Due
mediatori in redazione, per parlare del nostro progetto con le scuole
L’incontro
è comunque fatica
E
lo sono specialmente gli incontri dove rivivere, “riattraversare” il proprio
passato è un po’ come spogliarsi. Succede quando persone detenute incontrano
gli studenti, ma questo è anche il tema della mediazione, dove è vero che
esistono dei ruoli, entrano nella mediazione un reo e una vittima, ma il
tentativo della mediazione è quello di oltrepassare quei ruoli
A
cura della Redazione
Biagio
Bellonese e Carlo Riccardi sono mediatori della Cooperativa Dike, coordinata da
Adolfo Ceretti, criminologo e docente universitario che della mediazione è uno
dei massimi esperti. Hanno assistito in carcere, nella nostra redazione, a un
incontro con due classi di una scuola padovana, con loro poi abbiamo
approfondito i temi della comunicazione, della mediazione, delle parole per
raccontarsi.
Biagio
Bellonese:
Grazie a tutti per averci invitato a questo incontro. Io rispetto al confronto
con gli studenti vi parlo di sensazioni, che sono quelle che più erano
presenti, nel senso di emozioni e sensazioni. È stato molto interessante
l’ultimo intervento di Marino, dove diceva che non è facile fare questi
incontri, non è facile riaprire e attraversare ogni volta delle ferite che non
riguardano solo noi, nel senso che riguardano anche quelli che stanno vicino a
noi.
Quindi
questo riattraversare vuol dire ogni volta non solo rioccuparci di quello
che abbiamo fatto in prima persona, ma anche di quello che abbiamo causato alle
persone a noi prossime. Io credo che questa riflessione sia stata un po’ il
momento importante dove si è messo in evidenza come la responsabilità non è
solo una responsabilità verso lo Stato, verso le regole, verso il diritto, ma
anche una responsabilità più intima, una responsabilità anche verso le
persone care.
Questa
credo sia una prima impressione forte che ho avuto in questo incontro, dove sono
state usate molte parole importanti. Pietro per esempio ha sottolineato il
valore di un incontro nella sua vita, il fatto di essere riuscito ad incontrare
delle persone che l’hanno aiutato in qualche maniera a dare una svolta alla
sua vita, quindi l’incontro che ci aiuta a dare una svolta alla nostra vita.
Ma allo stesso tempo c’era anche la fatica dell’incontro che richiamava
Marino, cioè l’incontro ha questa ambivalenza. Quello che invece è rischioso
è incontrarsi dentro gruppi “a tenuta stagna”, come sosteneva Filippo, che
diceva: io parlavo sempre con gli stessi, il mio gruppo era a tenuta stagna, per
cui non mi relazionavo con nessuno, non c’era uno scambio, parlavo solo con
chi era come me e la pensava come me, persone nelle quali mi riconoscevo.
Ecco,
l’incontro ci dice invece che incontrare qualcuno che non la pensa come noi ci
aiuta a vedere anche altre prospettive, è qualcosa che sicuramente va molto
valorizzato, ed è il valore intrinseco dell’incontro, ma dall’altra parte
l’incontro è comunque fatica, specialmente questi incontri dove rivivere il
proprio passato è un po’ come spogliarsi. Quindi tutte le volte è come
essere nudi davanti agli altri, e non è facile: questa fatica di riattraversare
il passato è importante, significa anche il fatto di poter parlare, di poter
definire, dare un nome ai propri sentimenti, alle emozioni, aiuta a guardarle, a
capirle, a rielaborarle, e non basta una volta sola perché queste emozioni
ritornano.
Allora
poter parlare, poter dare loro un nome, una collocazione, un contesto, creare
una cornice, aiuta a definirle, e credo che questo sia importante per poterle
poi contenere e accettare dentro di sé, per poi aspettare la prossima volta che
ancora ritorneranno fuori e ancora cercheremo e troveremo altre definizioni per
ricontenerle, perché le emozioni sono davvero qualcosa di invasivo, ci prendono
tutto, ci prendono appunto veramente in maniera completa.
Ecco
queste sono state le cose che mi hanno colpito. Io poi ho lavorato per circa
dieci anni in un carcere minorile a Milano e quando si parlava spesso sentivo
qualcuno che diceva che, se non sei matto, poi lo diventi in questi posti, credo
che questo sia un tema che un po’ ritorna, il carcere come istituzione
totalizzante. É tutto carcere a tal punto che anche un medico spesso non guarda
più i detenuti come pazienti, questo per esempio lo diceva Elton: il medico che
ci guarda come carcerati, non ci dà più retta, anche quando siamo dei
pazienti, siamo come gli altri malatti, ma in carcere siamo solo carcerati.
Questa
è una delle grandi sofferenze che il carcere provoca, cioè quella di riuscire,
là dove la persona detenuta non riesce a reagire, a rendere tutto uguale, tutto
dello stesso colore, tutto con la stessa tonalità, quando sappiamo invece che
dentro di noi, Ornella lo diceva prima rispetto alle vostre discussioni nella
redazione, ci sono tanti colori, tanti toni, tante parole, tante cose diverse.
In
carcere sembra che diventi tutto uguale e questa è una cosa che fa molto
soffrire, perché spesso non ci sentiamo riconosciuti nel nostro essere persone,
nel nostro essere individui e siamo solamente dei reclusi. Ma questa è una cosa
che deve essere continuamente combattuta e ci vuole molta forza, il tema della
forza è importante, significa trovare le risorse in sé e trovare le risorse
attraverso il confronto, appunto attraverso i volontari, o con gli educatori,
con chi ci può aiutare ad avere una visione diversa della vita che si conduce
tutti i giorni.
Carlo
Riccardi:
Io devo dire che nutrivo una grossa aspettativa per questo incontro, perché
parlare di temi che ci sono molto cari, in questo caso i temi della mediazione,
i temi del reato, i temi della vittima, qui credo che acquisti un senso, almeno
per me, più forte e molto più pregnante.
Quindi
la mia prima impressione, siccome io mi occupo anche di vittime di reato, è
proprio che ho sentito che sono state usate delle parole che non sono parole che
identificano una parte del reato, quindi colui o coloro che lo hanno commesso,
ma sono parole trasversali, sono parole che permettono, all’interno della
mediazione, come poi vi spiegheremo, di far sì che due persone si incontrino a
un livello diverso dal ruolo che ricoprono.
