Postacelere

 

A proposito del complesso rapporto tra operatori e detenuti

Rieducazione e reinserimento? Sono ancora un’utopia

Secondo una nostra lettrice dovremmo occuparci di più del fatto che “il carcere è a volte il luogo dove il detenuto subisce le umiliazioni maggiori, subisce piccoli e grandi dispetti da parte di chi vi lavora e dovrebbe invece sostenerlo nel suo difficoltoso percorso di recupero”. Accettiamo volentieri di parlarne

 

Gentile Redazione, nelle mie infinite riflessioni su quello che è certamente il luogo più recondito della nostra società – il carcere – non posso evitare un insistente interrogativo: perché la rieducazione e il reinserimento delle persone detenute continuano ad essere un’utopia?

Naturalmente le risposte potenzialmente valide possono essere tante quante sono le esperienze delle persone che si sono imbattute nel sistema-carcere. Sì, perché soltanto chi vive o ha vissuto sulla propria pelle le sofferenze e i dolori che il carcere trascina con sé può dare delle risposte che non siano le classiche teorie testuali di qualche autore che si sforzi di essere empatico.

L’empatia è quella rarissima qualità sociale che consente a chi la possiede di avvicinarsi al vissuto altrui. É quella rarissima qualità sociale che permette di colmare – almeno in parte – quella distanza emotiva smisurata che esiste tra le nostre esperienze di vita e quelle degli altri.

É dunque un fondamentale asso nella manica per chi opera nel sociale. Il problema è che la capacità empatica è spesso una prerogativa di pochi “eletti”.

Lavorate per un giornale certamente innovativo. Affrontate temi scottanti e scomodi, e questo è apprezzabile. Esiste però un qualche argomento che sarebbe doveroso fronteggiare per chi – come voi – si propone di fare un’informazione obiettiva e onesta descrivendo il mondo carcerario in tutta la sua complessità.

Può essere che a me – che sono abbonata al vostro giornale da quasi due anni – sia sfuggito – e se così fosse mi scuso – ma non ho mai letto nulla che mettesse minimamente in discussione l’operato di tutte quelle figure professionali che, a vario titolo, lavorano con e per i detenuti. E invece si dovrebbe dire a gran voce che nell’universo carcerario, alla stregua di qualsiasi altro ambito lavorativo, ci sono persone competenti e persone incompetenti, persone che sanno fare il proprio lavoro e persone che non lo sanno fare, persone umane e persone prive della minima umanità. Non che si debba condurre un’invettiva nietzscheiana contro gli operatori sociali, ma almeno questo diciamolo.

Quando si parla di carcere si trasmette implicitamente – talvolta esplicitamente – un utilizzo della dicotomia buoni\cattivi. I cattivi, inutile e pleonastico dirlo, sono ovviamente i detenuti. La cosa, per certi versi, paradossale è che i buoni, quelli che sono sempre nel giusto – per semplice e automatica contrapposizione – siano tutti coloro che da una posizione di cittadino libero – ovvero non detenuto – abbiano a che fare col carcerato. Quindi, agenti di polizia penitenziaria, educatori, assistenti sociali, ed anche datori di lavoro esterni (come capita per un detenuto in articolo 21 o in misura alternativa). Poco importa poi se quel datore di lavoro sia, come a volte capita, un vero e proprio schiavista che approfitta palesemente della condizione del detenuto e che quel detenuto abbia sempre scontato la sua carcerazione regolarmente. Il datore di lavoro avrà sempre attorno a sé un “alone magico”, una sorta di “lodo Alfano rivisitato” che lo proteggerà da qualsiasi azione illegale perché dall’altra parte vi è lo scarto della società.

Il detenuto è a priori bugiardo, disonesto, perennemente in torto. Oltretutto non ha diritti di alcun genere, non ha neppure libertà di parola né di pensiero. É questo quello che vogliono molti operatori sociali: un burattino. Ma è stupido pensare e credere che ciò possa accadere.

Di soprusi, di soperchierie nella vita di un comune detenuto ce ne sono tanti.

Il punto di vista è quello di chi sorvola a bassa quota un territorio volutamente inesplorato e dimenticato, il carcere per l’appunto, e che vuole manifestare tutto il suo disappunto per l’omertà che ancora alberga in questo territorio.

