La
storia di una detenuta incinta in un carcere che educa alla responsabilità
In
carcere fa più scandalo una vita nuova che nasce di tante vite che finiscono
tragicamente con il suicidio
Nel
carcere di Bollate, uno dei più innovativi in Europa, qualche giorno fa una
giovane donna detenuta, che frequenta un corso scolastico insieme ad altri
detenuti, è rimasta incinta di un compagno: “Io e quel ragazzo ci amiamo e
abbiamo fatto l’amore durante le ore di lezione. Sì, sono incinta ma non ho
fatto nulla di male, voglio questo bambino”.
La
notizia è finita sui giornali perché il Sappe, sindacato di polizia
penitenziaria, ha inviato comunicati alla stampa e chiesto di accertare le
responsabilità. E così una galera che funziona davvero, in un Paese in cui il
sistema penitenziario è allo sfascio, è oggi “sotto processo”. Per capirne
di più, dopo aver raccontato il carcere di Bollate attraverso le parole della
sua direttrice, Lucia Castellano, riportiamo le riflessioni di una psicologa,
che collabora con la redazione di Ristretti Orizzonti.
Chi
ha paura di una detenuta incinta?
di Laura Baccaro, psicologa
È
paradossale che faccia più notizia e scandalo una nuova vita concepita in un
carcere che tante morti che vi avvengono per suicidio, malasanità, cause
oscure. Nella Casa di reclusione di Bollate, che ha, fra gli altri, il grande
merito di garantire una equità di trattamento alle donne consentendo loro anche
di frequentare corsi di scuola superiore, il clima è così umano che, proprio a
scuola, può succedere qualcosa di straordinario come una storia d’amore tra
detenuti. Ora è caccia alle responsabilità, e quella storia d’amore è
diventata una cosa sporca e pericolosa, che pare abbia messo in crisi l’intero
sistema di sicurezza. Eppure stiamo parlando di due persone adulte, anche se in
carcere, ritenute capaci di intendere e di volere, malgrado la colpa, e quindi
di scegliere, oltre la pena. Ma il fatto è che in carcere si comprime in tutti
i modi il diritto alle emozioni, alla sessualità e all’affettività.
Questa
“caccia alle streghe sessuali” è la riprova, se mai ne avessimo avuto
bisogno, che la pena detentiva è una pena corporale e ciò che si vuole
controllare è solo il corpo del recluso. Se poi è una donna si deve negare
ancor di più il suo diritto alla maternità, perché è questo diritto
fondamentale che si vuole sminuire, facendolo passare come “atto
strumentale”, per cercare di ottenere l’uscita dalla galera.
E
così si preferisce alimentare il volgare stereotipo del carcere “a luci
rosse”, come titolano alcuni quotidiani oggi, e titolavano identici anche nel
maggio del 2009, quando a Genova una detenuta marocchina abortì, dopo essere
rimasta incinta sembra a seguito di rapporti sessuali con operatori
penitenziari… “luci rosse” che smuovono sempre le coscienze delle persone
troppo “perbene”.
Ha
fatto meno scalpore la “ricerca” di Everyone secondo la quale si
“verificano nelle case circondariali italiane almeno 3 mila casi di stupro e
riduzione alla schiavitù sessuale ogni anno e l’incidenza degli stupri e
degli abusi sessuali è causa dei suicidi dei detenuti”. Conclusione che è
poco credibile, oltre a non essere verificabile per quanto riguarda
l’attendibilità dei dati sostenuti, ma che avrebbe dovuto, questa sì,
sollevare uno scandalo…
Una
riflessione va fatta, riguardo alla tutela della dignità e dell’umanità
della persona: la restrizione dell’affettività, della genitorialità, della
maternità è giustificabile con le esigenze della pena? Oppure solo con la
gestione della pena stessa?
Gli
“affetti” sono un’ancora di salvezza per chi sta dentro il carcere e anche
la garanzia della presenza di una rete sociale all’uscita, ma nessuno ha il
coraggio di spiegare che una legge sugli affetti, oltre a costituire un atto di
civiltà e di umanità, forse consentirebbe anche un abbassamento del tasso di
suicidi e di autolesionismo: il legame con la famiglia e con le persone amate è
infatti il più grande “controllo sociale” che un detenuto possa volere e
desiderare!
In
Spagna, Svizzera, Russia, e tanti altri Paesi, l’incontro intimo è previsto
per legge, solo una mancanza di attenzione e di rispetto da parte della politica
per le famiglie delle persone detenute non permette che questo avvenga in
Italia, malgrado la proposta di legge presentata il 12 luglio 2002 (modifica
della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di “affettività in carcere”)
poi sparita perché le famiglie dei detenuti sono ritenute famiglie di serie B.
Ma
noi “vogliamo tenere assieme cose che possono apparire impossibili, ma non
devono esserlo, cioè un carcere vivibile in cui la pena non abbia nulla di
afflittivo oltre la perdita della libertà”, così come disse Alessandro
Margara, allora Direttore Generale del Dipartimento dell’Amministrazione
penitenziaria, nell’audizione alla II Commissione della Camera dei deputati in
ordine al nuovo Regolamento di attuazione dell’Ordinamento penitenziario (11
marzo del 1999).
E
il grandissimo rischio è che si prenda spunto da questo non-problema della
detenuta incinta, o che lo si manipoli, per bloccare progetti di rieducazione,
di formazione e socializzazione importanti come quelli di Bollate, riportando le
carceri ad una modalità di trattamento obsoleta e inutile. Perché Bollate è
purtroppo un carcere, nella sua innovatività e libertà, scomodo.