Due mediatori in redazione, per parlare del nostro progetto con le scuole

L’incontro è comunque fatica

E lo sono specialmente gli incontri dove rivivere, “riattraversare” il proprio passato è un po’ come spogliarsi. Succede quando persone detenute incontrano gli studenti, ma questo è anche il tema della mediazione, dove è vero che esistono dei ruoli, entrano nella mediazione un reo e una vittima, ma il tentativo della mediazione è quello di oltrepassare quei ruoli

 

A cura della Redazione

 

Biagio Bellonese e Carlo Riccardi sono mediatori della Cooperativa Dike, coordinata da Adolfo Ceretti, criminologo e docente universitario che della mediazione è uno dei massimi esperti. Hanno assistito in carcere, nella nostra redazione, a un incontro con due classi di una scuola padovana, con loro poi abbiamo approfondito i temi della comunicazione, della mediazione, delle parole per raccontarsi.

 

Biagio Bellonese: Grazie a tutti per averci invitato a questo incontro. Io rispetto al confronto con gli studenti vi parlo di sensazioni, che sono quelle che più erano presenti, nel senso di emozioni e sensazioni. È stato molto interessante l’ultimo intervento di Marino, dove diceva che non è facile fare questi incontri, non è facile riaprire e attraversare ogni volta delle ferite che non riguardano solo noi, nel senso che riguardano anche quelli che stanno vicino a noi.

Quindi questo riattraversare vuol dire ogni volta non solo rioccuparci di quello che abbiamo fatto in prima persona, ma anche di quello che abbiamo causato alle persone a noi prossime. Io credo che questa riflessione sia stata un po’ il momento importante dove si è messo in evidenza come la responsabilità non è solo una responsabilità verso lo Stato, verso le regole, verso il diritto, ma anche una responsabilità più intima, una responsabilità anche verso le persone care.

Questa credo sia una prima impressione forte che ho avuto in questo incontro, dove sono state usate molte parole importanti. Pietro per esempio ha sottolineato il valore di un incontro nella sua vita, il fatto di essere riuscito ad incontrare delle persone che l’hanno aiutato in qualche maniera a dare una svolta alla sua vita, quindi l’incontro che ci aiuta a dare una svolta alla nostra vita. Ma allo stesso tempo c’era anche la fatica dell’incontro che richiamava Marino, cioè l’incontro ha questa ambivalenza. Quello che invece è rischioso è incontrarsi dentro gruppi “a tenuta stagna”, come sosteneva Filippo, che diceva: io parlavo sempre con gli stessi, il mio gruppo era a tenuta stagna, per cui non mi relazionavo con nessuno, non c’era uno scambio, parlavo solo con chi era come me e la pensava come me, persone nelle quali mi riconoscevo.

Ecco, l’incontro ci dice invece che incontrare qualcuno che non la pensa come noi ci aiuta a vedere anche altre prospettive, è qualcosa che sicuramente va molto valorizzato, ed è il valore intrinseco dell’incontro, ma dall’altra parte l’incontro è comunque fatica, specialmente questi incontri dove rivivere il proprio passato è un po’ come spogliarsi. Quindi tutte le volte è come essere nudi davanti agli altri, e non è facile: questa fatica di riattraversare il passato è importante, significa anche il fatto di poter parlare, di poter definire, dare un nome ai propri sentimenti, alle emozioni, aiuta a guardarle, a capirle, a rielaborarle, e non basta una volta sola perché queste emozioni ritornano.

Allora poter parlare, poter dare loro un nome, una collocazione, un contesto, creare una cornice, aiuta a definirle, e credo che questo sia importante per poterle poi contenere e accettare dentro di sé, per poi aspettare la prossima volta che ancora ritorneranno fuori e ancora cercheremo e troveremo altre definizioni per ricontenerle, perché le emozioni sono davvero qualcosa di invasivo, ci prendono tutto, ci prendono appunto veramente in maniera completa.

Ecco queste sono state le cose che mi hanno colpito. Io poi ho lavorato per circa dieci anni in un carcere minorile a Milano e quando si parlava spesso sentivo qualcuno che diceva che, se non sei matto, poi lo diventi in questi posti, credo che questo sia un tema che un po’ ritorna, il carcere come istituzione totalizzante. É tutto carcere a tal punto che anche un medico spesso non guarda più i detenuti come pazienti, questo per esempio lo diceva Elton: il medico che ci guarda come carcerati, non ci dà più retta, anche quando siamo dei pazienti, siamo come gli altri malatti, ma in carcere siamo solo carcerati.

Questa è una delle grandi sofferenze che il carcere provoca, cioè quella di riuscire, là dove la persona detenuta non riesce a reagire, a rendere tutto uguale, tutto dello stesso colore, tutto con la stessa tonalità, quando sappiamo invece che dentro di noi, Ornella lo diceva prima rispetto alle vostre discussioni nella redazione, ci sono tanti colori, tanti toni, tante parole, tante cose diverse.

In carcere sembra che diventi tutto uguale e questa è una cosa che fa molto soffrire, perché spesso non ci sentiamo riconosciuti nel nostro essere persone, nel nostro essere individui e siamo solamente dei reclusi. Ma questa è una cosa che deve essere continuamente combattuta e ci vuole molta forza, il tema della forza è importante, significa trovare le risorse in sé e trovare le risorse attraverso il confronto, appunto attraverso i volontari, o con gli educatori, con chi ci può aiutare ad avere una visione diversa della vita che si conduce tutti i giorni.

 

Carlo Riccardi: Io devo dire che nutrivo una grossa aspettativa per questo incontro, perché parlare di temi che ci sono molto cari, in questo caso i temi della mediazione, i temi del reato, i temi della vittima, qui credo che acquisti un senso, almeno per me, più forte e molto più pregnante.

Quindi la mia prima impressione, siccome io mi occupo anche di vittime di reato, è proprio che ho sentito che sono state usate delle parole che non sono parole che identificano una parte del reato, quindi colui o coloro che lo hanno commesso, ma sono parole trasversali, sono parole che permettono, all’interno della mediazione, come poi vi spiegheremo, di far sì che due persone si incontrino a un livello diverso dal ruolo che ricoprono.

