Numero febbraio 2012

 

Dal processo al carcere: uomini che diventano quasi invisibili

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Ristretti Orizzonti

(Anno 14, numero 1, Gennaio 2012)

Editoriale

Riportare al centro dell’attenzione “la persona”

Parliamone

La pena deve essere adeguata ala persona più che al fatto a cura della Redazione

Cosa può cambiare se i magistrati entrano in carcere a incontrare i detenuti? di Bruno Turci

Avrei voluto, prima di essere condannato, essere considerato come persona di Qamar Abbas Aslam

Nel processo non sempre ti senti trattato come un essere umano di Ulderico Galassini

Il carcere entra a scuola le scuola entrano in carcere: (ai ragazzi diciamo: “buttate via i coltelli” )

Gli “innocui” coltelli multiuso di Filippo Filippi

Una catena di minacce e violenze finita tragicamente di Qamar Abbas Aslam

Un coltello ti porta guai anche se lo tieni sempre chiuso di Mohamed El Ins

Perché a volte rispondo che “vorrei essere una donna” di Altin Demiri

Comportamenti da “incoscenti” di Luigi Guida

Quando Giorgio Gaber ci raccontava “I mostri che abbiamo dentro” a cura della Redazione

Informazione e controinformazione

Lo stupro di gruppo, il carcere e gli orrori dell’informazione di Antonio Floris

Un invito a Marco Travaglio a cura della Redazione

La strana matematica di Travaglio di Ulderico Galassini

Un po’ di verità invece di tanta falsa pietà di Antonio Floris

Sprigionare gli affetti

Diritto all’amore della propria famiglia a cura della Redazione

Dieci minuti di telefonata da dividere per tre figli di Luigi Guida

Telefonate negate = affetti negati di Santo Napoli

Quanto è bella la libertà di telefonare di Serghei Vitali

Attenti al libro

Undici ore d’amore di un uomo ombra recensione a cura di Oddone Semolin “Ristretti Orizzonti”

Spazio libero

Dare più spazio agli uomini ombra e ai detenuti più “cattivi” a cura della Redazione

Con Alessandro Bergonzi, l’arte è entrata in galera a cura della Redazione

Europian learning network , il primo seminario di Ristretti fuori Italia di Elton Kalica, nostro inviato a Bruxelles

Donne Dentro

Figli del 4 bis a cura della Redazione

Dopo venti mesi ho risentito la parola “mamma” testimonianza di Mimosa

“Al telefono non voglio sentirti piangere più” testimonianza di Lumivita

Redazione

Editoriale

 

Riportare al centro dell’attenzione la persona

di Ornella Favero

 

Strana iniziativa, quella del nostro magistrato di Sorveglianza, Marcello Bortolato, di accompagnare Gip, Gup, Pubblici ministeri, a una visita guidata alle carceri “perché ciascuno di noi è arrivato a fare il magistrato, il giudice della cognizione, il giudice per le indagini preliminari senza essere mai stato in carcere, o al massimo solo nella saletta colloqui dove ha incontrato il detenuto”. Strana iniziativa, perché quello che è emerso in modo limpido è che il carcere non lo conosce quasi nessuno, e quando noi accogliamo i ragazzi delle scuole e le persone detenute portano la loro testimonianza, e raccontano pezzi della loro vita, forse questi stessi racconti sarebbero interessanti, e utili anche per chi i detenuti li conosce solo attraverso i loro reati e ne ha determinato la condanna e la conseguente carcerazione. Ed è importante al riguardo quello che dice lo stesso magistrato, quando sottolinea con forza che a suo parere “la pena dovrebbe essere adeguata alla persona più che al fatto”.

