La
dubbia costituzionalità degli ergastoli
Finalità
costituzionale della pena e illegittimità dell’ergastolo, in particolare
ostativo
di
Andrea Pugiotto,
Ordinario
di Diritto costituzionale, Università di Ferrara
1.
Incipit
Ringrazio
per l’invito la redazione di Ristretti Orizzonti, e per l’ospitalità
la Direzione della Casa di reclusione “Due Palazzi” di Padova. Mi è stato
affidato il compito di svolgere un intervento che potrebbe portare il seguente
titolo: La dubbia costituzionalità degli ergastoli (al plurale,
vedremo perché). Preliminarmente, non vi nascondo il mio duplice imbarazzo nel
prendere la parola. Dato il tema, capite bene che è uno di quei casi in cui chi
ascolta ne sa molto di più di chi parla. Da qui la prima ragione di imbarazzo:
è come se avessi davanti non delle matricole universitarie al primo anno, ma
delle persone assai competenti. Dunque, ho il dovere di svolgere un ragionamento
giuridico né semplicistico né semplificatorio. Sarà il mio modo di
rispettarvi: quello che per me è un tema di studio per molti di voi, infatti,
è un’insostenibile condizione esistenziale. La seconda ragione di imbarazzo
può nascere da un eqiu- voco di fondo, che intendo evitare fin da subito. Chi
vi parla crede nel principio della responsabilità personale e nel rispetto
della legge quali premesse indispensabili per assicurare una convivenza pacifica
tra le persone: senza, avremmo la condizione selvaggia del tutti contro tutti.
La sanzione penale, dunque, mi pare la risposta necessaria a condotte illegali,
specie se particolarmente gravi. Nessun buonismo da parte mia, dunque, nel
parlare di ergastoli. Ciò detto, chi vi parla crede però anche nel diritto
come violenza domata e nella legalità costituzionale come regola e limite al
potere (specie quando quel potere esercita il monopolio della forza fisica
sull’individuo, limitandone la libertà personale). Proprio per ciò cerco di
usare quel che so, e quel che so fare, per evitare che il potente diventi
prepotente rendendo impotente la tutela che la Costituzione garantisce a tutti,
anche al più cattivo dei cattivi. Perché, per la nostra Costituzione l’uomo
della pena può diventare diverso dall’uomo del reato e, per la Repubblica,
nessuna persona è mai persa per sempre. Andiamo allora a cominciare, ponendo il
problema nel modo più radicale: i giudici italiani, condannando
all’ergastolo, irrogano una pena costituzionalmente legittima?
2.
Il volto costituzionale della pena
L’interrogativo
rimanda al disegno costituzionale della pena, una pena il cui orizzonte impone
di guardare alla reclusione dietro le sbarre «non come “punto di arrivo” ma
come punto da cui “ripartire”» (Flick), verso un possibile reinserimento
sociale che la Costituzione non preclude a nessuno,
per quanto grave sia la sua accertata responsabilità penale. È un
vincolo di scopo, quello della risocializzazione, che non può mai essere
oscurato, «da quando [la pena] nasce, nell’astratta previsione normativa,
fino a quando in concreto si estingue» (sentenza n. 313/1990).
Ebbene,
come possa tale orizzonte costituzionale includere una pena perpetua qual è
l’ergastolo, è evidentemente un problema. Si badi. Non è un problema umanitario,
cui porre mano generosamente e per bontà d’animo, restituendo in sede di
trattamento penitenziario condizioni di vita dignitose e benefici penitenziari
capaci di alleviare l’afflittività di una condanna a vita. Quello
dell’ergastolo è, semmai, un problema di legalità, perché la
Costituzione non si limita a vietare trattamenti inumani e degradanti, privi di
finalità rieducativa, quando la pena è eseguita. La Costituzione
pretende che una pena esclusivamente retributiva non sia mai inflitta dal
giudice né, prima ancora, minacciata dal legislatore. La semplice
previsione normativa astratta di una pena perpetua, quindi, interpella
costituzionalmente. E richiama ad un esigente obbligo di coerenza: a quale
titolo lo Stato può prendersi la vita di un condannato a morte? Nessuno,
risponde la Costituzione. L’interrogativo, oggi, va solo riformulato,
aggiornandolo: a quale titolo lo Stato può prendersi la vita di un condannato
all’ergastolo? Nessuno, risponde ancora la Costituzione.
