delle persone detenute che dava loro la
possibilità di recuperare piano piano la libertà. Perché la pena dovrebbe
essere data dal muro di cinta, che è già moltissimo, il fatto di non poter
varcare questo muro che sta qui è già una pena tremenda, credo che, dopo la
pena di morte, la pena più terribile sia la privazione della libertà.
Io
quindi ho trascorso questi primi vent’anni di galera con la convinzione
profonda che la pena è il muro di cinta e non c’è nessuna afflittività
aggiuntiva, e quindi ho cercato di “costruire” un carcere che fosse conforme
a questo principio banale: che all’interno di questa cinta, che è già ben
custodita e difficilmente valicabile, c’è la possibilità di vivere e
muoversi come se tu fossi in una cittadina da cui sostanzialmente è vietato
uscire.
Tanto
per cominciare la persona detenuta che entra viene trattata come una persona a
cui noi dobbiamo rendere un servizio, quindi esattamente come un malato in
ospedale, o qualunque altro cittadino che ha a che fare con l’istituzione
pubblica. Anche se capisco che tutto questo a raccontarlo così sembra
impossibile, data la situazione penitenziaria italiana. E guardate, quando parlo
di situazione penitenziaria, non intendo solo il sovraffollamento, il
sovraffollamento è un grosso coperchio che noi mettiamo per dire che non si può
fare niente, ma in realtà anche se non fossimo sovraffollati sarebbe così.
Dopo l’indulto eravamo scesi a 38.000 detenuti e quindi avremmo avuto tutto il
tempo per riorganizzarci e fare un cambiamento epocale che non abbiamo fatto,
quindi il sovraffollamento lasciamolo un attimo da parte, perché altrimenti
diventa il pretesto per dire che non si può fare niente perché siamo
sovraffollati. Ma io mi sono resa conto in questi anni che non è così, il
carcere proprio in sé contiene una dose di afflittività aggiuntiva, contiene
un rapporto di forza tale per cui “io sto sopra e sono il carceriere, e tu
stai sotto e sei il carcerato, tu fai quello che ti dico io e sono io che
ti muovo”. E allora non c’è una logica di servizio, c’è una logica
di potere assoluto, quindi “tu sei
debole perché sei dentro, io sono forte perché sono dall’altra parte delle
sbarre”.
Molto
spesso questo rapporto di forza è l’unico modo che noi conosciamo per gestire
le carceri. Io nel mio libro faccio l’esempio di Poggioreale, 2.500 detenuti
in un paese flagellato dalla criminalità organizzata, ed è la mia città tra
l’altro, io sono napoletana, e quindi sono 2.500 pezzi grossi che sono
mansueti come degli agnellini, sono dentro un carcere e camminano rasentando il
muro con le mani dietro la schiena. Mi sono chiesta, quando ho girato per
Poggioreale, se era possibile inventare un altro modo che non fosse questa
gestione fatta di potere assoluto, e capitemi non sono soltanto le violenze
fisiche, è quella violenza che conoscete bene che è esercitata ogni minuto
della vostra e nostra giornata e che spesso è funzionale alla gestione del
sistema. Io stessa se fossi il Direttore di Poggioreale non saprei gestire in
altro modo persone che hanno un livello di pericolosità forte, e che
all’esterno hanno un sistema di sopravvivenza di vita che è completamente
fuori da ogni logica di legalità, ed è assolutamente inserito in una logica di
criminalità organizzata, io non riuscirei ad immaginare di poter applicare lì
dentro quello che dice l’Ordinamento penitenziario.
L’Ordinamento
penitenziario però dice tutt’altro, per esempio le celle le chiama “locali
di pernottamento”, intendendo dire che ci si dorme e si vive da un’altra
parte, mentre invece nella situazione penitenziaria italiana si dorme e si vive
nello stesso posto. Il legislatore è attento a distinguere locali per il
soggiorno e locali per il pernottamento; è anche attento a dire che
l’Amministrazione dovrebbe rinsaldare i legami dei detenuti con le loro
famiglie. Significa che voi dovreste uscire di qui addirittura con dei legami
famigliari più forti di quelli con cui siete entrati, ma come si può fare con
otto ore di colloqui al mese e con quattro telefonate da dieci minuti?
Ornella
Favero: Come otto ore? Sono sei le ore dei colloqui.
Lucia
Castellano: Sì è vero, ma i nostri detenuti se hanno figli minori di 15
anni possono fare otto ore di colloqui, e possono avere un pranzo regalato per
le festività e quindi a Natale, Pasqua e Ferragosto. Perché noi cerchiamo di
tirare al massimo le possibilità, non perché siamo buoni, ma perché ci
rendiamo conto che quello che ci chiede di fare lo Stato è costruire una città
dove i diritti siano conservati e dove le persone possano mantenere il proprio
ruolo e la propria dignità di cittadini, anche se privati della libertà
personale. Tutto ciò si può fare soltanto tendendo al massimo la norma, e cioè
dandone un’interpretazione talmente estensiva, proprio quasi una molla, che si
apre facendoci entrare tutti i diritti possibili, è questo lo sforzo che noi
facciamo a Bollate, e perciò Bollate dopo otto anni di questa sperimentazione
sembra un luogo diverso dal normale, ma in realtà si avvicina di più a quello
che dice il legislatore. Quindi io non dico che tutte le carceri d’Italia
dovrebbero essere come Bollate, però sostengo che in Italia il legislatore dice
una cosa e noi da sempre ne facciamo un’altra, il legislatore dice che il
detenuto va rieducato, una parola che a me non piace per niente, una parola del
1948, ma il concetto è importante, allora io mi chiedo e vi chiedo: com’è
possibile tentare dei percorsi di rieducazione togliendo ad un detenuto, nel
momento in cui varca la porta di un carcere, qualunque possibilità di
decisione? come faccio a educare una persona che non può decidere neanche se
vuole farsi una doccia alle dieci di mattina e non alle otto? Allora come faccio
io a testare la capacità di una persona di aderire alle regole, se poi le
regole gliele impongo io e la muovo io? Sarebbe come insegnare a un bambino a
camminare facendolo stare sempre in un girello, non camminerà mai.
Secondo
me non esiste educazione senza capacità di scegliere. Il carcere oggi in Italia
non consente questa possibilità, e questo è un discorso che prescinde
assolutamente dal fatto che il poliziotto o il direttore siano buoni o cattivi.
Quando uno entra e si immatricola, la sua autonomia personale la lascia fuori
dalla porta, invece la deve conservare, non perché sia una vittima o un
poveretto, ma perché se non la conserva io non posso mai capire se quella
persona veramente è cambiata ed è in grado di fare delle scelte. Mentre che
cosa succede in genere nelle carceri? Che c’è una schizofrenia totale. Da un
lato voi detenuti siete mossi da noi: adesso ti apro, poi vai all’aria, poi
torni, e intanto gli educatori devono scrivere che avete riveduto il vostro
passato, che avete fatto un buon percorso. Ma quale buon percorso avete fatto?
Perché dalle docce alla cella non avete fatto male a nessuno? Oppure scrivono
che avete rivisto criticamente il vostro passato e tutte queste formulette che
io chiamo di schizofrenia istituzionale, perché, mentre appunto qualcuno si
occupa di definire tutti i dettagli della vostra vita, qualcun altro scrive che
avete fatto delle cose o che non le avete fatte, come se aveste la possibilità
di scegliere.