È
stato detto prima, penso che lo abbia detto Pietro, che questo è un luogo in
cui le differenze si riducono, e io questo lo rivedo un po’ nel discorso della
mediazione, dove è vero che esistono dei ruoli, entrano nella mediazione un reo
e una vittima, ma il tentativo della mediazione si dice sempre che è quello di
oltrepassare i ruoli. Cioè di permettere alle persone di incontrarsi per quello
che le persone sono, una lacrima di una vittima è una lacrima di un reo, sono
la stessa cosa, la natura non cambia, la natura è quella di una emozione che
esce da una persona al di là del nome che dobbiamo dare, che lo Stato deve dare
a quella persona.
Io
la prima cosa che ho sentito è quella che diceva Marino: parlare di alcune cose
è come riviverle e questo vale per chi un fatto lo ha commesso, ma vale
altrettanto per chi un fatto lo ha subito, tante volte noi lavorando con le
vittime sentiamo che rivivere, quindi ripensare, riparlare, rinarrare quello che
è accaduto, significa attualizzare, quindi questo è un primo tema.
Sempre
Marino diceva: ad un certo punto finisci per sentirti tu la vittima, e qui entra
il grandissimo tema, che è uno dei temi fondanti del discorso della mediazione,
dell’ingiustizia. Esiste un concetto che è quello della legalità, la legalità
è la violazione di una norma che in un certo periodo, in un certo tempo,
qualcuno ha stabilito che non deve essere violata.
Ma
sapete perfettamente che le norme sono limitate nel tempo e nello spazio, quindi
ciò che un giorno può essere un reato, magari dopo qualche anno non lo è più.
Ciò che rimane invece fisso è il senso di ingiustizia, se io dovessi
interrogare ciascuno di noi su che cosa significa l’ingiustizia, tutti noi lo
sappiamo, perché l’ingiustizia è una esperienza, una pratica che noi abbiamo
provato.
Quindi
l’ingiustizia, e che cosa significa essere ingiustamente trattati o aver
subito qualcosa di ingiusto: anche questo è un tema che mi sembra molto
trasversale.
C’è
un’altra cosa importante, è stata detta da Pietro narrando la sua storia: non
mi accettavo per quello che ero. Anche qui il mio pensiero ha interpretato che
il tema è quello dell’incontro con il limite. Abbiamo dei momenti in cui non
siamo capaci di incontrare il nostro limite, quindi abbiamo una sorta di
onnipotenza. In tutti i conflitti, indipendentemente dalla natura di questi
conflitti, esiste un sentimento di onnipotenza, l’idea che noi possiamo
permetterci di fare qualsiasi cosa.
La
mediazione, proponendo l’incontro tra chi il fatto lo ha commesso e la
vittima, ti fa incontrare con il limite, che può essere il limite di quello che
tu hai provocato con un atto, e per la vittima è il limite di rivivere, di
rincontrare una esperienza di vita. Quindi l’incontro con la nostra finitezza,
con i confini che noi abbiamo e quindi non con la nostra onnipotenza.
Pietro
ha detto anche che uno poi qui all’interno del carcere deve crearsi un proprio
mondo di valori, un proprio sistema di valori. Il sistema di valori richiama
un’altra parola fondamentale, che è quella di identità, ciascuno di
noi ha un sistema valoriale, che si chiama l’identità, l’identità che è
l’identità personale, ciò che noi siamo perché siamo, quindi quello
in cui noi crediamo.
Ma
c’è anche un altro sistema di identità, che è l’identità sociale,
ciò che noi siamo a contatto e in relazione con qualcun altro. Ecco, il tema
dell’identità è un altro dei primi temi che si incontrano nella mediazione,
il reato quindi è la violazione dell’identità, significa che ad un certo
punto c’è stata una situazione, un fatto, che non ha violato solamente
l’integrità fisica o il patrimonio. Ma è stata violata l’identità
personale, cioè qualcuno si è inserito in una sfera che fino ad un momento
prima era inviolabile. Quando qualcosa accade è proprio la rottura
dell’identità, c’è un prima e c’è un dopo, quindi questo è il concetto
di identità.
Rispetto
ai famigliari delle persone detenute poi ho sentito altri temi importanti:
quello della stigmatizzazione, della vergogna, il discorso della consapevolezza,
altro tema fondamentale. Al centro dell’incontro tra rei e vittime è il
prendere consapevolezza. A me ha toccato molto quello che diceva sempre Marino
alla fine, che il confronto con qualcuno certe volte è peggiore che stare in
cella. È proprio cosi, è il tema del prendere coscienza, del prendere
consapevolezza, vedere qualcuno a cui tu hai creato un male, oppure vedere
qualcuno con cui confrontarti su determinate cose che sono accadute può essere
peggiore che stare in cella, perché ti mette di fronte al limite che in un
certo momento è stato superato.
Marino
Occhipinti: Fino ad ora avete detto tutte cose positive, ci saranno anche
cose che forse sarebbe meglio evitare nei nostri incontri con gli studenti, e
che guardando dall’esterno si colgono meglio. A volte è proprio una questione
di parole, voi vi basate molto spesso sulle parole, per noi questo progetto ci
costringe a una grande attenzione alle parole, e per questo ci accorgiamo che a
volte ci sfuggono delle parole che possono far male, o essere fraintese.
Carlo
Riccardi:
Io credo che incontri di questo tipo abbiano anche lo scopo non di far diventare
qualcosa di brutto una cosa bella, perché tutte le cose hanno un loro nome e
credo che certe volte usare delle parole un po’ meno dure possa creare dei
fraintendimenti. Alla fine, qualcuno può pensare che questa sia una bella
stanza, che voi siate tutti vestiti in maniera decente e che quindi in realtà
il carcere non sia un luogo di sofferenza, ma sia un luogo in cui, ve la butto
così in maniera un po’ provocatoria, ci si diverte anche. E nel momento in
cui si crea l’idea che uno è qui dentro e può anche divertirsi, credo che,
soprattutto per dei ragazzi che vengono da fuori e pensano che qui dentro ci sei
perché hai fatto del male, ed è giusto che tu debba pagare, possa sembrare un
po’ troppo. Quindi secondo me stare attenti alle parole non deve comunque far
apparire l’incontro una cosa artefatta, non deve guastare quella immediatezza,
che è importante in questi confronti.