È stato detto prima, penso che lo abbia detto Pietro, che questo è un luogo in cui le differenze si riducono, e io questo lo rivedo un po’ nel discorso della mediazione, dove è vero che esistono dei ruoli, entrano nella mediazione un reo e una vittima, ma il tentativo della mediazione si dice sempre che è quello di oltrepassare i ruoli. Cioè di permettere alle persone di incontrarsi per quello che le persone sono, una lacrima di una vittima è una lacrima di un reo, sono la stessa cosa, la natura non cambia, la natura è quella di una emozione che esce da una persona al di là del nome che dobbiamo dare, che lo Stato deve dare a quella persona.

Io la prima cosa che ho sentito è quella che diceva Marino: parlare di alcune cose è come riviverle e questo vale per chi un fatto lo ha commesso, ma vale altrettanto per chi un fatto lo ha subito, tante volte noi lavorando con le vittime sentiamo che rivivere, quindi ripensare, riparlare, rinarrare quello che è accaduto, significa attualizzare, quindi questo è un primo tema.

Sempre Marino diceva: ad un certo punto finisci per sentirti tu la vittima, e qui entra il grandissimo tema, che è uno dei temi fondanti del discorso della mediazione, dell’ingiustizia. Esiste un concetto che è quello della legalità, la legalità è la violazione di una norma che in un certo periodo, in un certo tempo, qualcuno ha stabilito che non deve essere violata.

Ma sapete perfettamente che le norme sono limitate nel tempo e nello spazio, quindi ciò che un giorno può essere un reato, magari dopo qualche anno non lo è più. Ciò che rimane invece fisso è il senso di ingiustizia, se io dovessi interrogare ciascuno di noi su che cosa significa l’ingiustizia, tutti noi lo sappiamo, perché l’ingiustizia è una esperienza, una pratica che noi abbiamo provato.

Quindi l’ingiustizia, e che cosa significa essere ingiustamente trattati o aver subito qualcosa di ingiusto: anche questo è un tema che mi sembra molto trasversale.

C’è un’altra cosa importante, è stata detta da Pietro narrando la sua storia: non mi accettavo per quello che ero. Anche qui il mio pensiero ha interpretato che il tema è quello dell’incontro con il limite. Abbiamo dei momenti in cui non siamo capaci di incontrare il nostro limite, quindi abbiamo una sorta di onnipotenza. In tutti i conflitti, indipendentemente dalla natura di questi conflitti, esiste un sentimento di onnipotenza, l’idea che noi possiamo permetterci di fare qualsiasi cosa.

La mediazione, proponendo l’incontro tra chi il fatto lo ha commesso e la vittima, ti fa incontrare con il limite, che può essere il limite di quello che tu hai provocato con un atto, e per la vittima è il limite di rivivere, di rincontrare una esperienza di vita. Quindi l’incontro con la nostra finitezza, con i confini che noi abbiamo e quindi non con la nostra onnipotenza.

Pietro ha detto anche che uno poi qui all’interno del carcere deve crearsi un proprio mondo di valori, un proprio sistema di valori. Il sistema di valori richiama un’altra parola fondamentale, che è quella di identità, ciascuno di noi ha un sistema valoriale, che si chiama l’identità, l’identità che è l’identità personale, ciò che noi siamo perché siamo, quindi quello in cui noi crediamo.

Ma c’è anche un altro sistema di identità, che è l’identità sociale, ciò che noi siamo a contatto e in relazione con qualcun altro. Ecco, il tema dell’identità è un altro dei primi temi che si incontrano nella mediazione, il reato quindi è la violazione dell’identità, significa che ad un certo punto c’è stata una situazione, un fatto, che non ha violato solamente l’integrità fisica o il patrimonio. Ma è stata violata l’identità personale, cioè qualcuno si è inserito in una sfera che fino ad un momento prima era inviolabile. Quando qualcosa accade è proprio la rottura dell’identità, c’è un prima e c’è un dopo, quindi questo è il concetto di identità.

Rispetto ai famigliari delle persone detenute poi ho sentito altri temi importanti: quello della stigmatizzazione, della vergogna, il discorso della consapevolezza, altro tema fondamentale. Al centro dell’incontro tra rei e vittime è il prendere consapevolezza. A me ha toccato molto quello che diceva sempre Marino alla fine, che il confronto con qualcuno certe volte è peggiore che stare in cella. È proprio cosi, è il tema del prendere coscienza, del prendere consapevolezza, vedere qualcuno a cui tu hai creato un male, oppure vedere qualcuno con cui confrontarti su determinate cose che sono accadute può essere peggiore che stare in cella, perché ti mette di fronte al limite che in un certo momento è stato superato.

 

Marino Occhipinti: Fino ad ora avete detto tutte cose positive, ci saranno anche cose che forse sarebbe meglio evitare nei nostri incontri con gli studenti, e che guardando dall’esterno si colgono meglio. A volte è proprio una questione di parole, voi vi basate molto spesso sulle parole, per noi questo progetto ci costringe a una grande attenzione alle parole, e per questo ci accorgiamo che a volte ci sfuggono delle parole che possono far male, o essere fraintese.

 

Carlo Riccardi: Io credo che incontri di questo tipo abbiano anche lo scopo non di far diventare qualcosa di brutto una cosa bella, perché tutte le cose hanno un loro nome e credo che certe volte usare delle parole un po’ meno dure possa creare dei fraintendimenti. Alla fine, qualcuno può pensare che questa sia una bella stanza, che voi siate tutti vestiti in maniera decente e che quindi in realtà il carcere non sia un luogo di sofferenza, ma sia un luogo in cui, ve la butto così in maniera un po’ provocatoria, ci si diverte anche. E nel momento in cui si crea l’idea che uno è qui dentro e può anche divertirsi, credo che, soprattutto per dei ragazzi che vengono da fuori e pensano che qui dentro ci sei perché hai fatto del male, ed è giusto che tu debba pagare, possa sembrare un po’ troppo. Quindi secondo me stare attenti alle parole non deve comunque far apparire l’incontro una cosa artefatta, non deve guastare quella immediatezza, che è importante in questi confronti.