3.
Ergastoli e detonatori
Eppure
la pena perpetua è ancora presente nel nostro ordinamento, addirittura
declinata al plurale. Accanto all’ergastolo comune (ex art. 22 c.p.)
presentano un loro autonomo regime giuridico l’ergastolo con isolamento diurno
(ex art. 72 c.p.) e l’ergastolo ostativo (ex art. 4-bis ord.
penit.). Di ergastolo bianco (o nascosto) si deve poi parlare a proposito della
misura di sicurezza dell’internamento negli ospedali psichiatrici giudiziari
che, di rinnovo in rinnovo, assume troppe volte la forma di una vera e propria
reclusione senza fine. Se le parole hanno un obbligo di verità, abituiamoci
allora a parlare di ergastoli. La loro persistenza dura ormai da troppo
tempo. E’ il momento di porvi rimedio, ma come? Illusoria mi sembra la via
legislativa.
In
passato la si è percorsa, senza successo, nella V, nella VI e nella XIII
Legislatura. Di analogo segno erano pure le proposte di revisione del codice
penale elaborate dal Comitato Riz (1996), dalla Commissione Grosso (1998) e
dalla Commissione Pisapia (2006). Ma oggi? Nell’attuale Legislatura sono
quattro i progetti di legge depositati concernenti l’abolizione
dell’ergastolo: tre alla Camera (n. 975, Gozi e altri; n. 1531, Speranza e
altri; n. 1534, Marazziti e altri) e uno al Senato (n. 697, Barani), di nessuno
di essi è ancora iniziato l’esame. Quanto alla Legislatura scorsa, la sola
iniziativa che ha camminato è stato un disegno di legge approvato al Senato (AS
2567), che mirava – se così posso dire – ad un ergastolo ancora più lungo.
Da un lato, si escludeva il condannato all’ergastolo dalla possibilità –
avvalendosi del c.d. giudizio abbreviato – di ottenere la conversione del
carcere a vita in 30 anni di reclusione. Dall’altro lato, si innalzava ad «almeno
26 anni» l’asticella temporale che l’ergastolano deve raggiungere per
sperare di accedere a benefici extra murari, fosse anche solo un permesso premio
di qualche ora. Il progetto è decaduto, con lo scioglimento delle Camere. Fosse
giunto in porto, saremmo qui a celebrare un eterno riposo per tutti gli
ergastolani. Scarterei pure l’ipotesi di un referendum popolare sull’art. 22
c.p., tentativo fatto da Radicali Italiani nei mesi scorsi, ma senza successo,
perché le firme raccolte non hanno raggiunto le 500.000 costituzionalmente
necessarie. Sarò sincero: non la ritengo una brutta notizia. In passato il
corpo elettorale si è già espresso per via referendaria sull’ergastolo, e
sappiamo come andò a finire. Era il 17-18 maggio 1981: 24.330.954 voti contrari
all’abrogazione; 7.114.718+1 (il mio) favorevoli all’abrogazione. Una cifra,
credo, oggi irraggiungibile. E un rinnovato esito referendario negativo
diverrebbe la pietra tombale per impedire ogni tentativo di cancellare il
carcere a vita dal nostro ordinamento: «E’ il popolo a volere l’ergastolo»,
sarebbe l’alibi parlamentare. Quel passaggio referendario del 1981, semmai, va
messo a valore per il suo significato squisitamente giuridico. Avendo, infatti,
dichiarato ammissibile il quesito abrogativo (sentenza n. 23/1981), la Corte ha
riconosciuto implicitamente che l’ergastolo non è una pena imposta
dalla Costituzione: le leggi costituzionalmente necessarie, infatti, non sono
sottoponibili a referendum popolare. L’ergastolo, dunque, si muove interamente
in un ambito rimesso alla discrezionalità del legislatore. La Costituzione non
lo proscrive (almeno espressamente), ma nemmeno lo prescrive. Né
legge né referendum, quindi. Bisogna semmai – a mio avviso – tornare
davanti alla Corte costituzionale con nuovi argomenti capaci di dimostrare che
l’ergastolo (sia comune che ostativo) fuoriesce dall’orizzonte
costituzionale della pena. Quali?
