Figlie
“Per
un abbraccio in più non è mai morto nessuno”
L’ha
detta la figlia di una persona detenuta, questa frase, che “Per un abbraccio
in più non è mai morto nessuno”, e la vogliamo usare anche noi per
introdurre le testimonianze di queste figlie coraggiose, che hanno deciso di
“mettere in piazza” la loro sofferenza perché forse solo così i cittadini
“onesti” possono capire che non devono esistere figli di serie A e figli di
serie Z, e che i figli hanno diritto all’affetto dei loro genitori, anche se
non sono genitori “perfetti”.
La
mia paura era di diventare un’ombra anch’io
di
Suela,
figlia di Dritan
Io
entro nelle carceri da quando avevo sei anni perché vado a fare i colloqui a
mio papà. Ecco ne ho girati tanti, perché quando hai un genitore che è in
carcere è come se lo fossi un po’ anche tu, sei costretto comunque ad entrare
dentro, a girare tutti gli istituti che gira lui. Oltre ad essere difficile per
una bambina entrare all’interno di un carcere, essere perquisita, ti capitano
anche tante piccole cose sgradevoli, ricordo una volta che addirittura mi hanno
fatto sputare la gomma da masticare, mi hanno fatto togliere la cintura e dovevo
tirare i pantaloni perché non stavano su, è stato abbastanza umiliante e
brutto, davvero pesante. Quello è il minimo comunque, perché crescere senza un
genitore non è facile, non è facile perché io avevo bisogno di mio papà a
casa, ero piccola, ma questo non vuol dire che non ne abbia bisogno ancora
adesso di lui.
Oltre
ad avere bisogno della sua presenza, però anche quando potevo vederlo e andavo
ai colloqui non era molto facile, perché prima, ma ancora adesso in alcune
carceri, c’era un muro, c’era anche un vetro e io avevo sei anni, incontravo
mio papà ed eravamo praticamente divisi da questo muro, dovevo scavalcare per
incontrarlo, per salutarlo e non si poteva, infatti le guardie, gli agenti ogni
volta ci riprendevano, ed era un po’ brutto, un po’ pesante. Adesso io lo
racconto così però viverlo non è bello.
Altre
sofferenze le vivevo anche fuori nella mia vita normale. Ecco io ho sempre
tenuto nascosto che mio padre fosse un detenuto perché la mia paura era di
diventare un’ombra anch’io. Temevo che gli amici e le amiche non mi
accettassero, perché quando una persona non ti conosce e tu ti presenti come la
figlia di un detenuto, viene d’istinto di giudicare anche te, e invece non è
così perché io conduco una vita normale, studio, non faccio niente di
illegale. E nonostante ciò l’ho sempre nascosto a tutti, finché mi hanno
aiutato a capire che io non ho fatto niente, non ha senso che mi vergogni ed è
ovvio che le persone che stanno vicino a me, che mi vogliono bene e a cui io
voglio bene devono sapere. Ecco perché ringrazio chi mi ha spinto a parlarne
tranquillamente senza mettere la testa sotto la sabbia. Grazie.
Non
bastano le poche ore che abbiamo di colloquio, in cui siamo limitati e
controllati
di
Stephanie,
figlia di Victor
Io
sono qui per raccontarvi la mia esperienza come figlia di un detenuto. Penso che
a differenza di chi vive al di fuori di questa realtà, noi non giudichiamo le
persone da quello che fanno o dai propri errori, ma da come si pongono con gli
altri. La mia storia inizia tre anni e mezzo fa quando mio padre venne arrestato
e mia mamma venne coinvolta in questa vicenda, io ero a malapena maggiorenne e
quindi mi ritrovai da un giorno all’altro senza la terra sotto i piedi, qui in
Italia da sola senza la mia famiglia, senza i nonni, senza fratelli perché sono
figlia unica. Posso dire che mi venne negato il diritto agli affetti, perché?
