Un
giorno particolare
Abbiamo
incontrato una classe di ragazzi sordomuti, il loro silenzio non lo sentivo,
certo può sembrare un controsenso, la realtà è che vederli comunicare con il
loro alfabeto è stato straordinario
di
Lorenzo Sciacca
Grazie
al progetto di confronto tra scuola e carcere, che vede entrare migliaia di
studenti qui dentro ogni anno, c’è stato un giorno speciale, un giorno che
ricorderò per sempre. Questo progetto ha come scopo portare a conoscenza che il
carcere è una parte della società e non qualcosa che riguarda solo i
predestinati ad essere cattivi. Entrare in carcere può capitare a tutti,
nessuno se ne può sentire escluso. Confrontarsi con gli studenti porta a
rivedere il proprio vissuto cercando di capire il perché di certi
comportamenti. Per esempio io ho fatto una scelta di vita e credevo che tutto
fosse legato all’aspetto economico, visto che i miei reati sono contro il
patrimonio, ma la realtà è molto diversa. Ci sono problemi che mi porto dietro
fin da bambino, ma il punto del mio discorso non è questo. Ieri ho capito
quanto sia importante la comunicazione, il suo valore è immenso. In mattinata
è venuta una classe di studenti sordomuti. Il loro silenzio non lo sentivo,
certo può sembrare un controsenso, la realtà è che vederli comunicare con il
loro alfabeto è stato straordinario, la sensibilità che esprimevano e che mi
hanno trasmesso è stata molto forte. Finalmente ho la piena consapevolezza che
la comunicazione, il mettersi a confronto è possibile farlo con tutti. Penso a
tutte quelle persone che sentono ma che fanno finta di non sentire, di non
sentire tutte quelle urla di dolore che possono levarsi nella società, e quando
dico società includo anche il carcere perché è davvero parte integrante di
essa. Non avrei mai creduto di poter raccontare la mia storia a ragazzi così,
è stato molto difficile perché ogni mia singola parola veniva tradotta da un
professore e la paura di andare veloce o magari perdere il filo era tanta. La
realtà è che si sono dimostrati ottimi ascoltatori, ragazzi normalissimi e
forse più sensibili. Ho passato una vita intera ascoltando solo i miei
sentimenti di vendetta e non mi fermavo mai a guardarmi attorno, non pensavo mai
al prossimo, il mio ego era l’attore principale. Mi sento in dovere di
ringraziare,la Redazione di Ristretti Orizzonti per questa opportunità che mi
sta dando, e anche se ho il fine pena lontanissimo, nel 2037, la mia crescita
interiore mi dà la forza di andare avanti in posti bui come è oggi il carcere,
dove in molti casi si spegne anche la speranza di un futuro diverso. Ringrazio
le scuole che partecipano, e tutti gli studenti che grazie alle loro domande, a
volte anche scomode, mi permettono di riflettere, di confrontarmi con me stesso
e con le persone che mi circondano. Sono convinto che se le persone, che si
sentono potenti perché hanno in mano il potere di decidere del destino di tanta
gente, assistessero a un incontro, ne guadagnerebbero in umanità. Non
confondete le mie parole, non sono in cerca di clemenza, questo progetto la
prima cosa che provoca è di farti assumere la tua responsabilità per quello
che sei o che hai fatto, anche se viviamo in una società che poco ha di umano,
basti pensare che per affrontare i problemi delle carceri si pensa solo a
costruire altri “contenitori sociali”.
Una
attività anch’essa molto particolare
Ormai
sono anni che giro le carceri, ho 37 anni di cui 17 scontati dietro a muri e
sbarre. La mia è stata una scelta di vita dovuta a un profondo odio che provavo
verso le istituzioni e la società che mi circondava. Avevo una visione della
vita completamente distorta, causata dal fatto che questi posti li conosco dalla
nascita avendo avuto un padre carcerato fin da quando ero piccolo. Questo mi ha
portato a sentirmi a disagio nel rapportarmi in ogni contesto sociale, le regole
me le facevo io a mio piacimento. Ma dopo tutte le carcerazioni che ho fatto, può
essere che non mi siano servite a capire che stavo buttando via la mia vita?
Oggi mi ritrovo a scontare una pena di 30 anni, il mio fine pena sarà nel 2037.
