L’ergastolo
ostativo, “la pena della morte viva”
Sono
passati trent’anni dall’introduzione del reato di associazione mafiosa e
vent’anni dall’inasprimento
a
cura della Redazione
Carmelo
Musumeci: Esistono due tipi di
ergastoli, l’ergastolo “normale”, che dopo 10 anni di pena prevede la
possibilità di andare in permesso premio, dopo 20 anni in semilibertà, dopo 26
anni puoi chiedere la liberazione condizionale, e questi parametri si possono
ridurre tramite la liberazione anticipata. Naturalmente non c’è nessun
automatismo, anzi spesso queste misure non vengono concesse
affatto,
ma la legge le prevede. Poi esiste la pena di morte in vita, cosi gli
ergastolani ostativi chiamano l’ergastolo che non ti dà mai la possibilità
di uscire se in cella al posto tuo non ci metti qualcun altro. Questo che cosa
vuol dire? Vuol dire che devi collaborare con la giustizia, cioè il parametro
non è che uno esce dal carcere perché lo merita, ma solamente perché ci mette
un altro, cioè se fai la spia, se parli come al tempo del medioevo esci, se no
stai dentro. Questo ergastolo nasce con l’emergenza del 1992 dopo le famose
stragi di mafia. Fino a poco tempo fa nessuno conosceva l’ergastolo ostativo
perché nessuno aveva ancora maturato i termini, ma adesso che gli arrestati di
quel periodo hanno maturato 20/25/30 anni e più di carcere, si scontrano con
l’ostatività dei loro reati. Uno dei primi tribunali di Sorveglianza che ne
parlano è proprio quello di Perugia, presieduto da Paolo Canevelli, e per far
vedere che Ristretti Orizzonti fa una buona informazione, voglio proprio citare
un suo pezzo pubblicato su Ristretti: “Per finire, e qui mi allaccio al
progetto di riforma del Codice Penale, non so se i tempi sono maturi, ma anche
una riflessione sull’ergastolo forse bisogna pur farla, perché l’ergastolo
è vero che ha all’interno dell’Ordinamento dei correttivi possibili con le
misure come la liberazione condizionale, ma ci sono moltissimi detenuti oggi in
Italia che prendono l’ergastolo tutti per reati ostativi e sono praticamente
persone condannate a morire in carcere”. Questo non lo dice un ergastolano, un
detenuto, ma un Presidente di un tribunale di Sorveglianza, quindi esiste questa
realtà.
Francesca
de Carolis: Gli ergastolani ostativi,
in sintesi, sono persone condannate per reati commessi nell’ambito di
associazioni di stampo mafioso, che sono escluse dall’applicazione dei
benefici normalmente previsti dalla legge, a meno che non abbiano scelto di
essere collaboratori di giustizia. “Pentiti”, noi comunemente
diciamo. Primo luogo comune nel quale anch’io sono incorsa. Ma la prima cosa
che mi hanno insegnato queste testimonianze è proprio che cos’è in realtà
il pentimento, che cosa significa essere “pentiti”. Quante volte nella
fretta di chiudere un pezzo nel tempo di un minuto, lavorando in passato in
televisione, ho usato il termine “pentito”, che spesso tutti usiamo
riferendoci a chi collabora con la giustizia. Ma c’è una differenza: essere
“collaboratori di giustizia” significa aver fatto una
scelta
di carattere processuale, essere “pentiti” significa aver fatto e fare un
percorso, un percorso che può essere più o meno lungo, e che comunque si
sviluppa su un altro piano, una riflessione intima che pure può portare al
distacco dall’organizzazione criminale d’appartenenza, e più in generale
dal proprio passato. Le due cose possono non necessariamente coincidere. Nelle
pagine alle quali ha contribuito anche Carmelo si fa spesso riferimento a
Brusca. Brusca, e lo voglio ricordare, dopo l’arresto si è presto dichiarato
collaboratore di giustizia, ha ottenuto dei permessi e questi permessi gli sono
stati poco dopo revocati per violazione delle norme sui benefici carcerari…
diciamo che sembra non si fosse allontanato dall’organizzazione della quale
faceva parte, proseguendo in attività illecite. Questo per chiarire come a
volte le due cose, essere collaboratore di giustizia ed essere realmente
pentito, possono non coincidere.
Le
storie di cui voglio qui parlarvi riguardano persone che hanno scelto di non
essere collaboratori di giustizia e che comunque sono in carcere da un periodo
lunghissimo di anni: Carmelo Musumeci lo è da 22 anni, ma io porto sempre
l’esempio di Mario Trudu, che di anni di carcere ne ha trascorsi 32.
Proprio
in questi giorni sto leggendo la sua autobiografia: Trudu è stato in carcere 32
anni, e in tutti questi anni ha avuto otto ore di permesso per un’iniziativa
che riguardava la presentazione di lavori svolti in carcere… 32 anni in
carcere e un pugno di ore fuori… Nessuna di queste persone, nessuno degli
ergastolani ostativi che testimoniano le loro vite nel libro che ho curato vuole
sottrarsi alla pena. Quello che chiedono è che questa pena abbia un senso, che
dopo un tempo pur lunghissimo abbia una fine. Ognuno dà una spiegazione del
fatto che non abbiano scelto di essere “collaboratori di giustizia” e questa
spiegazione secondo me merita di essere ascoltata, merita rispetto,
riconoscimento. Ecco, Carmelo Musumeci potrebbe dare lui la sua risposta.
Carmelo, perché non sei stato un collaboratore di giustizia?
Carmelo
Musumeci: Non sono stato un
collaboratore perché è giusto che uno esca dal carcere perché lo merita, non
perché mette un altro al posto suo. È importante accettare la pena, chi non
collabora automaticamente accetta la sua pena, poi ci possono essere altri
fattori di tipo etico, di tipo religioso, ci può essere il fatto di non mettere
in pericolo la propria famiglia e tanti altri, per esempio il mio caso personale
è anche che chi dovrei accusare si è rifatto una vita, si è sposato, adesso
è un buon padre, un buon cittadino non capisco perché dopo 22 anni lo dovrei
fare arrestare per avere la mia libertà. In un certo senso lo Stato mi chiede
di essere più criminale di prima, cioè rubare la vita a un altro, anche se
certo quest’altro ha commesso dei reati, ma le cose non dovrebbero funzionare
cosi. Io posso capire una giustizia immediata, ma dopo 22 anni che questa
persona è un buon cittadino, non lo capisco più. E poi anche fra noi, nei
nostri rapporti chiamiamoli “malavitosi”, nascono delle amicizie, nascono
dei legami, c’è un “submondo” che è un po’ particolare ma non come lo
descrivono i mass media, quindi non lo ritengo giusto nella mia etica,
attenzione non è omertà, non pensate assolutamente che questa sia omertà,
perché io credo che i veri criminali sono loro che collaborano con la
giustizia, perché è sbagliato, assolutamente sbagliato accusare gli altri per
avere sconti di pena. Il vero pentimento è la crescita interiore, mentre invece
è diventato un disvalore accettare la propria condanna e subirne tutte le
conseguenze.
Francesca
de Carolis: Ognuno nel raccontarsi usa
un proprio linguaggio, porta le diverse motivazioni che, ripeto, penso ciascuna
meriti rispetto. Soprattutto, e mi rivolgo a chi si occupa e si occuperà di
cronaca, è necessaria capacità d’ascolto. Bisogna essere molto attenti alle
varie sfumature, perché poi la vita, la vita di ognuno, è fatta di sfumature,
ogni storia è diversa dall’altra. Carmelo ha dato la sua spiegazione… C’è
chi ne dà di lapidarie. Ad esempio: “non ho collaborato perché non volevo
rubare anche la vita dei miei figli”. Una frase brevissima ma che sottende
l’enormità di quello che comporta la scelta della collaborazione per
l’intera famiglia. Insomma, non è facile. C’è chi poi, semplicemente, dice
di non aver collaborato perché non ha nulla da dire. E c’è anche chi si
dichiara innocente… Gli ergastolani ostativi chiedono che ci sia una
considerazione del percorso fatto durante il lungo tempo trascorso in carcere.
Si raccontano, e dalle loro testimonianze, che secondo me valgono più di cento
trattati, nascono domande alle quali non possiamo sottrarci. La domanda
principale è: ha senso una pena che non finisce mai? O è in contrasto con
quello che stabilisce l’articolo 27 della nostra Costituzione, che parla di
finalità
rieducativa
della pena? Come può aiutare a cambiare in meglio una pena che non finisce mai?
Io personalmente, lo devo dire in tutta onestà e franchezza, riesco a pensare
solo che ne sarei incattivita, definitivamente chiusa al mondo. Non è facile
parlare di queste cose. Non è facile parlarne nel nostro paese, assediato
com’è dalle organizzazioni criminali. Al solo pronunziare la parola
“mafia”, scatta una sorta di “pensiero semplificato”. Quando si parla di
mafie noi pensiamo immediatamente alle quattro grandi organizzazioni criminali,
Mafia siciliana, Camorra, ‘Ndrangheta, Sacra Corona Unita. In realtà, la
normativa che comporta l’ostatività per i reati commessi nell’ambito di
un’associazione di stampo mafioso viene applicata in maniera piuttosto rigida,
intanto includendo tutte le organizzazioni “di stampo mafioso”, non solo le
quattro “grandi” che ho citato, ma anche quelle che possono esistere a
livello regionale, una banda di estorsori del bresciano per esempio… E,
soprattutto, questa normativa è rigida anche nel senso di non permettere di
valutare differentemente la diversa posizione, magari marginale, che ha la
persona all’interno dell’organizzazione e questo spiega anche perché
qualcuno forse ha poco da dire. Considerando tutto questo, considerando
soprattutto che le storie dei 36 ergastolani ostativi del libro che ho curato
testimoniano che dal carcere non si esce affatto facilmente (a differenza di un
altro luogo comune duro a morire), e che addirittura esiste l’ergastolo
ostativo, pena che davvero può non finire mai, è forse il momento di fare una
riflessione sul senso della pena, a trent’anni di distanza da quei terribili
anni 90, che queste norme hanno prodotto. Come pure queste storie ci chiedono.