Il
processo che invece noi cerchiamo di fare è un processo a ritroso, cioè
proviamo ad immaginare di riconoscere alla persona cittadina che è detenuta in
un carcere un livello di libertà compatibile con il fatto che poi chiaramente
la libertà vera l’ha persa, e proviamo a reimpostare tutto da questa base:
questo è Bollate sostanzialmente, nel senso che le stanze si aprono alla
mattina alle otto e si chiudono alle otto della sera, i cancelli tra un piano e
l’altro del reparto sono aperti per cui si può girare liberamente tutto il
reparto, si possono raggiungere le attività in cui si è impegnati, che sono
tantissime, il vivaio, la cooperativa di catering...
Quindi
i detenuti si muovono liberamente, hanno dei cartellini con il loro nome e con
il percorso che devono fare, si chiamano cartellini di sconsegna, alle otto
timbrano il cartellino, se lavorano in un’azienda all’interno del carcere
alle dodici finiscono, vanno in cella a mangiare, alle due possono andare a
scuola fino alle cinque e tutto questo è nel percorso di sconsegna.
Questo
è un sistema che ci consente di lavorare con 1040 detenuti e 380 poliziotti.
Un’altra
cosa che noi abbiamo immaginato a Bollate è: se questa è una struttura che
costa un sacco di soldi, allora perché non cerchiamo di renderla in qualche
modo produttiva per i detenuti? il mio sogno sarebbe stato quello, piuttosto che
dare la mercede al detenuto scopino che più che pulire spesso passa con la
pezza sozza avanti e indietro per quelle due o tre ore al giorno, di cedere il
servizio di pulizia del carcere a una cooperativa mista detenuti e liberi. In
questo modo diventerei non il datore di lavoro che ti dà la paga, ma il
committente di un servizio, e tu cooperativa di detenuti con dei soci liberi
quel servizio me lo fai bene perché c’è un rapporto di lavoro tra noi. Per
cui, se lo fai male io il lavoro lo do a un’altra cooperativa. Così si
instaura un rapporto diverso anche con il detenuto, da un lato lo si riconosce
come una persona che sta facendo un lavoro, dall’altro lo si carica di una
responsabilità che diversamente non ha, perché la condizione di detenuto è
uguale a totale irresponsabilità. Con le pulizie non ci siamo riusciti, ma ci
siamo riusciti per esempio con il catering, abbiamo la cooperativa di detenuti e
liberi che è nata in carcere, a cui abbiamo dato la commessa per tre reparti.
Ora se il detenuto ci fa mangiar male, è la cooperativa che fa mangiar male
anche i compagni, quindi se nel carcere classico mangi una schifezza, non puoi
dirlo perché non puoi parlar male del cuoco, perché poi il cuoco sale in cella
e “ti apre in due”, mentre qui si rompe anche quell’omertà, quel
sommerso, quella copertura, e si cerca di ottenere un servizio. Il carcere in
questo modo comincia ad essere un posto dove tu detenuto, ma anche noi operatori
impariamo che comunque c’è una responsabilità, ci sono i diritti e ci sono i
doveri.
In
carcere c’è il grande nemico che è la cultura carceraria e la cultura è
assolutamente trasversale alle sbarre, non c’è niente da fare, ed è la
cultura dell’omertà, la cultura del coprirsi, del sommerso, dei rapporti
gerarchici che noi non riusciamo mai a scalzare. Allora l’illusione,
l’utopia è che invece tutto questo sommerso possa emergere e possiamo avere
dei rapporti, non dico paritari perché voi siete privati della libertà e noi
no, quindi non mi illudo, ma per lo meno di scambio. Attraverso le cooperative
ci si può riuscire, se io ti dico: “Guarda, oggi hai fatto una schifezza di
cibo, chiamo il tuo presidente e contesto la qualità del cibo”, io in quel
momento sono il tuo datore di lavoro, non una che esercita un potere assoluto.
Quindi sostituire il rapporto di potere con il rapporto di servizio è
l’utopia di Bollate rispetto alla consuetudine penitenziaria, non rispetto a
quello che dice la legge.
Io
ho lavorato prima nel carcere di Marassi, e ricordo che allora pensavo:
“Madonna santa, ma questo è veramente il mondo del paradosso, il mondo
dell’assurdo”. Ricordo anche le prime volte che arrivavano gli avvisi,
“Avviso alla popolazione detenuta”, mi sembrava così strano anche questo
modo di chiamarsi “la popolazione detenuta”. Quindi questo popolo di gente
disperata, che viveva in condizioni tremende, che però era tutta totalmente
sottomessa, e noi che sostanzialmente facevamo il lavoro più inutile del mondo,
che producevamo rabbia, rancore, stress. Questa è stata la fotografia dei primi
tre anni di servizio. Poi sono tornata giù, per sette anni, a Eboli, che era un
piccolissimo carcere di 50 detenuti tossicodipendenti di cui conoscevo tutto,
era praticamente una famigliola, e lì potevamo ribaltare questo assurdo,
potevamo immaginare dei rapporti diversi, e abbiamo costruito un carcere
diverso. A Bollate invece ho potuto sperimentare di costruire dei rapporti
diversi sui grandi numeri, finalmente perché non ne potevo più di tutti quelli
che mi dicevano: “Va be’ tu lo puoi fare, tu ne hai solo 50”. Ma adesso ne
ho 1040 e sono finalmente tutti aperti, e tutti liberi di muoversi.
Marino
Occhipinti: Ma
quali sono i problemi del carcere di Bollate, i punti critici?
Lucia
Castellano: Ve
lo dico con molta franchezza e cerco anche il vostro aiuto per capirlo, il
problema spesso sono proprio i detenuti, perché la risposta a questo maggior
grado di apertura è sempre una risposta in termini carcerari che, se ci
ragioniamo profondamente, forse è anche umano sia così, perché il fatto di
dire “Siete qui dentro, facciamo un patto per cui si sta tutti bene, facciamo
un patto per cui voi non tendete comunque a fregarci”, forse è pretendere
l’impossibile.
In
fondo il detenuto dentro non ci vuole stare, e allora il maggior nemico che io
incontro in questo momento è proprio nella cultura della popolazione detenuta.
Faccio un esempio molto banale: 100 dei nostri 1.000 detenuti sono in articolo
21, quindi alla mattina escono per andare a lavorare e alla sera ritornano.
Ebbene, a noi prima piaceva molto tenerli insieme agli altri, cioè nello stesso
reparto, così si creava quel senso di carcere “dove si respira”, allora
anche chi non va in 21 può respirare l’aria di chi invece fuori c’è stato,
era una contaminazione e ci piaceva molto. Non è stato più possibile farlo,
perché i ricatti, le richieste, erano di tale forza, che gli articoli 21 a un
certo momento hanno detto: No, basta ce ne vogliamo andare in un altro reparto
perché vogliamo stare senza qualcuno che ci chiede sempre: “Portaci il
telefonino, dammi la scheda SIM, la chiavetta e questo e quest’altro”.