4.
Un (apparente) salvacondotto costituzionale
Partiamo
da un fatto. I giudici costituzionali già in passato hanno escluso
l’incompatibilità tra ergastolo e Costituzione, con sentenza n. 264/1974.
Partita chiusa, dunque? Tutt’altro. Se leggiamo bene quella sentenza, ci
accorgiamo che la Corte ci dice che l’ergastolo non vìola la Costituzione perché
non è più pena perpetua, potendo il condannato a vita beneficiare
della liberazione condizionale: istituto che estingue la pena, cui
l’ergastolano può accedere dopo 26 anni di reclusione, soglia che si abbassa
a 21 anni se il condannato partecipa all’opera di rieducazione. Sia detto con
tutto il rispetto: quello della Corte è un sofisma. Equivale a dire che
l’ergastolo non è più ergastolo. Che l’ergastolo esiste in quanto tende a
non esistere. Ma il punto che mi preme sottolineare è un altro. L’argomento
della Corte costituzionale dimostra, a contrario, che una reclusione a
vita è certamente incostituzionale: dunque, tutti i condannati che –
per le ragioni più varie – hanno scontato l’ergastolo fino a morirne, sono
stati sottoposti a una pena che la Costituzione respinge. E’ accaduto. Accade
anche oggi. Continuerà ad accadere, sopravvivendo la previsione legislativa di
una detenzione perpetua.
5.
L’ergastolo è incostituzionale in quanto pena edittalmente perpetua
È
qui in gioco la dimensione statica dell’ergastolo, quale pena
determinata in astratto dal legislatore (edittalmente, come dicono
i giuristi) e che il giudice è chiamato a infliggere. È la sua
perpetuità a rivelarne l’incostituzionalità, sotto svariati
profili.
[1]
Violato è, innanzitutto, l’art. 27, comma 3, Cost., nella parte in cui
prescrive che le pene «devono tendere alla rieducazione del condannato». Una
pena senza fine esclude a priori la possibilità stessa della
risocializzazione, richiedendosi per tale scopo – quale condizione necessaria,
anche se non sufficiente – la temporaneità del regime punitivo.
[2]
L’ergastolo si rivela incostituzionale anche in quanto pena fissa, dove
durata minima e massima vengono a coincidere. E la cui applicazione è
rigidamente imposta dalla legge per determinate fattispecie di reato, autonome o
circostanziate. Il disegno costituzionale della pena è ostile alle pene fisse.
Impedendo di adeguare la risposta punitiva all’entità del fatto e alle
condizioni personali del reo, esse eludono il principio di eguaglianza che
pretende trattamenti puntivi ragionevolmente differenziati. Ostacolando una
individualizzazione della pena, esse eludono anche il principio della
responsabilità penale personale e la finalità rieducativa della pena, che
pretendono una misura sanzionatoria commisurata alla specificità e unicità
della persona colpevole.
[3]
La perpetuità dell’ergastolo è anche causa normativa di una peculiare
disparità di trattamento, lesiva dell’art. 3 Cost.: l’effettiva lunghezza
della pena inflitta non dipende dalla gravità del reato, ma dalla durata della
vita del condannato. L’intrinseco connotato retributivo della pena, nonostante
l’identica colpevolezza, finisce così per dipendere dal caso. Esemplifico:
benché autori dello stesso delitto e per questo condannati alla medesima pena
dell’ergastolo, il reo sessantenne al massimo sconterà (prevedibilmente) una
ventina d’anni della pena irrogata, mentre il reo ventenne potrà scontarne
(prevedibilmente) molti di più. Né vale replicare che ciò può accadere per
qualsiasi altra pena e indipendentemente dall’età del condannato: in realtà,
quando la pena è temporanea (e lo sono tutte, tranne l’ergastolo) il suo
massimo edittale funge da limite alla sofferenza eguale per tutti. Limite
comune che è invece assente nella pena del carcere a vita, la cui afflittività
potrà misurarsi - secondo i casi – in mesi, anni, decenni.