Ornella
Favero: A me viene in mente una definizione di Filippo, che secondo me è
interessante, che dice che con gli studenti ci vuole una “spontaneità
controllata”, ecco io penso che sia giusto questo. Perché noi dobbiamo
riflettere molto sulle parole e anche sul modo in cui ci si esprime. Io ho
notato, per esempio, che anche usare troppo l’ironia, quando hai a che fare
con delle persone che vengono da fuori, è rischioso, perché tu devi ancora
superare, nel loro modo di vederti, il forte pregiudizio per cui chi sta in
carcere deve soffrire e basta. Io non dico assolutamente che un detenuto si deve
presentare sempre sofferente e triste, però bisogna condurre per mano le
persone a capire che si può sorridere e sembrare sereni, senza per questo
dimenticare il peso del proprio reato.
Quindi
quando si fanno le testimonianze noi tante volte ci stiamo ad annotare le parole
che ci sembrano in qualche modo sbagliate, e non perché non ci debba essere
spontaneità, ma perché dobbiamo anche sapere il peso che le parole hanno.
Poi
vorrei fare una riflessione sul peso delle emozioni, perché qui dentro abbiamo
molto discusso una volta in cui c’è stato un racconto che ha fatto Marino sul
rapporto con le sue figlie, assolutamente senza autocommiserazione, non c’era
una virgola di autocommiserazione, lui si assumeva tutta la responsabilità
delle sue scelte sbagliate, ma era il racconto di cosa provoca il reato nelle
famiglie, cosa aveva provocato alle sue figlie in particolare. Quel giorno
c’erano molte ragazze che piangevano, perché le donne hanno meno paura di far
vedere che piangono, e poi alla fine quando ci siamo trovati qui dentro solo noi
a discutere, è venuta fuori qualche critica, qualcuno che diceva: ma noi non
dobbiamo far piangere, il nostro scopo non è di suscitare pietà.
Io
invece penso il contrario, penso che sia giusto che i ragazzi che vengono qui
provino delle emozioni, ancor più che sentire un discorso razionale, perché in
fondo i discorsi razionali a scuola li sentono sempre, la scuola però spesso
non riesce proprio a educare alle emozioni. Per cui se le emozioni non sono
ricercate raccontando storie “strappalacrime”, secondo me hanno un grosso
peso, perché io continuo a sostenere che qualsiasi domanda pongono i ragazzi,
bisogna comunque cercare di arrivare non alla spiegazione tecnica di com’è il
carcere e come ci si vive, ma alla narrazione di pezzi di vita, di sensazioni,
di stati d’animo.
Noi
certo vogliamo parlare anche alla testa, suscitare dei ragionamenti, delle
riflessioni, però bisogna anche parlargli al cuore, quindi mi piacerebbe
approfondire questo tema con voi che avete proprio sottolineato l’importanza
delle emozioni.
Biaggio
Bellonese:
Per quello che ho visto mi sembrava che i racconti fossero molto spontanei,
questo è importante, che uno non lo faccia come un attore che cerca di
provocare le emozioni, usando certi toni, certe parole, una gestualità, una
teatralità per fare questo.
Anche
durante l’incontro, qualcuno ha detto che dietro ogni maschera c’è una
persona, allora io credo che sia importante questo, che ci si possa permettere
il lusso di essere se stessi.
Io
credo, come Adolfo Ceretti ci ha detto più volte, che le persone sono molto
meglio delle cose che fanno, qualcuno di noi ha fatto delle cose di cui non va
fiero, allora conta potersi anche mettere in gioco in situazioni diverse, nel
dire “Ho fatto quella cosa, ma non sono quella cosa e basta”, credo che sia
importante il fatto che uno possa raccontare se stesso. Di quelle che saranno le
reazioni del pubblico non preoccupatevi, non siete degli attori, io credo che
voi dobbiate fare pratica, e credo che ormai la facciate da tanto tempo, di
essere voi stessi, di raccontare quella che è la vostra storia.
Quando
ci si mostra “nudi”, non c’è solo la propria vergogna, ma c’è anche
l’altro che può sentirsi a disagio. Perché è più facile vedere le persone
che hanno il loro bel vestito, la loro bella maschera, i loro atteggiamenti,
come ce li immaginiamo di vedere nei film, ma quando si è nudi, ognuno prova la
sua, di difficoltà, di emozione, il suo imbarazzo anche, quindi credo che sia
importante non falsificare questa cosa, cioè continuate a chiedervi se mentre
raccontate lo state facendo perché avete bisogno di raccontare e non perché
volete stupire la platea.
Credo
che sia facile stupire dei ragazzi, noi facciamo degli incontri con loro, ogni
tanto per raccogliere l’attenzione cerchiamo di stupirli per evitare che si
distraggano, perché magari sono tanti, magari sono cento ragazzi che si muovono
in una sala, e noi cerchiamo di raccogliere un po’ l’attenzione e buttiamo lì
qualcosa di un po’ teatrale, ma a voi non serve.
Mi
pare che sia importante invece che continuiate a raccontare con la semplicità
dei vostri racconti, io credo che sia importante questo aspetto, io non mi
preoccuperei delle reazioni degli altri, io mi preoccuperei del fatto di dire:
hai accettato questo incontro, io ti offro un incontro.
Mentre
venivamo qui parlavamo dei ragazzi delle scuole che fanno questi percorsi
all’interno del carcere, questi incontri con voi, e di come comunque abbiano
la fortuna di vedere delle cose che altrimenti non vedrebbero mai, di ascoltare
delle cose che nessun altro gli racconterà mai.
È
importante sapere che esiste un pezzo di città, un pezzo di mondo, un pezzo di
umanità che viene messa “dentro” per farla stare “fuori” dalla società,
cioè voi siete messi dentro ma ai margini della città, quindi è importante
che questi ragazzi sappiano che esiste quest’altro pezzo di città, che è un
pezzo della loro città, è un pezzo di quella umanità di cui fanno parte, e
non è negandola o nascondendola che possiamo fare qualcosa. La possibilità che
loro hanno di incontrare una verità, una realtà diversa, è un grosso
vantaggio, c’è questo scambio, ed è uno scambio a cui io credo che non si
debba mai rinunciare, perché è uno scambio non tra professionisti, non tra
l’esperto di turno e l’alunno che ascolta, è uno scambio tra persone che si
incontrano.
E
nell’incontro ci può scappare il pianto come lo sbadiglio, ci può scappare
la disattenzione come la massima attenzione, cioè ci sta dentro tutto. E questo
io credo che sia il valore forte di questi incontri, che voi continuiate a farli
con la spontaneità che io ho sentito.