In
realtà fregare l’istituzione fa parte della classica cultura che io tenderei
ad abbandonare per la vostra e per la nostra salute mentale; perché noi ci
rincretiniamo a fare un lavoro così idiota se stiamo 25 anni a firmare le
domandine, questa è anche la nostra vita, quindi pretendiamo da noi stessi un
lavoro più significativo. Questo cambiamento giova a tutti, non soltanto a voi,
ma anche a noi, giova anche ai poliziotti che non sono solo quelli che aprono e
chiudono.
Quello
che mi dispiace molto è che in questo panorama penitenziario noi, un po’ come
Padova, siamo “un’isola felice”.
Ornella
Favero:
Noi abbiamo un po’ abolito l’immagine di “isola felice”, perché è
rischiosa, almeno qui a Padova, dove le attività ci sono, e molto interessanti,
ma coinvolgono meno della metà dei detenuti.
Lucia
Castellano: Sì, anch’io ho abolito questa definizione, però nel
panorama penitenziario sono importanti questi spazi di vivibilità, di dignità,
di cultura, come nel caso di “Ristretti”. Per esempio quando io ho scritto
il mio libro, nei ringraziamenti ho inserito “Ristretti”, perché è
veramente una miniera di informazioni sul carcere. L’operazione che voi fate
è di altissimo livello culturale. Questi spazi di cultura, di autonomia
continuano ad essere delle eccezioni in un panorama che invece è di devastante
desolazione, e allora il senso del mio libro è quello veramente non di dire che
Bollate, Padova, Volterra sono carceri “buone”, poi tutto il resto è una
schifezza, ma di squarciare un velo e aprire uno scenario, e dire: “Guardate
che secondo noi il carcere è questo”. Ma qual è il nemico? Secondo me i
nemici sono due: uno, lo ripeto, è una cultura che appartiene moltissimo a voi,
ma anche a noi è chiaro, una cultura proprio trasversale alle sbarre. La
cultura penitenziaria si oppone fermamente al cambiamento. Il secondo gravissimo
problema, per cui il carcere non cambia, è l’immaginario del carcere: io sono
arrivata alla conclusione che il carcere è così perché è fuori che lo si
vuole così.
Quando
parlo del mio istituto, anche con gli amici a cena per esempio, loro dicono:
“Ma allora mi faccio arrestare, con i cavalli, il maneggio, la palestra, manca
solo la piscina!”, e lo dicono seriamente, per cui io a furia di sentirmi dire
questa stupidaggine, ho maturato la convinzione che probabilmente il carcere
deve essere afflittivo, deve essere inutilmente crudele, perché la funzione che
la società civile chiede al carcere è questa, indipendentemente da quello che
dice il legislatore. Per cui un carcere che si limita a dire “sei privato
della libertà e basta” è un carcere troppo buono e le politiche criminali
degli ultimi anni enfatizzano proprio questo: si vuole che la gente stia dentro
il carcere, si vuole riempirlo a dismisura e si vuole che il carcere sia
cattivo. Lo si vuole profondamente, è nel DNA della società civile, non si
accetta un’idea diversa. Mi viene in mente una domanda che mi ha fatto Corrado
Augias, un signore di una certa cultura, quando mi ha invitato a presentare il
libro alla sua trasmissione: “Dottoressa, sfogliando il suo libro ho visto che
avete il maneggio e tutto il resto, ma non le sembra troppo?”. E io ho
pensato: “Evidentemente è così, se Augias stesso mi chiede se non mi sembra
di esagerare a farli stare troppo bene!”.
Vedete,
si ritorna al potere assoluto, è come se io avessi dentro di me una specie di
termometro per cui posso decidere da 1 a 10 quanto farvi stare bene e quanto
farvi stare male. Ma questa è una cosa che nemmeno Luigi XIV faceva con i suoi
sudditi, io non voglio avere con i detenuti un rapporto da sovrano, io voglio
avere un rapporto di servizio. Di recente per esempio, entrando in ospedale, che
è l’altra istituzione totale per eccellenza assieme al carcere, ho letto
affisse al muro una serie di raccomandazioni che i primari dell’ospedale
facevano agli infermieri: “Ricordiamoci che noi siamo qui al servizio
dell’utenza, al servizio dei malati e quindi la nostra giornata dobbiamo
spenderla a far stare meglio possibile i malati”. Raccomandazioni che mi
hanno fatto molto riflettere.
Marino
Occhipinti:
Riguardo al fatto di stare bene in un carcere “aperto”, secondo il mio
parere, la persona detenuta sta meglio, però può essere paradossalmente un
carcere più difficile, perché ti consente di “trasgredire”. Se io sto
chiuso tutto il giorno in cella, che trasgressione posso fare? Quindi le attività
di un carcere più aperto ti consentono di misurare e valutare meglio le
persone. Qui dopo 15 anni di celle chiuse, al blocco dei lavoranti le hanno
aperte, e nonostante io uscissi dalla cella già alla mattina e al pomeriggio
perché lavoro e perché sono qui in redazione, devo dire che mi è cambiata la
vita. Sembra una banalità è vero, ma per il fatto che io posso decidere di
fare la doccia all’ora che voglio, mi sembra di essere tornato a gestire un
po’ di più la mia vita, e questo è veramente salutare, perché altrimenti in
che condizioni si mettono fuori delle persone tenute chiuse in una cella per
5/10/15 anni? Io credo che veramente sulla parola responsabilità ci si possa
giocare tanto, e non solo per noi, ma per il carcere in generale.
Lucia
Castellano: È l’unica strada secondo me, non ne conosco altre che non
siano finzione, l’unica vera strada perché voi stessi testiate le vostre
capacità.
Alessandro
Montanaro (TG 2Palazzi):
Tra noi detenuti si sente parlare di Bollate come di un carceri fra i migliori,
io vorrei sapere se i detenuti sono mescolati nelle sezioni, protetti sex
offender e altri.
Lucia
Castellano: No, noi questo termine “protetto” non lo usiamo proprio,
poi protetto da chi? Perché protetto? E qui veniamo all’argomento che per
tutti voi è scottante, questo è il problema, quando io parlavo di cultura
intendevo questo. Allora intanto interroghiamoci su questo termine
“protetto”, in italiano che significa proteggere? Io proteggo una persona
quando ne ho cura, quindi proteggere significa averne cura, prendersi cura di,
curare. In “carcerese” la sezione protetta ha tutto un altro significato,
non è che noi proteggiamo gli autori di reati di questo tipo, noi li isoliamo,
li proteggiamo dagli altri, per cui nel carcere la parola protezione è sinonimo
di isolamento e di ghettizzazione, è giusto o no? Allora noi abbiamo pensato
che questo tipo di protezione per gli autori di reati sessuali è una protezione
nata non da una legge, ma da una mentalità vostra, per cui quelli che
commettono questi reati sono “infami”. E qui ritorniamo al discorso della
cultura e della responsabilità e della dignità, poiché io come funzionaria
dello Stato non posso permettermi di dire che c’è un reato più infamante di
un altro, per me sono tutti uguali, o meglio, perché quando dico questa cosa i
detenuti si scatenano, sono tutti uguali nel senso che sono già stati
giudicati, per cui per me conta quanti anni deve fare una persona, non che cosa
ha fatto. Chi vuole stare a Bollate accetta la convivenza con tutti,
dall’omicida al rapinatore, allo stupratore, tranne chiaramente per i reati di
mafia che a Bollate non ci sono, perché stiamo parlando di detenuti comuni.
