Le
persone a rischio sono sempre di più
Carceri
dove è difficile trovare la forza per vivere
Chi
riesce più a distinguere le persone “a rischio suicidio”, in un carcere in
cui la qualità della vita è ormai in caduta libera?
A cura della redazione
Di
suicidi siamo costretti a tornare a parlare, perché tra fine febbraio e inizio
marzo due persone si sono tolte la vita nella Casa di reclusione di Padova. È
successo in un carcere molto migliore di tanti altri, e questo deve farci
riflettere: oggi non esistono più carceri “decenti”, perché il
sovraffollamento e la mancanza di personale, che possa seguire le persone e
segnalare quando stanno male, rendono invivibili anche gli istituti di pena dove
prima si poteva contare su una carcerazione dignitosa e rispettosa della legge.
Se nella Casa di reclusione di Padova ci stessero le persone per cui è stata
costruita, 350 detenuti, oggi tutti sarebbero impegnati in un’attività
lavorativa o nello studio e potrebbero iniziare un percorso di cambiamento, di
rientro graduale nella società. Ma i detenuti sono quasi 850, e a giudicare
dalla continua aggiunta di brande si arriverà a breve a 1000. In queste
condizioni, chi può davvero prevenire i suicidi? Non è più realistico pensare
invece che saranno sempre di più le persone a rischio? La nostra piccola
proposta è che almeno si faccia tutto il possibile per rafforzare i legami
delle persone detenute con le famiglie, rendendo più libere le telefonate,
ampliando i colloqui. Perché se uno sta male, almeno una voce amica gli può
dare un po’ di voglia di resistere, di trovare di nuovo delle ragioni per
vivere. Le testimonianze di due detenuti sull’ultimo suicidio a Padova sono
almeno un modo per ricordare la persona che si è tolta la vita, e per
richiamare tutti, detenuti, operatori, medici, alle proprie responsabilità.
L’ultima
carezza
di Milan Grgic
Sono
uno dei primi detenuti che ha conosciuto Giuseppe Sorrentino, appena è arrivato
al carcere di Padova e si è iscritto alla scuola superiore Gramsci. Nei primi
tempi ho passato anche qualche ora di socialità con lui e l’altro suo
compagno di cella d’allora. E adesso che lui è morto, mi domando se questa
tragedia si poteva evitare.
Ricordo
che Giuseppe è venuto quattro anni fa nella nostra sezione studenti, e
frequentava il primo anno, la frequenza non era costante perché doveva seguire
i suoi processi, e questo l’ha allontanato sempre più dal mondo scolastico.
Poi ha cominciato ad agitarsi nella cella. Faceva cose insolite e assumeva dei
comportamenti strani, come urlare, ululare e parlare da solo fissando i pochi
oggetti che si trovavano nella sua cella. Ha trascorso così più di due anni,
chiudendosi sempre di più. Però, finché era nella nostra sezione, riuscivo
sempre ad avvicinarmi allo spioncino della sua porta blindata e scambiare
qualche parola con lui.
Solo
che il suo comportamento ha fatto sì che si creasse sempre più ostilità da
parte dei detenuti della sezione. E come se non bastasse questo, qualcuno ha
diffuso la voce tipica carceraria che Giuseppe aveva cominciato a collaborare
con la giustizia, e cioè che era un “infame”. Questo ha fatto sì che anche
quelle poche persone che scambiavano con lui qualche parola, compreso me, si
sono allontanate, isolandolo totalmente da ogni comunicazione con i detenuti.