Dobbiamo auspicare e anelare un confronto dialettico tra tutti coloro che – con la loro voce – possano e vogliano apportare un significativo contributo alla conoscenza della realtà carceraria dando così origine ad una sintesi polifonica. Detenuti, compagne dei detenuti, educatori, assistenti sociali, direttori degli istituti. Non si potrà mai giungere ad una conoscenza che abbia pretese di esaustività se si persevera nell’errore di sottacere alcuni aspetti fondamentali della vita delle persone ristrette.

Io sono e sarò ben felice di raccontare tutto ciò che ho visto e imparato a scapito della mia serenità.

Tutto questo per sollecitare alcune riflessioni circa le potenzialità rieducative del contesto carcerario, e – perché no? – per originare un costruttivo dibattito.

Pertanto, di fronte al mancato recupero di un detenuto e al suo fallito reinserimento sociale, non basta ripetere, come una poesia studiata a memoria, che il carcere non ha una funzione rieducativa ed esercita, al contrario, un’azione di abbrutimento sulle persone. Se questo accade non è soltanto per via delle sbarre, della segregazione spaziale, della deprivazione affettiva. Il carcere non è solo questo! Il carcere è a volte il luogo dove il detenuto subisce le umiliazioni maggiori, subisce piccoli e grandi dispetti da parte di chi vi lavora e dovrebbe invece sostenerlo nel suo difficoltoso percorso di recupero. Questo costituisce inevitabilmente una spinta propulsiva per l’annichilimento del detenuto.

Smettiamola allora di dire che il carcere come deterrente e come luogo della rieducazione non funziona unicamente per via di ciò che si ha il coraggio di elencare. L’elenco è ben più lungo e deve comprendere il lavoro talvolta per nulla encomiabile degli operatori.

 

Lisa

 

Gentile Lisa, noi abbiamo tempo fa dedicato un numero ai problemi della relazione agenti/detenuti, e un altro alla figura dell’educatore, e poi ai problemi coi medici del carcere, ai rapporti disciplinari, abbiamo incontrato i magistrati di Sorveglianza, gli assistenti sociali, e sempre affrontato anche gli aspetti critici del rapporto delle persone detenute con questi operatori, sono temi quindi che abbiamo trattato, anche se riconosco che non sono temi facili e può darsi che non sempre ne abbiamo parlato con chiarezza e coraggio. Vorrei però ricordare che il nostro è un giornale realizzato da detenuti e volontari in carcere, che si occupa di informazione, ed è rivolto soprattutto al mondo esterno, a fare un delicato lavoro di sensibilizzazione del territorio.

Quindi il nostro compito non è quello di occuparci solo di tutela dei diritti delle persone detenute, noi non possiamo e non vogliamo ricoprire un ruolo che non è il nostro, ma sarebbe piuttosto il ruolo del garante dei diritti delle persone private della libertà personale, figura che c’è già in molte città italiane. Semmai noi possiamo affrontare il tema del rapporto tra detenuti e operatori, andando a vedere quello che funziona e quello che non funziona, le difficoltà, le ipocrisie, il rispetto della dignità delle persone in carcere che non sempre è garantito, la scarsità delle tutele di fronte, per esempio, a un rapporto disciplinare. Con la consapevolezza, appunto, che bisogna lavorare sulla tutela dei diritti, da una parte, e sulla responsabilità, dall’altra, facendo attenzione a non fare solo un lavoro puramente “rivendicativo”. Queste sono solo alcune riflessioni, approfondiremo senz’altro presto questi temi.

 

Ornella Favero

La lettera di una ragazza di una scuola,

che ha incontrato in carcere la redazione di Ristretti

Non devi aver paura nel rivolgerti in modo autorevole alle tue figlie

In carcere ho parlato con un Uomo che, a prescindere da tutto quello che possa aver fatto e che non giustifico né potrei mai giustificare, rimane comunque una persona pensante e un uomo e, ancor di più, un padre!

 

Ciao, io sono Laura, una delle studentesse del Liceo delle Scienze Umane di Montebelluna che oggi hanno avuto modo di partecipare all’incontro con i detenuti del carcere!!

Vi scrivo perché è una cosa che non posso fare a meno di fare, come se fosse un bisogno impellente! Sono rimasta colpita da molte delle storie che ho sentito, sono una persona che ama andare a fondo delle cose prima di esprimere un giudizio e quindi ho ascoltato con attenzione tutto quello che è stato detto oggi.