Questa cosa, come potete immaginare, non è passata liscissima con i detenuti,
ci sono stati incontri e scontri. Allora ci siamo fermati a parlare… Io in
genere non riesco a fare colloqui individuali, però facciamo una riunione per
reparto ogni mese e reparto per reparto discutiamo.
Abbiamo
discusso per ore di questa cosa, e lì io sono stata un po’ forte nel senso
che ho detto: “Signori, se voi avete un sistema di valori talmente forte per
cui con i pedofili e i sex offenders non volete avere niente a che fare,
benissimo mi fate la richiesta e ve ne andate in un altro istituto”. Poi siamo
arrivati al compromesso di non stare in cella insieme, perché io mi rendo conto
che in cella ti scegli chi vuoi tu, come compagno, però siccome le celle sono
aperte sul piano si sta insieme, io non costringo né a mangiare insieme
ovviamente né altro, a me basta che non si facciano atti di violenza, che non
volino cazzotti e insulti, però se uno poi non vuole mangiare insieme o non
vuol fare socialità a me non interessa.
Alla
fine ho aggiunto: “Aspetto le vostre domande di trasferimento in un altro
carcere, se volete fatemi la domanda e non sarete sanzionati per questo, anzi
appoggerò la vostra richiesta”. C’è stata una sola domanda di
trasferimento altrove, una. Eppure potevano andare via tranquillamente, c’era
Opera, San Vittore, Vigevano, Voghera, non è che li avrei mandati in Sicilia.
Forse allora i pregiudizi si possono sfaldare.
Maurizio
Bertani:
Mi piacerebbe invece sapere quante sono le richieste per venire a Bollate, perché
se si riscontra una sola richiesta di andarsene da Bollate per non accettazione
dei sex offender e di contro si riscontrano magari migliaia di richieste da
altre carceri per essere trasferiti lì, forse tra di noi non c’è tutta
questa “non accettazione” dei sex offender.
Lucia
Castellano: Però non vi fate un’idea mitica di Bollate, perché noi
abbiamo un sacco di problemi, voi forse me lo potete spiegare meglio perché
siete voi che vivete il carcere, ma è un problema che va a ondate, per esempio
adesso tutto il terzo reparto, Dio sa perché, non va più a messa, perché a
messa ci vanno i sex offender. Allora i tentativi di ostracismo sono molti, e in
questo devo dire che i poliziotti di Bollate sono stati straordinariamente
bravi, perché in genere nelle carceri non sono solo i detenuti, sono un po’
tutti che mettono da parte i sex offender, anche fuori, perché appunto nelle
discussioni che io faccio fuori con gli amici, loro mi dicono: “Ma perché ti
occupi anche di questi qui?”. Intanto comunque vanno a scuola insieme, vanno
al lavoro insieme e stanno nei reparti insieme. Gli episodi di violenza sono
stati circa sei o sette, nel senso che di aggressioni, di occhi neri ne avrò
visti appunto non più di sei o sette. Però noi abbiamo una rete abbastanza
capillare, non di informatori come voi potete immaginare, ma di comunicazione,
soprattutto con i civili e i volontari, e qui torniamo a un altro tema, quello
degli infami tra virgolette, cioè quelli che ci dicono che cosa succede. Allora
che mi crediate o no io in 20 anni non ho mai ascoltato qualcuno che mi diceva
le cose nell’orecchio. Vorrei però capire come si può fare in carcere ad
avere il controllo della situazione, a sostituire la spiata che vengono a fare
al capoposto o al direttore, con un sistema di informazione; cioè come si può
sapere quali sono le dinamiche vere che succedono nel reparto, senza arrivare
alla collaborazione nell’orecchio.
Noi
ci siamo inventati a Bollate un sistema per cui gli educatori hanno l’ufficio
dentro al reparto e ci sono dei volontari che lavorano reparto per reparto,
addirittura cercando, con molta fatica, di andare proprio sui piani, cioè
stiamo tentando di rompere quella che è la differenza fra il sopra e il sotto,
per cui non sei più tu detenuto che scendi giù e racconti, ma sono io che
salgo e ti vedo. Ma non ti vedo per controllare, ti vedo per capire che cosa
succede, perché al vecchio sistema deve per forza sostituirsene uno nuovo.
Quindi se i sex offender fossero stati pestati davvero, probabilmente lo avremmo
saputo da questa rete che noi abbiamo sui piani e nei reparti, che parla e che
ascolta.
Davor
Kovac:
Quelli che trasgrediscono le regole vengono subito espulsi da Bollate o si dà
loro una ulteriore possibilità?
Lucia
Castellano: Dipende molto dal tipo di trasgressione, vengono
immediatamente espulsi quelli che scopriamo che fanno entrare droga e
telefonini, però per esempio nella sezione dei tossicodipendenti dipende…
perché noi partiamo dal presupposto che è inutile che ci prendiamo in giro, se
uno è tossicodipendente il suo pensiero è quello di drogarsi, quindi mandarli
via, espellerli automaticamente è un po’ un non senso. Ci sono poi delle
persone che si autoespellono, per stare a Bollate ci vuole un grandissimo
equilibrio psicofisico, molti sbarellano completamente a stare così aperti,
persone che hanno fatto molti anni di carcere stando chiuse, a stare aperte non
reggono. Anche perché il numero di operatori rispetto al numero di detenuti è
veramente talmente esiguo, che sono molto soli anche i detenuti, cioè soli tra
loro con le loro dinamiche, e non è facilissimo.
Sandro
Calderoni: A
proposito di questa subcultura carceraria, anche noi siamo figli di una società,
quindi se abbiamo questa subcultura è possibile pensare che è anche fuori che
passa questa idea, e mi riferisco ai sex offender, perché si legge spesso nei
giornali che fuori vogliono delegare ai detenuti il compito di vendicarsi di chi
commette questi reati.
Ma
il problema è un altro, il problema è che noi, che non siamo stinchi di santo,
nel senso che siamo quelli che comunque le regole di questa società le hanno
trasgredite, riceviamo questi messaggi dalla società stessa, poi viene lei e
magari dice: “No, tu se vuoi stare in questo posto devi cambiare totalmente
questo ragionamento”. Non è così semplice. Forse bisognerebbe andare un
po’ più a fondo per vedere tutte le dinamiche che si scatenano sul problema
dei sex offender,
Lucia
Castellano: Io sono d’accordo che non è facile. Quando parlo di
subcultura infatti non ho detto “subcultura dei detenuti”, ho detto
“subcultura del carcere”, perché il carcere è un posto chiuso, quindi ha
le sue regole, le sue dinamiche. La prima regola è che se scendi giù a parlare
con l’ispettore sei un infame, te la canti, se l’ispettore viene a parlare
con il direttore, agli occhi dei suoi colleghi se l’è cantata, è uguale.