Perché devo arrivare solo oggi a capire, o quanto meno, a chiedermi il perché
di tutto questo? Ho girato tante carceri nella mia vita, nord, sud, centro ma
non ho mai avuto stimoli per voler cambiare. Oggi mi ritrovo a Padova e mi
ritengo, paradossalmente, fortunato ad essere qui. Faccio parte della redazione
di Ristretti Orizzonti. Ma cos’è questa grande fortuna che ho? È dovuta al
fatto che oggi ho intrapreso un percorso sulla mia persona che mi sta portando a
chiedermi cose che mai avrei pensato. Nella nostra rassegna stampa ho letto un
articolo che ha scritto Agnese Moro, figlia dello statista ucciso dalle Brigate
Rosse per “Famiglia Cristiana”. È sorprendente che una vittima con una
storia pesante come la sua possa parlare del reinserimento di persone che hanno
commesso errori. Leggere le sue parole fa riflettere. Credo che per una vittima
parlare di reinserimento per il detenuto, di dignità e del fatto che nessuno
debba essere buttato via, dimostri una grande consapevolezza del dolore che le
è stato provocato e nello stesso tempo la forza di decidere di non ripagare
questo dolore con altro dolore. Ma quello che mi chiedo io è se con la
giustizia che abbiamo in Italia sia possibile non buttare via nessuno.
Assolutamente no. La risposta è semplice perché in Italia abbiamo condanne che
come fine pena hanno il 9999: l’ergastolo. Non è possibile rieducare una
persona con una condanna a vita. Anche se questa persona facesse un percorso
rieducativo, di effettivo reinserimento, a cosa servirebbe portarselo nella
tomba? Chi ne usufruirebbe?
Un
altro problema che abbiamo in Italia è che queste attività che potrebbero
portare a un cambiamento è raro trovarle nelle carceri. Come si spiega il fatto
che io dopo tanti anni di carcere solo oggi riconsidero quelle che sono state le
mie scelte e arrivo alla consapevolezza di avere commesso tanti errori? Io ero
convinto che facendo dei reati contro il patrimonio vittime non ne avevo, la
realtà è che ne ho e parecchie. Grazie al progetto di confronto tra la Scuola
e il Carcere che abbiamo in Redazione incontriamo migliaia di studenti, ed è
proprio questo progetto che mi aiuta a vedere una possibilità di vita diversa
da quella vissuta finora. Trovarsi di fronte a studenti, raccontare come sei
arrivato a commettere dei reati, rispondere alle domande, a volte scomode, ti
mette in gioco, apre la tua mente a riflessioni che mai avresti potuto fare, da
solo e buttato in sezione a fare nulla. Si parla tanto di costruire nuove
carceri per combattere il sovraffollamento, vista la condanna dall’Europa che
si avvicina, ma non è questo il punto. Possono costruire altri palazzi di
cemento vicino a discariche e nelle periferie della città, ma se non si pensa a
un carcere “utile” non si risolverà mai il vero problema che è quello del
reinserimento. Io provo a immaginarmi un progetto come il nostro all’interno
di un carcere minorile. Sono convinto che troverebbe un’utilità formidabile,
questa sarebbe vera prevenzione. Possibilità, credo che questa parola debba
entrare a far parte della vita di ognuno di noi, anche di chi come me ha
commesso errori, perché prima di tutto devo partire da me per volermi dare una
possibilità di riscatto, ma poi se all’esterno mi trovo un altro muro, come
quelli che oggi mi circondano, a cosa sarà servito il mio percorso di
cambiamento?
Oggi
ho per la prima volta capito che tutti hanno del bene e del male insieme
di
Massimiliano B., Liceo Galilei
di Caselle di Selvazzano
Sono
Massimiliano, uno studente del liceo scientifico Galileo Galilei, e il 13
gennaio di quest’anno sono stato nel carcere Due Palazzi di Padova per il
progetto carcere. Mi sento in dovere di ringraziare tutte le persone che oggi
hanno preso parte al progetto, volontari e detenuti, perché mi hanno donato
un’esperienza unica di cui farò tesoro per tutta la vita. Per carattere, sono
sempre stato molto duro verso gli altri, tendendo a giudicare molto severamente
quelli che secondo me, non rispettavano i valori fondamentali per una vita
serena in società. Credevo di avere un elevato e ben fondato senso di
giustizia, osservando sempre le regole e guardando male chi non faceva
altrettanto. Credevo di sapere bene dove fosse il male, standone alla larga e
promettendomi di non corrompere mai i miei valori e ciò in cui credevo. Credevo
quindi di essere una persona giusta, che perseguisse il bene. Credevo di essere
maturo e di avere una concezione della vita abbastanza chiara. Ma mi sbagliavo.