Una cosa tra tutte mi ha colpito, anzi, direi, una persona tra tutti, Marino.

Credo di non aver mai provato un conflitto interiore pari a quello di oggi, da una parte quel nome mi ha fatto sobbalzare, conoscevo, per sentito dire, dei fatti della “Uno bianca”, ma dall’altro davanti a me ho trovato un Uomo, un Uomo che ha avuto la sensibilità di fare una cosa splendida, anche se così piccola, sorridere a Matteo, il mio compagno di classe diversamente abile. E quel gesto, assieme a tutte le altre riflessioni fatte da te Marino (mi rivolgo in questo momento in prima persona a te sperando che tu possa leggere e, non so se possibile, rispondere), riflessioni sull’essere padre in carcere, riflessioni sulle tue figlie, riflessioni che non possono non farsi spazio nella barriera dei luoghi comuni che una persona può avere in testa!

E poi ho posto una domanda… ero lì su su sull’ultima gradinata… e tu mi hai risposto, guardandomi negli occhi, ed io non posso nasconderti che mi si è fermato il cuore per un secondo per tutto quello a cui stavo pensando… ma ho tenuto dritto lo sguardo e ho confermato solo quello che già si era insinuato in me… stavo parlando con un Uomo che, a prescindere da tutto quello che possa aver fatto e che non giustifico né potrei mai giustificare, rimane comunque una persona pensante (e aggiungerei con una intelligenza molto particolare) e rimane comunque un uomo e, ancor di più, un padre!

Un’ultima cosa: una mia compagna ti ha detto di non aver paura nel rivolgerti in modo autorevole alle tue figlie, in quanto proprio tu che hai vissuto uno degli aspetti più negativi puoi insegnare loro qualcosa, sono d’accordo con lei, ma dall’altro lato mi spingo più in là e provo a capire il tuo disagio e ti dico di essere forte per loro perché il loro amore sarà sicuramente più forte di qualsiasi altra cosa! Grazie per gli insegnamenti che, nel tuo piccolo, mi hai dato!

 

Laura, Liceo delle Scienze Umane di Montebelluna

Come posso pensare di essere autoritario

ed esigente con le mie vittime?

E le mie figlie, che mi piaccia o no,

sono a tutti gli effetti vittime delle mie scellerate scelte

 

di Marino Occhipinti

 

Cara Laura, è sempre molto difficile parlare dei propri sentimenti più profondi, tanto più in carcere dove, per una sorta di autodifesa anche emotiva, e anche per non riversare sugli altri compagni le nostre difficoltà, cerchiamo di evitare gli argomenti che più di altri ci mettono a disagio. Come in una sorta di rimozione difensiva ci capita così di accantonare interi capitoli della nostra esistenza, quasi che determinate problematiche non ci riguardassero direttamente: il rischio è che i rapporti con i nostri familiari, figli, mogli, fratelli e genitori, vengano così posti in una sorta di ibernazione.

Il progetto con voi studenti, almeno per me, rappresenta invece qualcosa di prodigioso anche sotto questo versante: riesce a farmi tirare fuori gli aspetti più “intimi” della mia vita che, credimi, sarebbe molto più semplice e meno doloroso tenere accantonati. Quando mi trovo innanzi a voi, infatti, riesco a estraniarmi completamente da tutto il contesto: pur essendo molto sensibile al giudizio altrui, all’improvviso non mi interessa più cosa penseranno i miei compagni di detenzione, e quali saranno i loro commenti sul mio eccessivo trasporto e sulle confidenze, a volte fin troppo personali, che vi faccio sulla mia vita, sui miei sentimenti e sulle mie difficoltà.

Sono convinto che la schiettezza e la sincerità siano l’unico modo di ricambiare la fiducia che ci avete dimostrato accettando di entrare in carcere per venirci ad ascoltare, e a dialogare con noi che non siamo certamente da prendere ad esempio, e che comunque, come mi sforzo sempre di ribadire, non abbiamo assolutamente la pretesa di farvi lezioni di vita né di insegnarvi qualcosa.

