Il
punto di vista “europeo”
La
vita DENTRO deve essere il più possibile simile alla vita FUORI
di
Mauro Palma,
Vice Capo del Dipartimento
dell’Amministrazione
penitenziaria
Innanzitutto
permettetemi di fare due premesse.
La
prima premessa, già fatta da altri che mi hanno preceduto, è il ringraziamento
a questa comunità del Due Palazzi di Padova, nelle sue varie componenti: chi la
dirige e chi in essa opera, in particolare la polizia penitenziaria, che proprio
in questo istituto ha recentemente passato un momento di complessità e
difficoltà, ma ha avuto una grande capacità di reazione e ha mostrato di poter
gestire in assoluto ordine anche lo svolgimento di iniziative quale quella
odierna.
Naturalmente
sono parte importante di questa comunità anche il variegato mondo del
volontariato che qui opera e soprattutto ne sono parte i detenuti che qui
trascorrono una parte della loro vita e che oggi partecipano a questo evento di
riflessione. Mi sembra importante associare nel ringraziamento punti di vista
diversi, soggettività diverse e anche modi diversi di rapportarsi a questo
luogo, perché la complessiva crescita culturale della nostra società si ha
soltanto quando le culture diverse e gli approcci diversi ai problemi entrano in
comunicazione, dialogano e divengono così attori di una evoluzione che non
avviene per spontaneità, ma per sistematico lavoro di tessitura. Proprio quel
lavoro che in questo Istituto si realizza e che è il migliore antidoto di un
pensiero regressivo che negli ultimi tempi riemerge e fa breccia anche nei
grandi media, volto a configurare l’esecuzione penale come mera sofferenza,
meritata da chi ha commesso un reato e che attraverso essa risarcisce la comunità.
Mi
riferisco, in particolare, a una puntata della trasmissione Report intitolata
appunto “Risarcimento” in cui il dibattito sul ruolo della pena mi è
sembrato regredire a prima della riforma di quarant’anni fa.
La
seconda premessa è invece più di merito e mi è stata suggerita dall’ascolto
di alcuni interventi che hanno preceduto questo mio. Si tratta di una sensazione
che spesso avverto in occasione di convegni e discussioni su questi temi e che
sintetizzo nella tendenza ad assegnare sempre la responsabilità della
situazione attuale a un ‘“altrove” e non assumerla in proprio: un
“altrove” che ostacola i buoni propositi che sembrano sempre emergere nelle
discussioni delle occasioni ufficiali. In realtà penso che occorra
preventivamente interrogarci sulle nostre responsabilità: senza questa domanda
e la conseguente risposta su quanto non si è fatto o non si è controllato o
non si è adeguatamente richiesto che si facesse, rischiamo di non fare passi in
avanti. Penso, infatti, che tranne per il tema specifico di cui discutiamo oggi
relativo alla piena espressione della persona anche nei suoi affetti e, quindi,
alla possibilità di colloqui intimi con il proprio partner, per tutti gli altri
temi disponiamo di un impianto normativo sufficientemente ampio e adeguato.
Salvo non applicarlo compiutamente e non vigilare sulla sua corretta
applicazione.
Dobbiamo,
infatti, prendere atto che la Corte europea per i diritti umani che ci ha
condannato per violazione dell’articolo 3 della Convenzione che vieta tortura
e trattamenti o pene inumani o degradanti – uno dei pochissimi articoli
inderogabili in qualsivoglia circostanza – non ha aggiunto nulla a principi
che già sono nel nostro sistema costituzionale della pena. La condanna esprime
però un doppio chiaro messaggio: che non siamo stati in grado di attivare un
sistema di detenzione rispettoso della dignità della persona ristretta e che
non siamo stati in grado di vigilare affinché tale deriva che ci porta fuori
dal solco della nostra Costituzione, venisse in tempo fermata e corretta. Il
primo è un messaggio a chi ha responsabilità politica e amministrativa, il
secondo a chi ha la responsabilità di vigilare sulla tutela dei diritti.
Dobbiamo,
quindi, partire da questa doppia consapevolezza se vogliamo aprire una stagione
nuova nel nostro sistema di amministrare le sanzioni penali. Del resto non
ricordo molta attenzione da parte dell’amministrazione penitenziaria al
rispetto delle Regole penitenziarie europee, pur approvate e sottoscritte anche
dal nostro governo sin dal gennaio 2006 che indicavano che ogni detenuto doveva
trascorrere almeno otto ore fuori dalla cella – eufemisticamente da noi
chiamata ‘camera di pernottamento’. Siamo dovuti intervenire con indicazioni
tassative, dopo la sentenza Torreggiani e altri c. Italia del
gennaio 2013 perché tale principio venisse applicato: giacché è bene
ricordare che la sentenza non si limita certamente a una questione di ampiezza
delle celle e numero di metri quadrati, ma interroga il complessivo paradigma
del nostro sistema detentivo.