Devo fare una premessa: ho lavorato in Sicilia, ero in Sicilia quando è morto
Falcone, e io so bene da che parte sto quando si parla di lotta alla mafia, e
conosco l’importanza che hanno avuto e hanno i collaboratori di giustizia
nella lotta contro la mafia. Ma ci sono strumenti sui quali sarebbe forse ora di
cominciare a ragionare. Le testimonianze che ho raccolto hanno una bella
introduzione di Don Luigi Ciotti. Mi piace leggerne un brano, dove Don Ciotti
dice: “Questi racconti, queste storie gridano fatica e dimostrano soprattutto
che in carcere è possibile il recupero dell’umano”, e ci invita, Don
Ciotti, a fare e farci delle domande, a guardare dentro di noi, perché sono
domande che non vorremmo farci, e a guardare in faccia a cose che non vorremmo
guardare, abituati come siamo a dividere il mondo in buoni e cattivi, ad essere
sempre pronti a metterci noi “buoni” qui, da questo lato, e lasciare i
cattivi tutti da un’altra parte, spingendoli fuori dai confini della nostra
umanità, perché di questa decidiamo che non fanno parte. Un’altra cosa che
ho imparato da queste testimonianze è la lettura dei silenzi, ed è cosa
importante per chi fa il nostro mestiere. In queste 200 pagine, (ma avevo molto
più materiale, un fiume di voci, questa è soltanto una selezione), ci sono due
grandissime assenze. La prima riguarda la vita sessuale. Chiunque si sia
occupato di carcere sa benissimo quanto la mancanza di relazione dei corpi è
una delle cose che più distorcono la personalità. Ebbene alla domanda
“com’è la tua vita in carcere?” nessuno, ma proprio nessuno fa cenno
all’argomento. Ciò significa che l’assenza di una vita sessuale e di
relazione affettiva è
peso
talmente grande, talmente enorme che il suo stesso pensiero viene in qualche
modo riassorbito e cancellato. Pensate quale pena suppletiva possa essere anche
questa privazione. Questo è stato uno dei pochi argomenti sui quali sono
intervenuta sollecitando risposte. Eppure, niente…
Le
risposte, quando ci sono state, sono state piuttosto evasive. Tutti ritornavano
ai discorsi più generali
Chi
vive in carcere è assediato dal rumore. Nelle decine e decine, nelle centinaia
di pagine del racconto dei 36 ergastolani del mio libro, non c’è un cenno al
fastidio terribile del rumore. È un’altra presenza talmente invasiva che per
sopravviverle la si riassorbe, la si riassume in sé. Una sola persona parlando
della sua vita, una di quelle che mi sembrano già un po’ più
“sconfitte”, dice: “Arrugginir come il ferro”, ed ecco che tutto il
rumore ritorna in una parola quasi come pietra tombale. Conoscere queste storie
mi ha fatto riflettere molto, e mi sono chiesta: perché noi accettiamo tutto ciò?
Perché accettiamo che ci sia l’ergastolo ostativo? Perché accettiamo che ci
siano le carceri e nelle condizioni in cui si trovano? La risposta l’ho
trovata tornando a quella linea con la quale separiamo i buoni dai cattivi e nel
nostro voler negare umanità a persone che pure (e queste testimonianze lo
dimostrano) di umanità sono più ricche di quanto siamo abituati a pensare. Ma
è verità che noi spesso respingiamo, che mettiamo fuori, lontano da noi. E’
questo il meccanismo che permette che noi accettiamo tutto ciò, e che ci fa
tranquillamente voltare la faccia. A pensarci bene, è lo stesso meccanismo per
cui un tempo si bruciavano le streghe, le si mandava al rogo… Non molto è
cambiato, secondo me. E’ lo stesso meccanismo per cui si può arrivare ad
accettare la pena di morte. Io credo che se chiediamo in giro pareri a proposito
di una eventuale reintroduzione della pena di morte, la stragrande maggioranza
direbbe di essere contraria. Ma, se devo essere sincera, penso che sia un
pensiero ipocrita, molto ipocrita se accettiamo che delle persone in carcere
possano morire. E in carcere si può morire, e si muore, in tanti modi. Oltre
che per via dell’ergastolo ostativo, per cui, abbiamo detto, si può non
uscire mai, in carcere la gente muore eccome…, basta guardare le statistiche.
I suicidi, per esempio… E noi, noi “umani” che respingiamo l’inumano che
vogliamo negli altri, siamo anche particolarmente accaniti nei confronti di chi
si è macchiato di reati, di chi vogliamo “colpevole per sempre”. E ora so
che questo accanimento viene percepito chiaramente dalle persone che sono in
carcere, per le quali l’informazione passa soprattutto
Luoghi
comuni… forse ne ho citati abbastanza. Ma c’è un luogo comune che in
particolare a me fa molta paura: “tolleranza zero”. Francamente non capisco
cosa significhi, anche perché la “tolleranza zero” spunta fuori a proposito
di un’infinità di cose: dalle aggressioni in momenti che si vogliono di
particolare tensione e crisi, a realtà come l’immigrazione. Come in queste
due parole si possa riassumere e chiudere tanto è cosa che mi lascia molto
perplessa. Penso piuttosto che le due parole, “tolleranza” e zero”,
servano semplicemente a creare quel clima di instabilità, di paura e di
irrazionalità, che ha permesso l’approvazione di leggi come la Bossi-Fini, la
Fini- Giovanardi, la Cirielli o ex che dir si voglia.
Ancora
un dubbio. Ho letto, qualche giorno fa, dell’intervento del Presidente della
Commissione Giustizia alla Camera, che nella giornata contro la violenza sulle
donne ha parlato dell’introduzione del reato di “femminicidio”, per il
quale comminare l’ergastolo. Il mio dubbio: ma non esiste già il reato di
“omicidio volontario”? E non esistono già aggravanti varie che si possano
valutare? La proposta di Giulia Bongiorno forse diventerà legge, forse no. Però
è li a dirci che c’è un “nuovo” reato in più, a seminare ancora un
po’ di paura, ancora un po’ di incertezza. Cose che contribuiscono a creare
il clima che, con tutte le differenze del caso, ha portato ad esempio al recente
episodio, che mi ha molto colpito, dell’insurrezione di un intero paese contro
Vallanzasca, uscito dopo non so quanti anni dal carcere con un permesso per
lavorare all’esterno, ma che l’opinione pubblica ha voluto respingere subito
nel nulla. Qualsiasi sia la nostra opinione a riguardo, io credo che però da
qualche parte bisogna pur ricominciare, qualche percorso per permettere di
ricostruire le vite bisogna pure pensarlo possibile. E non perché dobbiamo
essere tutti “più buoni”. Il punto è che bisogna cominciare a ragionare di
diritti, perché esiste un “diritto alla pena”, che abbia un senso e che sia
“giusta”.
Volevo
aggiungere un’ultima cosa, a proposto della non volontà di affrontare questo
argomento. Anche per riflettere su di noi giornalisti, su noi presunti
“illuminati”, noi persone “aperte”. Ho chiesto a un nostro collega di
prendere in considerazione, per il suo giornale, le testimonianze di questo
libro. Mi è stato risposto: bello, interessante, però non è un argomento
molto in voga di questi tempi… Il collega, ne sono certa, era sinceramente
rammaricato… ma non penso la sua sia una risposta possibile.
Mi
è venuto in mente quello che disse Leonardo Sciascia quando durante la lotta al
terrorismo si batté perché lo Stato non abdicasse ai principi dello Stato di
diritto: Leonardo Sciascia, che veniva accusato di “alleanza oggettiva” ogni
volta che interveniva in difesa dei diritti fondamentali, un giorno sbottò e
disse: “Sono stanco di essere accusato di alleanze oggettive con questo, con
quello, queste alleanze mosse in accusa a chi difende certi diritti civili che
si vogliono dimenticare è uno dei ricatti che più pesa nella vita italiana”.
Io penso che siamo ancora a questo, siamo ancora al ricatto. Un’ultima
annotazione, per aggiungere altra cosa che ho imparato dalle testimonianze degli
ergastolani ostativi. Quando mi hanno affidato i loro scritti, ho attraversato
alcuni momenti iniziali di dubbio e di crisi. Non sapevo bene cosa fare.
Intanto, mi stavo confrontando con linguaggi che non conoscevo, che a tratti non
riuscivo a capire. Ma ho capito di avere fra le mani testimonianze di percorsi,
intrecci di codici vecchi e nuovi (fra l’altro molti sono entrati in carcere
semi analfabeti. Poi hanno studiato. Carmelo ha scritto dei libri, e sono anche
dei bei libri…), che comunque vanno ascoltati, perché in ogni parola è
possibile leggere come in filigrana tutta la vita reale che c’è dietro. C’è
“in trasparenza”, ci piaccia o no, la nostra società.
Mi
spiego. C’è una parte del libro, verso le ultime pagine, in cui molti parlano
della loro infanzia: quartieri
Nei
temi di questi ragazzini ho trovato le stesse parole, gli stessi ragionamenti
dei 36 ergastolani del libro che ho curato. Lo stesso modo di ragionare sulla
“giusta vendetta”, ad esempio… ma quale dei nostri figli parlerebbe mai di
giusta vendetta, in quei termini, con quelle parole?