Comunque,
abbiamo provato a dire a più di una persona che si doveva fare qualcosa per
quell’uomo, ma ci hanno risposto che quello simulava e qualcun altro ci ha
detto di fregarcene, tanto è un “infame”. Poi, l’unica soluzione che
hanno saputo trovare è stato il trasferimento nella sezione dei “protetti”,
gli “isolati”, e qualche breve ricovero in ospedale. E io che sono stato
arrestato per una spiata, e condannato a più di 20 anni di carcere, avrei forse
qualche motivo di essere arrabbiato e di mettermi contro una persona simile. Però
ormai ho un’età per cui ho visto e passato così tante cose, che non ho più
alcuna voglia di giudicare le persone, e tanto meno di odiare qualcuno che, così
come me, si trova in questo luogo di sofferenza. Poi, siccome lavoro nel
magazzino del carcere e porto a tutti i detenuti la fornitura minima di prodotti
per l’igiene, ormai sono abituato a non pensare più a cosa uno ha fatto. Per
me sono tutte persone. È anche per questa ragione se, circa dieci giorni fa,
mentre facevo il solito giro delle sezioni, quando ho visto Sorrentino nella
barberia a farsi tagliare barba e capelli, nonostante fosse sorvegliato da due
agenti sono entrato dentro cercando di scambiare due parole, ma lui è rimasto
seduto a guardarmi fisso senza rispondermi. Ho visto tristezza e rassegnazione
nel profondo dei suoi occhi, e mi è venuto d’istinto di accarezzargli la
fronte, come se fosse un fratello minore. L’ho salutato e sono andato via
riprendendo il lavoro. Non so se avrei potuto fare o dire altro, ma oggi penso a
lui e mi chiedo se potevo fare di più, se potevo un po’ cambiare quel suo mal
di vivere. Fatto sta che un essere umano è morto tra l’indifferenza di molti,
me compreso. Spero solo che Dio ci perdoni.
L’indifferenza
delle istituzioni di fronte ai suicidi sta diventando contagiosa
di Antonio Floris
Era
la mattina di domenica 7 marzo. Una mattina identica a tante altre che si vivono
in carcere. Erano più o meno le nove e mezzo e io mi trovavo a chiacchierare
con un altro detenuto all’ingresso del nostro reparto. Eravamo appoggiati al
cancello e di fronte, a distanza di due metri, c’è un altro cancello che
costituisce l’ingresso ad un altro reparto.
All’improvviso,
dall’altro reparto si è sentito suonare un campanello d’allarme di quelli
che abbiamo tutti nelle celle, e le urla dei detenuti che chiamavano gli agenti.
Subito ci siamo resi conto che era successo qualcosa di grave. Così siamo
rimasti a guardare il corridoio per capire qualcosa di più.
Un
agente partì di corsa e si fermò nella cella che indicavano gli altri
detenuti, diede un’occhiata veloce dentro, ritornò indietro di corsa e andò
al telefono per chiamare rinforzi. Nel giro di pochi istanti arrivarono altri
quattro o cinque agenti, e tutti insieme entrarono nella stanza in questione.
Uno di loro uscì dalla stanza e corse via per ritornare dopo pochi minuti in
compagnia del medico e di alcuni infermieri, che si diressero velocemente nella
stanza dove già stavano gli altri agenti.
Noi
che eravamo rimasti per tutto il tempo vicino al nostro cancello a guardare il
via vai del personale, non avevamo ancora esattamente capito cosa era successo.
Dopo qualche minuto vedemmo uscire tutti dalla stanza, il medico, gli infermieri
e gli agenti, che ripercorrevano il corridoio nella nostra direzione e, mentre
ci passavano vicino facendo commenti, sentimmo la parola “morto”.
Dopo
un po’ sono arrivati il Direttore del carcere e anche il Cappellano. Poi è
stato il turno del magistrato che sicuramente era un Pubblico Ministero, e
infine è arrivato un carrello che trasportava una bara grigia, che ha portato
via il cadavere del detenuto facendo calare il sipario.
Tutto
questo è successo in poco meno di due ore, ma più che la rapidità con cui
quella persona se ne è andata via dal carcere e da questo mondo, ciò che mi ha
colpito in quella circostanza è stata l’indifferenza totale di quasi tutti
noi davanti a un fatto così tragico. Io sono rimasto a guardare ma dentro di me
ho sentito stringersi il cuore perché, a prescindere da chi fosse e cosa avesse
fatto, era pur sempre un essere umano e un detenuto come noi. I suicidi
ultimamente sono numerosi e forse è dovuto a questo se oggi sembrava quasi che
il fatto di suicidarsi in carcere sia diventato una cosa normale. Tanto normale
che mentre il carrello con la bara ha portato via il cadavere, stava arrivando
in reparto un altro carrello, quello del vitto. Ovviamente ormai era giunto
l’orario del pranzo e sono corsi tutti, piatti in mano, a ricevere la propria
porzione di pasta, e a nessuno la tragicità di quanto era appena successo ha
tolto l’appetito. E a distanza di appena qualche ora, nessuno parlava più di
quel fatto.