Però
intanto io mi metto nei panni del più debole, di uno che viene angariato e
costretto a lavare i piatti e i panni e pulire la cella tutto il giorno, che
cosa può fare questo detenuto? Allora o ci sta perché è giovane di galera e
dovendo fare la galera se ne sta zitto, oppure scende giù e lo dice
all’ispettore e quindi diventa un infame marchiato, oppure ancora chiede di
cambiare cella e sta zitto sui motivi per cui vuole andarsene. Allora noi, se
siamo bravi, dobbiamo leggere attraverso questi comportamenti cosa avviene
all’interno di quella cella, ma se poi a quel detenuto non gli faccio cambiare
cella continueranno ad angariarlo, se invece faccio vedere che ho capito,
rischio di bruciarlo perché passa per infame. E allora tutto diventa
complicatissimo. Ma se un detenuto banalmente scendesse giù come scende un
malato dell’ospedale, dicendo che in quella stanza non ci vuole più stare
perché c’è uno che non lo lascia vivere dalla mattina alla sera, sarebbe
molto più facile. Vi faccio un altro esempio che riguarda noi operatori: se mi
segnalano che un educatore fa una pausa pranzo di un’ora e mezza invece che
mezz’ora, lo chiamo e glielo dico, la risposta non è: “Sì l’ho fatto”,
ma è un’altra domanda “Chi glielo ha detto?”. Guardate che questo rende
complicatissima per tutti la vita in galera, allora capite bene che i rapporti
sono stancanti, ecco perché non si muove mai niente. La galera è questo, ma se
devo passare tutta la vita mia così, noi di qua e voi di là, non so se mi
capite, tutto questo non ha molto senso.
Mel
Ali Ben Jounes: Avete
avuto un aiuto anche per i detenuti che stanno per uscire a fine pena?
Lucia
Castellano: É una domanda molto importante questa, lei ha proprio colto
il punto debole perché non c’è un sussidio per quando si esce. Innanzitutto
naturalmente ci sono due categorie di detenuti, gli italiani e i comunitari, i
clandestini, purtroppo per i clandestini, che sono circa il 35 per cento della
popolazione di Bollate, non si riesce a fare niente perché l’unica
prospettiva che loro hanno è quella di andare in via Corelli al CPT dove
vengono identificati e poi espulsi. Noi abbiamo incominciato col dare loro le
stesse opportunità che davamo agli italiani, con l’articolo 21. Per esempio
c’è l’AMSA, che è l’azienda municipalizzata della spazzatura e raccolta
rifiuti, che ha 30 nostri detenuti che lavorano da loro, il canile municipale è
interamente tenuto da detenuti che vanno a lavorare all’esterno. Nel dare
questi lavori, che possono fare tutti anche chi non parla italiano, noi abbiamo
considerato gli stranieri clandestini esattamente in modo uguale agli italiani,
e ve lo dico con tutta franchezza che ce ne siamo pentiti, nel senso che il
tasso d’evasione cominciava a diventare molto alto. Quando tu tieni in vita un
progetto di questa portata in un momento in cui sei assolutamente controcorrente
perché tutti vorrebbero che le carceri fossero piene e tu invece lavori sulla
decarcerizzazione… avere un’evasione al mese, per cinque mesi, diventa un
po’ problematico, per cui nostro malgrado abbiamo dovuto fare marcia indietro
e “selezionare”. Non è che diciamo “gli stranieri no”, però
selezioniamo le persone per andare in articolo 21, prendendo lo spunto anche
dalla situazione che hanno fuori, con ciò mi riferisco a chi ha famiglia e
quindi ha più possibilità di andare fuori a lavorare.
Fare
dei programmi individualizzati di reinserimento è molto difficile, e questo è
un grande punto debole del carcere di Bollate, la fase di dimissione. Ci sono
degli educatori e degli operatori di rete che si occupano proprio di questa
fase, da quando mancano 5/6 mesi si comincia a dare un articolo 21, ma è
comunque difficile, c’è il problema della casa per esempio, perché anche a
Milano, in un territorio così ricco, trovare casa fuori è veramente
complicato.
Marino
Occhipinti: Ma
a Bollate le misure alternative le danno?
Lucia
Castellano: A
Bollate, a parte 100 articoli 21, di semiliberi non ne abbiamo, perché non c’è
la sezione dei semiliberi. Noi lavoriamo molto sugli articoli 21, sia articoli
21 fissi, sia articoli 21 “spot”, del tipo che chi lavora in cooperativa ha
l’articolo 21 spot e quando ci sono degli eventi va fuori, per il resto rimane
dentro. quelli che non escono tutti i giorni restano comunque nei reparti. Per
esempio per la cooperativa Cascina Bollate, quando deve fare le mostre o le
fiere, i detenuti escono il sabato e la domenica e poi rientrano.
Franco
Garaffoni; Nel suo libro si dice: “Noi abbiamo un responsabile di
sezione”. Ma che cos’è la figura del responsabile di sezione?
Lucia
Castellano: I detenuti reparto per reparto hanno eletto i delegati di
piano, cioè ogni piano ha un suo delegato che presenta i problemi del piano
alla direzione e le proposte. Noi non pretendiamo ovviamente che il delegato di
piano ci dica: “Guarda che quelli della cella 210 si fanno le canne”, ma ci
aspettiamo che sia lo stesso delegato di piano che dica a quelli della cella 210
che le canne non si fanno, oppure che il coltellino non se lo devono affilare,
ecco ci aspettiamo in questo un aiuto. E ci aspettiamo dal delegato di piano
anche che porti i problemi di convivenza tra i detenuti e con l’istituzione.
La figura del delegato di piano è una figura delicata, infatti molti non
lo vogliono fare, perché il delegato di piano ha più rogne che altro, nel
senso che deve mediare continuamente. Tra l’altro è molto difficile andare da
un detenuto a dire: “Guarda che questo non si fa”, perché la risposta è:
“Ma tu sei un poliziotto?”.
Ornella
Favero: Mi incuriosisce capire che ricaduta può avere “l’esperimento
Bollate”. Anche perché mi pare che a Bollate si operi all’interno
dell’Ordinamento penitenziario, non è che ci sia bisogno di un regime
speciale.
Lucia
Castellano: È chiaro che, siccome il carcere fa parte del territorio,
laddove c’è un territorio più ricettivo le possibilità sono molte di più.
Io quando lavoravo a Eboli ero in una cittadina con 35.000 abitanti di cui 7.000
disoccupati, quindi come fai a mettere a lavorare dei detenuti? è un ingiusto
“privilegio” rispetto agli incensurati.
Ma
c’è un minimo comune denominatore di rispetto e di diritti che si può fare
in tutte le carceri italiane, salvo naturalmente i circuiti del 41 bis e
dall’Alta Sicurezza. E però non si fa, io non so il perché, e forse sembra
un discorso presuntuoso e non vorrei farlo, però ho diretto carceri al sud,
nord e al centro, ho diretto Alghero, Eboli, sono stata Vicedirettore a
Secondigliano, e in qualunque posto io abbia esercitato la mia professione le
stanze di detenzione erano aperte. E non perché io sia più brava, ma è questo
che dice la legge e se le lasci chiuse dovresti giustificare questa scelta.