Tutt’altro: nel rappresentarvi la mia vita distrutta (e con la mia anche quella dei miei familiari e di altre persone, ma su quest’ultimo punto il discorso è troppo delicato e difficile) cerco solo di portarvi la testimonianza di quanto certi comportamenti – nel mio caso l’aver commesso reati gravissimi e irreparabili che arrivano all’omicidio – influiscano poi, in maniera esasperata e drammatica, sulla vita di persone la cui unica “colpa” è stata quella di essere i familiari di chi quei crimini li ha compiuti.

In considerazione del poco tempo a disposizione, e delle vostre tante domande e curiosità, vi ho già raccontato qualcosa, ma l’elenco della distruzione che ho seminato è interminabile e soprattutto devastante. Ho 44 anni e da 15 le mie figlie mi vedono in carcere. Quando sono stato arrestato avevano 3 e 6 anni, ora sono due donne di 18 e 21. Sono cresciute tra mille difficoltà, e io, qualsiasi cosa sia avvenuta in tutto questo tempo, non ci sono mai stato. Di conseguenza non ho mai potuto fare nulla, e ti assicuro che in certe situazione il senso di impotenza rischia di diventare la peggiore delle punizioni, una sensazione che stritola il cuore e anche la mente.

Per i primi dieci anni dopo il mio arresto, la mia figlia più grande ha avuto grossissimi problemi legati alla mia mancanza: “Crisi epilettico-convulsive da angoscia da separazione dal padre”. Ogni volta che stava male, soprattutto in prossimità delle feste, se rinveniva prima dell’arrivo dell’ambulanza si rinchiudeva in uno sgabuzzino o in un armadio: “Per condividere con il padre il senso di restrizione e di costrizione”, scrisse il medico specialista in una relazione.

Due anni fa, Quinta Liceo delle Scienze sociali, si è ritirata da scuola due mesi prima degli esami di maturità, e l’anno successivo, proprio la sera prima dell’esame, ha deciso che l’indomani non si sarebbe presentata all’appuntamento. In questo modo ha praticamente eliminato il rischio di una eventuale bocciatura, e sono fermamente sicuro che questa sua resa abbia un forte legame con il mio fallimento sociale, che si è inevitabilmente proiettato su di lei. Una bocciatura avrebbe decretato il suo “fallimento scolastico”, un peso e una responsabilità per lei insostenibili, e il fatto di avere un padre come me l’ha resa quasi assillante nei confronti di sua sorella, che rimprovera spesso esortandola a comportarsi esemplarmente “perché nessuno deve mai avere occasione di criticarci né di parlare male di noi…”.

A differenza della più grande, la più piccola, 3 anni quando sono stato arrestato, ha sempre avuto un comportamento più sereno di fronte alla mia situazione. È sorridente e sbarazzina, “l’acqua la bagna e il sole la asciuga”, ho sempre detto di lei, e sono sempre stato (molto ingenuamente!) convinto che la mia vicenda non avesse causato in lei alcun problema. Come mi sbagliavo… La prima volta in cui l’ho vista veramente piangere, in altre occasioni si è trattato più di capricci che altro, è stato due anni fa. In quell’occasione, festa del papà, ci è stato concesso di incontrarci nella palestra del carcere anziché nella tradizionale sala colloqui. La sera precedente ho cucinato delle cotolette, e per la prima volta in 13 anni abbiamo avuto l’opportunità di pranzare assieme. Ma lei, invece di mangiare, si è messa a piangere, un pianto disperato e senza fine, e io lì incredulo, a chiedere quale motivo avesse scatenato quella crisi apparentemente senza senso. “Babbo, ho 16 anni e non ricordo di aver mai mangiato con te”, è stata la semplice risposta che mi ha gelato il sangue.