La PERSONA in realtà non è quasi mai al centro dei percorsi di giustizia: non lo è nel processo, e sono tanti i detenuti che raccontano di essersi sentiti quasi invisibili nei tribunali, lo è sempre meno in carcere, dove ormai il sovraffollamento è praticamente la negazione di qualsiasi possibilità di essere trattati da persone, e di essere accompagnati in un percorso di rientro graduale nella società. Ma è difficile che cambino le cose, se non si lavora sull’origine di questa equazione “autore di reato=non persona”, che nasce da una informazione sempre più approssimativa e tesa alla semplificazione della complessità. Perché è evidente che le persone che hanno commesso reati rappresentano una realtà complessa proprio a partire dalle loro scelte, dal rapporto tra bene e male che c’è nelle loro azioni e nelle loro vite. Ed è su questo che noi di Ristretti concentriamo il nostro lavoro, sullo smontare pazientemente quelle notizie, che trasformano gli autori di reato in mostri, mettendo così in luce i meccanismi perversi che quel tipo di informazione innesca: l’illusione dei “buoni” di essere saldamente ancorati alla loro condizione di bontà, il fastidio, il rancore, la rabbia verso i “cattivi”, la voglia di punirli con tanta galera e l’indifferenza verso le condizioni in cui si vive nelle carceri italiane oggi.

Entrare in carcere, visitare le sezioni, parlare con le persone detenute è allora una scelta, da parte dei magistrati, che ha un significato particolarmente forte: quello di spezzare questa cappa di rancore e cattiveria, che circonda chi sta scontando la sua pena, e di dimostrare che la conoscenza delle condizioni detentive è un elemento fondamentale della loro formazione, della loro professionalità e della loro umanità. A questo aggiungiamo, da parte nostra, che forse conoscere meglio le carceri può voler dire arrivare alla consapevolezza che condannare a lunghe pene oggi significa condannare a una forma nemmeno più tanto nascosta di tortura.

 

Parliamone

 

I magistrati entrano in carcere

La pena deve essere adeguata alla persona più che al fatto

 

Un gruppo di magistrati del distretto del Veneto, nell’ambito di una riflessione sull’”emergenza carcere” ha organizzato una serie di visite nelle carceri della regione. Come prima “visita guidata” il magistrato di Sorveglianza di Padova, Marcello Bortolato, ha accompagnato Gip, Gup, Pubblici ministeri, giudici minorili all’interno della Casa circondariale e della Casa di reclusione di Padova, dove la visita si è conclusa nella redazione di Ristretti Orizzonti, con tante domande delle persone detenute, curiose di avere la possibilità per una volta di non essere giudicate, ma di intervistare tanti giudici insieme.

E la “visita guidata” alle carceri di tanti giudici del distretto del Veneto ha permesso loro di confrontarsi proprio con le persone condannate e detenute

 

A cura della Redazione

 

Marcello Bortolato, magistrato di Sorveglianza di Padova: Oggi sono qui per visitare il carcere con un gruppo di magistrati dei vari uffici del distretto del Veneto. Essendo magistrati ci occupiamo di carcere, mandiamo le persone in carcere e qualche volta le facciamo uscire, per questo abbiamo la volontà di capire esattamente che cosa è il carcere e per fare questo vogliamo provare a vederlo da dentro. Anche perché ciascuno di noi è arrivato a fare il magistrato, il giudice della cognizione, il giudice per le indagini preliminari senza essere mai stato in carcere, o al massimo solo nella saletta colloqui dove ha incontrato il detenuto. Quindi il nostro scopo è quello di osservare gli Istituti (abbiamo cominciato da Padova, ma vogliamo fare delle visite anche negli altri istituti del Veneto) per renderci conto di quale sia effettivamente la situazione penitenziaria di questa regione. Abbiamo fatto una visita alla Casa circondariale e ora abbiamo fatto un giro per la Casa di reclusione dove abbiamo constatato che questo è un carcere “aperto”. Io poi, che sono magistrato di Sorveglianza, lavoro perché il carcere sia una struttura trasparente, perché in carcere ci sono delle persone che hanno sbagliato, che hanno commesso dei reati, spesso gravissimi, e tutto il lavoro del sistema penitenziario deve essere orientato alla rieducazione, a far ritornare il detenuto, responsabile del reato, nella società. Quindi il carcere deve essere un’officina trasparente con le porte aperte in cui si possa guardare dall’esterno all’interno e viceversa.

