Postacelere

 

Per ricevere aiuto devo farmi le pere?

 

Silvia ci scrive per raccontarci che, dopo il carcere, è tornata nella sua città, e ha chiesto aiuto al Ser.T. Ma lei ora non si fa più, ha smesso anche con il metadone, e quindi “non è più di competenza” di nessuno. Eppure, avrebbe davvero bisogno di un sostegno

 

di Silvia A.

 

Finalmente è finita. Sono uscita dal carcere, alquanto disorientata, e sto faticando un po’ per  prendere in mano la mia vita, tentando di non commettere altri errori. Quando sono entrata, a dicembre dell’altr’anno, prendevo una terapia, a dir poco da cavallo, 110 mlg di metadone al giorno, più vari psicofarmaci. Non senza fatica, ma con grande soddisfazione, con il sollievo di liberarmi da ogni sostanza, in cinque mesi sono riuscita a togliermi tutto, fino a non prendere più nemmeno le gocce per dormire.

Dopo più di quindici anni passati, se pur periodicamente, a farmi di tutto e di più, mi sono trovata finalmente lucida. Ma se, finché ero dentro, mi sentivo completamente sicura di me stessa, (probabilmente per il fatto che in galera si è in un certo senso protetti) una volta fuori ho sentito il bisogno di andare al mio Ser.T. d’appartenenza, un po’ per vedere se erano in grado di darmi una mano economicamente e a cercare un lavoro, anche perché prima ero stata in una cooperativa, dove mi era stato detto che senza la presentazione del Ser.T. non erano in grado di aiutarmi. Ma soprattutto ci sono andata per avere un sostegno psicologico.

Quindi, qualche giorno dopo la mia scarcerazione, mi sono fatta accompagnare lì da mia sorella (andarci sola è un rischio, perché è il maggior “ritrovo di tossici” della città) ed ho chiesto di parlare con un assistente sociale, in particolare con una specifica persona che conoscevo già, che però non c’era, quindi sono stata ricevuta da un’educatrice. Le ho esposto la mia situazione, tutt’altro che rosea, le difficoltà che ho perché ancora non sono riuscita a trovare un lavoro, che mi permetta di mantenermi dignitosamente e non dipendere dalla mia famiglia, che non ha grandi possibilità di aiutarmi all’infinito. Lei dopo avermi ascoltata mi ha detto che non poteva fare nulla, perché, non essendo più in terapia, non ero più di loro competenza… Cioè, dopo una vita di tossicodipendenza, questa mi risponde che non sono più di loro competenza!!!

Come dire che per avere una mano devo riprendere a farmi le pere… Istintivamente le avrei rovesciato addosso la scrivania, tanto mi sentivo presa in giro; fortunatamente sono riuscita a calmarmi e a riprendere il controllo senza combinare guai. L’educatrice si è resa conto che mi ero abbastanza alterata, e per rabbonirmi si è prodigata a farmi avere un colloquio alcuni giorni dopo, ma ero talmente arrabbiata che non ci sono andata. Adesso, dopo poco più di due mesi, voglio ritentarci, e credo che li ricontatterò, ma solo per avere un supporto psicologico, per parlare e per potermi confrontare.

 

C’è un limite oltre il quale non puoi più considerare esseri umani certi soggetti?

 

Un nostro lettore, particolarmente sensibile e attento ai temi che trattiamo, scrive alla redazione

Si sarebbe tentati di dire di sì, per sentirci meglio e per distinguerci dalle “bestie”, dai “mostri” che emergono spesso dalla cronaca nera quotidiana, ma forse le cose non sono poi così semplici come appaiono

 

Se ci sia o non ci sia un limite oltre il quale non puoi più considerare esseri umani certi soggetti, se lo chiede un nostro lettore, particolarmente sensibile e attento ai temi che trattiamo, e forse in qualche momento della vita se l’è chiesto ognuno di noi, modificando di volta in volta le sue certezze e i suoi limiti di comprensione. Proviamo a ragionarci insieme, leggendo la lettera che abbiamo ricevuto in redazione e la risposta che abbiamo tentato di dare.