Oggi tutto quello in cui ho sempre creduto è vacillato, certi valori (o almeno
quelli che pensavo che lo fossero) sono crollati con così tanta rapidità da
lasciarmi davvero sorpreso. Senza avere alcun tipo di informazione o alcun tipo
di autorità, vedevo le persone in carcere come “gente che se l’è cercata,
che poteva pensarci prima”. Lo facevo forse per comodità, o forse per
mancanza di consapevolezza. Sentendo le vostre storie e toccando con mano, anche
solo per un paio d’ore, il vostro mondo (che è anche il nostro, ma spesso
preferiamo non vedere e non parlare di quanto si soffra in carcere, di quello
che succede lì dentro, come se fosse appunto un posto lontanissimo che mai e
poi mai ci toccherà vedere) ho capito che le persone chiuse in carcere nutrono
sentimenti come i miei, anzi decisamente più profondi dei miei, interrogandosi
sui miei stessi pensieri, avendo la mia stessa voglia di avere una vita ricca e
felice, ma con uno spirito diverso e forse con un’intenzione e una
determinazione più forte di “noi gente libera”. Le vostre storie hanno un
inizio triste, ma i migliori di voi hanno voglia di porvi rimedio, aiutando una
società che però non vi garantisce la certezza di poter inseguire davvero i
vostri sogni, qualunque essi siano. Oggi ho per la prima volta capito che tutti
hanno del bene e del male insieme, e che bisogna nutrire la parte di bene che
ognuno di noi ha, e so che questa potrebbe sembrare una conclusione piuttosto
ovvia, ma per me, senza il vostro aiuto, non sarebbe stato nemmeno lontanamente
concepibile. La mia idea di carcere è cambiata, non voglio (non vorrei) che
fosse un luogo che impoverisce le persone, che le fa crescere nel rancore e fa
passare la voglia di vivere. Penso che dovrebbe diventare un posto in cui la
gente prende coscienza di sé e dove ha la possibilità di rimediare ai propri
errori. La legge non permette ancora questo, ma spero che le cose cambino in
fretta. La mia domanda su che cos’è la giustizia si è di nuovo aperta, ora
ho più materiale su cui lavorare e le idee più chiare su cosa dovrò
rispondere. Infine, ringrazio i vostri sforzi per aver aiutato persone come me a
cambiare idea, per avermi fatto aprire gli occhi e per avermi messo a conoscenza
di un mondo che avevo ignorato. Grazie, per il vostro tempo.
In
carcere per parlare del senso della vita
Prendete
una classe di studenti delle superiori, fatela entrare in carcere, respirare
l’aria triste della privazione della libertà, lasciare fuori quei cellulari
da cui i ragazzi non si separano mai, attraversare dieci cancelli e poi arrivare
a incontrare alcuni detenuti. Ascoltare le loro testimonianze, per la prima
volta provare a guardare la realtà “con gli occhi del nemico” e capire che
il nemico non è così diverso da noi. Riflettere sul male da cui ognuno di noi
vorrebbe essere immune, e uscire da questa esperienza con la consapevolezza che
il carcere può diventare anche il luogo di un confronto profondo e importante
tra la società e chi ne è stato escluso perché ha rotto il patto sociale. A
raccontarci questo percorso di conoscenza molto particolare è una intera
classe, che ha deciso di fissare sulla carta emozioni, riflessioni, ragionamenti
nati da un progetto, che a Padova e nel Veneto porta ormai migliaia di ragazzi a
parlare di legalità in carcere.
a
cura della Redazione
L’esperienza
che abbiamo fatto è servita a riflettere sul valore della libertà
lettera
degli alunni della 4aEA dell’Istituto tecnico Cardano
di
Piove di Sacco
Il
16 dicembre la classe 4EA dell’istituto tecnico industriale “Cardano” di
Piove di Sacco ha fatto visita al penitenziario “Due Palazzi” in occasione
del progetto “Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere”.
Abbiamo iniziato il progetto alla fine di ottobre; la nostra insegnante ha
introdotto l’argomento partendo dal programma di storia, parlando
dell’illuminismo, dei personaggi importanti di questa corrente storico –
culturale, soffermandosi prevalentemente sulla figura di un uomo che fino a quel
momento sapevamo era colui che aveva scritto “Dei delitti e delle pene”.