[4]
In quanto pena perpetua, l’ergastolo appare incompatibile anche con il divieto
di «trattamenti contrari al senso di umanità» (art. 27, comma 3, Cost.). Ciò
è vero ora più di allora. Se nel 1930, all’entrata in vigore dell’art. 22
c.p., l’attesa di vita media corrispondeva a circa cinquant’anni, questa è
oggi proiettata verso gli ottant’anni: un rinnovato orizzonte temporale che può
tradursi in un carico afflittivo per il condannato all’ergastolo radicalmente
diverso (e ben più pesante) di quanto fosse in passato. A questa eccedenza quantitativa
si cumula ormai un’eccedenza sanzionatoria qualitativa dovuta ai
persistenti livelli di sovraffollamento carcerario, in ragione dei quali
l’Italia è condannata da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo
per violazione dell’art. 3 CEDU (divieto di tortura e di trattamenti inumani e
degradanti).
[5]
L’ergastolo è incostituzionale anche per violazione dell’art. 27, comma 4,
Cost., che vieta incondizionatamente la pena di morte. Carcere a vita e pena
capitale hanno entrambe una comune natura eliminativa: con l’ergastolo,
infatti, lo Stato si prende la vita di una persona, anche se non gliela toglie,
perché la priva di futuro e la rimuove dal consorzio umano. Non a caso, in
Francia, si parla per l’ergastolo di «ghigliottina secca» e c’è chi ne
propone il cambio di nome in «pena di morte viva». E così è stato
storicamente, quando l’ergastolo si affermò non come alternativa umanitaria
alla pena capitale ma per ragioni di efficienza, ritenendosi l’estensione del
carcere a vita ben più afflittiva dell’intensità della pena di morte
(Beccaria). Della pena capitale l’ergastolo ripete la feroce esemplarità, in
nome di esigenze collettive di difesa sociale, che strumentalizzano la persona
del reo per l’affermazione di obiettivi generali. Così negando il principio
costituzionale della dignità umana (che vede nell’uomo un fine e mai un
mezzo).
6.
L’ergastolo tra CEDU e Costituzione
Riavvolgo
il nastro che avete fin qui pazientemente ascoltato. La legge definisce
l’ergastolo come una pena perpetua. Questa sua connotazione è, a un
tempo, esclusiva e necessaria. Ed è proprio in ragione di questa sua natura che
l’ergastolo (tutti gli ergastoli) presenta – a mio avviso – le
criticità costituzionali illustrate. Secondo me, la Corte costituzionale lo sa.
Non a caso, nella sua giurisprudenza, cambia schema di gioco. Sposta infatti il
suo sindacato dalla dimensione statica dell’ergastolo (la sua
previsione legislativa e la sua irrogazione giudiziaria) al momento dinamico del
trattamento penitenziario cui l’ergastolano è sottoposto. Perché solo lì è
possibile giocare la carta del beneficio penitenziario (la liberazione
condizionale) che interrompe una pena altrimenti perpetua. Così facendo, però,
il Giudice delle leggi fa un mestiere che non è il suo. La Corte
costituzionale, infatti, è giudice di norme (ex art. 134 Cost.). Nei
confronti dell’ergastolo, invece, ha sempre espresso un giudizio su un fatto
peraltro ipotetico (l’eventuale accesso dell’ergastolano alla
liberazione condizionale), evitando così di pronunciarsi sulla vigente disposizione
che parla, testualmente, di «pena perpetua» (art. 22 c.p.). Così, invece
di sindacare il testo legislativo impugnato, ha finito per giudicare della sua
occasionale disapplicazione. Con questa strategia argomentativa, tuttavia, è
necessario misurarsi. E non solo perché praticata dai giudici costituzionali e
– a ruota – dalla Cassazione penale. Essa, infatti, è ora avallata dalla
Corte europea dei diritti dell’uomo, anche nella recente sentenza della Grande
Camera, Vinter c. Regno Unito, 9 luglio 2013, che ha escluso
l’incompatibilità tra il divieto di trattamenti inumani e degradanti (art. 3
CEDU) e il carcere a vita, a condizione che l’ordinamento preveda «sia una
possibilità di liberazione che una possibilità di riesame» dei motivi che
legittimano la prosecuzione dell’esecuzione dell’ergastolo. Dunque, sarebbe
convenzionalmente illegittima solo «una pena perpetua non riducibile» nella
sua durata, perché negherebbe il diritto alla speranza. La Corte EDU ricorre
così a un ambiguo ossimoro (giuridico), unendo due concetti tra loro
contraddittori: pena perpetua riducibile è come dire caos calmo,
brivido caldo, disgustoso piacere, copia originale. Formule suggestive, ma
rinneganti. Piaccia o meno, da questo punto di vista l’Italia è in regola con
la legalità europea, tanto che la giurisprudenza della nostra Corte
costituzionale è citata adesivamente nella sentenza della Corte di Strasburgo.