Però
tutto questo si scontra forse con il fatto che in carcere c’è una cultura
della sicurezza discutibile, e qui io torno, e scusatemi se sono ripetitiva, a
voler condividere la responsabilità con i signori “ospiti”. Secondo me è
un problema anche molto loro, cioè il gioco delle parti è talmente definito
che nessuna delle due parti in qualche modo vuole metterlo in discussione. Io
però sono convinta che se una delle due parti si mette in discussione, anche
l’altra ha il dovere di farlo.
Franco
Garaffoni: Io
le chiedo quali sono oggi le paure e le speranze del Direttore del carcere di
Bollate, perché mi è venuto in mente che praticamente io ho saputo dei
telefonini che avevano trovato a Bollate non dai giornali, ma venendo qui in
redazione, da un agente, che mi ha detto: “Guarda tu che vuoi andare a
Bollate, hanno trovato dei telefonini”, per questo ora le ho messo nella
domanda anche le paure.
Lucia
Castellano: Le paure sono tantissime, innanzitutto la paura di diventare
un po’ don Chisciotte, cioè di combattere contro un mondo che poi alla fine
non cambierà, quindi la paura di buttare via un po’ la vita, visto che io ho
fatto del lavoro il centro della mia esistenza.
La
seconda paura è quella di essere strumentalizzata, e lei ha fatto un esempio
perfetto sui telefonini Vedete, a Bollate sono stati trovati dei telefonini, più
precisamente ne sono stati trovati due all’interno del reparto degli articoli
21, e sei fuori dove gli articoli 21 lavoravano. Ora è ovvio, e tutti noi lo
sappiamo, che i detenuti in articolo 21 fanno uso del cellulare, però è
vietato, quindi la mia paura è questa, dal punto di vista giornalistico dov’è
la notizia? Che in un carcere di 1.000 persone ci sono 2 telefonini dentro? Non
voglio mettere la pulce nell’orecchio a nessuno, ma non è una notizia, nel
senso che ce lo possiamo immaginare.
Che
su cento detenuti in 21 sei usavano il telefonino fuori, è una notizia? Eppure
pur di attaccare Bollate è diventato un notizione. A me fa molta paura la
strumentalizzazione per attaccare un progetto. A Bollate vengono scoperti
altrettanti telefonini che in tutte le altre carceri, ma c’è più lavoro
all’esterno, c’è un tasso di recidiva migliore, e c’è una percentuale di
eventi critici molto bassa, nel 2009 ci sono stati 8 episodi di autolesionismo
su mille detenuti, quindi questo è un fatto.
E
poi, questo è anche sempre lo stesso discorso di responsabilità condivisa, nel
momento in cui io do l’articolo 21 a un detenuto, non è che se lui fallisce
ho fallito io, perché il mio compito è metterlo nelle condizioni di camminare,
se lui non vuol camminare e cade o fa una rapina o non ce la fa, non è un
fallimento delle istituzioni. Invece ogni volta che qualcuno dei miei fallisce,
oppure commette un reato o non rientra o porta la droga, immediatamente si dice:
“Hai visto Bollate? ha fallito”. Non è così, per cui intanto tutti loro, i
miei 1041 ospiti, devono sentire sulla loro pelle il peso di essere un po’ dei
pionieri, lo devono sentire profondamente questo peso, cioè che il fallimento
loro viene strumentalizzato per affossare un progetto.
Quanto
alle speranze, io intanto spero che le persone che lavorano a Bollate, prima di
tutto i poliziotti, i detenuti che ci vivono, gli educatori e tutto il gruppo,
il mondo di Bollate insomma, dia una qualità diversa alla propria esistenza,
questo per me è una grandissima speranza, cioè cambiare il clima che si
respira in un carcere. Perché per esempio il mestiere del poliziotto
penitenziario è uno dei più difficili e logoranti che esista, ecco allora
trovare un significato, un piacere, l’orgoglio di farlo è una speranza per
me, che io riesca a comunicare agli uomini con cui lavoro l’orgoglio di fare
questo lavoro e di farlo in maniera diversa.
Ornella
Favero: Alla fine quali sono le domande per i detenuti.
Lucia
Castellano: Io volevo fare una domanda ai detenuti, visto che non sono
detenuti del mio istituto, quindi non stanno parlando al loro direttore e si
spera che non evitino di rispondermi. Io ho avuto una lettera di un detenuto, di
cui vi leggo un pezzo, è un detenuto di Aosta che ha letto il mio libro e che
ad un certo punto scrive: “Alla fine ci siamo confrontati dicendoci le
nostre opinioni e siamo tutti d’accordo sul giudizio, un detenuto non avrebbe
saputo fare di meglio è come confrontarsi con un amico che ti racconta i suoi
problemi e la sua esperienza.
È
vero e reale il problema del carcere, tanta gente che si cala una maschera,
l’assoggettarsi pur di non avere problemi. Quello su cui fare i conti è
proprio il fatto che tra noi non si parla mai di queste cose, ognuno sa solo
parlarti delle sue imprese o si vanta di aver preso molti rapporti come se fosse
uno sfregio all’amministrazione del carcere”.
Allora
su questi temi che io nel libro affronto, cioè la finzione, il sommerso, il
mondo della ritualità carceraria, per cui tu sei sempre gentile con tutti, buon
giorno, buona sera e poi alla fine c’è un mondo di violenze e di prepotenze
nascoste, qual è il ruolo dei detenuti secondo voi in una prospettiva di
cambiamento dell’amministrazione penitenziaria?
Marino
Occhipinti: Quando in gioco c’è la libertà io credo che ognuno di noi
tenda a far vedere la parte migliore di sé. Io sono stato sottoposto ad una
perizia criminologica tre anni fa, il criminologo mi ha detto: “Guardi
Occhipinti, sono andato a parlare con il Comandante degli agenti, lei qui si è
sempre comportato bene, però la sua pericolosità non la potrò mica basare sul
fatto che si è comportato bene per 13 anni? perché allora tutti i mafiosi
dovrebbero essere fuori dal carcere”.
Però
questo succede un po’ anche fuori, anche se è vero che il carcere, per quanto
riguarda i rapporti umani, è un serbatoio di finzione, perché se io dovessi
dire quante volte sono stato zitto e ho magari accettato tante cose quando avrei
avuto voglia di rispondere…
Lucia
Castellano: E quindi se c’è in ballo la mia libertà io fingo pure di
essere biondo pur di riaverla, è ovvio… ma allora i motori del cambiamento
dobbiamo essere solo noi da questa parte?
Marino
Occhipinti: Assolutamente no, però noi abbiamo notato ad esempio il
fatto che ci siano progetti che ti obbligano a metterti in gioco, io penso alla
redazione di Ristretti, ma anche il lavoro, e altre attività, quindi ti
obbligano per forza a confrontarti con gli altri. Qui entrano classi di
studenti, io ho sentito noi detenuti raccontare agli studenti delle cose che non
avevo mai sentito raccontare, cioè sei quasi obbligato a essere schietto e
chiaro, io vedo che certe attività, almeno a me, fanno sentire in obbligo di
tirar fuori anche la parte migliore di me.
In
un carcere dove si sta in branda tutto il giorno, ma chi se ne frega, io cerco
di fotterti in tutti i modi perché tanto c’è il gioco dei ruoli, ognuno sta
nel suo ruolo e finisce lì.