Cesare Beccaria rappresentava per noi solo un personaggio da studiare, uno che
aveva affrontato problemi delicati così come facevano generalmente i grandi
filosofi e uomini di cultura in un’ epoca in cui era possibile parlare di
tutto, in cui era possibile esprimere il proprio punto di vista, mettendo in
risalto la ragione, l’idea, il pensiero libero e indipendente pur di uscire da
quella condizione di minorità che tanto infastidiva gli illuministi. Ma Cesare
Beccaria e il suo pensiero hanno dato vita ad un percorso che ha messo in piedi
questo magnifico progetto, da semplice esponente dell’illuminismo italiano è
diventato il simbolo del nostro percorso scolastico che ha avuto il suo culmine
quel 16 dicembre, giorno in cui le nostre vite si sono confrontate con quelle di
persone che mai avremmo pensato di incontrare nel nostro cammino, nella nostra
esperienza di studenti, di giovani che spensieratamente vivono la propria
quotidianità tra studio, amici, sport e famiglia. Qualche settimana prima la
nostra insegnante ci ha chiesto di rispondere a delle domande riguardo al
carcere, i detenuti e la severità delle pene. Ognuno ha espresso le proprie
idee, molto liberamente abbiamo scritto quello che pensavamo, quello che
sapevamo perché sentito dire, abbiamo espresso sentimenti di rabbia, di
rancore, abbiamo descritto la “pena ideale”, ma mai avremmo pensato a una
svolta simile, quella svolta che ci ha fatti rinascere nella testa, nelle idee,
nei pensieri e anche nell’anima. Il 16 dicembre siamo partiti dal nostro
istituto convinti di fare la solita uscita didattica per poi ritornare a casa e
raccontare della giornata trascorsa al di fuori delle mura scolastiche. Invece
la nostra giornata si è trasformata in un momento di riflessione, di pausa
interiore, di scoperta. Ci siamo ritrovati all’interno di un carcere. L’idea
che abbiamo sempre avuto del carcere è quella di un luogo buio, angusto,
freddo. Appena entrati, quella sensazione di chiusura e oppressione non ci ha
colpiti particolarmente; guardare quelle mura e quei cancelli altissimi con le
guardie del penitenziario appostate lì davanti ci ha fatto subito fare un
paragone, tutti ridendo abbiamo detto: “A parte i cancelli alti non sembra
diverso dalla nostra scuola”; nessuno immaginava ancora la stupidità di quel
paragone. Nel momento in cui ci hanno chiesto di lasciare tutto, i nostri
cellulari, i nostri effetti personali, le nostre carte d’identità, lì
abbiamo provato una strana sensazione, come se ci privassero della nostra vita,
delle cose importanti a cui siamo legati, come se violassero le nostre vite.
Siamo entrati, i cancelli si chiudevano al nostro passaggio; sembrava che un
pezzo della nostra libertà rimanesse fuori, insieme all’aria e al sole che
avevamo appena lasciato alle nostre spalle. Il rumore delle sbarre, i passi
amplificati dall’eco, le guardie sempre pronte ad aprire e chiudere i
cancelli, le videocamere apposte agli angoli del corridoio e poi quello
stridulo, assordante garrito dei gabbiani che volavano alti nel cielo. La loro
presenza sembrava un grande paradosso, il simbolo per eccellenza della libertà
sembrava prendersi gioco di quel luogo così sorvegliato e controllato, laddove
tutto era scandito dalle regole.
La
famosa frase “a me non succederà mai” è solo una frase sciocca
Da
spensierata e scherzosa, quale era stata all’inizio, la nostra visita si stava
trasformando in qualcosa di più serio, tutto diventava più tetro. Attraversare
il corridoio e incrociare gli sguardi dei detenuti, era una sensazione di grande
impotenza; vedere la loro faccia nascosta dalle sbarre, i loro occhi che
guardavano con voracità la “libera gioventù”, ci ha messo addosso
tristezza e angoscia a tal punto che molti di noi non hanno avuto il coraggio di
alzare lo sguardo. In quell’attimo non abbiamo provato paura, ma solo
rispetto, ci siamo sentiti quasi in colpa per essere così fortunati e padroni
della nostra libertà. Ci siamo sentiti spinti dalla curiosità, dalla voglia di
conoscere, di capire meglio, di approfondire un argomento che era iniziato
qualche mese prima con una semplice lezione di storia. Ci hanno condotti nella
biblioteca, ci siamo seduti, mentre i nostri sguardi incrociavano quelli dei
detenuti che stavano lì seduti composti, pronti per raccontare le loro storie.