Alla fine di questa visita in cui abbiamo osservato e incontrato i responsabili dell’area educativa, i responsabili delle realtà che garantiscono il lavoro interno al carcere, abbiamo voluto anche un incontro con la redazione di Ristretti Orizzonti.

Spiego brevemente, per chi non lo sa, che nel carcere di Padova esiste da quindici anni questa rivista, Ristretti Orizzonti, che non solo dà la possibilità ai detenuti di parlare e di scrivere comunicando con l’esterno (perché qui si fanno incontri frequenti con persone che entrano per confrontarsi e discutere) ma è anche uno strumento fondamentale di informazione per tutti. Oramai Ristretti Orizzonti è diventato un organo di informazione di importanza nazionale sui temi del carcere e della giustizia: tra l’altro, è un osservatorio fra i più attenti e precisi sulle morti in carcere e sulle condizioni di detenzione in tutta Italia.

Io il carcere di Padova lo conosco per la professione che svolgo, ma molti dei miei colleghi non l’avevano mai visto: è stata un’esperienza importante e molto bella.

Mi piace anche che si concluda con un incontro diretto con le persone che subiscono il carcere per il reato che hanno commesso, perché giustamente e legittimamente condannati, e che oggi hanno la possibilità di incontrare le persone che rappresentano quelle istituzioni che hanno loro irrogato le pene: è importante che ci sia anche questo tipo di dialogo.

Vorrei solo chiudere dicendo una cosa molto semplice, cioè che il carcere è stato in qualche modo una conquista di civiltà perché una volta le pene erano corporali, limitare soltanto la libertà di movimento è già un progresso. Però quello che non è tollerabile è la doppia punizione, e cioè il fatto che a questa compressione della libertà personale si aggiungano altre limitazioni che non sono dovute. Oggi in Italia abbiamo un tasso di sovraffollamento altissimo e questo determina una evidente compressione dei diritti dei reclusi sottoposti ad una doppia afflizione, è un sistema punitivo raddoppiato e questo non è più tollerabile. È per questo che vogliamo lavorare (per quello che ci compete) per almeno renderci conto di qual è effettivamente la realtà interna di un carcere come quello di Padova, visto che è il nostro carcere più vicino, perché solo la politica può, anzi deve fare delle scelte attraverso le leggi per modificare tutto questo.

 

Ornella Favero: Una cosa che ci tengo a dire, a proposito di trasparenza, è che qui ogni giorno entrano tantissime classi delle scuole. Ma non vengono a vedere quanto si sta male o com’è il carcere, vengono a confrontarsi su come si può finire in carcere. Questo perché i ragazzi di solito immaginano che la scelta di commettere un rea­to sia appunto una scelta chiara, e quindi dicono: “Io so quello che voglio e non lo farò mai”. Non si rendono conto di ciò che invece emerge bene dai racconti delle persone detenute, e cioè che c’è un lento scivolamento dei comportamenti verso la trasgressione, e poi l’illegalità. Quindi da qui dentro al carcere parte un grosso lavoro di prevenzione, che è quello del quale andiamo più fieri.

Ora abbiamo preparato qualche riflessione e qualche domanda su questioni su cui vorremmo conoscere la vostra opinione.

 

Antonio Floris (Ristretti Orizzonti): È un’idea nostra oppure no, che se un Magistrato è convinto che le misure alternative vengono concesse in automatico a tutti, è spinto ad innalzare di più le condanne? È lo stesso discorso di quando per esempio è stato adottato il rito abbreviato. È successo che prima del rito abbreviato le condanne erano, mettiamo, 5 o 6 anni per rapina; dopo l’entrata in vigore del rito abbreviato sono scattate subito a 9, 10 anni. Come dire, tanto il detenuto prenderà un terzo in meno grazie allo “sconto” del rito abbreviato, e quindi aumentiamo le pene.