 

Ornella Favero: A me viene in mente una definizione di Filippo, che secondo me è interessante, che dice che con gli studenti ci vuole una “spontaneità controllata”, ecco io penso che sia giusto questo. Perché noi dobbiamo riflettere molto sulle parole e anche sul modo in cui ci si esprime. Io ho notato, per esempio, che anche usare troppo l’ironia, quando hai a che fare con delle persone che vengono da fuori, è rischioso, perché tu devi ancora superare, nel loro modo di vederti, il forte pregiudizio per cui chi sta in carcere deve soffrire e basta. Io non dico assolutamente che un detenuto si deve presentare sempre sofferente e triste, però bisogna condurre per mano le persone a capire che si può sorridere e sembrare sereni, senza per questo dimenticare il peso del proprio reato.

Quindi quando si fanno le testimonianze noi tante volte ci stiamo ad annotare le parole che ci sembrano in qualche modo sbagliate, e non perché non ci debba essere spontaneità, ma perché dobbiamo anche sapere il peso che le parole hanno.

Poi vorrei fare una riflessione sul peso delle emozioni, perché qui dentro abbiamo molto discusso una volta in cui c’è stato un racconto che ha fatto Marino sul rapporto con le sue figlie, assolutamente senza autocommiserazione, non c’era una virgola di autocommiserazione, lui si assumeva tutta la responsabilità delle sue scelte sbagliate, ma era il racconto di cosa provoca il reato nelle famiglie, cosa aveva provocato alle sue figlie in particolare. Quel giorno c’erano molte ragazze che piangevano, perché le donne hanno meno paura di far vedere che piangono, e poi alla fine quando ci siamo trovati qui dentro solo noi a discutere, è venuta fuori qualche critica, qualcuno che diceva: ma noi non dobbiamo far piangere, il nostro scopo non è di suscitare pietà.

Io invece penso il contrario, penso che sia giusto che i ragazzi che vengono qui provino delle emozioni, ancor più che sentire un discorso razionale, perché in fondo i discorsi razionali a scuola li sentono sempre, la scuola però spesso non riesce proprio a educare alle emozioni. Per cui se le emozioni non sono ricercate raccontando storie “strappalacrime”, secondo me hanno un grosso peso, perché io continuo a sostenere che qualsiasi domanda pongono i ragazzi, bisogna comunque cercare di arrivare non alla spiegazione tecnica di com’è il carcere e come ci si vive, ma alla narrazione di pezzi di vita, di sensazioni, di stati d’animo.

Noi certo vogliamo parlare anche alla testa, suscitare dei ragionamenti, delle riflessioni, però bisogna anche parlargli al cuore, quindi mi piacerebbe approfondire questo tema con voi che avete proprio sottolineato l’importanza delle emozioni.

 

Biaggio Bellonese: Per quello che ho visto mi sembrava che i racconti fossero molto spontanei, questo è importante, che uno non lo faccia come un attore che cerca di provocare le emozioni, usando certi toni, certe parole, una gestualità, una teatralità per fare questo.

Anche durante l’incontro, qualcuno ha detto che dietro ogni maschera c’è una persona, allora io credo che sia importante questo, che ci si possa permettere il lusso di essere se stessi.

Io credo, come Adolfo Ceretti ci ha detto più volte, che le persone sono molto meglio delle cose che fanno, qualcuno di noi ha fatto delle cose di cui non va fiero, allora conta potersi anche mettere in gioco in situazioni diverse, nel dire “Ho fatto quella cosa, ma non sono quella cosa e basta”, credo che sia importante il fatto che uno possa raccontare se stesso. Di quelle che saranno le reazioni del pubblico non preoccupatevi, non siete degli attori, io credo che voi dobbiate fare pratica, e credo che ormai la facciate da tanto tempo, di essere voi stessi, di raccontare quella che è la vostra storia.

Quando ci si mostra “nudi”, non c’è solo la propria vergogna, ma c’è anche l’altro che può sentirsi a disagio. Perché è più facile vedere le persone che hanno il loro bel vestito, la loro bella maschera, i loro atteggiamenti, come ce li immaginiamo di vedere nei film, ma quando si è nudi, ognuno prova la sua, di difficoltà, di emozione, il suo imbarazzo anche, quindi credo che sia importante non falsificare questa cosa, cioè continuate a chiedervi se mentre raccontate lo state facendo perché avete bisogno di raccontare e non perché volete stupire la platea.

Credo che sia facile stupire dei ragazzi, noi facciamo degli incontri con loro, ogni tanto per raccogliere l’attenzione cerchiamo di stupirli per evitare che si distraggano, perché magari sono tanti, magari sono cento ragazzi che si muovono in una sala, e noi cerchiamo di raccogliere un po’ l’attenzione e buttiamo lì qualcosa di un po’ teatrale, ma a voi non serve.

Mi pare che sia importante invece che continuiate a raccontare con la semplicità dei vostri racconti, io credo che sia importante questo aspetto, io non mi preoccuperei delle reazioni degli altri, io mi preoccuperei del fatto di dire: hai accettato questo incontro, io ti offro un incontro.

Mentre venivamo qui parlavamo dei ragazzi delle scuole che fanno questi percorsi all’interno del carcere, questi incontri con voi, e di come comunque abbiano la fortuna di vedere delle cose che altrimenti non vedrebbero mai, di ascoltare delle cose che nessun altro gli racconterà mai.

È importante sapere che esiste un pezzo di città, un pezzo di mondo, un pezzo di umanità che viene messa “dentro” per farla stare “fuori” dalla società, cioè voi siete messi dentro ma ai margini della città, quindi è importante che questi ragazzi sappiano che esiste quest’altro pezzo di città, che è un pezzo della loro città, è un pezzo di quella umanità di cui fanno parte, e non è negandola o nascondendola che possiamo fare qualcosa. La possibilità che loro hanno di incontrare una verità, una realtà diversa, è un grosso vantaggio, c’è questo scambio, ed è uno scambio a cui io credo che non si debba mai rinunciare, perché è uno scambio non tra professionisti, non tra l’esperto di turno e l’alunno che ascolta, è uno scambio tra persone che si incontrano.

E nell’incontro ci può scappare il pianto come lo sbadiglio, ci può scappare la disattenzione come la massima attenzione, cioè ci sta dentro tutto. E questo io credo che sia il valore forte di questi incontri, che voi continuiate a farli con la spontaneità che io ho sentito.