In Italia, infatti:
[1]
l’ergastolo comune nasce come pena perpetua, ma smette di esserlo nel caso di
concessione della liberazione condizionale all’ergastolano;
[2]
l’ergastolo ostativo nasce già come pena perpetua riducibile, perché
attraverso la collaborazione fruttuosa con la giustizia l’ergastolano può
accedere alla liberazione condizionale. Tutto a posto, allora? Chiariamo
subito un punto. La CEDU fissa uno standard di tutela che rappresenta il
minimo denominatore comune tra gli Stati aderenti al Consiglio d’Europa. Molti
dei quali non contemplano neppure la pena dell’ergastolo (Andorra,
Bosnia-Erzegovina, Croazia, Spagna, Norvegia, Montenegro, Portogallo, San
Marino, Serbia). Mentre altri, invece, condannano a un ergastolo senza alcuna
concreta possibilità di interromperne l’esecuzione (è il caso della Gran
Bretagna, che per questo è condannata). Ecco perché, se lo standard europeo
è inferiore a quello garantito dal diritto nazionale, è quest’ultimo che
dovrà essere preferito (ex art. 53 CEDU). E’ quanto accade, in tema di
ergastolo, per l’Italia: la nostra Costituzione, infatti, è più esigente
della CEDU, perché impone alla pena un vincolo di scopo - che la Convenzione
europea non contempla – respingendo ogni trattamento del detenuto che non
realizzi compiutamente la finalità rieducativa. Esemplifico: quando si legge
nella sentenza Vinter c. Regno Unito che «il semplice fatto che una pena
della reclusione a vita possa in pratica essere scontata integralmente non la
rende una pena non riducibile», cioè illegittima, questa è un’affermazione
che la nostra Corte costituzionale non potrebbe ripetere.
7.
L’ergastolo comune – nella sua dimensione dinamica – resta pena perpetua
Guardiamo
allora al carcere a vita nella sua dimensione non più statica ma dinamica.
Concentriamoci dunque sull’ergastolo non più come pena ma come
trattamento. Nell’analisi, separerò l’ergastolo comune da quello ostativo,
perché differenti sono i problemi da affrontare. Muovo dal regime
dell’ergastolo comune (ex art. 22 c.p.). A mio avviso, la possibilità
che la sua esecuzione sia interrotta dalla concessione all’ergastolano della
liberazione condizionale non fa venir meno la perpetuità della pena. Ciò è
vero, innanzitutto, sul piano fenomenico. Alla data del 31 dicembre 2012, il
numero di condannati all’ergastolo ammontava a 1581, molti reclusi da oltre 26
anni, altri addirittura da più di 30 anni (che è la durata massima delle pene
detentive): «stanno o non stanno scontando la pena dell’ergastolo, queste
persone che […] sono ancora in carcere? O dobbiamo aspettare che muoiano in
galera per accertare che stanno scontando la pena a vita?» (Anastasia-Manconi).
