Punire
i poveri: un libro per non fare quello che hanno fatto in America
Guerra
ai criminali o guerra ai poveri?
Un
libro che smonta i meccanismi della leggenda americana della sicurezza,
mostrando come l’inarrestabile ascesa dello Stato penale in realtà non è
dovuta a un aumento della criminalità, ma alle frammentazioni provocate dal
sottrarsi dello Stato al proprio ruolo sociale
Recensione a cura di Elton Kalica
Se
in Italia l’epica della sicurezza pubblica occupa giornali e televisioni da
circa quindici anni, negli Stati Uniti e in alcuni Paesi europei, questa saga
è iniziata più di trent’anni fa. Uniti dalla retorica della “guerra al
crimine”, questi paesi hanno fatto scuola nella promozione dell’industria
penale. Così che oggi, in tutto il mondo occidentale, si possono vedere le
stesse sceneggiate, in cui i responsabili dell’ordine pubblico si infilano,
all’interno di un Commissariato di polizia di un quartiere malfamato, nella
foto celebrativa di un sequestro di sostanze stupefacenti particolarmente
ingente, o lanciano feroci avvertimenti ai malintenzionati, o richiamano
l’attenzione pubblica sui recidivi, i mendicanti aggressivi, i senza fissa
dimora, gli immigrati da espellere, le prostitute da marciapiede e altri
“rifiuti” sociali che vivono e agiscono a danno delle “persone perbene”.
Un’altra
scena ormai immancabile nello spettacolo della “guerra al crimine” è
offerta dagli show televisivi pomeridiani in cui si commentano reati efferati
mettendo il microfono davanti ai parenti delle vittime e magari incitando a
farsi giustizia da sé, si parla di pericolosi criminali rimessi in libertà e
si urla contro lo scandaloso lassismo dei giudici in nome del “sacrosanto
diritto delle vittime” di chiedere sempre più galera per i rei.
In
collegamento quasi sempre c’è l’opinionista che propone misure draconiane
per ripristinare il controllo dello Stato sulle zone problematiche, oppure un
ministro che garantisce l’aumento della capienza delle prigioni.
I
frutti di questo pruriginoso spettacolo si raccolgono con il crescente desiderio
d’ordine da parte dell’elettorato e la riaffermazione dell’autorità
statale che, attraverso il suo linguaggio virile, usa le galere come ultimo
baluardo contro il caos proveniente dai bassifondi che minaccia le fondamenta
stesse della società.
Ma
qual è l’origine di questa spettacolarizzazione della questione
“sicurezza!”? Perché questo approccio punitivo diretto alla delinquenza di
strada viene adottato non solo dai partiti di destra ma spesso anche dai
politici della sinistra? “Punire i poveri” è un libro che tenta di
rispondere a questi interrogativi, facendo una dettagliata analisi delle
principali trasformazioni politiche degli ultimi cinquant’anni.
Questo
libro mi è capitato tra le mani per caso. Un mio compagno di detenzione,
convinto berlusconiano, l’ha ricevuto in regalo da una sua amica, che invano
tenta di farlo ragionare su alcune contraddizioni della politica italiana.
Infatti, nonostante il peggioramento delle condizioni di vita nelle galere,
tanti detenuti italiani continuano a vivere in una strana chimera grazie alla
quale attendono speranzosi che i politici di oggi, nel tentativo di sistemare i
loro problemi con la giustizia, migliorino le cose per tutti. Però, io che in
galera ci sono cresciuto, non credo più a Babbo Natale e, anche se mi sarebbe
piaciuto fare per una volta il free rider, quello che trae vantaggio
dalle conquiste degli altri, sinceramente non credo nemmeno lontanamente che dei
governanti – che inducono gli individui a sentirsi assiduamente minacciati e
generano un clima di guerra di tutti contro tutti – intervengano poi con
delicatezza, mettendoci in galera per poi trattarci con disinteresse e umanità.
E
dato che l’esperienza statunitense della “guerra al crimine” si è imposta
oggi come punto di riferimento per i nostri politici, che il mio amico
berlusconiano tanto ammira, penso che sia stata una scelta ideale quella di
fargli vedere che tutto ciò che si sta facendo oggi in Italia, è stato già
sperimentato negli Stati Uniti negli anni ottanta e novanta. Infatti, questo
libro svela e smonta i meccanismi della leggenda internazionale di una Eldorado
americana della sicurezza, mostrando come l’inarrestabile ascesa dello Stato
penale in realtà non deriva da un aumento della criminalità, ma dalle
frammentazioni provocate dal sottrarsi dello Stato al proprio ruolo sociale e
urbano e dall’imposizione del lavoro precario come nuovo criterio di
cittadinanza per gli americani delle classi inferiori.
