Editoriale

 

Carcere: Salviamo gli affetti

 

Non sembra soltanto un appello disperato, quello a salvare gli affetti in carcere, ma lo è davvero: disperato, perché nessuno si interessa più di carcere, figuriamoci chi ha voglia poi di aprire il dialogo sulla questione degli affetti.

È così allora, "Carcere: salviamo gli affetti", che abbiamo voluto chiamare questa specie di S.O.S. che vogliamo lanciare durante il convegno sull’affettività, che stiamo organizzando a Padova, nella Casa di Reclusione, per il 10 maggio.

Volevamo parlare prima di tutto della sessualità negata, e riprendere il discorso, bruscamente interrotto un paio di anni fa, sui colloqui dei detenuti con i famigliari in luoghi non sottoposti a controlli visivi, ma poi abbiamo deciso di allargare la discussione, e di scegliere deliberatamente due grandi filoni: quello, appunto, del sesso umiliato e negato, e quello dei rapporti affettivi con i figli, con le compagne, con i famigliari. Abbiamo cioè rimesso insieme, finalmente, sesso e affetti: per non sentir poi parlare, volgarmente, di celle a luci rosse, o di stanze dell’affettività.

Quello che chiediamo è il diritto a non vedersi annullati come persone: perché cancellare la sessualità, e impoverire i legami famigliari riducendoli a dei tristi colloqui in squallide salette sovraffollate, significa rendere di fatto impossibile qualsiasi percorso di reinserimento di una persona detenuta.

Il paradosso è infatti questo: da una parte si dice di voler aiutare i detenuti a reinserirsi nella società, e dall’altra si fanno ritornare nella società delle persone che, dopo anni di frustrazioni e di repressione degli istinti, dei sentimenti, degli affetti, dovrebbero di punto in bianco serenamente ritrovare un equilibrio e una "normalità" di comportamenti.

Due sono quindi i terreni su cui intendiamo muoverci: il "dentro", perché il diritto a incontri un po’ più "privati" per i detenuti e le loro famiglie è una realtà in molti paesi europei e non solo, e sarebbe ora che anche l’Italia accettasse di confrontarsi su un terreno, che non ha niente di "perverso" come sembrano credere i tanti moralisti di casa nostra; il "fuori", perché le famiglie dei detenuti sono pressoché abbandonate, e sono ancora rarissime le situazioni nelle quali qualcuno ha capito che bisogna fare qualcosa per impedire il disfacimento di queste famiglie. Qualcosa che serve a tutti: perché ci sembra evidente che un uomo che esce dal carcere dopo anni di detenzione, e ritrova un nucleo famigliare disposto ad accoglierlo, rappresenta anche per la società un rischio minore di un uomo che esca abbandonato e senza punti di riferimento.

 

 

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