L’esperienza
dei Maestri di Strada, il loro percorso, i temi dei loro alunni, attraverso le
riflessioni di Carla Melazzini (che dei Maestri di Strada credo sia stata una
delle anime più forti) sono stati raccolti in un libro dal titolo: “Insegnare
al principe di Danimarca”. Che significa? Ecco: uno dei loro bambini, (io dico
bambini, ma in alcune situazioni siamo abituati a vederli già grandi, otto,
nove anni e sono già adulti) viveva nel dolore e nell’astio nei confronti
della madre che aveva tradito il padre ed era fuggita. Alla sua giovanissima età
era già “grande”, e aveva un unico pensiero: vendicare il tradimento del
padre. Presto sarebbe stato forse pronto ad uccidere, a uccidere la madre
traditrice, per vendicare il padre. Ma questo non è lo stesso meccanismo che
muove l’Amleto della tragedia di Shakespeare? E noi di Amleto abbiamo fatto
uno dei nostri eroi, eroe “letterario” e non solo. Noi siamo tutti pronti ad
accogliere il suo dolore, a seguire il suo percorso, a fare il tifo per lui. Però,
ammettiamolo, abbiamo già respinto nel nulla quel ragazzino napoletano.
L’avventura dei Maestri di Strada ha attraversato momenti difficili, ha
rischiato di
Io
non so che fine abbia fatto quel ragazzino. Non so se qualcuno l’ha poi
aiutato a sciogliere i suoi nodi, a uscire dalla griglia del sistema al quale
sembrava condannato, ma se non ci fossero stati i Maestri di Strada nessuno,
molto probabilmente nessuno lo avrebbe ascoltato. E se nessuno lo ha più
seguito, oggi potrebbe anche essere uno dei giovanissimi capo-clan di cui ho
letto ultimamente sui giornali, dove si parla del “nuovo fenomeno” di
giovanissimi criminali più crudeli e spietati che mai, “perché non hanno
storia”. Ebbene le storie ci sono, le storie sono queste, e dico che bisogna
sforzarsi di leggere attraverso le parole. Soprattutto noi che scriviamo
“sulla carta” e a volte sembra pensiamo che anche le parole siano carta.
Invece si tratta di carne viva. E c’è un filo rosso, che parte dalla storia
dello scolaro dei Maestri di Strada, dalla sua infanzia, e arriva alle mura di
carceri come questo nel quale ci troviamo oggi. Per questo penso che la storia
di ognuno vada letta, seguita attentamente. E’ il consiglio che mi sento
veramente di darvi, di non fermarvi all’inizio delle cose.
Ergastolo
e democrazia
Per
la Repubblica italiana nessuna persona è mai persa per sempre
di
Andrea Pugiotto
Ordinario
di Diritto costituzionale, Università di Ferrara
Solipsismo
giuridico?
Quando
le forche andavano meno di moda di adesso, discutere di abolizione
dell’ergastolo significava tracciare un orizzonte possibile. Oggi, invece, chi
lo sostiene viene inchiodato all’accusa di solipsismo giuridico.
Di
questa accusa vorrei dimostrare l’infondatezza. Dichiaro, infatti, fin
d’ora, che per me l’ergastolo non ha senso. Di più: a me
l’ergastolo fa senso, perché regime detentivo che fuoriesce dal
disegno costituzionale della pena e della sua esecuzione.
È
la tesi che cercherò di dimostrare, usando la cassetta degli attrezzi che porto
sempre con me: quella del costituzionalista.
Una
quaestio (e non un disegno di legge né un referendum)
Preliminarmente,
vorrei innanzitutto indicare come veicolare, con ragionevoli chances di
successo, i comune obiettivo abolizionista del carcere a vita.
Scarto
in partenza la via legislativa. In passato la si è percorsa. Nella V, nella VI
e nella XIII Legislatura, il
Un’apertura
di credito ad un futuro abolizionista è anche la tecnica normativa adoperata
dalla Legge n. 589 del 1994 che, abrogando la pena di morte dall’ordinamento
penale militare di guerra, la sostituisce (non con l’ergastolo, bensì) con la
pena massima prevista dal Codice penale: è un rinvio mobile e non fisso,
che trova ragione nella prospettata eventualità che anche l’ergastolo possa,
un domani, essere
Ma
oggi? Nell’attuale legislatura, la sola iniziativa parlamentare che ha
camminato è il disegno di legge AS 2567 sul cd. processo lungo, già passato al
Senato. Esso mira – se così posso dire – ad un ergastolo sempre più lungo.
E lo fa agendo su due versanti. Da un lato escludendo il condannato
all’ergastolo dalla possibilità – avvalendosi del cd. giudizio abbreviato
– di ottenere la conversione del carcere a vita in 30 anni di reclusione.
Dall’altro lato, innalzando ad “almeno 26 anni“ l’asticella temporale
che l’ergastolano deve raggiungere per sperare di accedere a benefici extra
murari.
Più
di quanto già oggi non sia, rischiamo così domani di avere un’interdizione
davvero perpetua: detto altrimenti, un eterno riposo.
Scarto
pure l’ipotesi di un referendum popolare sull’art. 22 c.p. È già accaduto.
E sappiamo come andò a finire. Chiamato a pronunciarsi sull’ergastolo, il
corpo elettorale votò a favore della sua conservazione. Era il 17-18 maggio
1981: 24.330.954 voti contrari all’abrogazione; 7.114.718+1 (il mio)
favorevoli all’abrogazione. Una cifra, credo, che oggi apparirebbe un miraggio
anche per il più ottimista degli abolizionisti.
Quel
passaggio referendario, semmai, va messo a valore in termini strettamente
giuridici. Avendo infatti dichiarato ammissibile il quesito abrogativo (sentenza
n. 23/1981), la Corte ha riconosciuto implicitamente che l’ergastolo non è
una previsione legislativa imposta dalla Costituzione: le leggi
costituzionalmente necessarie, infatti, non sono sottoponibili a referendum
popolare. L’ergastolo, dunque, si muove interamente in un ambito rimesso alla
discrezionalità del legislatore. La Costituzione non lo proscrive (espressamente),
ma nemmeno lo prescrive.
Né
legge né referendum, dunque. Semmai – ecco la proposta di metodo - una quaestio
di legittimità davanti alla Corte costituzionale, opportunamente
congegnata. Con il che il nostro tema slitta di livello: l’ergastolo è una
scelta legislativa costituzionalmente compatibile?
Corte
costituzionale e Cassazione in difesa dell’ergastolo
La
Corte di cassazione nel 1956 e la Corte costituzionale nel 1974 si sono già
pronunciate in tema. Entrambe dichiarando infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’ergastolo.
L’hanno
fatto sulla base di tre argomenti di fondo: [1] l’argomento testuale,
secondo il quale la Costituzione, limitandosi a vietare la pena capitale, non
avrebbe escluso l’ergastolo; [2] l’argomento teleologico, secondo il
quale, in una prospettiva polifunzionale della pena, il carcere a vita si
giustifica per la sua finalità retributiva, di difesa sociale e di prevenzione
speciale e generale; [3] l’argomento fattuale, secondo il quale
l’ergastolo avrebbe ormai perso la sua natura di pena perpetua, grazie
all’accesso possibile alla liberazione condizionale (e poi ad ulteriori
benefici penitenziari) secondo un procedimento oramai giurisdizionalizzato.
Partita chiusa, dunque? Tutt’altro.
Vs.
l’argomento letterale
Muoviamo
dal primo pilastro. Per picconarlo. Lo ricordo di nuovo: poiché la Costituzione
ha escluso la pena di morte e non l’ergastolo, allora il carcere a vita è
costituzionale. Nonostante l’autorevolezza della sua genesi (riconducibile
alle Sezioni Unite penali della Cassazione) non è argomento di pregio. Siamo,
anzi, davanti ad un rosario di errori interpretativi del testo costituzionale.
Primo
errore. Se le pene non espressamente
vietate fossero, per ciò solo, ammesse, allora – per assurdo – dovremmo
pensare che anche la fustigazione, le mutilazioni o altre forme di punizione
corporale non mortali abbiano egualmente cittadinanza costituzionale. Il che non
è. Dunque, la premessa del ragionamento è un abbaglio ermeneutico.
Secondo
errore. L’interpretazione letterale deve
trovare conferma nell’interpretazione sistematica, che chiama in causa altre
disposizioni costituzionali: il principio testualmente espresso per cui le pene
“devono tendere alla rieducazione del condannato“ (art. 27, 3° comma,
Cost.); la clausola di salvaguardia costituzionale che vieta trattamenti inumani
e degradanti in sede cautelare (art. 13, 4° comma, Cost.), in sede esecutiva
della pena (art. 27, 3° comma, Cost.), in sede di trattamenti sanitari (art.
32, 2° comma, Cost.); il principio supremo del rispetto della dignità umana
(compendiato nell’art. 2 Cost.). Si tratta di una trama costituzionale
ostativa all’ergastolo e che dimostra quanto sia superficiale l’assunto per
cui la sua non espressa esclusione equivarrebbe ad implicita inclusione.
Terzo
errore, più degli altri da matita blu.
L’ultimo comma dell’originario art. 27 Cost. non vietava affatto la pena di
morte. Al contrario, la consentiva a particolarissime condizioni ordinamentali:
«Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari
di guerra». I Costituenti avevano dunque inserito un riferimento alla pena
capitale per includere un’eccezione, in quanto sarebbe stato pleonastico, alla
luce dell’intera trama costituzionale, vietarla espressamente.
È
come se la Carta costituzionale incorporasse una clausola di esclusione per
tutte le pene solamente retributive, dunque non risocializzanti, tanto più se
contrarie al senso di umanità. E tale – si vedrà - è il carcere a vita.