Perché
io per tre mesi non ebbi nessun contatto con i miei genitori, non mi vennero
concesse le lettere, non ebbi permessi per fare colloqui e la mia più grande
ansia non ero io che stavo male, perché io stavo bene, non mi mancava niente,
era la preoccupazione per i miei genitori perché io comunque sono sempre stata
una cocca di mamma, nel senso che non mi veniva bene neanche un uovo fritto se
me lo facevo da sola. Di colpo ho dovuto mettermi nei panni dei miei genitori,
che si chiedevano come stavo sopravvivendo, cosa mangiavo, cosa facevo. La prima
settimana sono andata avanti a pizza, poi comunque ti rendi conto che da sola
non ce la fai, io mi sono dovuta tirare su le maniche non per me ma per loro,
per dimostrare a loro che stavo bene e non dovevano preoccuparsi. Sentivo una
sorta di rabbia quando la gente mi chiedeva: ma tu vai a vederli? Tu gli stai
accanto? E io rispondevo: ma che domande fate? come fai a lasciare tuo padre, i
tuoi genitori da soli, sono comunque le persone che ti hanno portato al mondo,
sono comunque le persone che ti hanno fatto diventare ciò che sei.
Quello
che è certo è che il diritto agli affetti a me è stato negato, posso capire
che era un discorso di indagini aperte e tutto il resto, ma penso che il giudice
in quel momento non si sia posto la questione che io ero appena diciottenne, la
risposta del giudice all’avvocato di mio padre fu che ero maggiorenne e che
potevo benissimo cavarmela, ma io fino a quel giorno ero una di quelle ragazze
che non aveva neanche dormito mai fuori casa. Quindi a ritrovarmi in quella
situazione veramente mi è mancata la terra sotto i piedi. Io non mancavo mai a
un colloquio e la cosa brutta è che i miei genitori non erano vicini, perché
io sono di Milano, mia mamma era a Trento, mio papà era a Venezia, quindi una
settimana andavo da una parte e una settimana dall’altra.
Ero
molto stanca e iniziai a risentirne, ma rivivevo tutte le volte che li vedevo.
Però che pena quando arriva il momento che sei lì e non puoi abbracciare tuo
padre, non puoi farti magari due passi insieme, non puoi raccontargli le tue
giornate! Perché noi nel momento del colloquio non diciamo quanto stiamo male,
io non ho mai detto a mio papà “papà sto male perché mi manchi, non ce la
faccio più, sto crollando”, perché comunque io sapevo come stavano loro e
raccontargli il mio dolore penso che sarebbe stato un peso in più che si
sarebbero portati appresso.
Quindi
cercavo di portarmi il mio “zainetto” da sola finché piano piano riuscii a
superarlo e ad abituarmici, anche se però la quotidianità come figlia di un
detenuto io l’ho vissuta pesantemente perfino nelle piccole cose come portare
il pacco. Io soffrivo quando magari mio padre mi chiedeva qualcosa e io non la
trovavo, a me mi cadeva il mondo addosso, perché era l’unico modo che avevo
per essere presente per lui.
Mia
mamma ora è tornata a casa, però questa vicenda ci ha cambiato un po’ tutti,
perché io comunque ero una di quelle figlie che appena faceva 18 anni non
vedeva l’ora di andarsene di casa, adesso posso dire veramente di saper
apprezzare la presenza dei miei genitori, cosa che prima non facevo
assolutamente. Ma nel momento in cui io sono rimasta da sola mi sono resa conto
di quanto i genitori, la loro presenza, semplicemente il loro contatto fisico
siano una cosa essenziale, ed è un diritto avere con loro un rapporto profondo.
Però
non bastano le poche ore che abbiamo di colloquio in cui non possiamo
rapportarci come vorremmo, perché siamo limitati e controllati, e ancora meno
basta la telefonata che dura dieci minuti, e ci ritroviamo io e mia mamma a
dividercela, e io non posso raccontare a mio padre neppure “papà ho preso un
bel voto”, perché mia mamma comunque ha diritto a quel poco di intimità che
le rimane, e se io devo stare lì a dirle “passamelo che gli racconto come è
andata l’università”, mi sembra di privarla di qualcosa, cioè o mi privo
io o ti privi tu, è un po’ un tiro alla fune. E ormai sappiamo tutti che
invece in altri Paesi hanno molte più opportunità di noi.
Vedere
tuo padre dietro a un vetro
di
Veronica,
figlia di Biagio
Io
sono la figlia di Biagio Campailla. Vi volevo raccontare un po’ la storia fra
me e mio papà e la mia famiglia. Noi siamo dei figli che sono stati cresciuti
all’estero, in Belgio, ci sono io la più grande, mia sorella Iolanda, mia
sorella Rita e mia sorella Anna.