Abbiamo ascoltato con interesse storie di uomini che minimamente darebbero
l’idea di commettere un crimine. Istruiti, con la voglia di continuare
nonostante tutto, con la volontà di proseguire gli studi per migliorarsi, anche
se per molti di loro questo non servirà a riscattare la libertà ormai persa,
ma sicuramente a dare dignità alla propria esistenza, a trovare spazio nelle
idee, nei pensieri e a dare un senso alla vita, quella vita interrotta, ma che
comunque ha un grande valore e come tale ha bisogno di essere rispettata e
protetta. Lo fanno attraverso questo progetto che ha lo scopo di far rinascere.
Loro rinascono tutte le volte che ci guardano negli occhi, quando intimoriti e
insicuri ci accomodiamo nelle sedie, quando nel nostro sguardo si percepisce la
voglia di libertà, e questa libertà la gustano loro attraverso noi; noi siamo
“gocce di vita”, abbiamo questo grande potere, che fino a quel momento non
sospettavamo minimamente di possedere: abbiamo il potere di far star bene chi,
purtroppo, il bene più grande l’ha perso. Siamo convinti che l’esperienza
che abbiamo fatto è servita a riflettere sul senso della vita, sul valore della
libertà, sugli errori che a volte possono essere fatali, su quelle piccole cose
che hanno un valore immenso e che per noi sono scontate e spesso non riusciamo
ad apprezzare, forse per abitudine. Siamo ritornati a casa sicuramente
rafforzati; qualcosa in noi è cambiato: sicuramente abbiamo accantonato i
pregiudizi e imparato che “condannare” non appartiene al potere umano;
abbiamo imparato che nella vita si può sbagliare e che nessuno è esente
dall’errore, che la famosa frase “a me non succederà mai” è solo una
frase sciocca e che tutti possiamo cadere nelle trappole che la vita ci
costruisce. Abbiamo imparato che il conto va pagato, prima o poi, e che le
responsabilità vanno prese fino in fondo. Vogliamo ringraziarVi perché le
vostre lezioni sono lezioni di vita, una scuola che si apre al mondo e che aiuta
a crescere. Vi auguriamo di godere il più a lungo possibile di questa libertà
che riuscite a respirare attraverso le visite di noi studenti e a noi studenti
di poter accogliere come un dono le vostre testimonianze per poter crescere sani
nella legalità e nella responsabilità. Un caloroso saluto.
È
come se regalassimo ai ragazzi una specie di “sfera di cristallo”
di
Sofiane Madsiss
Credo
che il carcere e la scuola sono lontani e diversi tra di loro, ma condividono lo
stesso fine, l’educazione dell’uomo. Un esempio può essere il progetto che
sta facendo Ristretti Orizzonti, che cercando di coinvolgere le scuole propone
di fatto un’esperienza rieducativa per entrambe le parti. Io credo che avere
un confronto con gli studenti sia una crescita interiore per tutti e due, noi
raccontando le nostre storie è come se regalassimo una specie di “sfera di
cristallo” dove i ragazzi possono vedere un futuro pieno di sofferenza, se si
segue un percorso di vita sbagliata come quello che abbiamo fatto noi. Così
spieghiamo loro che nessuno vuole essere un criminale, ma ci sono tanti motivi
che possono portare a scivolare in comportamenti rischiosi, scelte sbagliate,
bisogno, ostacoli imprevisti, amici inaffidabili possono rovinare la vita di una
persona e di quelli intorno a lei, anche se io ritengo che siamo responsabili
unicamente noi delle nostre scelte e che dobbiamo accettare le conseguenze di
ogni atto, parola e pensiero per tutto il corso della nostra vita. Quello che
non è giusto è che spesso c’è una grave discriminazione nei confronti di
noi detenuti ed ex detenuti, che veniamo visti come dei veri mostri, tutti senza
grandi distinzioni, anche chi ha trascorso solo un breve periodo in carcere.