Carlo
Riccardi:
Io avevo un’altra cosa da dire partendo dalla parola “rieducazione”. Credo
che tutti noi abbiamo la necessità, e davvero i ragazzi per primi, di attivare
una rieducazione emotiva, una rieducazione alle emozioni. Perché oggi purtroppo
non è cosi, non è normale per dei ragazzi poter dire ai loro compagni per
esempio, “io oggi ho paura”, perché molte volte esprimere un’emotività
ti mette subito in una posizione di debolezza, in una posizione in cui se
qualcun altro ti vede debole, ti può considerare appunto il debole della
classe, prenderti di mira, sottometterti.
La
rieducazione emotiva permette alle persone di incontrarsi da un punto di vista
emotivo, permette di dire “ho paura”, “sono a disagio”, è questa
secondo me la grossa sfida del futuro.
Quindi
voi date ed avete secondo me una grossa possibilità e una grossa opportunità
in questi incontri, di iniziare a fare praticare e praticare probabilmente voi
stessi, una rieducazione emotiva, cioè un incontro con una emozione che magari
le vostre parole creano, che viene dalla vostra narrazione, dalla vostra vita e
che vi ritorna indietro o con parole o con espressioni di emotività.
Questo
dal mio punto di vista è molto importante, così come è importante
l’attenzione alle parole, però senza farle diventare parole che sono create
ad arte per ingenerare emozioni false: nei vostri racconti, se nascono da
emozioni vere, le vostre parole necessariamente creano qualche cosa.
Andrea
B.:
Secondo voi tutte le nostre storie sono raccontabili a dei ragazzi o bisogna
fare delle distinzioni a seconda dei reati? Per esempio uno che lo ha fatto per
scelta, come può motivare davanti a dei ragazzi la scelta di aver commesso
deliberatamente un reato?
Biaggio
Bellonese:
Io non credo sia importante motivare, cioè io ti racconto le mie di esperienze,
io ho fatto delle scelte, prima qualcuno ha parlato proprio di scelte, scelte
che mi hanno portato a determinate conseguenze. Noi tutti cosa tendiamo a fare?
cerchiamo di dare delle motivazioni che siano socialmente accettabili. Ma noi
sappiamo tutti che quello che abbiamo fatto e quello che ognuno di noi fa ha
delle motivazioni sociali, e anche delle motivazioni molto personali, molto
individuali, e quelle non le diremo mai, perché sono le nostre, il nostro
piccolo “giardino segreto” dove non entra nessuno e dove non uscirà niente,
e allora se il tentativo è quello di dare delle motivazioni socialmente utili e
accettabili, forse non serve. È importante che si parli spontaneamente, cioè
che ci sia sincerità nelle cose che dico, perché la parte spontanea i ragazzi
l’accolgono molto bene, l’accolgono molto istintivamente, e questa è la
rieducazione di cui parlava appunto Carlo prima. Di solito loro provano delle
emozioni, delle sensazioni, ma non riescono a farsene nulla, perché non c’è
nessuno che li aiuta a definirle, a rielaborarle, a tirarle fuori, vengono tutte
poi consegnate ad una razionalità che le svilisce, a scuola spesso succede
questo.
Carlo
Riccardi:
Se tu devi narrare il perché di una scelta, puoi pensare che chi è davanti a
te non capisca, perché magari è troppo complesso spiegare una scelta.
Ma
che cosa io provo o ho provato è un qualcosa che tu narri, e che non arriva
dalla mente, ma dal cuore, e se tu mi narri una questione di dispiacere, di
odio, io non ho bisogno di capire che cos’è l’odio, l’ho vissuto, il
problema è proprio questo, le parole che noi usiamo per spiegare, spiegano
razionalmente, cercando di trovare una motivazione che tutti noi dobbiamo avere.
Il
punto però di quella rieducazione emotiva di cui parlavamo, al di là del perché
è stata fatta una scelta, l’idea grandiosa secondo me è che la tua rabbia
possa essere la sua, la mia, l’odio possa essere il tuo, il suo, il mio, perché
noi ci incontriamo in questa narrazione su un livello che è diverso, che è
sulle emozioni e non sulla razionalità, questo è il punto su cui viaggia in un
certo senso la mediazione. Perché altrimenti il discorso della mediazione non
andrebbe oltre ciò che fa il diritto, quindi il diritto dice che uno è un reo,
dice che un altro è una vittima e si cerca di spiegarsi il perché una cosa sia
accaduta, ma con un fine ultimo che è quello di stabilire se uno ha commesso un
reato e quanti anni deve pagare per riparare il danno.
Ma
quella riparazione va molto di più verso la società che verso chi ha subito il
reato, la riparazione invece di cui io parlo è la riparazione che arriva a
livello emotivo, per cui se io ho creato un dispiacere in lui, come faccio io a
riparare il suo dispiacere? Non c’è nessuna norma che ripara il nostro
dispiacere, perché noi ci stiamo incontrando a un livello diverso, di persone,
questa è la rieducazione emotiva, ecco perché secondo me è molto importante.
Ma
non pensiate che chi ascolta sia passivo, nel senso che non siete voi con i
vostri racconti che inducete delle cose, voi mettete delle cose sul tavolo e
ognuno degli ascoltatori prenderà un pezzettino di quelle cose lì, cioè
prenderà le cose che è in grado di prendere, prenderà le cose che gli
piaceranno di più, che gli servono di più.
Se
infatti voi chiedete ai 40 ragazzi, che sono stati qui, che cosa hanno capito,
che cosa hanno sentito, saranno 40 cose diverse, perché comunque chi ascolta
partecipa attivamente all’ascolto, a quello che gli viene raccontato, e se io
ho bisogno di emozionarmi come ascoltatore lo farò indipendentemente da quello
che mi viene raccontato. Voi nel momento in cui raccontate date la possibilità
di partecipare al vostro racconto, poi c’è chi partecipa e chi non partecipa,
chi partecipa per un pezzo chi per un altro.