Vs.
l’argomento teleologico
Picconiamo
ora il secondo pilastro, giocato sulla teoria della polifunzionalità della
pena.
A
far data almeno dalla sentenza n. 313/1990, l’evoluzione ormai
compiutasi nella giurisprudenza costituzionale è nel senso di una
valorizzazione in massimo grado della finalità di risocializzazione del reo.
Oggi, tutti i soggetti che partecipano alla dinamica della pena rispondono a
questo medesimo vincolo teleologico: il legislatore (nella fase della astratta
previsione normativa), il giudice di cognizione (nella fase della commisurazione
della pena), il giudice di Sorveglianza al pari della polizia penitenziaria
(nella fase della sua applicazione), finanche il Presidente della Repubblica
(nell’esercizio del suo potere di fare grazia e commutare le pene). Unitamente
al “senso di umanità“, la finalità rieducativa traccia dunque – in
ragione dell’art. 27, 3° comma, Cost. - l’orizzonte costituzionale della
pena cui tutte le misure limitative della libertà personale «devono tendere».
Dove l’accento cade non più sul tendere ma sul devono. Tutte.
In qualunque momento della propria vicenda ordinamentale.
Questo
orientamento della Corte costituzionale è ora messo in sicurezza dalla nuova
formulazione (modificata nel 2007) dell’art. 27, 4° comma, Cost., che ha
abolito la pena di morte incondizionatamente, senza se e senza ma:
“Non è ammessa la pena di morte“. Punto (e basta).
È
così caduta l’unica eccezione costituzionalmente prevista al principio
secolarizzato del finalismo rieducativo penale, che recupera quindi la propria
natura di autentico paradigma costituzionale. Un paradigma che vorrei esprimere
così: per la Repubblica italiana nessuna persona è mai persa per
sempre. A tale paradigma vanno dunque commisurate tutte le misure incidenti
sulla libertà personale. Tutte, ergastolo compreso.
Ora,
è evidente che, davanti al “fine pena mai”, la questione della
risocializzazione del condannato neppure si pone. Perché l’ergastolo è
intrinsecamente una pena carattere
eliminativo, sia pure non in senso fisico. Qui la violazione della Costituzione
è alla lettera: perché il recupero sociale del condannato, in quanto
testualmente previsto nel dettato costituzionale, non può mai essere integralmente
sacrificato.
Vs.
l’argomento fattuale
Conosco
l’obiezione al mio ragionamento, peraltro messa a valore nella sentenza
costituzionale n. 264/1974: non essendo più senza fine, la pena
dell’ergastolo conserva una valenza risocializzatrice attraverso il possibile
accesso dell’ergastolano a pene alternative.
È
facile maramaldeggiare su questo arabesco argomentativo. Ad esempio osservando
che, se l’ergastolo in realtà non esiste, non c’è ragione per mantenerlo
in vita. Continuare a farlo, è un inutile accanimento terapeutico (normativo).
Di
più. È come se il Giudice delle leggi dicesse che l’ergastolo non viola la
Costituzione perché non è più ergastolo. Cioè, costituzionalmente parlando,
è come dire che l’ergastolo esiste in quanto tende a non esistere.
In
tal modo, però, il sofisma della Corte costituzionale dimostra, a contrario,
che un regime detentivo perpetuo sarebbe certamente extra ordinem.
E che la legittimazione del carcere a vita è subordinata al fatto che non
sia poi tale nella realtà, nel diritto applicato.
Ciò
apre la porta ad una seconda obiezione. La Corte costituzionale è un giudice di
norme. Qui, invece, ha espresso un giudizio di costituzionalità su un fatto (l’eventuale
accesso dell’ergastolano alla liberazione condizionale), evitando così di
pronunciarsi sulla disposizione legislativa a tenore della quale “la
pena dell’ergastolo è perpetua“ (art. 22 c.p.). Così, invece di giudicare
della legge impugnata, la Corte ha finito per giudicare impropriamente della sua
occasionale disapplicazione. E ancora. Sono in numero elevato i cd. detenuti
condannati all’ergastolo ostativo: a fine settembre 2010, erano almeno 681
questi sepolti vivi.
Voglio
con ciò dire che quel fatto in base al quale la Corte ha concesso un
salvacondotto costituzionale all’ergastolo è una circostanza meramente
eventuale, nell’an come nel quando. Come tale non
è in grado di modificare normativamente la perpetuità del carcere
a vita, non riesce a trasformarlo giuridicamente in una pena temporanea.
Ergastolo
(ostativo) e divieto di trattamenti contrari al senso di umanità
Fin
qui abbiamo pareggiato i conti con gli argomenti spesi dalle Corti (di
Cassazione e costituzionale) in difesa del carcere a vita. Nell’arsenale delle
armi contro l’ergastolo, troviamo però altri ordigni capaci di farne
esplodere l’illegittimità. Penso, innanzitutto, all’altra faccia del
disegno costituzionale della pena, che vieta «trattamenti contrari al senso di
umanità» (art. 27, 3° comma, Cost.) e che rovescia la piramide collocando la
persona e la sua dignità prima e sopra di ogni esigenza statale di difesa
sociale (art. 2 Cost.).
Quando
il Parlamento aveva una migliore stima di sé, trovava anche il coraggio per
dirlo (anche se non per abolirlo): X Legislatura, mozione parlamentare 1-00310
approvata il 3 agosto 1989 alla Camera, dove si legge che l’ergastolo viola il
divieto di punizioni crudeli, disumane e degradanti, collocandosi tra quelle
pene che “ripugnano alla coscienza democratica e al senso di umanità di ogni
persona e comunque non costituiscono neppure un ragionevole deterrente al
crimine, essendo invece un’esemplare manifestazione di brutalità dello
Stato“.
Che
sia così, è dimostrato da una particolare variante del regime del carcere a
vita: il cd. Ergastolo ostativo.
Coloro
che vi sono sottoposti, in assenza di una collaborazione possibile e fruttuosa
con la giustizia, sono costretti ad un regime detentivo perpetuo, amputato da
ogni contenuto premiale orientato a
quella tensione rieducativa prevista
dalla Costituzione. Sono morti che
camminano. Candele destinate a
consumarsi in carcere.
La
Corte costituzionale, più volte chiamata a valutare la legittimità
dell’ergastolo ostativo, ha sempre respinto come infondate le relative
eccezioni.
Per
un verso, ha circoscritto la portata dell’art. 4-bis ord. pen.
Escludendone l’applicazione nei casi in cui la collaborazione sia impossibile,
irrilevante o comunque inesigibile (cfr., ex plurimis, le sentenze nn.
357/1994 e 68/1995, 89/1999). Per altro verso, ha negato che la disciplina
censurata impedisca in maniera automatica l’ammissione ai benefici
penitenziari: tale preclusione, infatti, dipende pur sempre da una scelta –
reversibile – rimessa al condannato di collaborare o meno con la giustizia
(sentenza n. 135/2003). Ciò nonostante, della legittimità costituzionale
dell’ergastolo ostativo è lecito dubitare. Mi limito ad accennare le
principali censure possibili.
La
prima attiene alla circostanza che le condizioni di questi ergastolani paiono
coincidere con la definizione contenuta nell’art. 1 della Convenzione ONU
contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti,
ratificata dall’Italia nel 1989: “Ogni atto con il quale viene
intenzionalmente inflitto ad una persona un grave dolore o sofferenza, fisica o
mentale, per propositi quali ottenere da essa o da un terzo informazioni o
confessioni, punirlo per un atto che lui o un terzo hanno commesso o di cui sono
sospettati […]“ è, per il diritto internazionale, tortura. E’ vero che la
medesima disposizione esclude che tale qualificazione possa estendersi al
“dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime“ . E,
fino alla sua rimozione, l’ergastolo è e resta una pena legittima. Tuttavia,
tale clausola di salvaguardia non compare nell’art. 3 della CEDU, né
all’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE oggi parte
integrante del Trattato di Lisbona (e neppure nel similare art. 7 del Patto
internazionale sui diritti civili e politici), laddove si afferma che «Nessuno
può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti».
La giurisprudenza della Corte di Strasburgo, anzi, è categorica
nell’escludere qualunque deroga a tale divieto, neppure nelle circostanze più
difficili, quali la lotta al terrorismo e al crimine organizzato.
Tanto
basta per ritenere non manifestamente infondato il dubbio che l’ergastolo
ostativo violi il nuovo art. 117, 1° comma, Cost., ai sensi del quale la potestà
legislativa dello Stato deve essere esercitata nel rispetto “dei vincoli
derivanti […] dagli obblighi internazionali”, anche pattizi.
La
seconda ragione è che l’ergastolo ostativo abbandona ad una condizione
aleatoria e mutevole l’ipotesi di concessione di misure extramurarie a favore
del detenuto. Ma così il carcere a vita ritorna ad essere – de facto e
de jure – una pena perpetua, perché non più limitata ed interrotta da
benefici certi e garantiti, che consentano al condannato una possibilità di
reinserimento sociale. In tal modo si aggrava quel dubbio di costituzionalità
intrinseco alla natura fissa della pena dell’ergastolo: in assenza di
una dosimetria sanzionatoria, diventa infatti impossibile per il giudice
rispettare il principio costituzionale di proporzionalità della pena al fatto e
alla responsabilità personale. A venir meno è, dunque, quella
individualizzazione della pena cheè coessenziale alla sua finalità
rieducativa. Né questa modulazione risulta recuperabile in sede di esecuzione
penale, risultando preclusa all’ergastolano ostativo qualsiasi misura
alternativa alla reclusione dietro le sbarre.