 

Carlo Riccardi: Io avevo un’altra cosa da dire partendo dalla parola “rieducazione”. Credo che tutti noi abbiamo la necessità, e davvero i ragazzi per primi, di attivare una rieducazione emotiva, una rieducazione alle emozioni. Perché oggi purtroppo non è cosi, non è normale per dei ragazzi poter dire ai loro compagni per esempio, “io oggi ho paura”, perché molte volte esprimere un’emotività ti mette subito in una posizione di debolezza, in una posizione in cui se qualcun altro ti vede debole, ti può considerare appunto il debole della classe, prenderti di mira, sottometterti.

La rieducazione emotiva permette alle persone di incontrarsi da un punto di vista emotivo, permette di dire “ho paura”, “sono a disagio”, è questa secondo me la grossa sfida del futuro.

Quindi voi date ed avete secondo me una grossa possibilità e una grossa opportunità in questi incontri, di iniziare a fare praticare e praticare probabilmente voi stessi, una rieducazione emotiva, cioè un incontro con una emozione che magari le vostre parole creano, che viene dalla vostra narrazione, dalla vostra vita e che vi ritorna indietro o con parole o con espressioni di emotività.

Questo dal mio punto di vista è molto importante, così come è importante l’attenzione alle parole, però senza farle diventare parole che sono create ad arte per ingenerare emozioni false: nei vostri racconti, se nascono da emozioni vere, le vostre parole necessariamente creano qualche cosa.

 

Andrea B.: Secondo voi tutte le nostre storie sono raccontabili a dei ragazzi o bisogna fare delle distinzioni a seconda dei reati? Per esempio uno che lo ha fatto per scelta, come può motivare davanti a dei ragazzi la scelta di aver commesso deliberatamente un reato?

 

Biaggio Bellonese: Io non credo sia importante motivare, cioè io ti racconto le mie di esperienze, io ho fatto delle scelte, prima qualcuno ha parlato proprio di scelte, scelte che mi hanno portato a determinate conseguenze. Noi tutti cosa tendiamo a fare? cerchiamo di dare delle motivazioni che siano socialmente accettabili. Ma noi sappiamo tutti che quello che abbiamo fatto e quello che ognuno di noi fa ha delle motivazioni sociali, e anche delle motivazioni molto personali, molto individuali, e quelle non le diremo mai, perché sono le nostre, il nostro piccolo “giardino segreto” dove non entra nessuno e dove non uscirà niente, e allora se il tentativo è quello di dare delle motivazioni socialmente utili e accettabili, forse non serve. È importante che si parli spontaneamente, cioè che ci sia sincerità nelle cose che dico, perché la parte spontanea i ragazzi l’accolgono molto bene, l’accolgono molto istintivamente, e questa è la rieducazione di cui parlava appunto Carlo prima. Di solito loro provano delle emozioni, delle sensazioni, ma non riescono a farsene nulla, perché non c’è nessuno che li aiuta a definirle, a rielaborarle, a tirarle fuori, vengono tutte poi consegnate ad una razionalità che le svilisce, a scuola spesso succede questo.

 

Carlo Riccardi: Se tu devi narrare il perché di una scelta, puoi pensare che chi è davanti a te non capisca, perché magari è troppo complesso spiegare una scelta.

Ma che cosa io provo o ho provato è un qualcosa che tu narri, e che non arriva dalla mente, ma dal cuore, e se tu mi narri una questione di dispiacere, di odio, io non ho bisogno di capire che cos’è l’odio, l’ho vissuto, il problema è proprio questo, le parole che noi usiamo per spiegare, spiegano razionalmente, cercando di trovare una motivazione che tutti noi dobbiamo avere.

Il punto però di quella rieducazione emotiva di cui parlavamo, al di là del perché è stata fatta una scelta, l’idea grandiosa secondo me è che la tua rabbia possa essere la sua, la mia, l’odio possa essere il tuo, il suo, il mio, perché noi ci incontriamo in questa narrazione su un livello che è diverso, che è sulle emozioni e non sulla razionalità, questo è il punto su cui viaggia in un certo senso la mediazione. Perché altrimenti il discorso della mediazione non andrebbe oltre ciò che fa il diritto, quindi il diritto dice che uno è un reo, dice che un altro è una vittima e si cerca di spiegarsi il perché una cosa sia accaduta, ma con un fine ultimo che è quello di stabilire se uno ha commesso un reato e quanti anni deve pagare per riparare il danno.

Ma quella riparazione va molto di più verso la società che verso chi ha subito il reato, la riparazione invece di cui io parlo è la riparazione che arriva a livello emotivo, per cui se io ho creato un dispiacere in lui, come faccio io a riparare il suo dispiacere? Non c’è nessuna norma che ripara il nostro dispiacere, perché noi ci stiamo incontrando a un livello diverso, di persone, questa è la rieducazione emotiva, ecco perché secondo me è molto importante.

Ma non pensiate che chi ascolta sia passivo, nel senso che non siete voi con i vostri racconti che inducete delle cose, voi mettete delle cose sul tavolo e ognuno degli ascoltatori prenderà un pezzettino di quelle cose lì, cioè prenderà le cose che è in grado di prendere, prenderà le cose che gli piaceranno di più, che gli servono di più.

Se infatti voi chiedete ai 40 ragazzi, che sono stati qui, che cosa hanno capito, che cosa hanno sentito, saranno 40 cose diverse, perché comunque chi ascolta partecipa attivamente all’ascolto, a quello che gli viene raccontato, e se io ho bisogno di emozionarmi come ascoltatore lo farò indipendentemente da quello che mi viene raccontato. Voi nel momento in cui raccontate date la possibilità di partecipare al vostro racconto, poi c’è chi partecipa e chi non partecipa, chi partecipa per un pezzo chi per un altro.