Ma
forse non deve nemmeno sorprendermi tanta indifferenza davanti alla morte da
parte di noi detenuti, dato che siamo stati abituati all’indifferenza dai
nostri governanti che, davanti ai settantadue suicidi dell’anno scorso, non
hanno preso ancora alcun provvedimento per risolvere il problema angosciante del
sovraffollamento, e la loro indifferenza forse sta contagiando pure noi.
Quale
libertà è possibile dentro un carcere?
Le
celle aperte producono responsabilità
E
invece spesso viviamo in carceri totalmente deresponsabilizzanti, al cui interno
tutto è gestito in nome della sicurezza, che non lascia un minimo di autonomia
decisionale
di Maurizio Bertani
Una
ragazza che frequenta un liceo di Padova e che partecipa al progetto “Il
carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere” ci ha posto una domanda:
“Se noi tutti abbiamo delle
responsabilità, verso la famiglia, la scuola, sul lavoro, verso la società,
dove e come può bloccarsi questo senso di responsabilità, fino a portare una
persona a commettere un reato?”.
La
domanda è interessante, ma non è facile rispondere, perché non c’è una
sola motivazione, ma entrano in gioco troppi fattori, che essendo antecedenti al
reato sono difficilmente raccontabili dopo il reato, senza correre il rischio di
voler passare per vittime.
Quindi
io Maurizio, vecchio detenuto che alla soglia dei sessant’anni si ritrova a
fare un bilancio, spinto da domande giuste e pungenti, domande che fanno
ragionare, scopro con amarezza che in fondo non sono serviti a nulla tanti anni
passati in carceri totalmente deresponsabilizzanti.
Ora
però ho preso coscienza dei reati commessi in nome di una trasgressione dovuta
all’ossessiva ricerca del denaro, al cieco egoismo personale, all’amore per
le cose effimere, e ho la consapevolezza di aver fatto del male perché, dietro
il denaro che inseguivo, ci sono le persone, e forse molte non le ho neppure
viste, ma so che c’erano, e poi il male l’ho provocato a tutte le persone a
me care alle quali ho fatto mancare costantemente per anni il mio affetto: in
definitiva, una totale mancanza di responsabilità verso gli altri.
Le
carceri da me conosciute sono tutte uguali, caseggiati a volte antichi, situati
nel centro delle città, negli ultimi anni scatoloni posti nelle loro periferie,
ma tutti con le stesse caratteristiche: discariche sociali, paragonabili al
tappeto vecchio di una società dove nasconderci sotto tutta la polvere
indesiderata.
Quindi
carceri totalmente deresponsabilizzanti, al cui interno tutto è gestito in nome
della sicurezza, che non lascia un minimo di autonomia decisionale: carceri dove
anche una banale doccia è regolata da orari rigidissimi, per fare una semplice
telefonata a volte ci impieghi 3-4 giorni, poter vedere i famigliari tramite i
colloqui viene sempre vincolato a giorni prestabiliti e orari limitatissimi.
Dove le possibilità lavorative riguardano un venti per cento della popolazione
detenuta, ma in realtà i posti di lavoro e le ore lavorative che sono
effettivamente retribuite garantiscono lavoro a poco più del dieci per cento
del totale dei detenuti presenti, che oggi superano le 67.000 unità contro una
capienza disponibile di 43.000 posti. Anche le attività culturali e formative
riguardano una parte limitata della popolazione detenuta, così come le attività
di volontariato all’interno del carcere sono ormai insufficienti rispetto al
numero fuori controllo dei detenuti.
Credo
che meno del 30 per cento dei detenuti a livello nazionale sia inserito in
attività trattamentali e risocializzanti, mentre il 70 per cento è chiuso in
celle con la sola possibilità delle quattro ore d’aria quando va bene.