Biaggio
Bellonese:
Credo anche che narrare serva a creare una distanza molto minore, tra un noi,
cioè noi che stiamo all’esterno, e l’altro. Prima Pietro raccontava come la
soglia oltre la quale c’è la follia in determinate situazioni possa essere
molto sottile, credo anche che ci sia la necessità di raccontare come la soglia
tra il fare qualcosa di giusto e qualcosa di ingiusto, o qualcosa di legale e
illegale, certe volte magari sia solo questione di fortuna. L’importanza della
narrazione può essere quella di permettere a qualcuno di dire: questa cosa può
capitare a chiunque e quindi se può capitare a chiunque, la distanza tra noi e
l’altro, tra noi che stiamo fuori e l’altro che sta all’interno, si
assottiglia, non è un solco così profondo.
Carlo
Riccardi:
Io vorrei tornare al tema delle parole, però nelle mediazioni penali. Quando
qualcuno ti narra di aver fatto qualcosa che definisce “una sciocchezza”,
non c’è la consapevolezza che quella sciocchezza per esempio si chiama in un
certo modo e ha un nome, e dare un nome è il modo per non vedere più quella
cosa come una sciocchezza.
Quando
abbiamo a che fare con i minorenni che commettono reati, incontriamo anche i
loro genitori, e per i genitori tutte le cose che i minori fanno, che quindi
possono anche non essere sciocchezze, sono invece le ragazzate, la rapina
diventa la ragazzata, diventa la stupidata, diventano tutte quelle parole che tu
devi usare per coprire la responsabilità e non dare il nome alla cosa.
Sandro
Calderoni: Forse
è lì il senso delle parole che noi cerchiamo di trovare.
Per
questo diciamo che bisogna stare attenti all’uso delle parole, perché a volte
non ti viene la parola giusta, io magari racconto che nella mia vita ho fatto
delle “stupidaggini”, ma se le stupidaggini sono delle rapine so che non è
quella la parola giusta o il messaggio che io vorrei dare.
Marino
Occhipinti: Noi ci poniamo sempre il problema su come comunicare con gli
studenti, questa mattina quando non eravate ancora arrivati abbiamo detto che
certe cose possono capitare a chiunque, per cercare di avvicinarli. Se però io,
che sono condannato all’ergastolo per omicidio, dico che certe cose possono
capitare a chiunque, possono rispondermi che sono matto, quindi usiamo
l’esempio degli incidenti stradali, perché davvero può capitare a chiunque
dei vostri conoscenti di bere due bicchieri in più, fare un incidente stradale
uccidendo qualcuno e finire in carcere. Quindi devi stare attento anche agli
esempi che fai, è proprio una questione di comunicazione.
Voi
parlavate dell’attore, sinceramente io non sono capace di fare l’attore e
non voglio farlo, mi rendo conto però che quando tu racconti la tua storia,
pian piano l’affini, ma in che senso? Certamente non per renderla più bella,
ma perché ti rendi conto che certe cose possono non servire a niente. Allora
cerchi pian piano di vedere quello che può interessare, selezioni quelle parti
ed è quello che racconti alla fine. Mi ricordo che c’era un ragazzo che
raccontava la sua storia in questo modo “durante una rissa, ci siamo
accoltellati e c’era sangue dappertutto”. A me sinceramente dava fastidio,
è ovvio che se hai accoltellato qualcuno chissà quanto sangue ci sarà stato,
non serve raccontarlo perché magari parli con ragazzi di 16/17 anni e forse
quella cosa lì si può anche evitare. Io la mia storia ad esempio non la
racconto mai e sostengo che non aggiungerebbe assolutamente nulla alla
discussione dire come ho fatto l’omicidio, vi posso dire di cosa sono
responsabile, poi ti posso raccontare cosa questo ha comportato. Allora credo
che abbia molto più senso questo racconto, e non perché ho paura a raccontare
il reato che ho fatto, ma non aggiungerebbe niente, servirebbe a soddisfare la
morbosità e basta, quindi la mia storia non la racconto.
Però
ecco dopo ognuno racconta il suo pezzetto in base alla sensibilità che ha verso
un argomento, verso un aspetto del problema. Quando racconto delle mie figlie,
certe sfumature mi rendo conto che non servono, allora faccio un concentrato di
quello che so che tiene viva l’attenzione dei ragazzi, non credo che sia
recitazione, credo che sia una scelta ragionata, non è che puoi metterti a
raccontare tutto.
Ornella
Favero:
Nel progetto con le scuole ovviamente il racconto può diventare ripetitivo,
perché incontriamo tante classi e le persone che portano la loro testimonianza
non sono tantissime. D’altra parte il rischio della ripetitività esiste
dappertutto, perché quando io vado a qualche convegno a parlare di carcere a
volte mi trovo con delle persone che dicono sempre le stesse cose e io mi sforzo
invece di uscire dagli schemi, magari mi viene in mente che quella mattina sono
stata in carcere, e qualcuno ha detto qualcosa di interessante e ne faccio
tesoro, cercando di dare sempre qualche elemento diverso nel mio racconto.
Questo
progetto quindi serve anche a me, perché affina molto l’osservazione e anche
la capacità di trarre da ogni esperienza qualcosa di diverso, per cui il
rischio di diventare attori esiste, ma già la consapevolezza che c’è questo
rischio secondo me un po’ ti mette in guardia e crea gli anticorpi.
Invece
tornando sulle parole, non è che noi vogliamo controllare tutto, ma serve
attenzione: penso a parole come “ragazzata, stupidata, combinarne di tutti i
colori”. Io ho sentito persone usare questi termini, magari non con
l’intento di sottovalutare i propri reati, però quando dietro a questo
“farne di tutti i colori” c’è per esempio un omicidio, ci sono storie
pesanti, le parole sono davvero inadeguate, sono anche appuntite, fanno male,
offendono.
Mi
viene in mente l’insegnante che è stata presa in ostaggio durante una rapina
in banca, mi ricordo che lei la prima volta che ha sentito parlare un
rapinatore, anche se erano passati anni da quel fatto, era agitatissima e poi è
riuscita a fatica a raccontare che cosa ha provato ad essere presa in ostaggio,
questo ha fatto riflettere tantissimo qui dentro. Però se un rapinatore avesse
detto semplicemente “io ne ho combinate di tutti i colori” forse lei non
avrebbe accettato per quella pistola puntata alla tempia una definizione così
infantile, per questo noi ci rendiamo conto che ci vuole attenzione alle parole,
perché la consapevolezza passa anche attraverso le parole.