La prigione che accoglie i “rifiuti
umani” della società di mercato
Forse
un libro così, che affronta in maniera globale le politiche dell’America,
laboratorio vivente del futuro neoliberista, non è della stessa scorrevolezza
di un romanzo di Ken Follett, ragione per cui il mio amico, stancatosi di
leggere dati e analisi sulla crisi dello stato sociale americano, l’ha
lasciato a metà. Allora ho chiesto di leggerlo io, e ora che l’ho finito –
l’ho letto con la voracità di chi, spinto da una semplice intuizione sui temi
della sicurezza, scopre le prove inconfutabili su cui poggiare la sua idea –
scrivo queste righe nella speranza di convincere tutti i lettori di Ristretti a
leggerlo.
Come
in molti film americani, anche nelle pagine di queste libro ho seguito le orme
dei “guerrieri in lotta con il crimine”, ripercorrendo tutte le fasi della
crescita dello Stato penale americano, e riflettendo sugli effetti della
retorica della tolleranza zero, che inevitabilmente si trasforma nel suo
opposto, vale a dire in intolleranza selettiva e repressione mirata. Una
riflessione che trova riscontro anche nel carcere in cui mi trovo. Basta
osservare i detenuti per capire la selettività delle attività della
polizia e dei tribunali, orientate ormai alla gestione delle categorie sociali
problematiche, partendo dagli immigrati, dai tossicodipendenti e finendo
con una lunga serie di autori di comportamenti antisociali, come i mendicanti o
i graffitari. E mentre le strategie penali riaffermano la gerarchia e il
controllo sulle categorie sociali più povere, la composizione della popolazione
detenuta simboleggia questa divisione materiale associando ineguaglianza e
identità deboli (immigrati, tossicodipendenti).
Anche
se può sembrare retorica, alla base di tutto questo sta la volontà dei ricchi
di rimediare alle crescenti ineguaglianze con il controllo dei poveri. Per chi
guarda il mondo da qui dentro, si rivela in modo chiaro che il panpenalismo
serve per nascondere nelle galere i problemi sociali che lo Stato non vuole o
non può più affrontare fino in fondo – la prigione diventa una sorta di
pattumiera giudiziaria dove gettare i rifiuti umani della società di mercato
– ma pare sempre più difficile far capire questo alle persone che vivono (non
so come) e lavorano (forse) là fuori convinte che in galera non ci finiranno
mai, né loro, né chi gli sta vicino. Ecco, sono sicuro che basterebbe leggere
qualche pagina di questo volume perché alcune certezze si sgretolino, e si
cominci a ragionare se davvero valga la pena chiamare in soccorso sui temi della
sicurezza un mostro sempre più scuro e più severo, sempre più grosso e più
dispendioso, come la tolleranza zero.
Certo,
con questo libro, l’autore non sostiene che la penalizzazione della povertà
costituisca un piano perseguito da governanti malvagi e onnipotenti, né ritiene
che sia qualche necessità del capitale a comandare l’attivazione e la
glorificazione delle politiche panpenalistiche dello Stato borghese. Non si
tratta quindi di cospirazioni di forze oscure, ma del prodotto di conflitti che
coinvolgono forze economiche e istituzioni, che tentano di ridisegnare le
prerogative di governo secondo i propri interessi materiali e simbolici.
Nonostante
la preziosa lettura di questo libro, non saprei dire quali potrebbero essere le
soluzioni concrete agli sviluppi attuali delle politiche di sicurezza in Italia.
Una cosa però è chiara: lo studio dell’esperienza americana dimostra che la
gestione poliziesca e carceraria dei problemi sociali non può essere un rimedio
per ripristinare l’ordine nella società e tenere a freno le agitazioni
indotte dalla frammentazione del lavoro salariato, e che di sicuro la vera
pacificazione sociale non passa attraverso l’aggressività della “pulizia di
classe” delle strade e con le galere piene di poveri.
La
saga delle navi-penitenziario di New York
Nel
gennaio 1992, sui moli del South Bronx, le autorità di New York inaugurarono
Vernon C. Bain, una chiatta in acciaio, lunga 200 metri e larga 50, costruita su
misura per 161 milioni di dollari da un cantiere della Louisiana e dotata di 700
posti-letto, una clinica, una biblioteca giuridica, una chiesa, un refettorio e
alcune cucine, un potente generatore elettrico, una macchina per la dissalazione
dell’acqua, una lavanderia con capacità industriale e una fognatura a sfogo
diretto. Se New York si era orientata su questo dispositivo, è perché la
popolazione ammassata nelle sue diciotto prigioni era rapidamente raddoppiata,
superando i 21.500 detenuti (l’equivalente della popolazione carceraria di
Scandinavia e Benelux messi insieme).