Dagli incontri con i giovani si potrebbe cercare di fare cambiare questo
pregiudizio verso il detenuto e il significato e il senso della detenzione: noi
cercheremo di ricordargli che è più opportuno pensare che stiamo facendo
ancora parte delle società, anche se abbiamo trasgredito ad alcune regole, e
che sarebbe meglio considerare il nostro tempo in carcere come un continuo con
il tempo trascorso in libertà, pur essendo diverso lo spazio, perché comunque
siamo persone e non solo il reato che abbiamo commesso, e converrebbe a tutti
fare in modo che ci sia data un’opportunità per rialzarci. Per come la penso
io, nessuno è predestinato ad essere e restare quello che era e quello che ha
fatto, l’uomo della pena può diventare diverso dall’uomo del delitto,
ognuno di noi ha sempre la possibilità di valutare se questo presente
costituisce la sua vera realizzazione o potrebbe esserci dell’altro nella sua
vita, se c’è la voglia di continuare esattamente come
prima
o di mettersi alla prova in qualcosa di nuovo. Vorrei dire che se il percorso
fatto fino a un certo punto della
vita ha portato in galera, sicuramente c’è qualcosa da cambiare per ottenere
dei risultati migliori, e questo vale per tutti, perché ognuno ha dentro delle
possibilità, e se una giustizia vendicativa guarda solo a quello che lui era,
ad una giustizia diversa, che a me pare più utile, dovrebbe interessare anche
quello che può essere e chi può diventare. Credo che il grande lavoro con gli
studenti è di spiegargli che non tutti siamo malintenzionati, al contrario ci
sono molti detenuti con tanta voglia di cambiare e di recuperare quella parte di
sé che si è persa sulla strada della vita, di comunicare, di lavorare, di
studiare e di sviluppare nuovi interessi. Per questo io ritengo che abbiamo il
diritto di avere una possibilità di cambiare, di crescere e di tornare a
vivere, e se la società non crede che un uomo possa cambiare dopo avere
riconosciuto prima di tutto con se stesso i proprio errori ed averne pagato il
dovuto prezzo, allora le parole come reinserimento, riabilitazione e recupero
sono solo chiacchiere inutili e argomenti politici vuoti. Penso che la civiltà
di un paese si misura proprio dalla scuola e dalle carceri, e si misurerà
sempre di più quando le scuole smetteranno di essere carceri per i ragazzi che
poi si perdono per strada senza che qualcuno riesca a fermarli, e il carcere
diventerà scuola. Tutti e due infatti devono mirare all’educazione, la scuola
non dovrebbe essere soltanto un luogo di studi, ma anche un posto di confronto
con la realtà della vita, e il carcere dovrebbe essere anch’esso un luogo di
riflessione, di cambiamento e di confronto con la società. Con questa
collaborazione tra due realtà diverse fra di loro si potrebbe cancellare il
pregiudizio che esiste ed è ben radicato nella società verso il detenuto. E
aggiungo che, come si impara dagli esempi positivi, anche dagli esempi negativi
si può imparare e crescere in modo positivo, evitando di cadere negli stessi
errori. Per questo il progetto che facciamo noi di Ristretti Orizzonti con la
scuola si chiama “Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere”
ed è un lavoro di prevenzione del male, perché davvero prevenire è
infinitamente meglio di punire, e anche di curare.
Una
corrispondenza tra una studentessa e un ergastolano ostativo
Trovo
l’ergastolo crudele e vendicativo, e controproducente per la società
Lettera
di una studentessa
Ciao
Carmelo, stamane ho avuto il piacere e la fortuna di incontrarti grazie
all’iniziativa proposta da Ristretti Orizzonti. Il mio intervento
sull’ergastolo c’è stato, anche se con voce tremante, dopo il tuo racconto.