Di più. Come in un mondo capovolto, la stessa soglia temporale di accesso alla
liberazione condizionale può concretamente sbarrare le porte in uscita dal
carcere a vita. Trattasi, infatti, di un termine (26 anni di pena scontata,
riducibili a 21) che prescinde dall’età dell’ergastolano il quale, se
condannato in età avanzata, mai riuscirà a raggiungerla. In simili
casi, il beneficio della liberazione condizionale è per forza di cose
inoperante. Che la liberazione condizionale non muti la pena perpetua in
temporanea è anche vero sul piano giuridico. La possibilità per il condannato
di accedere al beneficio è solo una speranza, non un automatismo. Scontati gli
anni di pena prescritti dalla legge, l’ergastolano può essere ammesso
alla liberazione condizionale se il giudice ne attesta il «sicuro ravvedimento»
(art. 176, comma 1, c.p.). A tal fine, non è sufficiente la precedente condotta
in carcere, né l’essersi adoperato a rimuovere le conseguenze dannose del suo
reato. Con una sonda calata nel profondo della coscienza dell’ergastolano, il
giudice è chiamato a verificarne la conversione psicologica, il riscatto
morale, il pentimento sincero e profondo, la trasformazione ideologica,
addirittura la propensione verso una nuova visione della vita (sto citando dalla
relativa giurisprudenza di Cassazione). Si tratta di uno scavo nel sottosuolo
individuale a rischio di arbitrio nei suoi esiti, con conseguenze per
l’ergastolano ben più insostenibili che per ogni altro condannato: perché
solo nel suo caso, la concessione (o meno) del beneficio segna la differenza che
passa tra la vita e la morte dietro le sbarre o fuori dal carcere.
8.
La metamorfosi dell’ergastolo comune in pena indeterminata
Altro
profilo d’incostituzionalità. Prendiamo per buona la tesi secondo cui, grazie
alla liberazione condizionale, l’ergastolo comune perderebbe la propria natura
di pena perpetua. Quale sarà, allora, la sua forbice edittale? Risulterà
compresa tra una durata minima stabilita dalla legge (26 anni) e una durata
massima suscettibile, invece, di protrarsi nel tempo fino alla morte del
condannato. In altre parole, assistiamo alla kafkiana metamorfosi
dell’ergastolo da pena perpetua a pena indeterminata nel massimo. Ma le
pene dalla durata massima indeterminata sono illegittime perché lasciano il reo
in balia dell’autorità statale, giudiziaria prima e penitenziaria poi. E,
infatti, il principio costituzionale di stretta legalità penale obbliga il
legislatore a determinare tutti gli elementi costitutivi del reato,
dosimetria sanzionatoria compresa. E’ violato, dunque, l’art. 25, comma 2
Cost.
9.
La condizione dell’ergastolano ostativo
Rispetto
a quella dell’ergastolano comune, la condizione dell’ergastolano ostativo si
rivela – se possibile – ancora peggiore. Il primo, infatti, ha almeno il
diritto a che il protrarsi della pretesa punitiva dello Stato sia riesaminato,
ai fini dell’accesso possibile ai benefici extramurari previsti
dall’ordinamento penitenziario. Il secondo, invece, non ha neppure tale
diritto perché – in assenza di collaborazione – quegli stessi benefici
penitenziari gli sono preclusi per legge. Secondo la legge gli ergastolani
ostativi «sono colpevoli due volte» (Compagna): per aver commesso un reato
gravissimo (incluso nell’elenco dell’art. 4-bis ord. penit.) e per
non aver collaborato alle indagini (ai sensi dell’art. 58- ter ord.
penit.). E poiché spesso la condanna al 4-bis è l’anticamera
dell’accesso al regime detentivo differenziato dell’art. 41-bis, gli
ergastolani ostativi finiscono così per subire «un fenomeno di triplice
schiacciamento» (Valentino) perché espropriati della propria vita in
quanto ergastolani, privati di ogni residua speranza in quanto ostativi,
stralciati dalle normali regole del trattamento penitenziario in quanto
sottoposti al regime del c.d. carcere duro. Per loro e solo per loro,
l’ergastolo è una pena effettivamente perpetua. La loro condizione è di
coloro che «non sono ancora morti ma non sono più vivi: per loro non vale la
consolazione che finché c’è vita c’è speranza» (Sofri). Eppure la Corte
costituzionale, più volte chiamata a valutare la legittimità dell’ergastolo
ostativo, ha sempre respinto come infondate le relative eccezioni. Per un verso,
ha circoscritto la portata dell’art. 4-bis escludendone
l’applicazione nei casi in cui la collaborazione sia impossibile, irrilevante
o comunque inesigibile (cfr. le sentenze nn. 357/1994 e 68/1995, 189/1995,
89/1999). Per altro verso, ha negato che la disciplina censurata impedisca in
maniera automatica l’ammissione ai benefici penitenziari: tale preclusione,
infatti, dipende pur sempre da una scelta – libera e reversibile – rimessa
al condannato di collaborare o no con la giustizia (cfr. sentenze nn. 273/2001 e
135/2003). Questo è il punto cruciale, di cui dobbiamo misurare la tenuta
costituzionale: cercherò di revocarla in dubbio illustrando una serie di
argomenti in dissenso.