La
terza ragione di criticità dell’art. 4-bis ord. pen. attiene al dato
normativo che fa coincidere il sicuro ravvedimento esclusivamente con un
comportamento di collaborazione fruttuosa con la giustizia. Ebbene, quel
criterio di valutazione legale può schiacciare il detenuto contro il muro di un
vicolo cieco, perché l’errore giudiziario è sempre possibile. In tal modo
storie carcerarie condannate a finire male, finiscono peggio. A conti fatti, se
vai all’ergastolo ostativo augurati di essere davvero colpevole (perchè solo
il colpevole può utilmente collaborare). Ma se sfortunatamente sei innocente,
sarà purtroppo peggio per te: dovrai infatti rassegnarti a morire murato vivo.
Come
la pena di morte, peggio della pena di morte
L’evocazione
della pena di morte non è casuale. L’espulsione della pena capitale dal
perimetro costituzionale è come una mazza che si abbatte anche contro quello
che, in Francia, è non a caso indicato con il nome di “ghigliottina secca“.
E
che da noi si propone significativamente di battezzare “pena di morte viva“
o “carcere a morte“.
Il
collegamento tra le due massime pene è giustificato dalla loro comune natura
eliminativa. Con l’ergastolo lo Stato si prende la vita di una persona, anche
se non gliela toglie: perchè la priva di futuro, azzera ogni speranza, amputa
il reo dal consorzio umano. Ambedue esprimono un’idea sacrificale – dunque
vendicativa – della giustizia, laddove entrambe richiedono il sacrificio della
vita del reo (che ha sacrificato la vita altrui). In questo senso, residuano
nell’ergastolo connotati premoderni propri delle antiche pene corporali.
Di
più. Della pena capitale, l’ergastolo è una variante ancora più crudele. La
sua estensione temporale lo rende più terribile dell’intensità della pena
capitale, perché “la morte dura un attimo e richiede un coraggio
momentaneo. L’ergastolo, invece, è un’esistenza“ (Ignazio
Silone).
Non
ne siete persuasi? Vi propongo allora un gioco di ruolo. Provate, solo per un
attimo, a “immaginare d’essere ancora vivi, eppure dichiarati morti“.
Immaginatevi, se ne siete capaci, nella condizione -definitiva
e senza appello – di una castrazione affettiva e sessuale, implicita in ogni
condanna all’ergastolo, che s’imprime così, in modo sconvolgente, nella
carne del condannato. Entrate, per un istante, nella vita degli altri: “vista
da chi resta fuori, la persona condannata all’ergastolo esiste e non esiste“
e questa sua esistenza virtuale, alla lunga, fiacca fino a consumare nella
solitudine o nel rancore anche i legami più solidi; non per scarsa resistenza
delle persone, ma in ragione di una morte civile e sociale decretata con la
condanna ad una pena senza fine.
Vengono
in mente le parole dell’ex Presidente della Camera, Pietro Ingrao: “io sono
contrario all’ergastolo prima di tutto perché non riesco ad immaginarlo“.
Ecco
perché – come è stato detto – “l’ergastolo non è una pena
assimilabile alla reclusione, ma è una pena da essa qualitativamente diversa,
assai più simile alla pena di morte che non a quella della privazione
temporanea della libertà personale“ (Luigi Ferrajoli).
Ma
se così è (ed è così), il loro destino costituzionale non può differire.
Come il morto afferra il vivo, così l’abolizione della pena di morte trascina
con sé l’abolizione della pena di morte viva.
Basterebbe
un solo giudice a quo
Riavvolgessimo
il nastro fin qui proiettato, ci accorgeremmo di quanti (e quali e di quale
spessore) siano le possibili eccezioni d’incostituzionalità contro
l’ergastolo. Per farle approdare a Corte, basterebbe un solo giudice a quo.
Dal
mio punto di vista ha qualcosa di stupefacente che, dal 1974 ad oggi, in tutta
Italia, non se ne sia trovato nemmeno uno disposto a sollevar l’eccezione
d’incostituzionalità. Come se esistesse una tacita conventio ad
escludendum.
Eppure,
l’ergastolo è una pena frequentemente irrogata, dunque tutt’altro che
simbolica: alla data del 30 giugno 2012, si contavano 1546 condannati al carcere
a vita.
Eppure
i reati puniti con l’ergastolo sono numerosi, nessuno dei quali
prescrittibile. Eppure, anche in sede di esecuzione penale, sono tante le
occasioni per il magistrato di Sorveglianza di applicare misure che
presuppongono la condanna all’ergastolo. In tutti questi casi, la rilevanza
processuale della questione è certa.
Chiudo
allora con una proposta molto concreta. Offro la mia piena disponibilità – e
chiedo ai Colleghi presenti di fare altrettanto – per redigere un atto di
promovimento pilota alla Corte costituzionale, da mettere nella
disponibilità dell’Unione delle Camere Penali, che immagino sensibili al
tema. Se non un giudice, ci sarà almeno un avvocato difensore a Berlino,
disponibile – mediante istanza di parte – a chiedere formalmente al suo
giudice di valutare la rilevanza e la non manifesta infondatezza della quaestio
sull’ergastolo, specialmente nella sua variante ostativa.
Quel
giudice dovrà motivatamente pronunciarsi, in un senso o nell’altro. E se si
attiverà, toccherà poi alla Corte costituzionale farlo. Basterà allora, ai
giudici costituzionali, sfogliare una grammatica italiana. Scoprendo così che
la nostra lingua conosce ancora il futuro anteriore: “Un giorno, quando
avrò finito di…”. E, come ha osservato Adriano Sofri, “una
lingua che conserva il futuro anteriore non merita l’infamia
dell’ergastolo”.
Intervento
al Convegno “Ergastolo e democrazia, Roma 2 ottobre 2012, Senato della
Repubblica
Un’intervista
a Maurizio Turco
Nel
nome della sicurezza puoi fare
tutto, anche torturare “democraticamente”
“Io
credo che il 41 bis sia una situazione così disperata e disperante che è
importante tenere viva l’attenzione, non dimenticarsi che ci sono detenuti in
condizioni in cui è davvero impossibile difendersi”
a
cura della Redazione
“Tutto
ha inizio nell’estate del 1992 quando nel giro di due mesi, dal 23 maggio al
19 luglio, in due attentati furono uccisi i due più popolari e capaci giudici
antimafia, Giovanni Falcone insieme alla moglie e a tre uomini della scorta e
Paolo Borsellino insieme a cinque poliziotti.
La
risposta delle istituzioni non si fece attendere. L’8 giugno 1992, con un
decreto legge, venne introdotto nell’ordinamento penitenziario l’articolo 41
bis, il circuito di detenzione più duro del sistema penitenziario italiano. Si
era previsto che tale regime avrebbe cessato di avere effetto dopo tre anni ma,
nel 1995, una legge ne prorogòì l’efficacia fino al 31 dicembre 1999 e un
successivo provvedimento fino al 31 dicembre 2002”: è questo l’inizio della
storia dell’articolo 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario, di cui Maurizio
Turco, che è stato anche parlamentare radicale, è uno dei pochi narratori
seri. Ha infatti anche curato, insieme a Sergio D’Elia, il volume “Tortura
democratica.
Inchiesta sulla comunità del 41 bis reale” pubblicato da Marsilio. Lo abbiamo
incontrato nella nostra redazione, nel carcere di Padova, per parlare di un
tema, il 41 bis appunto, che spesso è un tabù anche per chi si occupa
seriamente di carcere e di detenuti.
Oddone
Semolin:
Noi abbiamo cercato di mettere a fuoco i meccanismi di come funziona il 41 bis,
quello che volevamo sapere è come pensate che si possa superare questo regime,
perché siamo consapevoli che la resistenza rispetto alla possibile abolizione
di queste forme di carcerazione è trasversale, politicamente parlando, per cui
crediamo sia molto difficile. Quali strumenti pensate di adottare per fare
questo passaggio concretamente, perché si arrivi al superamento? c’è uno
spiraglio, una possibilità?
Maurizio
Turco:
Penso che non ci sia nessuno spiraglio, né alcun cambiamento in vista, anzi,
penso stiamo andando verso una sempre maggiore militarizzazione anche nel
sistema carcerario, in assenza di possibilità alcuna di un carcere che risponda
a quelli che sono i dettami costituzionali. Il resto è resistenza, noi stiamo
cercando di resistere al fatto di un peggioramento del 41 bis, ma non so se ci
riusciremo, nel senso che già parlano di riaprire Pianosa, l’Asinara, e
sappiamo benissimo cosa significa. Io sono stato questa estate a Badu ‘e
Carros e c’è solo un detenuto in 41 bis, ed è un fatto contrario alla legge,
perché
occasione
a far andare il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio
d’Europa non nei posti dove di solito andava, ad esempio Spoleto, dove c’è
una realtà un po’ più aperta, diciamo. Quando siamo però riusciti a far
andare il Comitato a Parma, lì sono venute fuori 50 pagine di critica al
sistema penitenziario, al sistema italiano, all’applicazione della legge
italiana, ecco perché il problema che oggi dobbiamo porci come obiettivo, è
quello di far rispettare la legge, il 41 bis, in tutti i luoghi
Elton
Kalica: Prima
c’erano delle garanzie, ora che invece è diventato un sistema, quali tutele
ci sono?