Quello
che volevo spiegare non è semplice, perché è una cosa che parte da lontano e
cresce e che ti porti dietro per tutta la vita. Quello che io vi voglio
confessare è che dall’età dei miei 14 anni papà non era più a casa. Vi
racconto quello che ricordo, oggi ho 29 anni dunque sono passati più o meno 16
anni da quel giorno, mi ricordo che era il mese di giugno quando ho saputo che
papà non c’era più, e non capivo il perché. Poi ho capito che mio padre
l’avevano arrestato.
È
iniziato un incubo, un incubo perché nulla è semplice, cominci a chiederti il
perché, a farti tante domande, a farne alle tue sorelle, alla tua famiglia, ti
chiedi il motivo, cosa è successo, perché proprio a me. Poi però bisogna
andare avanti, la mamma inizia a spiegare che ci sono i colloqui, colloqui dove
tu vedi papà dietro a un vetro, e lo devi anche spiegare alle sorelline perché
sei la più vecchia, sei quella che capisce di più. Diciamo che iniziano le
torture. Le torture perché a pagare le conseguenze delle pene sono anche i
familiari, e poi soprattutto per te che sei fuori, che sei libera di vivere con
gli altri, non è semplice spiegare a tutti come è successo, perché, e ti devi
sempre giustificare, mortificare. Si soffre, si soffre tanto e soprattutto
vedere un padre dietro a un vetro e non poterlo abbracciare ti strappa il cuore,
e non accetti la realtà, non accetti e purtroppo ti metti in croce. Oggi nella
vita possiamo sbagliare tutti, tutti possiamo cadere, però l’amore è una
cosa molto importante, l’amore secondo me è spiegare ad ognuno di noi che,
nonostante ciò che nella vita soffriamo, quello che ti copre e ti protegge e
che diventa anche una campana di vetro è la capacità di amare, di tenersi per
mano e andare avanti. Dunque quello che vi voglio trasmettere è che però
purtroppo nella vita, se quell’affetto non lo puoi esprimere, devi stringere i
denti e andare avanti lo stesso, sperando che le cose cambino.
Oggi
io non mi vergogno di dire che mio padre è in carcere, non faccio difficoltà a
raccontarlo, perché per me è uno sfogo trasmettere agli altri i miei
sentimenti, far capire che ognuno di noi ha diritto ad esprimere l’amore,
l’affetto, qualche volta la rabbia, alle persone che ama, anche se sono in
carcere.
Non
mi vergogno di mio padre
di
Barbara,
figlia di Carmelo
Io
sono Barbara, la figlia di Carmelo Musumeci. Non mi ricordo la prima volta che
sono entrata in carcere, però sicuramente mio fratello che ha due anni in meno
di me penso che abbia battuto tutti i record, perché a una settimana mia mamma
l’ha portato ai colloqui. Anche io come le altre figlie ho una esperienza a
360 gradi delle carceri italiane, e dovunque vai è un mondo nuovo in tutto,
soprattutto io rimango ancora colpita da piccoli fatti, perché per esempio in
certe carceri entrino certe cose da mangiare e in altre no, perché in un posto
è pericoloso e in un altro no. Comunque ci si abitua anche a non farsi certe
domande.
A
differenza delle altre figlie, io devo dire che non mi vergogno di mio padre,
non dico che le altre si vergognano, ma voglio dire che non mi sono mai
vergognata di parlarne, tutte le persone a me vicine sanno di mio padre, anzi
noi cerchiamo sempre di coinvolgerlo nella nostra vita, ad esempio se facciamo
una grigliata come a ferragosto e ci sono i miei amici, io gli dico sempre di
chiamare e poi gli passo un po’ tutti, oppure se facciamo un viaggio gli
mandiamo le cartoline collettive per stargli vicino.
Cerco
un po’ di fargli vivere la vita mia. Sicuramente è difficile riuscire a
instaurare un rapporto con una persona che puoi vedere poco e soprattutto
l’unico contatto magari è la telefonata o le lettere. Io sono fortunata perché
lui non mi ha mai fatto mancare niente.