Al
culmine del successo di questi “centri di detenzione galleggianti” la città
conta 2000 detenuti su cinque imbarcazioni. Ma, una volta messe in funzione, i
responsabili cercheranno di sbarazzarsene per via dei loro costi di gestione
proibitivi. Nel 1993, San Francisco prende in considerazione l’eventuale
acquisto delle navi-penitenziario che New York non vuole più. La situazione è
complicata e delicata, poiché sarebbe prima di tutto necessario rimorchiare le
imbarcazioni attraverso il canale di Panama per poi condurle fino alle coste
della California del nord e quindi, trovare un punto d’attracco che non
provochi una reazione troppo violenta da parte della popolazione locale. Questa
operazione non sarà mai fatta.
Nel
marzo del 1997, una delle chiatte, la Bibby Resolution, porta a termine un
periplo di tremila chilometri per arrivare a Portland Harbour, vicino a
Weymouth, in Cornovaglia: l’antica imbarcazione per il trasporto delle truppe
dell’esercito britannico è stata riacquistata dall’amministrazione
penitenziaria del Regno Unito per fare da dormitorio galleggiante per 500
detenuti “a basso rischio”, nonostante le proteste dei rappresentanti
politici e degli abitanti del suo nuovo porto d’attracco. Il ritorno della
Bibby Resolution nel suo Paese d’origine fa la felicità dell’armatore
europeo che l’ha comprata a New York per meno di un milione di dollari per poi
rivenderla agli inglesi per otto. Ma la vera vittima di questa farsa
marittimo-penitenziaria è la città di New York, che aveva acquistato ed
equipaggiato questa imbarcazione per una spesa totale di oltre 41 milioni di
dollari.
Il
terzo datore di lavoro del Paese
Di
tutte le voci di spesa pubblica statunitense, quella penitenziaria conosce
l’aumento di gran lunga più consistente dal 1975 a oggi. La crescita dei
fondi e del personale del settore carcerario si verifica in un periodo in cui le
spese in favore dei più deboli subiscono drastici tagli. Il più importante
sussidio sociale diminuisce del 48% nel suo valore reale tra il 1970 e il 1995.
E gli stanziamenti dello Stato federale a sostegno dell’occupazione e della
formazione scendono dai 18 miliardi di dollari del 1980 ai 6,7 del 1993.
Tra
il 1982 e il 1997, i budget delle amministrazioni penitenziarie sono aumentati
del 383%, mentre le somme stanziate per l’edilizia carceraria subiscono
un’impennata del 612% tra il 1979 e il 1989, ossia tre volte il ritmo di
crescita delle spese militari. I cantieri per le prigioni conoscono un boom così
forte, che molte contee e molti Stati si ritrovano a corto di fondi per poter
assumere il personale necessario per l’apertura dei penitenziari costruiti.
All’inizio
degli anni Ottanta, i fondi per l’amministrazione penitenziaria della
California (CDC) ristagnavano intorno ai 300 milioni di dollari; nel 1999,
arrivano a 4,3 miliardi, superando la somma destinata agli otto campus
dell’Università della California, da tempo fiore all’occhiello dello Stato.
In un decennio, il Golden State ha assorbito 5,3 miliardi di dollari per
costruire o ristrutturare celle, e contratto, a questo scopo, un debito di più
di dieci miliardi di dollari. Ogni nuova struttura costa in media la bellezza di
duecento milioni di dollari per quattromila detenuti e richiede l’assunzione
di mille dipendenti, tra i quali gli agenti di custodia più pagati del Paese in
virtù del loro potentissimo sindacato. Diventa allora più facile capire che,
mentre all’inizio degli anni Settanta superava tutti gli altri Stati nel
settore dell’insegnamento, la California è oggi agli ultimi posti
dell’Unione per l’istruzione, poiché nel frattempo è diventata il leader
incontrastato sul fronte carcerario.
Nella
città-Stato di Washington, i giovani di estrazione popolare che dipendono dalle
istituzioni pubbliche hanno oggi maggiori possibilità di trovarsi dietro le
sbarre piuttosto che seduti al banco di un’aula del campus universitario - i
rampolli delle classi medio-alte, invece, hanno i mezzi per rifugiarsi nella
dozzina di Università private della città, nonché in quelle degli Stati
vicini.