Simmetricamente,
non ricordo molte ordinanze della Magistratura di sorveglianza relative alla
quotidianità detentiva e alla sua corrispondenza a quelle Regole e ai principi
che esse esprimono, prima appunto della citata sentenza europea.
Partendo
da questa consapevolezza possiamo ragionare sull’oggi senza guardare al
sovraffollamento che aveva raggiunto soltanto due anni fa livelli insostenibili
come a una sorta di catastrofe naturale, priva di responsabilità specifiche: il
sovraffollamento è stato il prodotto di politiche penali specifiche, ha
determinato condizioni contrarie a quel ‘senso di umanità’ che la
Costituzione richiama nella prima parte del terzo comma dell’articolo 27 e ha
consolidato una funzione dell’esecuzione penale ben distante dal modello di
reinserimento sociale che lo stesso comma nella successiva parte indica come
finalità della pena.
Con
queste due lunghe premesse, vengo al tema dell’affettività e della sessualità
in carcere. Quindi, del mantenimento delle relazioni familiari, dei legami di
vita, da un lato e dell’integrità della persona nei suoi aspetti fisicamente
e psichicamente strutturanti dall’altro. Nel panorama dei 47 Paesi del
Consiglio d’Europa, se si escludono quelli piccolissimi, quali, la Repubblica
di San Marino, il Principato di Monaco, quello del Liechtenstein e simili, sono
soltanto undici i Paesi dove non sono possibili le visite intime, cioè le
visite con i propri cari senza supervisione. Un elemento aggiuntivo in questo
panorama porta a riflettere: degli undici Paesi, ben dieci appartengono
all’Unione Europea, l’unico che non appartiene all’Unione è la Turchia.
Questo porta innanzitutto a osservare che c’è una rilevanza percentuale molto
più forte nell’Unione Europea a vietare o a limitare al massimo tali visite,
di quanto non risulti nel panorama ampio dell’Europa geografica, che include
anche i Paesi dell’Est. Per esempio, anche se in Francia tali visite non sono
del tutto negate, la loro attuazione è limitatissima, poco più che teorica,
anche perché il sistema detentivo francese è molto chiuso rispetto
all’apporto della comunità esterna, non permettendo l’accesso agli Istituti
anche degli organismi che hanno un riconosciuto ruolo di osservazione e
monitoraggio.
“Nel
panorama dei 47 Paesi del Consiglio d’Europa sono soltanto undici i Paesi dove
non sono possibili le visite intime, cioè le visite con i propri cari senza
supervisione”
L’Europa
occidentale sembra rifarsi su questo tema al modello nord-americano che,
contrariamente a quanto avviene in America latina, vieta in modo assoluto la
mancanza di supervisione in qualsiasi momento della giornata detentiva, in
particolare durante le visite di esterni. Forse è per questo che le Regole
penitenziarie europee, pur rifacendosi al principio fondamentale che la vita in
carcere deve essere il più possibile simile alla vita normale, fuori da esso,
non danno indicazioni sulle relazioni affettive intime e sugli spazi in cui
darne espressione.
Lo
stesso Comitato europeo per la prevenzione della tortura non ha mai preso una
posizione definita su questo tema, invitando gli Stati a prevedere questa
modalità di visite anche se ha più volte ribadito, in occasione del Rapporto
relativo a uno dei Paesi dove esse erano attuate, il proprio positivo parere:
recentemente, in occasione del Rapporto sulla visita in Ungheria, avendo
rilevato che negli Istituti in corso
di costruzione erano previste unità abitative per tali visite con i propri
cari, nonostante che la legislazione locale non le abbia ancora introdotte, ha
espresso il proprio compiacimento e ha considerato lungimirante tale previsione
architettonica.
Riassumendo,
a livello europeo non c’è finora stata una posizione di invito esplicito o
raccomandazione agli Stati, per garantire l’affettività in carcere, ma c’è
stata comunque una posizione volta ad assecondare e valutare positivamente le
iniziative che vanno in tale direzione.
La
lettura più analitica delle Regole penitenziarie europee tuttavia apre a
qualche riflessione più approfondita, lungo tre direttrici, che vale la pena
sviluppare.
La
prima è quella determinata dal principio che le condizioni di detenzione non
devono soltanto portare alcun pregiudizio alla dignità della persona ristretta
nel presente, ma devono anche essere tali da non poter evolvere in situazioni
contrarie alla sua dignità nel futuro. Occorre, quindi, valutare una situazione
non solo nel suo proporsi oggi, ma anche nella sua potenziale evoluzione.