 

Bruno Turci (Ristretti Orizzonti): Io vorrei invece spiegare in maniera più dettagliata il progetto “Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere”, che Ristretti porta avanti da diversi anni: noi della redazione incontriamo qui gli studenti e i loro insegnanti e iniziamo a raccontare la nostra storia, come siamo finiti in carcere, cercando di far capire quello “scivolamento” che può portare a uscire dalla legalità, perché un reato in genere non si verifica così, dall’oggi al domani, c’è sempre un percorso, dei passaggi, uno spostamento del limite. E noi lo raccontiamo ai ragazzi per dare loro gli strumenti che potrebbero aiutarli a vedere le prime avvisaglie di questi deragliamenti verso comportamenti sempre più trasgressivi.

Io ai ragazzi racconto che ho cominciato da ragazzino con dei furtarelli proprio per mettermi in evidenza, e piano piano è diventato un mestiere e sono diventato un rapinatore. Poi è difficile venirne fuori, perché quelli come me non riconoscono gli altri, non riconosciamo la vittima, uno che entra in una banca pensa che ruba i soldi all’assicurazione, alla multinazionale, non pensa che davanti ci sono delle persone, non le vede, c’è qualcosa che impedisce a lui di vederle.

Poi, quando invece parliamo di carcere, non diciamo ai ragazzi quanto si sta male in carcere: gli spieghiamo invece che se il carcere funziona in una certa maniera non serve a nulla, perché le persone escono dal carcere come quando sono entrate o peggio. Il carcere serve se è un investimento per la società, non se la gente esce uguale a prima.

 

Gentian Belegu (Ristretti Orizzonti): Io vorrei chiedere cosa ne pensate dell’ergastolo e come questa pena si possa conciliare con l’idea della rieducazione.

 

Salem Rachid (Ristretti Orizzonti): Io sono di nazionalità tunisina e vorrei fare una domanda che torna sul discorso iniziale che ha fatto il dottor Marcello Bortolato, perché quando facciamo gli incontri con le scuole spesso gli studenti ci chiedono se le condanne che abbiamo ricevuto ci sembrano eque. Per noi è molto difficile rispondere, io dico loro che il problema non è la lunghezza della pena, ma come viene scontata. Perché nella maggioranza dei casi diviene una doppia condanna, complice anche il sovraffollamento.

 

Ulderico Galassini (Ristretti Orizzonti): Volevo fare anch’io una domanda: l’informazione pubblica, i giornali, i media quanto possono influenzare le pene che poi vengono comminate ai detenuti?

 

Carlo Citterio, Consigliere in Cassazione: Sono Consigliere in Cassazione, ho lavorato qui a Padova e a Venezia e volevo portarvi la mia esperienza in Corte di Assise e di Appello, dove, come voi sapete, ci sono anche i giudici popolari e dove la riduzione delle pene per il rito abbreviato è molto forte, perché un terzo su una pena alta porta ad una modifica molto significativa. Per quella che è la mia esperienza, noi ai Giudici popolari prima del processo abbiamo sempre fatto questo discorso sul rito abbreviato: “Guardate che il Giudice deve essere indipendente, perché deve applicare la  legge e deve cercare di essere indifferente a quelle che sono le pressioni dell’opinione pubblica, ed in particolare, quando si parla di abbreviato, noi dobbiamo decidere quella che secondo noi è la pena giusta, senza pensare alla riduzione. Perché l’abbreviato è una scelta del legislatore che vuole che sia data una pena “ingiusta”, cioè la pena giusta meno un terzo. Noi non siamo responsabili della pena finale che viene applicata. Noi siamo responsabili della pena prima della riduzione del terzo e, nelle sentenze che scriviamo, questo abbiamo cercato di renderlo chiaro dicendo: la pena giusta è questa, poi per volontà del legislatore questa pena va ridotta. Ed ai Giudici popolari diciamo, “Guardate che domani uscirà sul giornale che la Corte di Appello ha ridotto le pene a 14 anni per omicidio, anziché 21, o 16 o anziché 24. Ma questo ci deve lasciare indifferenti, perché l’indipendenza del Giudice e la libertà del Giudice è nell’applicazione della legge e non nel fare quello che la gente in quel momento sembra volere”. Il giornalista, quando scrive, dovrebbe avere la capacità di distinguere la pena dell’abbreviato dalla pena del dibattimento, perché dovrebbe avere la capacità di dire “Quella pena dell’abbreviato è una pena che è stata voluta da tutta la collettività, attraverso le leggi che fa”.