Maurizio
Turco:
Intanto vanno ricordati positivamente i 16 senatori e i 44 deputati che, che tra
l’ottobre e il dicembre 2002, votarono contro la legge istitutiva in senso
permanente del 41 bis. Il regime straordinario è stato reso ordinario
attraverso una “stabilizzazione” perché era una legge che doveva essere
sempre rinnovata ogni due anni, proprio per le particolari - cioè, lo ripeto,
violente – condizioni di detenzione, poi nel 2002 il Parlamento ha deciso di
farlo diventare un sistema “ordinario”. Andrebbero studiati gli ultimi sei
mesi del 2002, quello che veniva detto in Parlamento e cosa veniva pubblicato
sui giornali e nelle agenzie. Io so solo che Giuseppe Ayala, già membro del
pool con Falcone e Borsellino e già sottosegretario alla Giustizia e che nel
2002 era membro della Commissione antimafia, nell’ambito della discussione in
Commissione sulla stabilizzazione del 41 bis, disse: «(...) saranno stati
centinaia i provvedimenti che ho firmato, le motivazioni delle proroghe
appartengono a quella categoria di cose che si firmano previa bendatura degli
occhi (tanto è un’azione automatica che sappiamo fare tutti e con l’occhio
bendato viene meglio).» Perché prorogava ad occhi bendati la permanenza in 41
bis? Perché
Per
quella che è la mia esperienza ho visto poche persone uscire dal 41 bis e le ho
ritrovate quasi tutte, ancora insieme a… Badu ‘e Carros, a Nuoro, in
Sardegna. L’unico cambiamento è stato un peggioramento delle condizioni di
detenzione, intendendo con questo soprattutto la difficoltà di avere rapporti
con i familiari, perché è chiaro che quando ti sbattono in Sardegna, se hai
dei parenti in qualsiasi parte d’Italia, diventa un costo serio, sei tagliato
fuori da qualsiasi possibilità di un rapporto costante. Fra pochi mesi in
Sardegna risiederanno la metà dei detenuti in 41 bis e quasi tutti coloro che
ci sono passati e sono vittime (e sottolineo: vittime) di un reato ostativo, cioè
sono condannati a non uscire mai. In altre parole, questo significa avere
introiettato il senso dell’impunità da parte di chi dovrebbe applicare la
legge ed invece la viola. C’è un giovane detenuto che ho incontrato una volta
in 41 bis e due volte a Badu ‘e Carros ristretto in alta sorveglianza.
L’ultima volta mi ha detto “noi qui rappresentiamo il fallimento dello
Stato. Siamo da decenni in galera. Siamo condannati all’ergastolo ostativo. La
Costituzione non permette la restrizione a vita, ma c’è una legge che la
consente attraverso un meccanismo dal quale risulta che siamo noi che vogliamo
restare in carcere. Ogni volta che viene e ci trova ancora qui deve pensare:
abbiamo fallito”.
Sandro
Calderoni: Ci
racconti come si vive nel 41 bis?
Maurizio
Turco:
Vivere? Tanto per cominciare, non si potrebbero tenere le telecamere in cella,
soprattutto se sono puntate sui servizi igienici, ma questo continua ad accadere
in tutte le aree riservate. Ho avuto modo di vedere una cosa allucinante a Badu
‘e Carros, dove c’è un solo detenuto in 41 bis: c’è un corridoio con
diverse celle ma una sola è occupata, ha una telecamera puntata sui “servizi
igienici”, che consistono in un bagno alla turca anomalo, non si trova ad
altezza del pavimento ma è rialzato di un metro per ovvie ragioni, perché c’è
la volontà di manifestare un potere fisico, di umiliarlo davanti alla
telecamera quando deve fare i suoi bisogni, e questo è qualcosa che è
intimamente connaturato al 41 bis. La legge prevede espressamente che chi va in
41 bis può uscire unicamente se si pente, noi - a far morire a casa almeno due
persone, una c’è rimasta in agonia dieci giorni, l’altra non hanno fatto in
tempo a farla uscire dall’ambulanza che è morta sull’uscio di casa, c’è
proprio anche una logica dimostrativa per gli altri, nel senso che una di queste
due persone era stata curata per tutt’altra patologia, la cartella clinica è
stata inviata al professor Tirelli, del centro oncologico di Aviano, il quale
disse: questa persona ha una prognosi infausta certa, può avere un mese di
vita. E dopo un mese è morta. Devo dare atto al Ministro Castelli che ha
risposto positivamente al nostro appello a non farlo morire come un cane ed è
morto a casa sua. Di solito un detenuto in 41 bis muore in ospedale dove viene
trasportato dal carcere in prossimità del decesso. Morire nella propria casa è
fatto rarissimo. Certi accanimenti hanno solo il senso dimostrativo, è chiaro
che non c’è nessun problema di sicurezza per quella persona ammalata di
tumore che sta morendo di tenerla li, però il tenerla li è di esempio per gli
altri. Diciamo che lo Stato ha fatto propria, ha assimilato e riprodotto la
logica mafiosa. Lo Stato, cioè chi dovrebbe prevenire e contrastare il formarsi
di una tale logica.
Bruno
Turci:
A proposito della telecamera puntata sui servizi igienici, un paio di anni fa io
ero al carcere di Opera ed in quel carcere c’è un reparto di 41 bis, la
cosiddetta area riservata, che ospita alcuni detenuti. Ricordo che era
intervenuto il magistrato di Sorveglianza che ha in pratica imposto di
smantellare la telecamera puntata sui servizi igienici. Lei ha informazioni di
questo tipo anche da altre parti?
Maurizio
Turco:
C’è anche una sentenza della Cassazione che ha vietato questo, però io so di
avvocati che in nome dei propri assistiti hanno chiesto di togliere la
telecamera e che hanno avuto seri problemi. In tutte le aeree riservate ci sono
le telecamere, continuano ad esserci, ed è incredibile che non viene rispettata
nemmeno una sentenza della Cassazione, perché c’è un potere superiore ed è
quello del DAP con le sue funzioni periferiche, cioè i direttori dei singoli
carceri. Vale a dire che nelle diverse situazioni del 41 bis, è il
direttore che può fare la differenza, perché può determinare tutta una
serie di ulteriori misure che mettono in condizioni le persone che sono in 41
bis di subire una violenza aggiuntiva, quella che noi abbiamo chiamato tortura
democratica. È evidente anche dal fatto che non siamo mai riusciti ad avere una
ricerca epistemologica sui problemi sanitari degli ammalati in 41 bis.
Basterebbe quello per dimostrare cosa succede là dentro.
Bruno
Turci: A
qualcuno che stia in condizioni di sovraffollamento potrebbe venire da dire
“però stanno da soli!”…
Maurizio
Turco: Le
strutture del 41 bis che stanno ristrutturando sono tutte bianche, pulite e
ognuno ha la sua cella: come i manicomi che vedi nei film americani. Il problema
è che l’isolamento vale per 23 ore al giorno e non puoi fare niente, non devi
fare niente, evitano accuratamente che tu abbia qualcosa da fare, sinanche
parlare con il tuo vicino di cella. Dal mio punto di vista - che è quello di
una persona che sta incondizionatamente dalla parte dello Stato di diritto, che
si definisce partigiano della giustizia, della legalità e della democrazia -
sono in violazione di questi principi sia la detenzione in condizioni di
sovraffollamento o di isolamento. Isolamento che non escludo si possa rendere
necessario in rarissimi casi e per brevissimo tempo e che possa essere ripetuto
per una persona solo eccezionalmente e non certo a breve distanza.
Dritan
Iberisha:
Quanti sono i detenuti morti in 41 bis o suicidati?
Maurizio
Turco:
Il numero esatto non lo sappiamo. Abbiamo chiesto al Ministero della Giustizia
quante sono le persone detenute in 41 bis che sono morte in carcere, quante
mentre venivano trasportate in ospedale, quante morte in ospedale o a casa da
detenuti o da quanto tempo erano stati scarcerati. A tutte queste domande il
Ministero ha risposto che non ci possono dare i dati… per motivi di privacy!
Eppure questi dati sono importantissimi, perché di solito le statistiche -
anche per quanto riguarda i detenuti comuni - sono drogate dal fatto che molti
detenuti non muoiano formalmente in carcere, per non parlare di coloro che
muoiono di carcere. Questo è peraltro un modo di non far capire come stanno le
cose neanche al legislatore. Nasconderci questi dati vuol dire metterci
nell’impossibilità di capire cosa è
necessario fare o cosa lo Stato
sta facendo: negare queste verità vuol dire rendere impossibile il nostro
dovere costituzionale ad assumerci delle responsabilità. Per fortuna abbiamo il
Consiglio d’Europa, anche se ormai ha ritmi italiani: ci vogliono anni per una
sentenza e purtroppo anche li è una questione tutta legata all’Italia, che
per le ingiustizie che riesce ad infliggere sta mettendo in serio pericolo la
capacità del Consiglio di rispondere in tempi rapidi ed efficaci.
Bruno
Turci:
Ma lei ha notizia di maltrattamenti, anche se non fisici, ma solo psicologici,
vessazioni all’interno di queste strutture di regime del 41 bis? E rispetto
alle famiglie le possibilità di rapporti, colloqui, telefonate quali sono?
Maurizio
Turco:
I rapporti sono un’ora di colloquio al mese col vetro, oppure 10 minuti di
telefono, compreso il fatto che se dovesse cadere la linea i 10 minuti
continuano ad andare avanti, quindi è un regime in cui cercano di evitare al
massimo il contatto con l’esterno. Noi abbiamo raccolto anche segnalazioni di
detenuti che per anni hanno rifiutato di vedere i familiari, per non essere
accusati di mandare messaggi. Il carcere diventa così un luogo dove nascondere
le persone, possibilmente tenerle il più a lungo possibile, perché così è
stato deciso. Per me questo è il miglior esempio della negazione dello Stato di
Diritto: quando arrivi a questo livello, vuol dire che non c’è più
democrazia. Ripeto: siamo ben oltre i maltrattamenti, siamo ai trattamenti
disumani e degradanti. Stiamo parlando, per capirci, della tortura.
Sandro
Calderoni: Lei
ha detto più volte che il 41 bis è una tortura. Cosa lo rende tale?