Io
ho il padre che vorrei e non cambierei con nessuno, sicuramente quello che ho
avuto io penso che sia molto di più di tanti che vedo fuori. Mio padre come
persona, i valori che mi ha trasmesso lui, io faccio tuttora fatica a trovarli
nelle persone fuori, nonostante tutto, quindi sì magari ho avuto un padre
lontano fisicamente, ma sicuramente sempre con me.
Agnese
Moro, un padre ucciso, “consola” le figlie di uomini responsabili di gravi
reati
Abbiamo
deciso di insistere a parlare dei figli delle persone detenute perché qualcosa
bisogna davvero fare per loro. E un esempio straordinario lo dà ancora una
volta Agnese Moro, figlia di Aldo Moro, lo statista ucciso dai terroristi delle
Brigate Rosse, che ha saputo capire, consolare, sostenere le figlie di persone
che si sono macchiate di reati pesanti, perché loro hanno diritto comunque ad
avere un padre più presente, più “vicino” pur nella lontananza della
galera. Agnese le ha ascoltate, e poi ha paragonato la loro condizione di
lontananza forzata alla sua sofferenza, di quando non sapeva nulla del padre,
ostaggio dei suoi rapitori. E ha chiesto per quelle figlie la possibilità di più
ore di colloqui e più telefonate, perché punire i loro padri non deve
significare togliere ai figli la speranza.
Queste
figlie soffrono come ho sofferto io quando mio padre era prigioniero delle
Brigate Rosse
di
Agnese Moro
Io
vengo qui in carcere perché nessuno nella mia vita mi tratta così bene come
quando sono qui. È sempre importante per me venire, vengo sempre molto
volentieri perché imparo tantissime cose importanti che mi aiutano a vivere in
maniera più responsabile e più seria.
Abbiamo
sentito oggi tante testimonianze umanissime e anche un po’ terribili, credo
che nessuna cosa possa essere più efficace dei racconti di queste coraggiose
figlie che hanno accettato di dividere con noi le loro difficoltà e le loro
sofferenze. Io in qualche modo qualcosa posso intuire della vostra situazione,
perché mi ricordo di quanto era stato brutto per me, quando mio padre era
prigioniero delle Brigate Rosse, non poter sapere niente di lui, e mi domandavo
continuamente “Che gli starà succedendo? mangerà?”, uno poi conosce le
manie delle persone, le loro debolezze e questa impossibilità di avere delle
notizie certe, continue di qualcuno che ami è una cosa terribile, ma per me si
è trattato tutto sommato di pochi giorni, immagino che cosa possa essere
portarsi questa ansia per tanti e tanti anni.
Tra
l’altro mi colpiscono molto questi miseri dieci minuti di telefonata a
settimana che sono concessi a un detenuto, questa preclusione alla
comunicazione, che forse è tanto più dolorosa quanto più contrasta con quello
che è il contesto in cui noi viviamo. Noi siamo attaccati al cellulare, ogni
tre minuti possiamo parlare con chi ci pare, se lo dobbiamo spegnere come adesso
per qualche ora, non averlo già ci sembra una privazione assurda, quei dieci
minuti di telefonata, che forse 50 anni fa potevano avere un significato, oggi
ne hanno un altro, perché sono una privazione troppo distante da quello che è
lo standard medio di vita delle persone, e questo rende tutto ancora più
doloroso.
A
me ha ricordato queste cose che sembrano talmente ovvie, cioè il fatto che
ognuno abbia diritto ad essere in contatto sempre con le persone che ama e dalle
quali è amato, un diritto che può essere solo riconosciuto perché è una cosa
umana, è una cosa che viene prima di qualsiasi legge, di qualsiasi
costituzione. Sembra talmente ovvio ma non lo è.