 

Cari amici della redazione,

come dite voi, distinguere tra il reato e la persona che c’è dietro al reato è un modo intelligente per poter capire meglio la realtà nella quale sono maturati i fatti, questo vale per tutti. Rimane però il problema che alcuni reati sono così orrendi, stomachevoli che diventa difficile non farli coincidere con il loro autore, voglio dire che c’è un limite oltre il quale si può comprendere che i detenuti comuni non vogliano condividere la prigione con questi soggetti anche solo per non essere accomunati ad essi. Quale sia questo limite non ve lo so dire e questo non significa che si possano giustificare episodi di violenza, ma proprio perché una cosa non è uguale all’altra dobbiamo sforzarci di distinguere le cose. Mi sento diviso in due su questo argomento, con la testa ragiono e capisco che sono persone anche coloro che magari hanno violentato e poi ammazzato bambini, ma con il cuore mi domando: allora devo considerare anche persone gente come Himmler, Hitler che hanno sterminato milioni di esseri umani? Possiamo anche distinguere questa gente dai loro reati? e che reati!! Questo mi porta a considerare che un limite vi deve essere oltre il quale non puoi più considerare un essere umano certi soggetti. Mi rendo conto che questo limite è dentro di me ma fino a quando non diventerò un santo devo farci i conti, con questo limite.

Alberto Verra

 

Espellere il Male dal concetto di “umano” non è forse una comoda scelta autodifensiva?

 

Dal carcere risponde Paolo Moresco

 

Caro Alberto,

sono perfettamente d’accordo con te: sforzarsi di guardare al di là del reato, nel tentativo di capire – non di giustificare, sia chiaro – la persona che l’ha commesso, può essere un’impresa proibitiva se quel reato suscita un implacabile senso di orrore. Che esista un limite oltre al quale nessuno può chiedere a nessuno di spingersi, con la sua pur generosa volontà di capire, è fuor di dubbio; anche se quel limite è oggettivamente indefinibile, in quanto variabile da persona a persona, a seconda della variabile sensibilità e disponibilità alla comprensione di ciascuno. Così come nei confronti dei malati si chiede a tutti di rispettare il precetto di aver cura e misericordia per loro, senza però pretendere l’eroismo di rischiare di perdere se stessi in un mare di lebbra (e infatti chi si spinge a tanto, come Teresa di Calcutta, si conquista una santità così adamantina da essere riconosciuta e ammirata anche dal più laico dei laici), anche nei confronti dei delitti e di chi li ha commessi esiste una soglia di disponibilità alla comprensione oltre la quale c’è un salto nel buio che quasi nessuno se la sente di compiere, e che comunque nessuno ha il diritto di pretendere.

E capisco benissimo che, di fronte all’orrore di un delitto eccezionalmente efferato, la gran parte di noi si ritragga come davanti a un baratro, rifugiandosi nel guscio dei propri valori (o meglio, delle proprie consolatorie certezze) e magari sbottando – come Saul Bellow in “Herzog” – nella rassegnata rivendicazione della propria inadeguatezza a capire: “…basta, basta! Io sono semplicemente un essere umano, più o meno”.

Una cosa però vorrei aggiungere, sul concetto corrente e secondo me un po’ ipocrita di “umanità” che tu sembri sposare affermando che esiste un limite oltre il quale un essere umano non può più essere definito tale. Su questo no, non sono proprio d’accordo. Nel concetto di umanità ci sta tutto e il contrario di tutto, perché ogni atto – anche il più atroce – che un uomo fa è, in quanto tale, “umano”. C’è un che di preventivamente mutilato, e secondo me di comodamente autodifensivo, nell’espellere il Male dal concetto di “umano”, come se solo il Bene (e il Benino, e magari – quanta grazia! – il Benino meno meno) potesse fregiarsi del titolo di “umano”. Non avertene a male, perché non sto facendo un appunto a te, ma a un modo di pensare e di dire che è comune a quasi tutti, e in cui senz’altro io stesso sono tante volte inciampato: fra gli estremi – Santa Teresa di Calcutta e Adolf Hitler – un punto in comune sicuramente c’è, ed è appunto nella loro comune umanità, indipendentemente dal fatto che – con le proprie azioni – l’abbiano elevata ai livelli più alti o mortificata ai bassifondi più infami.

 

 

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