A settembre dello scorso anno, in un tragico incidente stradale è morto il suo ragazzo. Proprio per la sua determinazione e reattività, proprio perché sempre “sorridente e sbarazzina”, credevo che in un tempo ragionevole avrebbe superato il trauma. Invece lei, Quarta Liceo Linguistico, sempre la migliore della classe, è precipitata in una drammatica disperazione che, tra le altre cose, l’ha portata ad abbandonare definitivamente la scuola. “Prima ho perso mio padre, e poi anche il ragazzo che amavo”, continua a ripetere come un disco rotto. Sapessi, cara Laura, quante volte mia figlia mi ha raccontato che quel ragazzo era identico a me, un chiaro atteggiamento che denota alla perfezione quanto struggente sia stata la mia lontananza per lei, mentre io, nel patetico tentativo di “scaricarmi” la coscienza, in tutti questi anni ho continuato a nascondermi e a rispecchiarmi nei suoi sorrisi, nella sua apparente serenità, insomma a cullarmi in una falsa ma rassicurante illusione…

A causa di una frattura a un piede ha da poco tolto il gesso, e proprio oggi al telefono mi ha detto che presto verrà a trovarmi. Non la vedo da oltre un anno ed è forte il desiderio di abbracciarla, di stringerla forte, di accarezzarla e di parlarle, ed è riuscita a farmi sorridere quando, ovviamente scherzando, mi ha posto davanti a una condizione: “Babbo, io vengo da te solo se mi baci il piede sofferente, proprio come quando ero piccolina…”. Quando ero a casa, ero solito, infatti, baciarle e massaggiarle spesso le due dita palmate dei suoi piedini, “una tenera imperfezione che ti rende speciale e diversa da tutte le altre bambine, un dono della natura”, le raccontavo come in una specie di fiaba.

 

Dopo quello che hanno passato a causa mia, non ce la faccio a rimproverare le mie figlie

 

Vi ho raccontato, quando sei venuta con la tua scuola, che di fatto mi “impedisco” di fare il padre. Perché non voglio limitare la loro libertà, già compressa dal fatto di essere le mie figlie.

Perché, dopo tutto quello che hanno passato a causa mia, non ce la faccio proprio a rimproverarle.

Perché ho il terrore che un giorno possano rispondermi con frasi del tipo: “Ma tu, proprio tu, con quale faccia e con quale coraggio ti permetti di farci la paternale?”.

Allo stesso tempo mi rendo conto che probabilmente, come del resto la maggior parte dei figli adolescenti, anche loro a volte avrebbero bisogno di un mio atteggiamento autorevole. Ne ho avuto la conferma e un ritorno positivo le poche volte in cui mi sono imposto di tenere tale atteggiamento: “Però babbo, sei tosto quando ti arrabbi!”, mi hanno poi detto col sorriso sulle labbra e con una punta di ammirazione, ma il forte senso di colpa per tutte le sofferenze che ho inflitto anche a loro mi impedisce di esercitare il mio ruolo di genitore fino in fondo, nel modo più giusto e intelligente.

D’altronde, come posso anche solo pensare di essere autoritario ed esigente con le mie vittime? E le mie figlie, che mi piaccia o no, sono a tutti gli effetti vittime delle mie scellerate scelte, soffrono in ogni istante della loro vita pur non avendo fatto assolutamente nulla di male, e questa è una delle componenti più dolorose di tutta la mia carcerazione.

Come tutti i genitori avrei desiderato per le mie figlie la migliore delle esistenze, una vita spensierata e in serenità, invece ho inflitto loro solo privazioni e problemi a non finire, in molti casi perfino l’emarginazione dei loro compagni di scuola o dei vicini di casa, e non è per nulla semplice accettare questa parte di me stesso, e cioè di padre che alle sue figlie ha prima donato la vita, e poi gliel’ha irrimediabilmente mutilata e rovinata.

Avrei voluto essere un genitore perfetto, un padre del quale potessero andare fiere, sempre presente nelle loro difficoltà, invece sono diventato un padre da tenere nascosto, del quale hanno sempre evitato di parlare se non per raccontare, a chi non conosce la mia vicenda giudiziaria e pone domande indiscrete, la pietosa bugia dell’assenza per lavoro fin che erano piccole, e della separazione coniugale ora che sono grandi.

Il confronto con voi studenti e lettere profonde e importanti come la tua mi mettono completamente a nudo, e mi fanno percepire ancor di più il senso delle mie responsabilità. Ho commesso reati per i quali non esiste alcun rimedio concreto, non posso riscrivere alcune fasi della mia vita che io stesso detesto, ma impegnarmi nel progetto con le scuole, in cui credo fermamente e senza riserve, e mettere a vostra disposizione la mia testimonianza rappresenta un modo, anzi il modo, che mi consente di dare ancora un minimo di senso alla mia esistenza. Grazie a te, a tutti i tuoi compagni e professori.

 

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