 

Biaggio Bellonese: Credo anche che narrare serva a creare una distanza molto minore, tra un noi, cioè noi che stiamo all’esterno, e l’altro. Prima Pietro raccontava come la soglia oltre la quale c’è la follia in determinate situazioni possa essere molto sottile, credo anche che ci sia la necessità di raccontare come la soglia tra il fare qualcosa di giusto e qualcosa di ingiusto, o qualcosa di legale e illegale, certe volte magari sia solo questione di fortuna. L’importanza della narrazione può essere quella di permettere a qualcuno di dire: questa cosa può capitare a chiunque e quindi se può capitare a chiunque, la distanza tra noi e l’altro, tra noi che stiamo fuori e l’altro che sta all’interno, si assottiglia, non è un solco così profondo.

 

Carlo Riccardi: Io vorrei tornare al tema delle parole, però nelle mediazioni penali. Quando qualcuno ti narra di aver fatto qualcosa che definisce “una sciocchezza”, non c’è la consapevolezza che quella sciocchezza per esempio si chiama in un certo modo e ha un nome, e dare un nome è il modo per non vedere più quella cosa come una sciocchezza.

Quando abbiamo a che fare con i minorenni che commettono reati, incontriamo anche i loro genitori, e per i genitori tutte le cose che i minori fanno, che quindi possono anche non essere sciocchezze, sono invece le ragazzate, la rapina diventa la ragazzata, diventa la stupidata, diventano tutte quelle parole che tu devi usare per coprire la responsabilità e non dare il nome alla cosa.

 

Sandro Calderoni: Forse è lì il senso delle parole che noi cerchiamo di trovare.

Per questo diciamo che bisogna stare attenti all’uso delle parole, perché a volte non ti viene la parola giusta, io magari racconto che nella mia vita ho fatto delle “stupidaggini”, ma se le stupidaggini sono delle rapine so che non è quella la parola giusta o il messaggio che io vorrei dare.

 

Marino Occhipinti: Noi ci poniamo sempre il problema su come comunicare con gli studenti, questa mattina quando non eravate ancora arrivati abbiamo detto che certe cose possono capitare a chiunque, per cercare di avvicinarli. Se però io, che sono condannato all’ergastolo per omicidio, dico che certe cose possono capitare a chiunque, possono rispondermi che sono matto, quindi usiamo l’esempio degli incidenti stradali, perché davvero può capitare a chiunque dei vostri conoscenti di bere due bicchieri in più, fare un incidente stradale uccidendo qualcuno e finire in carcere. Quindi devi stare attento anche agli esempi che fai, è proprio una questione di comunicazione.

Voi parlavate dell’attore, sinceramente io non sono capace di fare l’attore e non voglio farlo, mi rendo conto però che quando tu racconti la tua storia, pian piano l’affini, ma in che senso? Certamente non per renderla più bella, ma perché ti rendi conto che certe cose possono non servire a niente. Allora cerchi pian piano di vedere quello che può interessare, selezioni quelle parti ed è quello che racconti alla fine. Mi ricordo che c’era un ragazzo che raccontava la sua storia in questo modo “durante una rissa, ci siamo accoltellati e c’era sangue dappertutto”. A me sinceramente dava fastidio, è ovvio che se hai accoltellato qualcuno chissà quanto sangue ci sarà stato, non serve raccontarlo perché magari parli con ragazzi di 16/17 anni e forse quella cosa lì si può anche evitare. Io la mia storia ad esempio non la racconto mai e sostengo che non aggiungerebbe assolutamente nulla alla discussione dire come ho fatto l’omicidio, vi posso dire di cosa sono responsabile, poi ti posso raccontare cosa questo ha comportato. Allora credo che abbia molto più senso questo racconto, e non perché ho paura a raccontare il reato che ho fatto, ma non aggiungerebbe niente, servirebbe a soddisfare la morbosità e basta, quindi la mia storia non la racconto.

Però ecco dopo ognuno racconta il suo pezzetto in base alla sensibilità che ha verso un argomento, verso un aspetto del problema. Quando racconto delle mie figlie, certe sfumature mi rendo conto che non servono, allora faccio un concentrato di quello che so che tiene viva l’attenzione dei ragazzi, non credo che sia recitazione, credo che sia una scelta ragionata, non è che puoi metterti a raccontare tutto.

 

Ornella Favero: Nel progetto con le scuole ovviamente il racconto può diventare ripetitivo, perché incontriamo tante classi e le persone che portano la loro testimonianza non sono tantissime. D’altra parte il rischio della ripetitività esiste dappertutto, perché quando io vado a qualche convegno a parlare di carcere a volte mi trovo con delle persone che dicono sempre le stesse cose e io mi sforzo invece di uscire dagli schemi, magari mi viene in mente che quella mattina sono stata in carcere, e qualcuno ha detto qualcosa di interessante e ne faccio tesoro, cercando di dare sempre qualche elemento diverso nel mio racconto.

Questo progetto quindi serve anche a me, perché affina molto l’osservazione e anche la capacità di trarre da ogni esperienza qualcosa di diverso, per cui il rischio di diventare attori esiste, ma già la consapevolezza che c’è questo rischio secondo me un po’ ti mette in guardia e crea gli anticorpi.

Invece tornando sulle parole, non è che noi vogliamo controllare tutto, ma serve attenzione: penso a parole come “ragazzata, stupidata, combinarne di tutti i colori”. Io ho sentito persone usare questi termini, magari non con l’intento di sottovalutare i propri reati, però quando dietro a questo “farne di tutti i colori” c’è per esempio un omicidio, ci sono storie pesanti, le parole sono davvero inadeguate, sono anche appuntite, fanno male, offendono.

Mi viene in mente l’insegnante che è stata presa in ostaggio durante una rapina in banca, mi ricordo che lei la prima volta che ha sentito parlare un rapinatore, anche se erano passati anni da quel fatto, era agitatissima e poi è riuscita a fatica a raccontare che cosa ha provato ad essere presa in ostaggio, questo ha fatto riflettere tantissimo qui dentro. Però se un rapinatore avesse detto semplicemente “io ne ho combinate di tutti i colori” forse lei non avrebbe accettato per quella pistola puntata alla tempia una definizione così infantile, per questo noi ci rendiamo conto che ci vuole attenzione alle parole, perché la consapevolezza passa anche attraverso le parole.