“A
livello europeo non c’è finora stata una posizione di invito esplicito o
raccomandazione agli Stati, per garantire l’affettività in carcere, ma c’è
stata comunque una posizione volta ad assecondare e valutare positivamente le
iniziative che vanno in tale direzione”
La
seconda direttrice è quella che ribadisce il principio secondo cui le
restrizioni imposte alle persone private della libertà devono sempre rispettare
un criterio di proporzionalità rispetto ai propri obiettivi legittimi e non
essere sproporzionate rispetto a essi. Infine, la terza direttrice è quella già
menzionata che richiede che la vita in carcere debba essere il più vicino
possibile alla vita al di fuori di esso.
A
monte c’è un meta-principio che la Corte di Strasburgo ribadisce ogni volta
che considera una violazione dell’articolo 3 della Convenzione consistente
nell’assioma che il contenuto della pena detentiva è la privazione stessa
della libertà e null’altro; ogni altra ulteriore afflizione è inaccettabile,
rappresenta un plus che non appartiene alla concezione della pena nella
modernità. Ecco perché il lavoro obbligatorio, non retribuito, che alcuni
commentatori, anche nella trasmissione televisiva che ho precedentemente citato,
indicano come elemento positivo di un regime detentivo giustamente duro, riporta
il dibattito sulla pena, sulla sua funzione, sulla sua capacità di ricollegarsi
alla vita normale fuori dal solco che la nostra Costituzione le assegna. La
restrizione dei diritti che la detenzione determina inevitabilmente non può
essere tale da incidere sui diritti fondamentali costituzionalmente
tutelati.
Ma
la prima delle direttrici lungo cui ho detto deve muoversi la riflessione sulla
pena attiene quel meta principio che si colloca ancor prima di questi aspetti e
che risiede nel fatto che la pena detentiva non può mai divenire pena
corporale, cioè non può determinare una situazione di aggressione alla
psiche o al corpo tale da snaturare la connotazione della pena stessa: per
esempio, il Comitato per la prevenzione della tortura controlla che il detenuto
abbia la possibilità, durante il tempo trascorso fuori della cella di estendere
il campo visivo oltre alcuni valori minimi in modo da non incidere sulla
diminuzione del proprio visus.
La
domanda è allora se la situazione di interruzione di rapporti sessuali con un
partner possa o meno incidere in modo grave sulle condizioni psicosomatiche del
detenuto. Accenno a questo aspetto per trovare una via per portare la questione
delle visite con il proprio partner senza supervisione all’attenzione della
Corte dei diritti umani di Strasburgo. Il secondo filone di analisi riguarda il
criterio della proporzionalità. Questo è forse quello più complesso e al
contempo più semplice, dovendo la proporzionalità misurarsi in relazione al
bene legittimo che l’Ordinamento vuole tutelare. Per esempio – e qui mi
riferisco proprio a uno degli aspetti più difficili e controversi del regime
penitenziario – in relazione alla criminalità organizzata il bene legittimo
da tutelare è il non mantenimento del vincolo criminale con le organizzazioni
e, quindi, l’interruzione di ogni forma di comunicazione con essa, dentro e
fuori il carcere, in modo da non poter veicolare o ricevere ordini o istruzioni.
Stabilito che questo è il bene legittimo da tutelare, il problema è quali
siano le misure da attuare che risultino proporzionate a esso; quindi se le
misure che connotano un regime speciale adottato per tale categoria di detenuti
siano o meno proporzionate e rispondenti alla finalità d’interruzione del
legame associativo e comunicativo con le organizzazioni criminali. Questo
criterio è stato sempre applicato sia dal Comitato per la prevenzione della
tortura, sia dalla Corte nel valutare le singole misure del regime italiano ex
articolo 41 bis che non è stato condannato di per sé, ma che è soggetto a
continua analisi di ogni singola misura e a richieste di abolire quelle che non
rispondono a tale criterio di valutazione; lo stesso del resto si fa per tutti i
Paesi europei giacché in ognuno esiste un regime particolare per un dato
settore di detenuti.
Premesso
questo, la domanda è se non si possa sollevare la questione che la privazione
della sessualità risulta sempre sproporzionata rispetto alla finalità della
pena, cioè al bene legittimo – il rientro regolare nella società – che
essa si propone di raggiungere: di nuovo una questione che può essere posta
alla Corte dei diritti umani.
Infine,
la terza linea di analisi, quella lungo la quale, a mio parere, l’attuale
normativa italiana preclusiva di tali rapporti può essere più facilmente
aggredita. Riguarda la questione di quella massima vicinanza che, secondo
le Regole penitenziarie europee, la vita detentiva deve avere con la vita fuori
delle mura del carcere.