Sono sempre stata un po’ dubbiosa sull’argomento, non ho mai saputo
schierarmi apertamente o averne un’opinione ferrea. Questo perché, nonostante
abbia sempre pensato che l’ergastolo sia esattamente al pari della pena di
morte (se non peggio), la mia parte emotiva ha sempre prevalso un po’. Mi
immedesimavo nei familiari delle vittime e l’ergastolo, da una parte, mi
sembrava la soluzione “migliore”. Ma non ne sono mai stata fermamente
convinta, ed oggi grazie alla tua testimonianza e a quella degli altri detenuti
ho trovato la risposta che cercavo. Sono completamente contraria: oltre a
trovarlo crudele e vendicativo lo trovo anticostituzionale. E soprattutto
controproducente per la società, poiché quest’ultima non ne trae nessun
beneficio. Che fine fanno i sentimenti, la dignità? Chi ha il potere di
privarci della libertà? E’ giusto pagare per i propri errori, ma è
estremamente importante dare la possibilità di riconoscere questi e di
riscattarsi. Ho firmato sul tuo sito contro l’ergastolo, con tutta la speranza
che un giorno le cose possano cambiare. Spero tantissimo che riuscirai a leggere
questa mail, o almeno ad averne notizia. Vorrei dare un abbraccio a Gian Luca
prima di tutti, a te, a Biagio, a Lorenzo, ad Erion, a Qamar e a tutti i
presenti di cui non conosco il nome e purtroppo non abbiamo potuto sentire le
testimonianze. Ricorderò questa giornata per tutta la vita, mi avete fatto
capire che forse, oltre a quella di diventare medico, lavorare insieme a persone
come voi potrebbe essere la mia strada. Tanti cari saluti e un’altra stretta
di mano, stavolta virtuale.
Clara
Lettera
di un ergastolano ostativo
Clara,
mi è difficile risponderti. Non è facile per un lupo cattivo scrivere a una
brava ragazza. Non so neppure da dove cominciare. Ed ho pensato prima di parlare
di me di iniziare a descriverti la mia cella. Io sono in “Alta Sicurezza”. E
ho la fortuna di stare in cella singola. Le celle sembrano degli armadi in
cemento e ferro. Sono divise una dall’altra da uno spesso muro. E hanno un
blindato e un cancello davanti. Ogni blindato ha uno sportello di ferro con una
apertura per passare il mangiare dentro la cella. Poi c’è uno spioncino
rotondo nel muro dalla parte del bagno che consente alla guardia di vedere
l’interno senza essere visti. La mia tomba può misurare tre metri
d’altezza. Due metri e mezzo di larghezza. E tre di lunghezza. Posso fare solo
quattro piccoli passi in avanti e quattro indietro. Nella finestra ci sono
grosse sbarre di ferro, i muri sono lisci. Dentro la mia tomba ho una branda, un
tavolo e uno sgabello. In questa sezione sono tutti detenuti condannati a pene
lunghe. E la maggioranza alla pena dell’ergastolo. Io normalmente mi alzo ogni
mattina alle cinque. E leggo, studio e scrivo per buona parte della mattina. E
poi per buona parte della notte. Quand’ero più giovane per mantenere in forma
il fisico facevo sempre ginnastica. Ogni venti pagine che leggevo facevo una
pausa. Poi mi mettevo a fare venti flessioni. E venti addominali. Uno per ogni
pagina. E dopo ricominciavo a leggere. Adesso però da un paio di anni ho smesso
di fare ginnastica perché mi sembra stupido portare nell’aldilà un fisico
sano e robusto. Sono contento di fare parte della Redazione di “Ristretti
Orizzonti” soprattutto perché ho la possibilità di partecipare al progetto
“Scuola-Carcere” e d’incontrare tanti ragazzi e ragazze. Riguardo alla mia
storia sulla mia infanzia criminale ci tengo che tu sappia che per le mie scelte
di vita non incolpo nessun altro, semplicemente a quel tempo pensavo di non
avere avuto scelta. Clara, credo che le persone non nascano cattive ma hanno
buone probabilità di diventarlo con l’aiuto a volte delle persone
“perbene”. Sono stato in carcere fin da minorenne. Si può dire che ci sono
cresciuto dentro l’Assassino dei Sogni (il carcere come lo chiamo io). Spesso
la società vorrebbe chiudere tutti quelli che commettono reati fra quattro mura
e buttare via le chiavi. Non si rende però conto, forse perché è troppo
stupida per farlo, che molti di loro alla fine usciranno. E poi molti di loro si
vendicheranno di essere tornati in libertà più cattivi di quando sono entrati.
Le prigioni sono fabbriche di odio ed è difficile migliorare le persone con la
violenza e la sofferenza. Clara, adesso smetto di scriverti, ho cercato di non
trasmetterti nessuna malinconia e tristezza come quando scrivo ai miei figli.
Spero di esserci riuscito perché non è facile parlare di carcere senza
amarezza. Comunque sappi che io sono abbastanza sereno, mi manca solo un po’
di speranza, solo quella. E adesso il mio cuore ti manda il migliore dei suoi
sorrisi. Mi dispiace solo che purtroppo sia un sorriso fra le sbarre condannato
a stare prigioniero per sempre. Buona vita.
Carmelo Musumeci