 

Biaggio Bellonese: Nella mediazione i primi racconti che facciamo nei nostri laboratori sono sempre uguali. E una domanda che io mi faccio sempre quando facciamo questi incontri di formazione, non solo con i ragazzi, ma anche con gli adulti in vari contesti è: ma io cosa mi porto a casa da questo incontro? È vero voi fate un progetto di prevenzione, quindi offrite qualcosa agli studenti. Credo però che dopo un po’ che lo si fa se uno non trova qualcosa per sé diventa noioso, inutile, è sempre la stessa storia. Allora secondo me è importante che ognuno di noi si chieda che cosa riesce a portarsi a casa da questi racconti e da questi incontri. Ecco Marino diceva “Io ogni volta affino un po’ la storia”, lo faccio anch’io e mi sono reso conto di un fatto, che quando racconto delle cose che mi hanno colpito, quando ci sono delle mediazioni particolarmente impegnative, affino delle cose, ma non è un modo per colpire l’altro, mi rendo conto che le affino, le aggiusto per me, perché ho bisogno di riattraversare quella esperienza in un modo diverso, non posso fare sempre lo stesso percorso perché diventa noioso, sfiancante, perde di senso, non ha significato, e se una cosa è inutile per me, la farò una volta la faccio due poi basta.

Allora io credo che sia importante anche provare a riflettere su questo, cioè il fatto che quell’episodio, quel rapporto con le mie figlie, quel reato che ho commesso, le persone che ho incontrato li attraverso in maniera diversa e per me ogni volta è questo, cioè inizialmente era un meccanismo un po’ automatico, poi mi sono reso conto che io devo raccontare una cosa mia e nel fare questo io devo riuscire comunque a percorrerla in un modo diverso, a portarmi a casa qualche cosa da questo mio incontro con l’altro. Altrimenti diventa davvero una ripetizione che rischia di perdere completamente di senso. Imparare qualcosa, ma che cosa? Appunto Marino ha parlato “dell’affinare”, Sandro ha parlato dell’attenzione alle parole, stiamo tutti mettendo qui delle cose. Alla fine ognuno di noi dovrà chiedersi: ma questo incontro mi è servito? E, se mi è servito, che cosa mi ha aiutato a capire, rispetto al modo che ho di relazionarmi con gli altri?

Allora raccontare significa anche riattraversare la propria storia usando termini diversi, perché le parole non sono dette a caso, anche noi quando pensiamo di dire una parola al posto di un’altra non la diciamo a caso, noi scegliamo delle parole, perché hanno dei significati anche profondi: perché se io dico che ne ho fatte di tutti i colori, invece di dire un’altra cosa, sto scegliendo di dire quello, perché forse in questo momento non sono ancora pronto a dire quella parola lì che è molto pesante, che vuol dire che io in quel momento sto mettendo sul tavolo un peso forte, ma non per gli altri, attenzione, per me, sono io che non riesco a mettere questo peso.

Secondo me visto che mi sembrate un gruppo anche abbastanza coeso, in questo vi potete supportare e aiutare, nel dire: hai detto “di tutti i colori”, guarda che “di tutti i colori” è una rapina, è un omicidio è qualcos’altro, in questa messa a punto delle parole vi potete aiutare.

Però, attenzione, secondo me è importante anche che uno si senta un po’ libero di raccontare nel proprio modo, la spontaneità controllata è bello come concetto, secondo me molto pregnante e molto significativo, però se è controllata in un luogo già molto controllato, non deve diventare un controllo all’ennesima potenza.

 

Sandro Calderoni: Il punto cruciale, almeno per me, quando si racconta una storia specialmente se è una storia pesante ed è inevitabile cercare di darsi delle giustificazioni, è proprio il fatto di non cadere nel vittimismo, di non dare l’impressione agli altri che ti ascoltano che tu sei stato solo vittima di certe cause scatenanti e non anche quello che comunque ha fatto una scelta.

 

Filippo Filippi: È vero che lo spazio che si ha per raccontarsi non è ampio, ma è uno spazio che ha dei tempi limitati, analoghi a quelli “televisivi”, dire “spontaneità controllata” può sembrare un paradosso, però ha un senso se noi pensiamo al nostro obiettivo, che è cercare di fare riflettere almeno un attimo prima di commettere certi errori, quello che non siamo riusciti a fare noi.

 

Carlo Riccardi: Noi quando raccontiamo dobbiamo anche considerare che abbiamo una responsabilità del racconto, quindi siamo responsabili di ciò che stiamo raccontando, ma allo stesso tempo liberi nel racconto. Perché se è vero che il racconto è un bisogno nostro, noi dobbiamo essere liberi di raccontare ciò che ci sentiamo di raccontare e nel modo in cui ci sentiamo di raccontare, ed è qui il senso della responsabilità del racconto. Quindi il raccontare mette in moto le intelligenze di tutti noi, le intelligenze del raffrontarsi magari ad una determinata platea e in un certo modo, e quindi la scelta di limare una storia perché certe cose io non ho il bisogno di raccontarle.

Forse il concetto su cui dobbiamo concentrarci non è tanto di avere dei suggerimenti su cosa dire o non dire, ma probabilmente ancora una volta, in una sorta di rieducazione emotiva, avere anche noi la sensibilità di rapportarci nei nostri racconti al contesto e alle persone a cui stiamo raccontando.

 

Pietro Pollizzi: Per me è come la lettura di un libro, il libro sono le nostre vicende, e quando tu leggi un libro ovviamente trovi sempre dei particolari nuovi, quindi affinare la storia può essere appunto questo riguardare la propria vicenda. Quanto invece al giustificarsi quando si racconta di sé, io però penso che la sfortuna e il caso sono comunque presenti nella nostra esistenza. Non è questione di vittimismo, se uno nasce in una famiglia di camorristi quello è uno sfigato e basta, se uno nasce in un contesto deviato come vuoi chiamarla la sua se non sfortuna?