Detto questo, avete ragione, io so, lo sento, lo vedo, che a volte anche il Giudice professionale fa fatica ad accettare la riduzione del terzo, per cui mette nel patteggiamento (perché voi alla fine sapete che pena c’è perché la determinate) l’abbreviato, è un po’ una roulette russa, perché non si sa bene come vada poi a finire. Aumento la pena base, perché poi ti dò la riduzione e ti dò quello che prenderesti al dibattimento. Io a titolo personale dico che questo è un problema, nel senso che non succede sempre così, ma a volte può succedere.

È un problema di cultura del Giudice. Forse a volte il Giudice non si rende conto che quando fa così, secondo me sbagliando, in quel momento sta rinnegando la propria indipendenza, perché agendo così non applica la legge, applica una legge diversa da quella che c’è. Quindi ripeto, perché non vorrei essere frainteso, non è che questo succeda abitualmente, succede in alcuni casi, e in quei casi vi è una mancanza di professionalità del giudice. Quando ciò accade, ricade su tutti.

C’è anche da dire che normalmente nel sistema è difficile che, se in primo grado vi è stata una violazione evidente, poi in appello tutto rimanga così, si riesce in qualche modo a ridurre gli effetti negativi di quel modo di fare.

Volevo poi dire una parola sola sul discorso dell’ergastolo: sarebbe facile rispondere che in realtà nel nostro sistema la definitività della pena dipende dalla volontà del condannato, cioè dipende anche dal comportamento, dal modo di essere della persona. È chiaro che abbiamo comunque un numero di anni che incidono profondamente nella vita di una persona: d’altra parte quando vengono applicate quelle pene, spesso dall’altra parte ci sono vite che non ci sono più. Ecco prima avete parlato di pena giusta. Noi scriviamo pena giusta nelle sentenze, ma l’unica cosa che il Magistrato, che il sistema, può assicurare è che la pena sia legittima, cioè se è stata applicata nel rispetto delle regole di applicazione della pena nel contraddittorio, valutando tutti gli aspetti. Poi se la pena sia giusta o meno, io credo che questa sia una domanda che non ha una risposta teorica, perché in realtà poi bisogna andare a vedere come viene scontata la pena, e allora paradossalmente anche una pena bassa, ma scontata in nove o in otto in una stanza, magari dovendo dormire sul materasso a terra o dovendo restare chiusi e non potendo lavorare, è una pena pesantissima. Una pena magari di 5 anni ma scontata in un contesto diverso ove effettivamente c’è la possibilità di un ripensamento e soprattutto c’è la possibilità per scelte di vita diverse, è una pena “apparentemente”, cioè sicuramente, più lunga, ma certamente meno pesante dell’altra. Per cui il concetto di pena giusta è un concetto che mi spaventa, nel senso che secondo me solo il Padreterno potrebbe dire qual è la pena giusta e Lui ha altre vie ed altre regole, insomma. Noi l’unica cosa che dobbiamo assicurare, cercare di assicurare, nei diversi gradi di giudizio è che si arrivi ad una decisione che sia presa in modo trasparente, nel rispetto delle regole e cercando di fare in modo che alla fine la soluzione che è stata adottata sia non la più adeguata, ma la meno inadeguata al caso concreto.