Maurizio
Turco: Purtroppo
il 41 bis si lega a qualcosa di profondamente connesso alla tortura, il 41 bis
è tecnicamente una vera e propria tortura, perché ha la finalità della
tortura. La tortura a cosa è finalizzata? Non è finalizzata a fare del male
per fare del male, diciamo ad infliggere una pena aggiuntiva (anche se è
accaduto!), la tortura è finalizzata a far parlare, a strappare confessioni,
estorcere informazioni, provocare collaborazioni. La legge sull’ordinamento
penitenziario prevede espressamente all’articolo 4bis che per certi tipi di
reato possano essere concessi privilegi “solo nei casi in cui tali detenuti
e internati collaborino con la giustizia”, sono gli stessi reati
per i quali sulla base dell’articolo 41 bis della stessa legge si finisce al
carcere duro. In altre parole, se hai commesso certi reati e non collabori
scordati i benefici. Non ti impressiona la perdita dei benefici? Sei un caso di
emergenza: articolo 41 bis che fa al caso tuo. Entri nel girone infernale e se
qualche magistrato di sorveglianza dovesse riconoscere qualche tuo diritto e
liberarti del 41 bis finisci in Sardegna. Ti conviene non collaborare e fare
ricorsi contro il 41 bis? Quindi non potendo legalmente passare alle torture
fisiche, titorturano in qualche altro modo e la tortura psicologica c’è
tutta, fin nelle minime cose. Quando improvvisamente ti tolgono il fornellino,
te lo fanno tenere un’ora al giorno, nell’ora che dicono loro e non quando
ti serve. Quando decidono che puoi tenere solo un libro, oppure non puoi leggere
trattati di medicina se sei un medico. Ci sono tante cose, apparentemente
piccole cose che però in quelle condizioni di detenzione in cui non hai niente,
sono pesantissime, magari ti negano la penna per scrivere la lettera. Io ho
trovato un detenuto da anni nelle aree riservate del 41 bis che aveva avuto
anche il 14bis (regime di sorveglianza particolare, quasi che il 41
Elton
Kalica: Perché
allora la si difende così tanto, questa forma di tortura?
Maurizio
Turco: Io
ho una mia idea che al di là di tutto il 41 bis deve dare l’impressione che
la mafia è quella, cioè la classe sociale è quella, abbiamo individuato che
è quella. In carcere ci sono sostanzialmente persone modeste, condannate per
reati efferati ma modeste. Insomma non ho trovato banchieri, esperti di finanza
internazionale. Per la verità non ce n’è uno, però ci spiegano che la mafia
vive di finanza e di transazioni internazionali, ma lì non c’è nemmeno un
esperto di quella che dovrebbe essere l’attività principale. Più il 41 bis
è feroce, e riescono a far uscire fuori tutta questa violenza che c’è nei
confronti di queste persone, più dall’altra parte si vede, lo dicono loro,
che le mafie fanno fatturati sempre più alti, si parla di 100 miliardi, cioè
cose incredibili. Insomma qualcuno può spiegarci a che serve il 41 bis?
Possibile che arrestino sempre e solo perdenti e manovali, magari d’alto
calibro criminale ma manovali? Eppure c’è questo 41 bis, c’è sempre più
gente in 41 bis: non si capisce dov’è il momento di rottura tra il 41 bis e
la sua efficacia.
Elton
Kalica: Con
efficacia intende la collaborazione?
Maurizio
Turco: Le
persone che collaborano sono pochissime, sono di solito persone di secondo piano
e quasi sempre il loro pentimento consiste nell’aver sentito da qualcun altro
dei fatti, raramente sono stati protagonisti dei fatti che raccontano. Chiunque
entra, e non è detto che entrino solo persone accusate o condannate per aver
commesso atti feroci o quant’altro, entra anche gente che non è accusata di
essere un capomafia, di aver commesso un delitto, ma è sospettata
dell’obbrobrio giuridico definito “concorso esterno”. Noi abbiamo trovato
nel 2001 un ragazzo di 19 anni che era la prima volta che entrava in
Ornella
Favero:
Molti sostengono, compreso il Capo del Dap, Giovanni Tamburino, che il regime di
41 bis ha dato dei risultati notevoli. Cosa ne pensa lei?
Maurizio
Turco:
La domanda da porre anche a Tamburino sarebbe: noi vi crediamo, ce li potete
illustrare questi risultati? Non ci potete solo dire che il 41 bis funziona,
diteci anche come e perché. L’obiettivo della legge è quello di far
collaborare, quanti detenuti hanno collaborato? Quanti non hanno collaborato e
sono rimasti in 41 bis e qual è la loro storia processuale? Quanta gente è
stata condannata perché l’hanno messa subito in 41 bis? E quanta nonostante
fosse in 41 bis è stata perseguita per altri reati o assolta? È chiaro che
c’è una volontà ben precisa di creare un circuito che, secondo me, rischia
di diventare un po’ alla volta un circuito ordinario. Sarà sempre più facile
dire: costa troppo portare i detenuti in tribunale, portiamoli in televisione!
Io credo che la questione determinante su questo tema sia quella
dell’informazione. Io sono andato una sola volta da Giuliano Ferrara a parlare
di 41 bis, alla fine si è
Ornella
Favero:
Quanti detenuti ci sono ora in 41 bis?
Maurizio
Turco:
Dai 600 ai 650. Noi abbiamo iniziato ad occuparci di 41 bis quando ho visto che
c’era un problema di segretezza. Avevo letto negli atti parlamentari della
Commissione antimafia che un deputato aveva chiesto al capo del DAP: dove sono
le carceri in cui si trovano le sezioni del 41 bis? E lui disse che per
questioni di sicurezza non lo poteva dire, si limitò a dire … e comunque non
sotto Secondigliano. Andai con Sergio D’Elia a Secondigliano e ricostruimmo
l’intera mappa, poi siamo andati a vedere tutti i 650, uno per uno, gli
abbiamo scritto, ci hanno risposto, abbiamo fatto questo libro: “Tortura
democratica”. Esce il libro e ci avvisano che c’era un’altra sezione di 41
bis, un’altra sezione con un solo detenuto a Belluno: Cutolo. Non diciamo
niente a nessuno, partiamo. Arriviamo alla mattina e chiediamo di vedere la
sezione del 41 bis, ma nella notte “il detenuto” era stato trasferito a
Novara. Praticamente c’era un’intera sezione, in cui era tenuto li da solo
da dieci anni, non aveva nessuno con cui parlare, poi io sono andato a Novara,
l’ho trovato, io non sono un medico, però era visibilmente in uno stato
fisico e psichico precario, non era in grado di parlare, perché non era più
abituato a parlare, non aveva nessuno con cui parlare, parlava da solo. Anche
questa questione della segretezza che ci deve essere sul 41 bis, del
Elton
kalica: Ci
sono situazioni analoghe in Europa?
Maurizio
Turco: Non
abbiamo paragoni possibili con situazioni carcerarie in Europa. Anche in Spagna,
quando ero deputato europeo, sono stato l’unico che ha incontrato i familiari
delle persone detenute nel regime speciale che è riservato ai terroristi
baschi. Sono improvvisamente diventato il nemico: ci sono stati interventi in
parlamento, nei consigli regionali, solo perché li avevo incontrati e mi ero
occupato di ascoltarli. Anche lì è un regime duro, ma non è il regime
italiano: cioè quando c’è la visita, i detenuti stanno insieme con i
familiari. Certamente in una situazione di sicurezza, però possono parlare
tranquillamente, oltretutto ormai ci sono tanti sistemi per controllare, che non
c’è bisogno del vetro. È chiaro che il vetro è un simbolo, è la rottura
con l’esterno, ormai stai da quest’altra parte. Certo la situazione italiana
del 41 bis è del tutto particolare. Noi dobbiamo comunque tenere presente anche
il livello di democrazia alla quale abbiamo l’ambizione di tendere. Non
possiamo fare il paragone delle carceri italiane con quelle del Sudan. Il Sudan
non ha le nostre ambizioni democratiche. Se però paragoniamo le loro ambizioni
con le nostre, nell’applicazione delle stesse leggi, noi siamo messi molto
peggio di loro.
Antonio
Floris:
Io sono in cella con uno che è stato in 41 bis per due anni e mi diceva che
quando doveva telefonare, la sua famiglia doveva recarsi al carcere più vicino
al luogo di residenza. Entravano all’interno del carcere il giorno e l’ora
che venivano loro indicati e aspettavano che si mettessero in contatto con il
carcere dov’era detenuto il
famigliare. Alla fine il mio compagno di cella non telefonava più, per non
arrecare alla famiglia, oltre al tempo perso, il fastidio delle perquisizioni
personali, l’autorizzazione ad entrare e tutte le altre sofferenze. Ma se le
telefonate del 41 bis sono controllate e registrate, e le possono interrompere
quando vogliono, anche se uno chiama a casa, che bisogno c’è di fare creare
queste difficoltà e questi soprusi?
Maurizio
Turco:
Oltre che essere una prevaricazione, serve anche per cercare di rompere i
rapporti
Sandro
Calderoni:
Ma come mai non interviene la Corte costituzionale se questa legge va a ledere i
diritti dell’art. 27 della Costituzione? Nel 41 bis non c’è nessun
trattamento, questo come si concilia con la Costituzione?
Maurizio
Turco:
Nel nome della sicurezza si può fare di tutto. Questa legge ha passato il
vaglio costituzionale sulla base di particolari problemi di sicurezza, sempre
giustificati. C’è un fatto all’origine del
Elton
Kalica:
C’è un altro argomento che vorremmo affrontare, ed è quello
dell’ergastolo, considerato non illegittimo perché c’è la liberazione
condizionale che lo renderebbe una pena conforme alla Costituzione. E
l’ergastolo ostativo? Anche in questa sede abbiamo intervistato magistrati e
diverse persone autorevoli e competenti, le quali hanno detto che in Italia
l’ergastolo non esiste, perché uno può chiedere la liberazione condizionale.