Io
l’ho visto anche in altre circostanze, ci sono dei luoghi in cui le persone
non sono considerate più delle persone, e quindi il metro con cui si misura la
loro vita non è lo stesso con cui si misura la vita degli altri. A me era
capitato, tanti anni fa, all’inizio degli anni 80, di partecipare alla nascita
del Tribunale per i diritti del malato e tutto sommato, sembra strano, ma la
situazione che vivevano i malati dentro agli ospedali era molto simile in
termini di privazione totale di diritti elementari a quella che oggi si vive nel
carcere. Ricordo una scena che per me è rimasta emblematica per sempre, è
rimasta proprio nel mio DNA e credo che la trasmetterò ai miei figli, la scena
è questa: c’è un vetro, al di là del vetro ci sono dei bambini piccoli,
lattanti che vengono nutriti con il sondino, perché non ci sono gli infermieri
per dargli il latte, al di qua del vetro ci sono le mamme che piangono perché
non gli viene permesso di entrare e dare il latte al loro bambino, perché le
mamme portano le malattie.
Ecco
stamattina ascoltando le testimonianze delle persone detenute e delle loro
figlie, sono ritornata in quella stanza in cui la mamma piangeva e il bambino
doveva venire nutrito con il sondino, eppure non è facile cambiarle queste
cose, perché sono difficoltà che sono stratificate. C’è nella società il
problema del desiderio di punire in modo vendicativo che conosciamo purtroppo
molto bene, anche se è fuori da qualsiasi legge, da qualsiasi regola, da
qualsiasi principio scritto, e c’è un problema di vecchi modi di pensare che
sono semplicemente rimasti lì, perché nessuno ha avuto la capacità di fare
pulizia e di mandarli via. Serve, ovviamente, un cambiamento, ma il problema è
come ottenerlo, questo cambiamento.
Abbiamo
sentito questi bellissimi progetti di legge che sono in discussione, ma qui
viene sempre il nostro vecchio problema di come riuscire a parlare a una società
che, se non esisterà nel dibattito, se non sarà coinvolta, probabilmente farà
in modo che queste leggi non si facciano, oppure si faranno ma poi non si
attueranno, perché adesso c’è questa idea che tu fai un provvedimento e
allora hai governato il Paese, purtroppo fai un provvedimento e poi non succede
assolutamente nulla perché bisogna anche far camminare le cose, far funzionare
le leggi.
Allora secondo me noi dovremmo riuscire intanto a informare, perché magari si pensa che queste situazioni siano conosciute, non è vero non sono conosciute io ho fatto la prova anche con persone estremamente informate ed estremamente sensibili, quindi non vi parlo di quello che dice “lasciamoli in galera e buttiamo la chiave”, ma ugualmente delle famiglie dei detenuti non sanno nulla, non sanno che gli sono consentiti in tutto dieci minuti di telefonata alla settimana e sei ore di colloqui al mese. Quindi qui c’è un problema di informazione che è fatta anche di valorizzare le testimonianze, è fatta di linguaggi diversi da quelli dell’articolo tradizionale. Io sono stata di recente a Parma, ho visto questo bellissimo film che è stato fatto dai detenuti in collaborazione con il liceo artistico della città, in cui si parla esattamente di questo tema dell’affettività. Io ho osservato la sala delle persone che è stata a vedere questo film e ho visto che sono rimasti tutti sconvolti, è una storia molto serena di un adolescente che aveva un padre in un carcere, cioè voglio dire non è che c’erano scene violente, ma è ugualmente uno schiaffo in faccia, perché nessuno sa che esiste questa realtà e lì, comunque, erano persone mediamente sensibili a questi temi. Quindi informare mi sembra anche importante, ma mi sembra importante soprattutto coinvolgere quei tipi di persone che normalmente non si coinvolgono in temi particolarmente “seri”, che secondo me sono tra gli unici che vengono ascoltati in questa società, perché noi ci dobbiamo anche chiedere: chi è che è credibile nella nostra società? Chi viene ascoltato? Certamente i politici con molta fatica, non ce lo nascondiamo, io mi rivolgerei tantissimo al mondo delle arti, mi rivolgerei agli attori, mi rivolgerei a certi tipi di giornalisti, mi rivolgerei a quelli che parlano continuamente alle persone alla mattina e al pomeriggio, la cultura in questo Paese si fa nelle televisioni alla mattina e al pomeriggio, anche se vi sembrerà strano. Ecco, credo che sia davvero importante trovare delle persone che possano essere al di fuori di noi, della nostra cerchia di persone già sensibili a certi temi, a prendersi le nostre pene e aiutarci a uscirne, perché se no non ce la facciamo. Grazie.