 

Bruno Turci (Ristretti Orizzonti): Quando, durante gli incontri con le scuole, gli studenti ci chiedono se secondo noi la pena che ci hanno dato sia giusta, noi molto spesso rispondiamo dicendo loro che qui in Redazione è venuta la figlia di Aldo Moro, Agnese, ed abbiamo posto a lei questo quesito e lei ci ha risposto: “Anche a me durante un incontro con le scuole mi hanno fatto questa domanda i ragazzi, sapete cosa ho risposto? Che la domanda è sicuramente difficile perché in genere le pene sono relative alle storie personali, il Giudice interpreta, valuta. Però secondo me un uomo che commette un reato è “una persona che è uscita da se stessa”: è quando questa persona riesce a rientrare in sé che potrebbe finire la sua condanna, la sua pena”.

 

Lorenzo Miazzi, giudice alla Corte d’Appello di Venezia: Io volevo dire una cosa: di sei domande, quattro sono la stessa, cioè se le pene sono giuste; se l’informazione pubblica influisce sulla pena; se l’ergastolo è giusto; se è giusto alzare la pena base per poi con l’abbreviato portarla alla pena di prima. C’è l’ansia di capire se la risposta dello Stato è giusta rispetto a quello che è stato fatto. Ma noi siamo in mezzo fra la vostra domanda di sapere che cosa succederà e la domanda dei cittadini di sapere che reazione ha lo Stato, perché la reazione è la conseguenza di qualcosa che è stato fatto e quindi, quando vi chiedete, in tutti questi casi, se c’è giustizia nella pena che vi è stata data e quali sono i meccanismi che la creano, dovete partire da ciò che è stato fatto, e dovete pensare che se oggi una persona è in carcere ed ha l’ergastolo è un progresso. Perché mille anni fa sarebbe stato ucciso dai parenti della vittima e la risposta che lo Stato dà, sottraendo alle persone che hanno avuto un’offesa il diritto di vendicarsi, è un progresso.

Ed allora, se non ci fosse la pena, ci sarebbe più violenza. Perché se oggi abbiamo un rapinatore in carcere è perché il gioielliere che avrebbe potuto ammazzarlo non lo ha ammazzato. E se abbiamo un ergastolano in carcere, è perché i parenti di chi è stato ucciso non l’hanno ucciso a loro volta, perché quello era il Far West. Allora quando si chiede se l’ergastolo è giusto, è rovesciare il discorso. Noi abbiamo un’opinione pubblica che certo influisce sulla pena, perché noi siamo a metà tra le persone che sono state offese e quelle che hanno offeso. Ciò influisce sull’opinione pubblica, che vuole una pena che sia giusta, e se lo Stato non dà una risposta che venga percepita come giusta, cambiano le leggi ed aumentano le pene.

Ma lo Stato (dalla parte in cui siamo noi) non fa solo questo, quando si tratta di alzarle le pene, ma anche quando si tratta di abbassarle. Quando ci dicono “… voi giudici date un anno di pena per un melone rubato”, vuol dire che abbiamo fatto uno sbaglio. Vuol dire che abbiamo fatto una cosa che secondo la legge è giusta, ma che non viene sentita come giusta dalle persone che stanno fuori.

Ed io chiudo dicendo questo: la pena dell’ergastolo ha il significato di rovesciare i termini fra libertà personale e detenzione. In linea di principio, noi abbiamo diritto di essere liberi, tranne se non perché facciamo qualcosa di sbagliato che ci porta in carcere per un periodo di «punizione», poi si ritorna liberi. L’ergastolo è la conseguenza di un giudizio della società che dice “Tu hai fatto qualcosa di così grave che adesso resti in carcere fino a quando non dimostri nel tuo percorso di meritare di nuovo la libertà”. È giusto quello che dice il Consigliere Citterio, così come è pensato nel sistema italiano il carcere a vita è solo per chi lo sceglie, nel senso che vi è la possibilità di riguadagnare la libertà. Però quello che hai fatto prima è così grave, che per giudizio della società tu adesso devi dimostrare che meriti la libertà, altrimenti rimani dentro. Se tu la pensi così, l’ergastolo ha un senso anche nel rapporto con l’idea di rieducazione.