Biaggio
Bellonese:
Nella mediazione i primi racconti che facciamo nei nostri laboratori sono sempre
uguali. E una domanda che io mi faccio sempre quando facciamo questi incontri di
formazione, non solo con i ragazzi, ma anche con gli adulti in vari contesti è:
ma io cosa mi porto a casa da questo incontro? È vero voi fate un progetto di
prevenzione, quindi offrite qualcosa agli studenti. Credo però che dopo un
po’ che lo si fa se uno non trova qualcosa per sé diventa noioso, inutile, è
sempre la stessa storia. Allora secondo me è importante che ognuno di noi si
chieda che cosa riesce a portarsi a casa da questi racconti e da questi
incontri. Ecco Marino diceva “Io ogni volta affino un po’ la storia”, lo
faccio anch’io e mi sono reso conto di un fatto, che quando racconto delle
cose che mi hanno colpito, quando ci sono delle mediazioni particolarmente
impegnative, affino delle cose, ma non è un modo per colpire l’altro, mi
rendo conto che le affino, le aggiusto per me, perché ho bisogno di
riattraversare quella esperienza in un modo diverso, non posso fare sempre lo
stesso percorso perché diventa noioso, sfiancante, perde di senso, non ha
significato, e se una cosa è inutile per me, la farò una volta la faccio due
poi basta.
Allora
io credo che sia importante anche provare a riflettere su questo, cioè il fatto
che quell’episodio, quel rapporto con le mie figlie, quel reato che ho
commesso, le persone che ho incontrato li attraverso in maniera diversa e per me
ogni volta è questo, cioè inizialmente era un meccanismo un po’ automatico,
poi mi sono reso conto che io devo raccontare una cosa mia e nel fare questo io
devo riuscire comunque a percorrerla in un modo diverso, a portarmi a casa
qualche cosa da questo mio incontro con l’altro. Altrimenti diventa davvero
una ripetizione che rischia di perdere completamente di senso. Imparare
qualcosa, ma che cosa? Appunto Marino ha parlato “dell’affinare”, Sandro
ha parlato dell’attenzione alle parole, stiamo tutti mettendo qui delle cose.
Alla fine ognuno di noi dovrà chiedersi: ma questo incontro mi è servito? E,
se mi è servito, che cosa mi ha aiutato a capire, rispetto al modo che ho di
relazionarmi con gli altri?
Allora
raccontare significa anche riattraversare la propria storia usando termini
diversi, perché le parole non sono dette a caso, anche noi quando pensiamo di
dire una parola al posto di un’altra non la diciamo a caso, noi scegliamo
delle parole, perché hanno dei significati anche profondi: perché se io dico
che ne ho fatte di tutti i colori, invece di dire un’altra cosa, sto
scegliendo di dire quello, perché forse in questo momento non sono ancora
pronto a dire quella parola lì che è molto pesante, che vuol dire che io in
quel momento sto mettendo sul tavolo un peso forte, ma non per gli altri,
attenzione, per me, sono io che non riesco a mettere questo peso.
Secondo
me visto che mi sembrate un gruppo anche abbastanza coeso, in questo vi potete
supportare e aiutare, nel dire: hai detto “di tutti i colori”, guarda che
“di tutti i colori” è una rapina, è un omicidio è qualcos’altro, in
questa messa a punto delle parole vi potete aiutare.
Però,
attenzione, secondo me è importante anche che uno si senta un po’ libero di
raccontare nel proprio modo, la spontaneità controllata è bello come concetto,
secondo me molto pregnante e molto significativo, però se è controllata in un
luogo già molto controllato, non deve diventare un controllo all’ennesima
potenza.
Sandro
Calderoni:
Il punto cruciale, almeno per me, quando si racconta una storia specialmente se
è una storia pesante ed è inevitabile cercare di darsi delle giustificazioni,
è proprio il fatto di non cadere nel vittimismo, di non dare l’impressione
agli altri che ti ascoltano che tu sei stato solo vittima di certe cause
scatenanti e non anche quello che comunque ha fatto una scelta.
Filippo
Filippi:
È vero che lo spazio che si ha per raccontarsi non è ampio, ma è uno spazio
che ha dei tempi limitati, analoghi a quelli “televisivi”, dire
“spontaneità controllata” può sembrare un paradosso, però ha un senso se
noi pensiamo al nostro obiettivo, che è cercare di fare riflettere almeno un
attimo prima di commettere certi errori, quello che non siamo riusciti a fare
noi.
Carlo
Riccardi:
Noi quando raccontiamo dobbiamo anche considerare che abbiamo una responsabilità
del racconto, quindi siamo responsabili di ciò che stiamo raccontando, ma allo
stesso tempo liberi nel racconto. Perché se è vero che il racconto è un
bisogno nostro, noi dobbiamo essere liberi di raccontare ciò che ci sentiamo di
raccontare e nel modo in cui ci sentiamo di raccontare, ed è qui il senso della
responsabilità del racconto. Quindi il raccontare mette in moto le intelligenze
di tutti noi, le intelligenze del raffrontarsi magari ad una determinata platea
e in un certo modo, e quindi la scelta di limare una storia perché certe cose
io non ho il bisogno di raccontarle.
Forse
il concetto su cui dobbiamo concentrarci non è tanto di avere dei suggerimenti
su cosa dire o non dire, ma probabilmente ancora una volta, in una sorta di
rieducazione emotiva, avere anche noi la sensibilità di rapportarci nei nostri
racconti al contesto e alle persone a cui stiamo raccontando.
Pietro
Pollizzi: Per
me è come la lettura di un libro, il libro sono le nostre vicende, e quando tu
leggi un libro ovviamente trovi sempre dei particolari nuovi, quindi affinare la
storia può essere appunto questo riguardare la propria vicenda. Quanto invece
al giustificarsi quando si racconta di sé, io però penso che la sfortuna e il
caso sono comunque presenti nella nostra esistenza. Non è questione di
vittimismo, se uno nasce in una famiglia di camorristi quello è uno sfigato e
basta, se uno nasce in un contesto deviato come vuoi chiamarla la sua se non
sfortuna?