Filippo
Filippi: Io credo che lei ci ha fatto una domanda per la quale c’è già
una risposta, nel senso che assolutamente no, non è possibile che tutto sia
nelle mani di chi gestisce questa situazione di eterna sofferenza, d’altro
canto è inevitabile che in una situazione comunque totalizzante ci sia una
sorta di appiattimento anche inconscio se vuole. Io è da qualche mese che
partecipo alla redazione di Ristretti e se c’è una cosa che metto davanti
quando scoppierei di rabbia e vorrei fare a pezzi tutto, è la redazione.
Elton
Kalica: Ma se noi siamo in cella o in sezione in attesa di fare quello
che ci viene ordinato, questo cosa comporta? Che noi non abbiamo più la
possibilità di pensare o di decidere un minimo di progettualità delle cose che
facciamo. Perché quando fare la doccia lo decide l’agente, dei pacchi che ti
mandano da casa quello che passa o non passa lo decide lui, l’orario per
uscire dalla sezione e venire in questo reparto non siamo noi a deciderlo, noi
siamo pronti alle 8, ma possiamo scendere solo alle 9 perché magari c’è la
perquisa e forse non si scende più, insomma lo decidono gli altri. Il
coinvolgimento secondo me è l’unica strada da percorrere, perché ti dà un
minimo di responsabilità, se c’è un’amministrazione, un direttore, i
volontari che ti coinvolgono e hanno delle aspettative nei tuoi confronti, tu ti
senti impegnato comunque perché puoi metterci del tuo nel fare qualcosa.
Lucia
Castellano: Posso farvi un’altra domanda? Secondo voi è possibile
immaginare un carcere dove non ci siano controlli sulla roba da mangiare e sui
pacchi e non ci sia quindi quell’invasione dei vostri diritti, che a noi
dispiace di fare, sulla base di un patto di fiducia perché non entrino cose
illecite? Si potrebbe immaginare un posto dove il patto è tale per cui io per
esempio i famigliari non li perquisisco? Secondo me non è possibile, allora
vedete non è che delle volte siete voi che ci costringete a giocare al gatto e
al topo?
Marino
Occhipinti: Guardi, se lei questo discorso lo fa con me, che nonostante
sia in carcere ho tanto da perdere, è una cosa, se questo discorso lo fa a uno
che è in branda 22 ore al giorno è difficile che quello risponda in positivo,
proprio perché forse non ha niente da perdere.
Un
carcere che più aperto non si può
Bollate
visto dalla parte di chi si sta “facendo la galera”
Perché
neppure Bollate è “un’isola felice”, è pur sempre una galera, dove c’è
comunque qualcosa da perdere
a
cura di Ornella Favero e Andrea Andriotto
Avevamo
incontrato Lucia Castellano, la direttrice della Casa di reclusione di Bollate,
a Padova nella nostra redazione, poi a Milano, alla Fiera “Fa’ la cosa
giusta”, abbiamo avuto modo di parlare con tre “suoi” detenuti in
permesso, e di mettere a confronto due punti di vista diversi sul
sistema-Bollate, ma in fondo non così lontani.
Noi
abbiamo di recente intervistato a Padova la “vostra” direttrice, ora
vorremmo sapere: com’è Bollate visto dall’altra parte?
Adamo:
Bollate visto dall’altra parte è un posto che offre molte possibilità;
ovviamente sta a te giocartele. È un posto dove difficilmente il detenuto ozia
perché le opportunità che ti vengono proposte dall’area rieducativa, quindi
dalla direzione, sono davvero molte. È un carcere molto propositivo con scuole,
attività culturali, gruppi di formazione. C’è davvero tanta carne al fuoco.
Ovviamente ci sono molti vantaggi e possibilità e molti rischi.
Quali
sono queste possibilità?
Adamo:
Innanzitutto i corsi di formazione che danno sbocchi lavorativi: abbiamo quasi
100 detenuti che ogni giorno escono per lavorare all’esterno grazie alle
possibilità offerte dalla Regione.
E
quali sono invece i rischi?
Adamo:
Diciamo che essendo un carcere pilota, una sperimentazione, viene messo in
discussione anche il rapporto tra il detenuto e la custodia, e pure tra detenuto
e detenuto. Anche il fatto di girare per le sezioni e di non essere mai chiusi
comporta un rischio, perché non si può mai sapere se il detenuto poi risponde
ai canoni previsti e stabiliti.
In
realtà forse non è una questione di canoni, ma piuttosto è una specie di
patto che il detenuto sottoscrive.
Adamo:
Infatti il detenuto è la chiave di questo ragionamento. Accettare dei patti
significa stabilire un rapporto di fiducia tra il detenuto e la direzione.
All’interno ti vengono date molte opportunità lavorative, ad esempio io sto
in un laboratorio dove si lavora la pelle e il cuoio e inoltre collaboro con la
cooperativa Estia. Per questo posso uscire per fare degli spettacoli teatrali.
Le possibilità sono molte: lavorative ma anche culturali.
La
direzione si assume i rischi, ma anche i successi che comunque sono tanti, siamo
in continua sperimentazione.
Voi
da che carcere venivate?
Adamo:
Io vengo dal carcere di Volterra.
Giacomo:
Io da Poggioreale e Secondigliano.
Un
detenuto che arriva da un carcere come Secondigliano, come si trova in una
realtà come Bollate, che è un po’ l’opposto?
Giacomo:
Sono arrivato a Bollate nel 2008 e mi sono trovato in una realtà completamente
diversa: già il fatto di essere aperti mi ha lasciato stupito. Inizialmente
volevo fare subito la domanda di trasferimento perché non mi sentivo a mio
agio, poi invece sono riuscito a trovare la mia direzione, ho iniziato a fare
teatro con la cooperativa Estia e piano piano sono riuscito ad inserirmi,
seguendo anche questo laboratorio che lavora con cuoio e pelli e frequentando la
scuola.
A
Secondigliano e a Poggioreale facevo 23 ore di cella nelle condizioni che tutti
conosciamo. Credo di aver imparato dentro queste carceri a delinquere, anche se
già ero detenuto e quindi non ero un santo.
Un
giorno alla direttrice Castellano scherzando ho detto “Qui non ho neanche più
il tempo di scontarmi il carcere, esco alle sette, rientro all’una...
praticamente non ci sono mai in cella!”.
Adamo:
La cosa interessante di Bollate è che sta cambiando anche il rapporto tra
detenuto e agente, quindi si stanno rompendo quelle barriere invisibili che però
da altre parti ancora esistono, e si stabiliscono anche rapporti umani che alle
volte confluiscono in un obiettivo comune.
C’è
molto dialogo, molto confronto, che sono fondamentali per far sentire alla realtà
esterna le voci che vengono dall’interno. Abbiamo il diritto e la possibilità
di parlare, cosa che prima praticamente non esisteva.
Qualora
ci fossero dei problemi, come si comporta la direttrice? Viene a parlare con voi
e in che maniera lo fa?
Adamo:
Sì, viene a confrontarsi con noi. Naturalmente non sono udienze personali,
perché anche lei è sovraccarica di impegni. Si fanno delle riunioni frequenti
nei reparti dove vengono discusse le questioni, ma soprattutto dove vengono
proposti e analizzati i progetti futuri. Il più delle volte i problemi vengono
tempestivamente affrontati, quindi praticamente risolti alla radice.