10.
L’argomento dell’errore giudiziario
Primo
argomento. La disciplina dell’ergastolo ostativo presuppone un ordinamento
penale che sia esente dall’errore giudiziario, senza eccezione alcuna. E’ un
irrealistico postulato, più vicino all’atto di fede che alla razionalità del
diritto. Il rischio di condannare un innocente è sempre possibile, dunque
nessuno dovrebbe essere punito in modo così definitivo: chi, infatti, può
escludere che, tra gli ergastolani ostativi, «ce ne siano che non hanno niente
da confessare, nessuno da denunciare?» (Sofri). Non vale applicare il calcolo
delle probabilità per dimostrare che la possibilità di un errore giudiziario
sarebbe di proporzioni modeste: sarà tale se rapportata alle pene medie, ma
diviene infinita nei confronti della pena massima dell’ergastolo. Né vale
obiettare che la giustizia umana è per sua natura imperfetta, perché «questo
malinconico apprezzamento è tollerabile soltanto per le pene ordinarie», ma
diventa invece «scandaloso» (Camus) riguardo a sentenze che condannano a
morire dietro le sbarre. L’ottusità sottesa all’art. 4-bis si
traduce in un vero e proprio paradosso. Lo dico così: se sei condannato
all’ergastolo ostativo, devi augurarti di essere davvero colpevole (perché
solo il colpevole può utilmente collaborare). Ma se malauguratamente sei
innocente, purtroppo sarà peggio per te: dovrai, infatti, rassegnarti a morire
murato vivo.
11.
L’argomento dell’irrilevanza del percorso rieducativo
Il
secondo argomento contro il regime del 4-bis concerne la scelta
legislativa di fare della collaborazione con la giustizia la cruna dell’ago
attraverso il quale l’ergastolano deve passare, per sperare
nell’interruzione di una detenzione altrimenti senza fine. Siamo alla presenza
di una vera e propria presunzione legale: l’atteggiamento non collaborativo è
assunto a indice della permanente pericolosità sociale del condannato, della
persistenza della sua colleganza con l’ambiente criminale esterno,
dell’assenza di ravvedimento del reo e della sua irrecuperabilità sociale.
Una
simile rigidità normativa cancella, con un tratto di penna, la finalità
rieducativa che la Costituzione impone al trattamento penitenziario da cui
discende «il diritto » (sentenza n. 204/1974), valido «per tutti i condannati
a pena detentiva, ivi compresi gli ergastolani » (sentenza n. 274/1983, ma già
prima nella sentenza n. 274/1974), a che sia riesaminato il protrarsi della
pretesa punitiva dello Stato. Nel caso della condanna all’ergastolo ostativo,
infatti, la pretesa punitiva resta tale e quale indipendentemente dai
risultati del trattamento, perché ciò che conta è esclusivamente la
collaborazione del reo con la giustizia. Ma un regime giuridico che annulli gli
effetti di una rieducazione effettivamente realizzatasi non può ritenersi
costituzionalmente legittimo. L’irrilevanza dell’eventuale positiva
evoluzione della personalità del reo lascia così il posto al ritorno, in
grande stile, delle esigenze di prevenzione generale e di difesa sociale della
pena, a scapito della sua finalità rieducativa annichilita, de jure e de
facto.
12.