 

Ornella Favero: Posso obiettare una cosa? Ci sono Paesi come la Norvegia dove la pena massima è di 21 anni. Se il fatto successo quest’estate in Norvegia, quella persona che ha ucciso 73 ragazzi, fosse successo in Italia e noi avessimo avuto pene del genere delle loro, secondo me ci sarebbe stata una rincorsa forsennata ad alzarle. In Norvegia invece si è presentato il Capo dello Stato e ha detto: noi siamo un Paese civile che ha conquistato delle pene civili. Le pene civili a volte possono essere anche pene miti, non necessariamente pene forti e cattive. Perché dobbiamo rinunciare alle conquiste della nostra civiltà solo perché è successo qualcosa del genere?

Allora io me lo chiedo, se l’ergastolo sia la pena più giusta. C’è una convinzione generale che l’ergastolo non venga dato più come condanna, ma nel ‘92, quando si iniziò a parlare dell’abolizione dell’ergastolo, gli ergastolani erano 408, adesso ne abbiamo il triplo. C’è l’ergastolo ostativo e anche l’ergastolo ostativo non è spiegabile semplicemente con il “tu non vuoi collaborare denunciando… resta dentro!”. Perché io ho avuto modo di parlare con alcuni ergastolani “ostativi”, e mi dicono, e credo possa essere vero, che se collaborassero metterebbero a rischio prima di tutto la loro famiglia e quindi rinunciano a farlo. È un problema, io pongo il problema. La cosa che più mi convince è che si debba fare un ragionamento sulla durata delle pene, compreso l’ergastolo, non a partire dal desiderio o dal bisogno della vittima. Mi spiego meglio: noi abbiamo fatto un percorso con le vittime ed una delle cose più importanti che è venuta fuori è che l’odio che una vittima può provare avvelena prima di tutto lei stessa. Quindi se la vittima riesce ad accettare un’idea di una giustizia più mite, forse vivrà meglio anche lei, per cui un ragionamento sulla durata delle pene e sulla pena dell’ergastolo credo che vada fatto.

Ci sono tante società che hanno rinunciato a punire con l’ergastolo.

Quando ragioniamo con gli studenti sulla durata della pena, viene fuori che davanti a pene di 20, 25, 30 anni, leggiamo sui giornali “Solo trent’anni invece che l’ergastolo!”, e i ragazzi ce lo ripetono “Solo 20 anni, solo 15 anni!”, e noi allora gli rispondiamo: provate ad immaginare tutta la vostra vita fino ad ora, tutto quello che vi è successo, tutto! Ecco tutto questo pezzo di vita fino ad ora voi lo dovreste passare in una stanza, chiusi dentro con qualcuno che vi apre e chiude, e a cui dovete chiedere il permesso anche per andare a fare la doccia. La vostra vita non vale quasi nulla, la famiglia la sentite 10 minuti a settimana telefonicamente o la vedete sei ore al mese (un quarto di un giorno) con altre 10 famiglie nella stessa stanza, cioè questa è tutta la vostra vita. Vi pare che tutta la vostra vita fino ad ora, vissuta così, sia così poco? E questo spiazza molto i ragazzi.

Tanti Paesi sono arrivati all’idea che la giustizia può essere più mite ed a me piacerebbe provare a percorrere questa strada con le vittime, perché tante vittime non ne vogliono sapere di una giustizia “cattiva” fatta in nome loro. Penso che bisogna avere il coraggio di affrontare anche il tema della durata della pena.

 

Lorenzo Miazzi: Tu hai sempre usato il termine “Paesi e civiltà” e così è. Ma questo è il nostro Paese, non è la Norvegia!