Ecco
che celle costruite per ospitare un detenuto oggi ne contengono tre se non di più,
le cinque docce per 25 ospiti oggi devono servire per 75, la cucina che doveva
preparare 350 pasti ne deve produrre più di 850, quindi sei fortunato se ti
viene consegnato il pasto tiepido. il più delle volte è gelato e di qualità
scadente.
Se
hai problemi di salute, occhio! perché passare per simulatore in carcere è
molto facile, se poi muori per un tumore alla testa, non c’è nessuno che si
ricorda che forse i tuoi mal di testa non erano un modo per rompere le scatole,
ma l’inizio di una patologia davvero grave.
Se
tenti di suicidarti perché proprio non riesci più a sopportare tutto questo e
la depressione ti entra dentro senza possibilità di scacciarla, qualcuno
decreta che “il detenuto simula, per attirare l’attenzione”: cavolo mi
sembra che ci sia riuscito, almeno per una giornata è stato sulla bocca di
tutti, ma il giorno dopo? Quindi possiamo dire che la deresponsabilizzazione
all’interno delle carceri è un veicolo che nega la possibilità di ricucire o
ricostruire quell’interruzione di responsabilità, avvenuta con la commissione
di un reato.
Le celle aperte costringono a rispettare
gli altri
Dice
Lucia Castellano, direttrice del carcere di Bollate: “Io ho trascorso
questi primi vent’anni di galera con la convinzione profonda che la pena è il
muro di cinta e non c’è nessuna afflittività aggiuntiva, e quindi ho cercato
di “costruire” un carcere che fosse conforme a questo principio banale: che
all’interno di questa cinta, che è già ben custodita e difficilmente
valicabile, c’è la possibilità di vivere e muoversi come se tu fossi in una
cittadina da cui sostanzialmente è vietato uscire”.
Questo
cosa vuol dire per noi detenuti? Che l’istituzione carcere altro non dovrebbe
essere che quel muro di cinta alto 7-8 metri di cemento armato, che circonda e
divide dalla società il carcere, dove vive una parte della società che ha
commesso reati, per il tempo che un giudice ha stabilito con una condanna in
nome del popolo italiano. Questa condanna non sancisce nessun altro limite se
non quello della perdita della libertà personale, sono poi i regolamenti
amministrativi che stabiliscono come deve svolgersi la vita all’interno delle
carceri.
Il
carcere di Bollate sembra avere un’amministrazione che opera nel senso
corretto del suo mandato, cercando di dare a tutti gli operatori gli strumenti
perché gli ospiti non superino quel muro di cinta, almeno non senza
autorizzazione. Ma poi all’interno di quel muro di cinta cerca di lasciare il
più possibile inalterata, certo con tutti i controlli del caso, ogni forma di
autoresponsabilizzazione della persona, sia nei movimenti, sia nel rispetto
degli altri e delle regole. Quindi responsabilità è la parola chiave.
Ecco
allora che alla soglia dei sessant’anni anche il detenuto Maurizio, con più
di meta della propria vita trascorsa in carcere, si rende conto che per
ricostruire quella responsabilità interrotta o spezzata con la commissione del
reato, ha bisogno di coltivare la propria responsabilità anche all’interno
del carcere, tramite opportunità lavorative, o scolastiche, o attività dì
volontariato.
Oggi
io detenuto Maurizio mi sento fortunato, essendo compreso nel numero del 30 per
cento (forse meno) di detenuti inseriti in attività trattamentali, ma continuo
a pensare a tutti gli anni trascorsi in carcere, penso a quel 70 per cento che
ne è escluso, che non ha la possibilità di coltivare nessuna sorta di
ricostruzione della propria responsabilità.
Quindi
il carcere, o meglio le celle del carcere chiuse, portano inevitabilmente a una
totale deresponsabilizzazione. Per paradosso il carcere, o meglio le celle del
carcere aperte, costringono a rispettare gli altri sulla base delle regole di
una civile convivenza, e il detenuto vi abita con la consapevolezza di avere
delle responsabilità e di doverne rispondere.