L’argomento del divieto di tortura
Il
terzo argomento chiama in causa il divieto di tortura, che l’Italia è tenuta
a rispettare come vincolo costituzionale (art. 13, comma 4, Cost.), quale
obbligo internazionale pattizio (art. 117. comma 1, Cost.) e quale principio di jus
cogens vincolante l’intera comunità internazionale (art. 10, comma 1,
Cost.). Della definizione di tortura, dettata nell’art. 1 della pertinente
Convenzione ONU del 1984, ratificata dall’Italia nel 1989, viene in rilievo la
parte in cui si vieta «ogni atto con il quale viene intenzionalmente inflitto
ad una persona un grave dolore o sofferenza, fisica o mentale, per propositi
quali ottenere da essa […] informazioni o confessioni». La definizione sembra
il calco del «sistema di condizionamento della libertà di autodeterminazione»
che preme sull’ergastolano ostativo, influendo «sulla spontaneità dei suoi
atteggiamenti oltre che sulla credibilità delle sue dichiarazioni » (Barani).
Infatti, lo «scambio» tra il binario morto di una reclusione senza fine e
sempre uguale e il binario di un diverso regime detentivo, viene attivato esclusivamente
da una scelta di collaborazione fruttuosa. La giurisprudenza costituzionale
parla, in proposito, di una scelta «che il detenuto è libero di non adottare»
ed ha per questo escluso che l’art. 4-bis «costringa alla delazione
attraverso la minaccia di un trattamento punitivo deteriore» (sentenze nn.
39/1994). Ne siamo proprio sicuri? Davvero è libero il soggetto posto davanti
all’alternativa tra morire in una cella (di cui viene gettata via la chiave) o
sperare in una detenzione non più perpetua? Di quale libertà stiamo parlando,
quando all’assenza di benefici penitenziari del 4-bis si aggiunge anche
l’estrema durezza del regime detentivo differenziato del 41-bis? Si fa
ma non si dice: l’ergastolo ostativo serve a produrre delatori ovvero a
imporre un supplizio a chi testardamente continua a tacere.
13.
L’argomento dell’irragionevolezza normativa
È
come se il legislatore non cogliesse la differenza tra il premiare la
collaborazione e il sanzionare la non collaborazione: mentre la prima può
essere legittimamente incentivata dal diritto, la seconda invece finisce per
trasformare un diritto nel suo opposto: «dal diritto al silenzio garantito nel
processo penale di cognizione si passa all’obbligo di collaborare nel processo
di esecuzione della pena» (Varraso). È un’inversione di segno che la
Cassazione avalla, ritenendo che il diritto di tacere valga solo dentro le aule
di giustizia ma non varchi mai la soglia del carcere (cfr. Cass., sez. I pen., Musumeci,
7 novembre 2012). Ciò, però, non giustifica la presunzione di una mancata
rieducazione per il mero persistere di una condotta non collaborante, delle cui
motivazioni la legge si disinteressa totalmente. Eppure alcuni silenzi possono
essere dettati da ragioni non tutte necessariamente illecite. E’ il caso di un
silenzio ricollegabile al concreto timore di ritorsioni irrimediabili a danno
dei propri familiari. O al rifiuto della prospettiva di «mettere oltre che se
stesso la propria famiglia, a distanza di venti o trenta anni – figli, figli
dei figli – nella catastrofe della “protezione”, del cambiamento
d’identità, di luogo, di vita, nella paura» (Sofri). Mi domando se davvero
una simile trama normativa sia in grado di superare un serio sindacato
costituzionale di ragionevolezza.
14.
Futuro anteriore
Chiudo,
finalmente. Ho fin qui condotto un ragionamento giuridico. Ma se le ragioni
strettamente costituzionali che vi ho illustrato vi appaiono ancora
insufficienti, ho un ultimo asso nella manica. L’argomento più invincibile e
commovente contro l’ergastolo si trova nel dizionario della lingua italiana.
Come ha scritto, anni fa, Adriano Sofri:
«Volete
tenere l’ergastolo? Allora dovrete abolire il futuro anteriore.
“Un
giorno, quando avrò finito di…”.
Una
lingua che conserva il futuro anteriore non merita l’infamia dell’ergastolo».
Padova, Carcere “Due Palazzi”, 15 novembre 2013