Maurizio
Turco:
Quello che abbiamo capito, purtroppo, è che volendo la Costituzione può avere
delle deroghe, altrimenti non ci sarebbe l’ergastolo ostativo e il 41 bis non
sarebbe mai potuto diventare legge. E’ una delle tante vergogne
anticostituzionali, ma dirò di più, contraria ai diritti umani fondamentali
universalmente riconosciuti.
Elton
Kalica:
Si può uscire dal 41 bis senza essere pentiti?
Maurizio
Turco:
Si, solo che alcuni magistrati di Sorveglianza che hanno disapplicato il 41 bis
non hanno avuto vita facile. Eppure stavano applicando la legge. Tu hai il
diritto di chiedere la disapplicazione del 41 bis, se io ti dimostro che sono
qui dentro da cinque anni e non ho mai visto nessuno e non c’è nessun
procedimento a mio carico e non c’è niente. Come fai a dire che continuo a
mantenere i contatti con l’esterno? Purtroppo chi ha applicato la legge si è
spesso ritrovato spodestato del suo potere, tanto è vero che ora a decidere è
solo la magistratura di Sorveglianza di Roma, perché vogliono che ci sia una
uniformità di giudizio. Anche lì, la scusa è che ci vuole la
specializzazione, perché il circuito è speciale: i magistrati devono essere
speciali, gli agenti devono essere speciali, cioè è un sistema specializzato e
militarizzato. Io questo vorrei cercare di far capire, il problema non è la
legge, è l’applicazione, o la disapplicazione, è il tuo diritto negato, che
tu non hai modo di far valere. Ecco perché trovo ancora più grave che, al di là
della legge scritta, ci sia la legge applicata, perché il 41 bis sulla carta
non è il 41 bis della cella. Sono due cose diverse, se tu leggi la normativa
sul 41 bis, vedi che nella realtà ci sono maggiori privazioni, il vetro
divisorio ai colloqui non c’è scritto, il vetro divisorio l’ha deciso il
DAP, con quali poteri? Il DAP non è una istituzione legislativa, eppure ha il
potere di farlo, nel senso che lo fanno e non succede niente. I magistrati di
Sorveglianza, perché sono pochissimi i magistrati di Sorveglianza?
Perché
non devono sorvegliare, perché se sorvegliassero e se dovessero applicare la
legge e avessero la possibilità di farlo in tempi rapidi, persona per persona,
salterebbe tutto il sistema. Quindi debbono essere pochi e debbono avere tanto
da fare. La critica più dura ai regimi speciali noi la sentiamo fare dai
magistrati di Sorveglianza, io ho sentito dire da un magistrato di Sorveglianza
di Palermo cose pazzesche, cioè quelle che ci stiamo dicendo noi qui. Quindi la
prima cosa da fare è quella di applicare l’articolo 41 bis. Se lo si
applicasse forse resterebbero in carcere 50 persone e non potrebbero restarci
per tutto il tempo in cui restano. La seconda cosa è far capire che se uno esce
dal 41 bis, non va comunque a fare una passeggiata, non va a casa, è comunque
in galera, altamente sorvegliato. E va fatto capire che nella grande maggioranza
dei casi non uscirà mai. E quindi porre la questione dei reati ostativi.
Bruno
Turci:
Ci sono stati casi di detenuti in 41 bis che si sono rivolti alla Corte di
Strasburgo?
Maurizio
Turco:
Per fare un esempio, la questione del vetro durante i colloqui è stata portata
a Strasburgo, che l’ha considerata unadelle facoltà legittime di uno Stato
quando ci sono questioni di sicurezza. C’è il mito della sicurezza, il
problema è solo questo. Nel nome della sicurezza puoi fare tutto. Anche
inventarti il 41 bis.
Bruno
Turci:
È proprio una strategia, quindi credo sia impossibile che a breve si riesca a
sconvolgere il sistema penale e ad arrivare all’abrogazione del 41 bis, però
almeno bisogna cominciare a prendere di mira quelle cose che in modo troppo
evidente non vanno. Ad esempio qual è il criterio per applicarlo, a chi va
applicato, se si riuscisse a spingere su una verifica della sua applicazione,
probabilmente ad una buona parte verrebbe tolto.
Maurizio
Turco:
Io continuo a credere che il 41 bis è un simbolo, per poter dire: noi abbiamo
il 41 bis. Ma è un simbolo, perché poi il potere politico non è più quello
che conosciamo, ormai la globalizzazione dei mercati fa entrare in gioco delle
forze oscure: per fare un esempio, si spostano milioni di euro in Tanzania con
una facilità estrema e nessuno se ne accorge? E’ una roba da pazzi. Com’è
possibile? Poi vai in banca e versi a qualcuno più di 2.000 euro e registrano a
chi li hai dati. Il 41 bis è l’esempio di questi assurdi, perché se poi vai
a vedere quelli che sono al 41 bis, molti di loro - l’ho già detto – non
solo non sono in grado di fare una transazione finanziaria internazionale, ma
non sanno nemmeno di cosa stiamo parlando. Cioè non sono quelli del denaro
sporco delle mafie e la maggior parte, credo, nemmeno i loro manovali. Io però
continuo a credere che per cambiare qualcosa o puntiamo alto, e quindi partiamo
con l’amnistia, oppure è tutto più difficile. È più facile raggiungere un
grande obiettivo che non ottenere un qualcosina. Purtroppo l’amnistia molti la
vedono come punto d’arrivo, invece l’amnistia è un punto di partenza: o
partiamo da li per riformare davvero la Giustizia nel suo complesso, o non si va
da nessuna parte perché senza legalità non si va da nessuna parte, nelle
carceri e nella società. Io non sopporto che nei confronti di una
persona di cui abbiamo la certezza assoluta che abbia commesso le
più atroci efferatezze uno Stato che si dice democratico si
comporti con la stessa atroce efferatezza. E quindi lotto perché la
Repubblica italiana rispetti i principi (traditi) sui quali è stata fondata e
il dovere di rispettare i diritti umani fondamentali.
Dal
cubicolo, al loculo
Che
senso ha rieducare per legge una persona, che per legge è stata condannata a
morire in carcere?
di
Giovanni Prinari, Carcere di Carinola (CE)
Sono
un condannato all’ergastolo e mi trovo detenuto dal 5 gennaio 1993 (20 anni).
Desidero rivolgere la lettura di questa mia considerazione/riflessione a tutte
le persone che si troveranno tra le mani la rivista di Ristretti Orizzonti, che
porta avanti una lotta di civiltà giuridica, di sensibilità umana e di
conoscenza di una realtà, qual è quella della pena dell’ergastolo ostativo,
che ai più è sconosciuta. In effetti questa non conoscenza permette ad una
serie di opinionisti e tuttologi, di blaterare nei salotti di trasmissioni
televisive sciorinando ognuno le sue pseudo “competenze” o “conoscenze”,
i dati e le statistiche sulla pena dell’ergastolo, affermando con illazioni
apodittiche che l’ergastolo non lo sconta nessuno.
Tuttavia,
la mia considerazione/riflessione non è tanto su questi personaggi che mentono
pubblicamente sapendo di mentire o ignorando di mentire, neppure sul cosa si
prova o sul come si vive una pena all’ergastolo, ma sul perché bisogna
sottoporre al trattamento penitenziario un ergastolano per rieducarlo, se lo
stesso non ha nessuna possibilità di riacquisire la libertà e, di conseguenza,
di non essere
A
cosa serve rieducarlo? A chi serve rieducarlo?
Magari
per meglio comportarsi con gli angeli o con i diavoli? Forse per andare in
paradiso anziché all’inferno? Spero perdonerete questa mia provocazione. Non
intendo minimamente essere blasfemo, anche perché sono cattolico credente e
lungi da me giocare con la religione. Quello
che è il mio desiderio è di spingere i lettori a una seria riflessione: che
senso ha rieducare per legge una persona, che per legge è stata condannata a
morire in carcere?
Perché
attuare nei suoi confronti un trattamento penitenziario che implica farlo
lavorare, studiare, colloquiare con educatori, con assistenti sociali, con
psicologi, con criminologi e, perché no, anche con il magistrato di
Sorveglianza che si reca in carcere ad incontrare l’ergastolano ostativo, al
quale non concederà mai un beneficio, per un colloquio richiesto dal medesimo,
se poi il tutto non produrrà nessun effetto utile per la società?
Non
pare anche a voi che in tutto questo c’è una contraddizione nella legge? Io
ritengo di si. Ma è una mia considerazione. Come può una legge negare dei
benefici penitenziari, quali le misure alternative, nei confronti dei condannati
all’ergastolo, e allo stesso tempo pretendere la rieducazione che serve per
applicare le misure alternative nei confronti di colui che non uscirà mai più
dal carcere? Forse sarebbe ora di modificare, per noi ergastolani, l’art. 27
comma 3 della Costituzione, con il principio secondo cui: “Le pene non possono
consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla
rieducazione del condannato, ad eccezione dei condannati all’ergastolo che
devono morire in carcere”.
Inoltre,
a pari dell’art. 27 comma 3 della Costituzione, bisognerebbe poi modificare
gli articoli 1, 13 e 15 della legge penitenziaria, nonché gli articoli 1, 27,
28, 29 e 30 del D.P.R. 30 Giugno 2000, n. 230 del Regolamento di esecuzione
della legge penitenziaria, esplicitando che dal trattamento e dalla rieducazione
sono esclusi i condannati all’ergastolo.
Per
chiarezza, il mio ergastolo non è ostativo ai benefici, ma non mi vengono
ugualmente concessi. Grazie per avermi dedicato un poco del vostro tempo
leggendomi.