Quando
Ronald Reagan va al potere, Washington conta 15.000 studenti iscritti
all’Università del Distretto di Columbia (UDC, l’unico Centro universitario
pubblico) e meno di 3000 detenuti. Quando nel 1992 subentra Bill Clinton, la
popolazione carceraria della città sta quasi per raggiungere quella
studentesca, in caduta libera per via dei drastici tagli di budget che colpirono
l’insegnamento superiore in quel periodo di profonda crisi delle finanze
pubbliche. Nel frattempo, la probabilità di iscrizione all’Università
pubblica per i neri del Distretto è diminuita di un terzo mentre il loro tasso
di incarcerazione è quadruplicato. Di conseguenza, nel 1997, il rapporto tra
studenti e prigionieri si è ribaltato: la popolazione carceraria del distretto
è di quasi 13.000 detenuti, praticamente il triplo degli iscritti
all’università, che sono appena 4700.
Nel
1980, il Distretto aveva quattro insegnanti di livello superiore per ogni agente
di custodia (804 contro 229); nel 1997 è l’esatto contrario (454 contro
2000).
Loìc
Wacquant, allievo di Pierre
Bourdieu e ricercatore del Centro di Sociologia europea di Parigi,
insegna Sociologia all’Università della California a Berkeley.
Altri
suoi volumi tradotti in italiano sono: Parola d’ordine: tolleranza zero
(Feltrinelli, 2000); Anima e corpo. La fabbrica dei pugili nel ghetto nero
americano (DeriveApprodi, 2002); Simbiosi mortale. Neoliberalismo e politica
penale (OmbreCorte, 2002); Le astuzie del potere. Pierre Bourdieu e la
politica democratica (OmbreCorte, 2005)
La
passione per i libri è più forte dei pregiudizi?
Un
laboratorio di invito alla lettura nella Sezione protetti, che ha stimolato il
confronto, lo scambio, un tentativo di superamento dei luoghi comuni
Nell’autunno
del 2008 ha preso forma il progetto ‘Spazio Biblioteca al 6° Blocco’,
all’interno del progetto ‘Lettura e documentazione in carcere’, finanziato
dalla Regione del Veneto.
La
cooperativa Altracittà, che coordina e gestisce le attività delle biblioteche
interne degli istituti penitenziari di Padova, nella Casa di Reclusione ha
organizzato alcune giornate a cadenza settimanale nelle quali i detenuti possono
accedere alla biblioteca nel rispetto degli orari previsti.
È
nata così l’esigenza di dedicare una specifica attenzione alla popolazione
detenuta ristretta al 6° Blocco, esclusa, per organizzazione interna
all’Istituto prevista dalla normativa, dalla possibilità di accedere al
locale biblioteca, permettendole così di usufruire di un importante servizio
finalizzato ad offrire una concreta opportunità di crescita culturale.
L’impossibilità
di transitare in locali dove siano presenti detenuti ristretti nelle altre
sezioni rappresenta una dimensione che da sempre pone la popolazione detenuta al
6° Blocco in una condizione di assenza di pari opportunità formative. I
detenuti ristretti al 6° Blocco, però, sono risultati, dati alla mano, i
maggiori “consumatori” di libri in prestito dalla biblioteca, rispetto alle
altri sezioni, sia per quanto riguarda il prestito interno, sia per quanto
riguarda il prestito interbibliotecario (con 30 biblioteche del territorio).
Questo dato non può essere spiegato solamente con la tesi della minor
accessibilità ad attività altre, e conseguentemente con il crescere del
cosiddetto “tempo libero” a disposizione.
La
situazione che si presentava era paradossale: di fronte al miglioramento della
realtà bibliotecaria, e di fronte all’allargamento della possibilità di
fruizione della stessa, si operava inevitabilmente l’esclusione proprio di
coloro che maggiormente dimostravano interesse verso i libri.
Tutto
ciò richiedeva una riflessione, e la sola soluzione al momento proponibile è
sembrata essere quella di realizzare una dimensione decentrata, quasi capillare,
del servizio stesso. Obiettivi minimi erano: la presenza di un catalogo
informatico presso i due lati della sezione e la presenza di operatori in grado
di fornire supporto e di gestire una forma di partecipazione e di aggregazione
che vedesse i libri quali protagonisti principali e motivo di unione.
Così
è nato lo ‘Spazio Biblioteca al 6° Blocco’, che si concretizza in un
pomeriggio settimanale con la presenza di alcuni operatori della cooperativa
Altracittà. Nell’aula scolastica del 6° Blocco sono stati sistemati circa
600 libri, immediatamente fruibili dai detenuti, durante gli orari di gestione
dello spazio, ed è stato portato un PC con catalogo informatico. Rimaneva però
un’incognita relativa alla componente più importante del progetto, e cioè il
“gruppo”, e in quale modo questo avrebbe accettato una proposta decisamente
nuova.