 

Elton Kalica: Per tornare un attimo sulla comunicazione, credo che nella comunicazione con i ragazzi ci si trova a fare i conti con alcune questioni molto serie. La prima questione è che noi dobbiamo essere credibili, perché se i ragazzi pensano che non siamo sinceri, non ci credono più. La seconda questione è che la comunicazione deve fare i conti anche con questa responsabilità. Quando raccontiamo le nostre esperienze, abbiamo una responsabilità verso i ragazzi, che consiste in quello che poi i ragazzi si portano dentro e nell’interpretazione che fanno sulle nostre storie. Infine, questa specie di mediazione che noi chiamiamo “mediazione collettiva” non è una mediazione tra l’autore e la vittima diretta. Noi viviamo in una società in cui la gente si sente sempre più vittima e ha paura, in una società spaventata, anche perché spesso i media presentano chi commette reati come dei mostri, e rappresentano il carcere come un luogo lontano dai cittadini “onesti”, per cui uno pensa “Io là non ci finirò mai, a me non può capitare”. Di fronte a ciò, noi raccontiamo le nostre storie ai ragazzi tentando di ricucire, non lo strappo che c’è tra l’autore e la vittima del reato, ma lo strappo che c’è nella società, creato da questo clima di paura e di intolleranza. Allora la nostra comunicazione deve fare i conti anche con i luoghi comuni, come quello per cui, “in carcere non ci finisce nessuno”, o comunque “dal carcere si esce molto in fretta”. Quindi, nei nostri incontri dobbiamo mettere al centro la credibilità, la responsabilità e la necessità di sfatare dei luoghi comuni. Ecco che la comunicazione che facciamo noi con i ragazzi tanto libera non può essere, e questo impegno ci impone di essere controllati e misurare bene ogni parola che diciamo.

Questa è la lettura che faccio io, di come deve essere la comunicazione con i ragazzi, certo non è facile, sono sei anni che andiamo avanti con questo progetto e ogni volta nascono delle discussioni perché ci sono dei concetti su cui magari ci si alzano le antenne: ma va bene usare questo tono? va bene usare queste parole? I ragazzi sono anche in un’età che è molto pericolosa, quindi questo aumenta la responsabilità che abbiamo nei loro confronti.

Inoltre ci siamo accorti di avere bisogno di disciplina. Noi siamo delle persone che per la maggior parte siamo finite dentro perché abbiamo poco senso di disciplina. A scuola siamo andati male perché non avevamo grande capacità di controllare i nostri comportamenti, al lavoro non eravamo abbastanza disciplinati da alzarci tutti i giorni alle sette per andare in fabbrica. Anche oggi, quando parliamo con i ragazzi, questa mancanza di disciplina ci porta a volte a farci trasportare da quello che raccontiamo, da quelle che sono le dinamiche dell’incontro. Per questa ragione, abbiamo un bisogno continuo di ricostruire poi anche tra di noi, e quindi facciamo moltissime riunioni in cui discutiamo sui i tempi che dobbiamo rispettare e sulle parole da usare.

 

Ornella Favero: La responsabilità del racconto e la libertà del racconto: in realtà questi due concetti sono complicatissimi. Io tante volte dico che nel racconto autobiografico, orale o scritto, tu comunque scrivi per qualcuno, scrivi per farti leggere, per farti capire o ti racconti per lo stesso motivo, quindi devi imparare prima di tutto a pensare che c’è un altro che poi ti legge, e questo è importante perché di solito si commettono reati proprio perché non si pensa all’altro, non si considera la sua esistenza. Quindi è già un passo avanti che tu ti ricordi che c’è l’altro, perché di solito i reati cancellano l’altro, tutti i reati. Quando Filippo parla di spontaneità controllata, io credo che questo significhi che ci debba essere una giusta rinuncia a qualche pezzo di libertà di raccontarsi. Io mi racconto, però so che ho davanti gli altri e chi sono questi altri, quindi se metto delle limitazioni alla mia testimonianza, non si tratta affatto del controllo della galera, qui gli incontri avvengono così come avete visto, senza alcuna presenza di figure professionali.

Quindi la spontaneità controllata significa rispetto dell’altro e considerazione dell’altro, e non controllo della galera.

 

Biagio Bellonese: Comincio facendo un preambolo sulla libertà, nel senso che la libertà sappiamo tutti che è poter scegliere elaborando i vincoli che il contesto ci porta. È chiaro che quando racconto qualcosa guardo fino in fondo se ad ascoltarmi ho una classe delle scuole medie, o una classe delle superiori, un gruppo di adulti o un gruppo di educatori. Cioè cerchiamo anche di contestualizzare il nostro intervento, senza rinunciare alla libertà di dire delle cose che diremmo comunque, con parole diverse chiaramente. Quindi la libertà per me è raccontare sapendo il contesto che ho di fronte, ed elaborando i vincoli che questo mi pone. I vincoli quali sono? quelli di avere dei ragazzi che hanno 16-17 anni e io devo far si che loro capiscano le cose che stiamo raccontando.

Quello che credo diventi difficile è pensare di, in qualche maniera, guidare le emozioni a seconda delle parole che usiamo, questo credo che non sia possibile. La libertà è esercitare il proprio potere, la propria scelta, per esempio anche di farsi prendere emotivamente tantissimo, quindi quando parlo di libertà la intendo in questo senso, e non di raccontare tutto quello che viene fuori, perché è chiaro che se io vado a raccontare cose troppo cruente spavento le persone, e non le aiuto a ragionare e a ridurre quella frattura che esiste tra chi commette dei reati e chi sta nella società libera.

Essere credibili vuol dire essere sinceri nel raccontare, tenendo conto dei vincoli che ci sono, elaborandoli, questi vincoli. Quando parlavo del controllo che c’è in carcere, che è una istituzione che per definizione controlla, lo affiancavo alla spontaneità controllata, proprio perché dentro c’è la parola controllo, allora oltre che di spontaneità controllata, io parlerei di libertà di scegliere che cosa raccontare e che cosa non raccontare, che serve anche a noi come esercizio, per essere più credibili e più facilmente ascoltabili. Perché se uso dei termini che gli altri non capiscono, o presento dei contesti troppo fantasiosi o troppo cruenti, è facile che l’altro non mi ascolti. C’è uno studio delle pubblicità, per esempio sui danni che fa il fumo, hanno realizzato delle campagne dove facevano vedere questi polmoni tutti rovinati. Quella pubblicità non ha ottenuto nessun tipo di risultato, quando invece hanno fatto la pubblicità che diceva che se fumi ti puzza un po’ l’alito e se baci qualcuno dà fastidio, hanno ottenuto molti più risultati, quindi controllare cosa dire significa avere più libertà di scegliere, elaborando i vincoli che questa comunicazione comunque impone, perché parlare qui non è lo stesso che parlare in una scuola, non è lo stesso che parlare in un convegno, cioè i contesti cambiano e le parole che si usano cambiano. L’importante è non perdere la spontaneità del racconto e il desiderio e la necessità di riattraversare il proprio racconto.