Elton
Kalica: Per
tornare un attimo sulla comunicazione, credo che nella comunicazione con i
ragazzi ci si trova a fare i conti con alcune questioni molto serie. La prima
questione è che noi dobbiamo essere credibili, perché se i ragazzi pensano che
non siamo sinceri, non ci credono più. La seconda questione è che la
comunicazione deve fare i conti anche con questa responsabilità. Quando
raccontiamo le nostre esperienze, abbiamo una responsabilità verso i ragazzi,
che consiste in quello che poi i ragazzi si portano dentro e
nell’interpretazione che fanno sulle nostre storie. Infine, questa specie di
mediazione che noi chiamiamo “mediazione collettiva” non è una mediazione
tra l’autore e la vittima diretta. Noi viviamo in una società in cui la gente
si sente sempre più vittima e ha paura, in una società spaventata, anche perché
spesso i media presentano chi commette reati come dei mostri, e rappresentano il
carcere come un luogo lontano dai cittadini “onesti”, per cui uno pensa
“Io là non ci finirò mai, a me non può capitare”. Di fronte a ciò, noi
raccontiamo le nostre storie ai ragazzi tentando di ricucire, non lo strappo che
c’è tra l’autore e la vittima del reato, ma lo strappo che c’è nella
società, creato da questo clima di paura e di intolleranza. Allora la nostra
comunicazione deve fare i conti anche con i luoghi comuni, come quello per cui,
“in carcere non ci finisce nessuno”, o comunque “dal carcere si esce molto
in fretta”. Quindi, nei nostri incontri dobbiamo mettere al centro la
credibilità, la responsabilità e la necessità di sfatare dei luoghi comuni.
Ecco che la comunicazione che facciamo noi con i ragazzi tanto libera non può
essere, e questo impegno ci impone di essere controllati e misurare bene ogni
parola che diciamo.
Questa
è la lettura che faccio io, di come deve essere la comunicazione con i ragazzi,
certo non è facile, sono sei anni che andiamo avanti con questo progetto e ogni
volta nascono delle discussioni perché ci sono dei concetti su cui magari ci si
alzano le antenne: ma va bene usare questo tono? va bene usare queste parole? I
ragazzi sono anche in un’età che è molto pericolosa, quindi questo aumenta
la responsabilità che abbiamo nei loro confronti.
Inoltre
ci siamo accorti di avere bisogno di disciplina. Noi siamo delle persone che per
la maggior parte siamo finite dentro perché abbiamo poco senso di disciplina. A
scuola siamo andati male perché non avevamo grande capacità di controllare i
nostri comportamenti, al lavoro non eravamo abbastanza disciplinati da alzarci
tutti i giorni alle sette per andare in fabbrica. Anche oggi, quando parliamo
con i ragazzi, questa mancanza di disciplina ci porta a volte a farci
trasportare da quello che raccontiamo, da quelle che sono le dinamiche
dell’incontro. Per questa ragione, abbiamo un bisogno continuo di ricostruire
poi anche tra di noi, e quindi facciamo moltissime riunioni in cui discutiamo
sui i tempi che dobbiamo rispettare e sulle parole da usare.
Ornella
Favero: La responsabilità del racconto e la libertà del racconto: in
realtà questi due concetti sono complicatissimi. Io tante volte dico che nel
racconto autobiografico, orale o scritto, tu comunque scrivi per qualcuno,
scrivi per farti leggere, per farti capire o ti racconti per lo stesso motivo,
quindi devi imparare prima di tutto a pensare che c’è un altro che poi ti
legge, e questo è importante perché di solito si commettono reati proprio
perché non si pensa all’altro, non si considera la sua esistenza. Quindi è
già un passo avanti che tu ti ricordi che c’è l’altro, perché di solito i
reati cancellano l’altro, tutti i reati. Quando Filippo parla di spontaneità
controllata, io credo che questo significhi che ci debba essere una giusta
rinuncia a qualche pezzo di libertà di raccontarsi. Io mi racconto, però so
che ho davanti gli altri e chi sono questi altri, quindi se metto delle
limitazioni alla mia testimonianza, non si tratta affatto del controllo della
galera, qui gli incontri avvengono così come avete visto, senza alcuna presenza
di figure professionali.
Quindi
la spontaneità controllata significa rispetto dell’altro e considerazione
dell’altro, e non controllo della galera.
Biagio
Bellonese:
Comincio facendo un preambolo sulla libertà, nel senso che la libertà sappiamo
tutti che è poter scegliere elaborando i vincoli che il contesto ci porta. È
chiaro che quando racconto qualcosa guardo fino in fondo se ad ascoltarmi ho una
classe delle scuole medie, o una classe delle superiori, un gruppo di adulti o
un gruppo di educatori. Cioè cerchiamo anche di contestualizzare il nostro
intervento, senza rinunciare alla libertà di dire delle cose che diremmo
comunque, con parole diverse chiaramente. Quindi la libertà per me è raccontare
sapendo il contesto che ho di fronte, ed elaborando i vincoli che questo
mi pone. I vincoli quali sono? quelli di avere dei ragazzi che hanno 16-17
anni e io devo far si che loro capiscano le cose che stiamo raccontando.
Quello
che credo diventi difficile è pensare di, in qualche maniera, guidare le
emozioni a seconda delle parole che usiamo, questo credo che non sia possibile.
La libertà è esercitare il proprio potere, la propria scelta, per esempio
anche di farsi prendere emotivamente tantissimo, quindi quando parlo di libertà
la intendo in questo senso, e non di raccontare tutto quello che viene fuori,
perché è chiaro che se io vado a raccontare cose troppo cruente spavento le
persone, e non le aiuto a ragionare e a ridurre quella frattura che esiste tra
chi commette dei reati e chi sta nella società libera.
Essere
credibili vuol dire essere sinceri nel raccontare, tenendo conto dei vincoli che
ci sono, elaborandoli, questi vincoli. Quando parlavo del controllo che c’è
in carcere, che è una istituzione che per definizione controlla, lo affiancavo
alla spontaneità controllata, proprio perché dentro c’è la parola
controllo, allora oltre che di spontaneità controllata, io parlerei di libertà
di scegliere che cosa raccontare e che cosa non raccontare, che serve anche a
noi come esercizio, per essere più credibili e più facilmente ascoltabili.
Perché se uso dei termini che gli altri non capiscono, o presento dei contesti
troppo fantasiosi o troppo cruenti, è facile che l’altro non mi ascolti. C’è
uno studio delle pubblicità, per esempio sui danni che fa il fumo, hanno
realizzato delle campagne dove facevano vedere questi polmoni tutti rovinati.