Infatti,
parallelamente allo spazio biblioteca, si voleva realizzare un laboratorio di
lettura coinvolgendo tutti coloro che avessero dimostrato interesse per i libri.
Mettere i libri al centro e porsi in una dimensione di confronto individuale e
collettivo non rappresenta un processo le cui dinamiche siano semplici da
attivare e nemmeno consuete da ritrovare, anche in ambiente esterno al carcere.
Rappresenta il tentativo di andare oltre la lettura, superando la fase della
percezione individuale per raccogliere tutti gli elementi utili alla pratica
della riflessione su quanto nozionisticamente acquisito, su quanto emotivamente
vissuto e su quanto umanamente riemerso dai ricordi, per farne motivo di
acquisizione e scambio relazionale di significati.
Il
percorso non sembrava per nulla facile in partenza, soprattutto per la difficoltà
di individuare i binari su cui procedere tutti insieme, ma si è dimostrato
invece possibile proprio grazie alla passione comune verso i libri.
Un’esperienza che ha insegnato anche che
cosa vuol dire lavorare in gruppo
Così,
partendo dal libro, è nato un lavoro che, attraverso discussioni profonde ed
estremamente vitali, si è concretizzato nella preparazione di schede (alcune
delle quali saranno diffuse negli altri piani) da utilizzare come un invito alla
lettura del libro preso in esame.
Quello
che ci interessa è dimostrare con diverse iniziative la volontà di superare i
pregiudizi di una cultura, carceraria e non solo, che esclude le sezioni
protetti dalla gran parte delle attività, e nello stesso tempo anche offrire a
tutta la popolazione carceraria uno strumento critico in più nella scelta dei
libri. E le motivazioni, più sotto riportate, sul perché della lettura, la cui
sostanza è emersa dal dibattito sviluppato in seno al Gruppo Biblioteca del 6°
Blocco, possono da sole dare dimostrazione di quanto siano false le basi del
pregiudizio.
Il
laboratorio voleva essere un invito alla lettura, con l’intenzione di
stimolare dinamiche di introspezione, riflessione e dialogo.
Come
fare? La miglior cosa sarebbe stata quella di poter confrontarci su libri letti
da tutti, ma non era cosa possibile. Così abbiamo scelto una strategia diversa,
che consisteva nella presentazione di un libro da parte di una persona. Il resto
del gruppo “conosceva” il libro tramite il racconto e aveva il compito di
focalizzare l’attenzione e proporre domande utili per approfondire gli
argomenti proposti.
Per
concretezza abbiamo deciso, con il contributo di tutti, di scrivere delle brevi
presentazioni dei libri trattati, in modo da fornire indicazioni utili a
chiunque, in futuro, si fosse avvicinato allo stesso. Le schede, composte da una
parte descrittiva-riassuntiva in termini di contenuto, da una immagine della
copertina del libro e da alcune descrizioni sintetiche rispetto al linguaggio e
altre caratteristiche, sono state inserite nella biblioteca dell’istituto.
Ma
le presentazioni sono solo la parte concreta e visibile del percorso, e non
possono comprenderlo pienamente.
Discutere
dei libri presentati e dei loro contenuti forniva la possibilità per spaziare
oltre gli stessi; con il contributo di tutti e le animate discussioni che ne
nascevano, venivano toccati argomenti importanti e che difficilmente trovano
approfondimento nelle consuete discussioni. E non solo in carcere, ovviamente.
Si
è parlato di bene e male, di sofferenza e gioia; siamo partiti da uno scritto
per confrontarci sui ruoli educativi dei genitori, per parlare della società e
delle sue difficoltà. Il punto di arrivo di ogni discussione, anche se non
esaustivo e definitivo, portava con sé sempre complessità e differenti punti
di vista. Abbiamo realizzato alcune schede, ma abbiamo citato almeno un
centinaio di libri, sfruttando i ricordi stimolati da questo o quell’altro
autore, da questo o quell’altro argomento. Più il corso si sviluppava e più
i tempi dedicati alle discussioni apparivano insufficienti, serviva più tempo,
sempre più tempo. Così le tematiche sono state riprese dai partecipanti anche
in sezione, nelle pause, durante la settimana. Questo aspetto di continuità, di
confronto allargato, ha dimostrato quanto in realtà si sia sviluppato
l’interesse attorno ai contenuti emersi.
I detenuti del 6°blocco – sezione protetti. Per la cooperativa AltraCittà: Massimiliano Righetto, Valentina Franceschini e Valentina Michelotto