Quante
ore restate fuori dalla cella?
Veniamo
aperti alle otto e mezza del mattino per essere richiusi alla stessa ora la
sera.
Siamo
quasi tutti, o almeno il 90%, sconsegnati.
Come
vivete il rapporto con gli altri detenuti? essendo sempre a contatto, sempre
aperti, come vi comportate se vedete un detenuto fare qualcosa che non dovrebbe
fare e che mette a rischio l’equilibrio di un sistema così delicato?
Adamo:
Diciamo che io mi sento anche un po’ il compito di “educatore”. Venendo
qui a Bollate ho capito un po’ la politica di quest’istituto, quindi
l’importanza di rispettare questo “patto” e di conseguenza di non perdere,
a causa di comportamenti scorretti, quello che ora abbiamo. Se dovessimo vedere
un altro detenuto fare qualcosa fuori dalle righe lo richiamiamo. Si cerca
comunque di cooperare e di parlare, che è la cosa fondamentale. Anche per non
dare l’impressione di essere lo stereotipo del detenuto furbo che ne
approfitta anche di fronte agli altri.
Credo
che sia fondamentale scardinare questa idea della furbizia, della persona
più furba di un’altra, soprattutto tra i detenuti.
Adamo:
Diciamo che a noi “non conviene” fare i furbi, e d’altra parte gli
operatori sono anche molto aperti e, qualora ci fosse un’infrazione in
articolo 21 o dentro, non hanno un atteggiamento di rigidità, perché è nato
un rapporto non solo di fiducia ma anche di conoscenza, un rapporto di dialogo e
di costruzione delle relazioni, sono persone che credono in te e che lavorano
per far funzionare al meglio tutto questo.
Giacomo:
Io però non vorrei parlare di Bollate come il fiore all’occhiello, ma
ribadire che è solo la normalità, a Bollate si applica la legge, e tutte le
carceri dovrebbero essere così perché così è previsto dall’istituzione
penitenziaria.
Tra
detenuti comuni come vedete invece i cosiddetti sex offenders?
Adamo:
Diciamo che dopo un po’ diventa una questione di umanità. E dopo un po’ ci
fai l’abitudine a certi tipi di reati e certi tipi di persone e di situazioni.
Secondo me non si elimina il problema eliminando loro o escludendoli, perché
anche loro fanno parte di un sistema. Allora perché non dare la possibilità di
capire e magari fornire anche un servizio a queste persone?
Giacomo:
Inizialmente per me l’impatto è stato brutto. Trovarmi con queste persone con
reati così diversi dai miei… Ma ho dovuto conviverci, altrimenti avrei
mandato all’aria anche il mio percorso riabilitativo. Avrei dovuto fare la
domanda di trasferimento. Con il tempo ci ho fatto l’abitudine e in ogni caso
li saluto perché sono pur sempre persone, hanno fatto degli errori ma sta a
loro capire quali sono e perché.
È
capitato anche che fossero arrestate persone per questi reati e che poi in realtà
erano innocenti, quindi io non me la sento di giudicare. Loro sanno cosa hanno
fatto e faranno i conti con la loro coscienza.
Tu
invece da che carcere sei arrivato a Bollate?
Enzo:
Io sono Enzo e vengo dal carcere di Busto Arsizio, dove principalmente si stava
chiusi tutto il giorno tranne le tre ore di passeggio, due la mattina e una al
pomeriggio giusto per prendere un po’ d’aria e vedere un po’ di cielo, e
dove le griglie delle finestre sono ancora più strette delle sbarre, quindi non
si vede proprio niente dell’esterno. Sono già quattro anni che sono a Bollate
che è, come diceva prima Giacomo, l’esempio di come dovrebbero essere le
carceri. Bollate mette in pratica le leggi dell’Ordinamento penitenziario con
coraggio - perché c’è da dire che ci vuole un gran coraggio rispetto ad
altre situazioni - e mi domando perché Bollate deve essere qualcosa di più,
perché negli altri istituti non vengono rispettati questi regolamenti che ci
sono e però non vengono presi come filosofia di vita, come leggi.
Arrivando
a Bollate da un carcere così chiuso, hai avuto delle difficoltà ad abituarti?
Enzo:
In un primo momento mi sono sentito spaesato, passando da una chiusura ad
un’apertura così grande senza passaggi intermedi, in una cella con quattro
persone, aperta, dove si convive bene, non tutti ammassati in luoghi fatiscenti,
umidi e sporchi, privi di qualsiasi cosa. Io credo che intanto prima di
costruire nuove carceri ci sia bisogno di aumentare l’organico di chi ci
lavora, perché Bollate funziona anche grazie a tanti educatori che operano
all’interno. Lì anche il comportamento della polizia penitenziaria è
improntato su quella filosofia di rispetto della legge
Quando
ti hanno trasferito a Bollate ti hanno fatto sottoscrivere una specie di
“patto”?
Enzo:
No. Io ho fatto questa richiesta di trasferimento, me l’hanno accettata e sono
arrivato qui.
Al
mio arrivo non eravamo ancora tutti integrati con i sex offenders, quindi io ho
vissuto questo percorso proprio passaggio per passaggio. Volevo raccontarvi
brevemente la mia esperienza rispetto a questo: io ero già inserito nella realtà
di Bollate, frequentavo la scuola e facevamo delle riunioni con altri ragazzi
delle scuole esterne su questa questione, e noi con la nostra mentalità
sostenevamo che donne e bambini non si devono toccare. A un certo punto un
ragazzo di 18 anni mi ha guardato dicendomi “E allora ammazzare una persona
mentre stai facendo una rapina è giusto?”, e questo mi ha dato modo di
riflettere, di capire che il male è male e non si può classificare in più o
meno grave. Un ladro che ruba in casa fa del male psicologico a chi subisce il
furto, perché mina la sua sicurezza all’interno delle casa, lo rende fragile
e vulnerabile a tutto. Se fai una rapina anche, se commetti un omicidio è
ancora peggio perché togli la vita ad una persona e questo fardello te lo
porterai dietro per tutta la vita e non si cancella. Con la riabilitazione
cerchi di migliorarti, ma non cambia quello che hai commesso.
E
quindi avete accettato queste persone, anche se è stato un percorso pieno di
difficoltà?
Enzo:
Io venivo da un carcere dove, se vogliamo, ero stato indottrinato e dove
probabilmente anche gli agenti stessi lo erano. Quindi tu sei dentro a questa
dinamica che ti permette di vivere in sintonia con il resto del carcere. Ma poi,
con il tempo, ho imparato ad uscire fuori da quelle dinamiche grazie anche a
persone più anziane, che mi hanno insegnato che stare in carcere non vuol dire
per forza pensarla uguale agli altri per fare coalizione, ma dove si può anche
seguire il proprio percorso, con la propria mentalità, vivendo nel rispetto
reciproco.. I sex offenders vivono nelle celle di fianco a noi e non si può
continuare a ignorarli o denigrarli, altrimenti si arriva a situazioni
insostenibili. Ognuno poi deve anche guardare a se stesso e proseguire il
proprio cammino, e come ci sono riuscito io penso possano farlo tutti.