 

Carlo Riccardi: Si è parlato prima del mostro, si sente anche in televisione che quando succede qualcosa di particolarmente cruento c’è il discorso del mostro, il mostro è il non umano, colui che non è uomo, e se qualcosa lo ha fatto un mostro, noi che siamo uomini non possiamo farlo, questo è il ragionamento.

Il concetto con cui secondo me ci si deve confrontare rispetto alla comunicazione è che quello che comunico non deve creare indifferenza, questa secondo me è la cosa fondamentale. Perché? perché voi fate questi incontri, in cui qualcuno da fuori entra nella “casa dei mostri”, di coloro che hanno fatto qualcosa che noi fuori pensiamo che non faremmo mai. Andiamo in questa casa nelle stanze migliori, nel salotto buono, e in quelle stanze migliori sarebbe molto brutto se la comunicazione che avviene creasse indifferenza. Quello che secondo me la comunicazione dovrebbe fare è creare un avvicinamento, ma avvicinamento non significa il fatto che chi vi sta davanti debba poi venire da voi e buttarvi le braccia al collo e dirvi: hai fatto bene. Perché quello non interessa a nessuno, così come toglietevi dalla testa che la mediazione abbia come scopo di far fare la pace, a noi della pace non interessa assolutamente niente, la pace, il perdono se vengono, vengono tra le persone che decidono di farlo, non interessa a noi far fare la pace e far perdonare.

Se voi avete presente la prima intervista a una vittima, la domanda è sempre: ma tu hai perdonato? È un non senso quella domanda, quindi quello che la comunicazione non deve fare è creare indifferenza, o assenza di senso.

Se tu vai in ospedale e c’è uno che sta morendo, non gli dici: guarda, ci vediamo tra due anni. Secondo me, ma questa è una mia idea, dire sempre ciò che si pensa è profondamente stupido, non intelligente, perché manca il raccordo con chi ti sta davanti, però è anche necessario che una comunicazione crei un’emozione e non crei indifferenza, questo è il punto.

Perché se i ragazzi qui in carcere hanno avuto davanti 15-20 persone che raccontano cose “di gomma”, insignificanti, si portano a casa la sensazione di aver perso due ore a scuola, non di essere venuti nella “casa del mostro” e aver potuto avvicinarsi a qualcosa o a qualcuno che prima non conoscevano.

 

Tino Ginestri (volontario TG 2Palazzi): Tante volte mi sono chiesto sentendo voi raccontare ripetutamente le vostre storie, se non c’è il rischio che possa diventare un racconto rituale, perdere di immediatezza, di freschezza, di capacità comunicativa, che possano anche subentrare quegli elementi come il piacere di vedere emozionarsi gli altri, il sentirsi in qualche maniera protagonisti.

Come si può fare per evitare allora questi altri aspetti che non sono sempre positivi? Siccome anche a me come a tutti capita in più occasioni di dover ripetere certi concetti, certi principi in tante circostanze, come si può trovare la maniera perché siano ancora efficaci? Io credo che sia importante comunque, in ogni occasione, ritornare alle motivazioni originarie per cui si comincia a percorrere questa strada.

Ad esempio per voi mi sembra che ci siano almeno alcune motivazioni fondamentali: la prima, quando si parla agli studenti, è quella di far capire che l’occasione per delinquere purtroppo può capitare a chiunque; secondo, che il carcere non deve semplicemente punire, ma deve invece offrire le opportunità e le occasioni per cambiare. Ecco, se si ritorna alla motivazione originaria, forse si riesce a non cadere nella ritualità e nel compiacimento del sentirsi raccontare.

 

Biaggio Bellonese: Ci sono degli accorgimenti metodologici che vengono dati sì dall’esperienza, ma anche dalle tecniche di conduzione dei gruppi. Allora bisogna trovare ogni tanto delle situazioni diverse dove si possa coinvolgere anche quelli che parlano meno, avete visto che oggi c’erano due ragazzi che parlavano di più, che erano anche quelli più interessati, ma forse non permettevano neppure agli altri di intervenire.

I contesti allargati emozionano un po’ a parlare e a fare le domande, per cui magari si può pensare di fare piccoli gruppi di lavoro e dopo ci si ritrova per discutere di cosa è emerso, cioè ci sono dei modi per far partecipare un po’ di più le persone che ascoltano.

È vero che bisogna fare i conti con il tempo, però vi assicuro che in contesti più ristretti anche quelli che non parlano mai possono parlare ed esprimere qualche curiosità, qualche domanda.

 

Marino Occhipinti: Riguardo a quello che diceva Tino prima sulla ripetitività, se la cosa della quale parli è per te importante, credo che tu riesca a trasmetterla sempre in un modo diverso.

Se ci chiedono come passiamo la giornata in carcere io non riesco a rispondere perché probabilmente forse per noi è scontata e banale, la si vive tutti i giorni e quindi non hai neanche l’entusiasmo per raccontarla. Sulle mie figlie invece io credo che racconto con la stessa emozione di quando raccontavo le prime volte, perché è una cosa che mi fa male, mi crea dolore e quindi l’emozione è ogni volta la stessa, e se una cosa viene dal dolore arriva di più a chi ti ascolta.

Sono però convinto, e lo vedo quando parliamo dei figli e delle esperienze personali che ci fanno male, penso questa mattina a Pietro che raccontava di quando è stato all’ospedale psichiatrico, che lì ci siano le storie più importanti, quelle che forse colpiscono di più. Io ho questa concezione del colpire a tutti i costi perché vorrei che le persone quando escono da qui non si dimenticassero più del carcere, perché altrimenti si rischia che quando vanno a casa dicono “Sono stato in carcere, ho perso due ore di scuola” e gli è già passato tutto e non hanno tenuto dentro niente. Ecco io forse ho questa illusione e vorrei che quando gli studenti vanno a casa si ricordassero per anni che in carcere ci sono delle persone, e non ci sono i mostri.