Quella pubblicità non ha ottenuto nessun tipo di risultato, quando invece hanno
fatto la pubblicità che diceva che se fumi ti puzza un po’ l’alito e se
baci qualcuno dà fastidio, hanno ottenuto molti più risultati, quindi
controllare cosa dire significa avere più libertà di scegliere, elaborando i
vincoli che questa comunicazione comunque impone, perché parlare qui non è lo
stesso che parlare in una scuola, non è lo stesso che parlare in un convegno,
cioè i contesti cambiano e le parole che si usano cambiano. L’importante è
non perdere la spontaneità del racconto e il desiderio e la necessità di
riattraversare il proprio racconto.
Carlo
Riccardi:
Si è parlato prima del mostro, si sente anche in televisione che quando succede
qualcosa di particolarmente cruento c’è il discorso del mostro, il mostro è
il non umano, colui che non è uomo, e se qualcosa lo ha fatto un mostro, noi
che siamo uomini non possiamo farlo, questo è il ragionamento.
Il
concetto con cui secondo me ci si deve confrontare rispetto alla comunicazione
è che quello che comunico non deve creare indifferenza, questa secondo me è la
cosa fondamentale. Perché? perché voi fate questi incontri, in cui qualcuno da
fuori entra nella “casa dei mostri”, di coloro che hanno fatto qualcosa che
noi fuori pensiamo che non faremmo mai. Andiamo in questa casa nelle stanze
migliori, nel salotto buono, e in quelle stanze migliori sarebbe molto brutto se
la comunicazione che avviene creasse indifferenza. Quello che secondo me la
comunicazione dovrebbe fare è creare un avvicinamento, ma avvicinamento non
significa il fatto che chi vi sta davanti debba poi venire da voi e buttarvi le
braccia al collo e dirvi: hai fatto bene. Perché quello non interessa a
nessuno, così come toglietevi dalla testa che la mediazione abbia come scopo di
far fare la pace, a noi della pace non interessa assolutamente niente, la pace,
il perdono se vengono, vengono tra le persone che decidono di farlo, non
interessa a noi far fare la pace e far perdonare.
Se
voi avete presente la prima intervista a una vittima, la domanda è sempre: ma
tu hai perdonato? È un non senso quella domanda, quindi quello che la
comunicazione non deve fare è creare indifferenza, o assenza di senso.
Se
tu vai in ospedale e c’è uno che sta morendo, non gli dici: guarda, ci
vediamo tra due anni. Secondo me, ma questa è una mia idea, dire sempre ciò
che si pensa è profondamente stupido, non intelligente, perché manca il
raccordo con chi ti sta davanti, però è anche necessario che una comunicazione
crei un’emozione e non crei indifferenza, questo è il punto.
Perché
se i ragazzi qui in carcere hanno avuto davanti 15-20 persone che raccontano
cose “di gomma”, insignificanti, si portano a casa la sensazione di aver
perso due ore a scuola, non di essere venuti nella “casa del mostro” e aver
potuto avvicinarsi a qualcosa o a qualcuno che prima non conoscevano.
Tino
Ginestri (volontario TG 2Palazzi):
Tante volte mi sono chiesto sentendo voi raccontare ripetutamente le vostre
storie, se non c’è il rischio che possa diventare un racconto rituale,
perdere di immediatezza, di freschezza, di capacità comunicativa, che possano
anche subentrare quegli elementi come il piacere di vedere emozionarsi gli
altri, il sentirsi in qualche maniera protagonisti.
Come
si può fare per evitare allora questi altri aspetti che non sono sempre
positivi? Siccome anche a me come a tutti capita in più occasioni di dover
ripetere certi concetti, certi principi in tante circostanze, come si può
trovare la maniera perché siano ancora efficaci? Io credo che sia importante
comunque, in ogni occasione, ritornare alle motivazioni originarie per cui si
comincia a percorrere questa strada.
Ad
esempio per voi mi sembra che ci siano almeno alcune motivazioni fondamentali:
la prima, quando si parla agli studenti, è quella di far capire che
l’occasione per delinquere purtroppo può capitare a chiunque; secondo, che il
carcere non deve semplicemente punire, ma deve invece offrire le opportunità e
le occasioni per cambiare. Ecco, se si ritorna alla motivazione originaria,
forse si riesce a non cadere nella ritualità e nel compiacimento del sentirsi
raccontare.
Biaggio
Bellonese:
Ci sono degli accorgimenti metodologici che vengono dati sì dall’esperienza,
ma anche dalle tecniche di conduzione dei gruppi. Allora bisogna trovare ogni
tanto delle situazioni diverse dove si possa coinvolgere anche quelli che
parlano meno, avete visto che oggi c’erano due ragazzi che parlavano di più,
che erano anche quelli più interessati, ma forse non permettevano neppure agli
altri di intervenire.
I
contesti allargati emozionano un po’ a parlare e a fare le domande, per cui
magari si può pensare di fare piccoli gruppi di lavoro e dopo ci si ritrova per
discutere di cosa è emerso, cioè ci sono dei modi per far partecipare un po’
di più le persone che ascoltano.
È
vero che bisogna fare i conti con il tempo, però vi assicuro che in contesti più
ristretti anche quelli che non parlano mai possono parlare ed esprimere qualche
curiosità, qualche domanda.
Marino
Occhipinti: Riguardo
a quello che diceva Tino prima sulla ripetitività, se la cosa della quale parli
è per te importante, credo che tu riesca a trasmetterla sempre in un modo
diverso.
Se
ci chiedono come passiamo la giornata in carcere io non riesco a rispondere
perché probabilmente forse per noi è scontata e banale, la si vive tutti i
giorni e quindi non hai neanche l’entusiasmo per raccontarla. Sulle mie figlie
invece io credo che racconto con la stessa emozione di quando raccontavo le
prime volte, perché è una cosa che mi fa male, mi crea dolore e quindi
l’emozione è ogni volta la stessa, e se una cosa viene dal dolore arriva di
più a chi ti ascolta.
Sono però convinto, e lo vedo quando parliamo dei figli e delle esperienze personali che ci fanno male, penso questa mattina a Pietro che raccontava di quando è stato all’ospedale psichiatrico, che lì ci siano le storie più importanti, quelle che forse colpiscono di più. Io ho questa concezione del colpire a tutti i costi perché vorrei che le persone quando escono da qui non si dimenticassero più del carcere, perché altrimenti si rischia che quando vanno a casa dicono “Sono stato in carcere, ho perso due ore di scuola” e gli è già passato tutto e non hanno tenuto dentro niente. Ecco io forse ho questa illusione e vorrei che quando gli studenti vanno a casa si ricordassero per anni che in carcere ci sono delle persone, e non ci sono i mostri.