L’attenzione
va, oltre cha al più volte citato articolo 3 della Convenzione, anche
all’articolo 8 che afferma il diritto al mantenimento dei legami affettivi e
familiari e all’articolo 12 che afferma invece il diritto di ciascuno a
costruire una famiglia e alla genitorialità. Ora, nel momento in cui si priva
una persona della possibilità di generare nonché della possibilità di
costituire una famiglia, di fatto si restringe il diritto del suo partner, del
coniuge, che è anch’esso titolare del diritto affermato e tutelato
dall’articolo12 della Convenzione di avere una famiglia, nel senso completo
che tale concetto implica. Il coniuge, infatti, ha diritto non solo a generare
ma anche a costituire una famiglia, cosa che gli o le è preclusa da una
condizione di detenzione che non preveda spazi e tempi in tal senso. La vita
detentiva “il più vicino possibile” alla vita normale, sparisce.
A
queste tre piste delineate per portare la questione dell’affettività e della
sessualità all’attenzione della Corte europea dei diritti umani, aggiungo
soltanto due osservazioni. La prima è che le modalità con cui gli incontri
riservati e non supervisionati sono attuati nei diversi Paesi si differenziano
notevolmente. In alcuni Paesi – soprattutto in America Latina – è difficile
parlare di affettività perché le modalità di svolgimento dei colloqui di
questo tipo lasciano poco spazio a questo termine; piuttosto si configurano come
una sorta di routine di sfogo sessuale.
“Nel
momento in cui si priva una persona della possibilità di generare nonché della
possibilità di costituire una famiglia, di fatto si restringe il diritto del
suo partner, del coniuge, che è anch’esso titolare del diritto affermato e
tutelato dall’articolo12 della Convenzione di avere una famiglia, nel senso
completo che tale concetto implica”
Al
contrario nei Paesi dove la detenzione è centrata sulla responsabilizzazione
del detenuto e non sulla sua mera custodia, questi incontri si realizzano in
piccole unità, gestite dagli stessi detenuti e la cui gestione è parte dello
stesso piano di trattamento. In questi casi i detenuti hanno cura di luoghi dei
propri affetti e contribuiscono fortemente – o addirittura direttamente
gestiscono – al loro regolare mantenimento. Anche sul piano normativo, le
situazioni si differenziano molto: almeno in un paio di Paesi europei mi sono
trovato un sistema di regole che permette soltanto ai maschi di avere incontri
intimi con le proprie partner e non alle detenute donne.
“Il
coniuge, infatti, ha diritto non solo a generare ma anche a costituire una
famiglia, cosa che gli o le è preclusa da una condizione di detenzione che non
preveda spazi e tempi in tal senso”
Ciò
che comunque accomuna tutte queste diverse situazioni è il consenso positivo da
parte del personale che opera nel carcere: l’atteggiamento è esattamente
l’opposto di quello che viene rappresentato nel nostro Paese in cui ci si
trincera dietro il presupposto atteggiamento negativo da parte del personale per
non introdurre la previsione di incontri riservati e intimi in carcere.
La seconda osservazione è che il tema va posto nell’agenda della riflessione attuale sul carcere. Come è noto, dopo la sentenza Torreggiani si sono adottati provvedimenti volti non solo a ridurre il numero di detenuti e a prevedere forme di rimedio preventivo e compensativo per i casi di attualità di una violazione dell’articolo 3 della Convenzione o di averla sofferta nel passato. No, i provvedimenti che si è cominciato a introdurre, soprattutto con i lavori della Commissione istituita dal Ministro Cancellieri all’indomani di quella sentenza e che ho presieduto, vogliono anche cogliere questa occasione negativa per far volgere al positivo il nostro modello di detenzione e renderlo più simile a quanto delineato dalle Regole penitenziarie europee. In questo percorso si inseriscono molti dei provvedimenti adottati relativi al tempo da trascorrere fuori della cella, alle attività da proporre e agli spazi dove realizzarle, ai rapporti con il mondo esterno e, in particolare, con il mondo dei propri affetti. Questi lavori avranno un momento di riflessione collettiva in quegli Stati Generali sulla pena e la sua esecuzione che il Ministro Orlando ha annunciato di voler realizzare in questo anno. Bene, sarebbe del tutto illogico che il tema dell’affettività e della sessualità in carcere non facesse parte di tali progetti e non costituisse un momento di riflessione specifica in occasione di questa annunciata ampia iniziativa di dibattito. Il mio impegno è a includere questo tema in quell’agenda.