 

Ornella Favero: Bisogna però anche avere il coraggio di pensare che possa diventare qualcosa di diverso! Perché non possiamo sperare di diventare civili come la Norvegia?

 

Lorenzo Miazzi:, ma alla fine di un percorso: certo condivido, ma se tu mi domandi per oggi, io ti rispondo per oggi!

 

Ornella Favero: Ma anche per oggi, se io spengo la televisione e guardo le classi, i ragazzi con i quali ci confrontiamo, sono un po’ meno pessimista, perché quando noi ragioniamo con gli studenti sulle pene, loro ascoltano le testimonianze dei detenuti e accettano il confronto, accettano di rinunciare a quella cattiveria iniziale che avevano. Noi siamo stati a Thiene una settimana dopo la rapina in cui è morto un benzinaio, siamo andati ad incontrare delle classi ed era da tre giorni che vedevamo i servizi televisivi dove tutti urlavano che i colpevoli devono marcire in galera, e noi certo ci siamo andati con qualche timore. Ebbene, c’è stata una civilissima discussione con questi ragazzi, eppure con me sono intervenute persone che avevano fatto reati gravi, non piccoli reati, e non c’è stato nessun tipo di cattiveria o altro, c’è stata una voglia di capire, di discutere.

Per cui io dico che anche nel nostro Paese credo sia possibile un dibattito serio sulle pene, è che forse bisogna spegnere la televisione, perché il mondo fuori è un po’ meglio. Io ho questa convinzione, quando si va in giro e si riesce ad arrivare con delle esperienze, con dei racconti, con delle testimonianze al cuore ed alla testa delle persone, non semplicemente così, alla pancia, diciamo che sono meno pessimista.

 

Marcello Bortolato, Magistrato di Sorveglianza di Padova: A me piacerebbe riprendere anche l’argomento degli automatismi e delle misure alternative, perché non c’è solo il rito abbreviato. Mi è sembrata molto intelligente anche la domanda di Antonio Floris, cioè quanto incide sul Giudice che irroga la pena, il pensiero che poi questa pena verrà trasformata in fase esecutiva, legalmente, dato che la pena in Italia è flessibile. Ecco, quanto influisce questo nell’irrogare la pena? Ovviamente poi noi siamo degli addetti ai lavori e perciò queste cose le conosciamo, però nell’opinione pubblica si fa strada il pensiero, come sostiene spesso Travaglio, che i benefici siano automatici e che si possano tutti sommare: l’indulto, l’affidamento in prova, la semilibertà e così via. Come se uno potesse farsi i calcoli e dire “Io ammazzo mia moglie e con 8 anni di prigione me la cavo” quando invece nulla è automatico, perché la discrezionalità che ha il Magistrato di Sorveglianza nel concedere i benefici è (dico anche purtroppo) enorme, perché è il prodotto di un’osservazione, di un trattamento fatto prima dentro il carcere e poi di un’osservazione fatta sull’ambiente esterno per sondare il terreno per vedere se per il detenuto è il momento di rientrare nella società. Ecco, quanto influisce questo luogo comune nella mente del magistrato anche solo come pressione da parte di una pubblica opinione che si aspetta una pena ‘certa’? Anche io partecipo a questo progetto con i ragazzi delle scuole perché voglio spiegare ai ragazzi che cosa significhi misura alternativa, che cosa significa poter espiare ad esempio una parte di pena in semilibertà e vorrei che i ragazzi poi lo spiegassero ai loro genitori. Quindi lo sforzo che dobbiamo fare tutti è di spiegare che nulla c’è di automatico.

Quanto questo influisce nel momento dell’irrogazione della pena? Se c’è qualcuno di voi che ha voglia di dire qualcosa, piacerebbe anche a me sentirlo.

 

Marta Paccagnella, Giudice della Corte di Appello a Venezia: Direi che andando a toccare il profilo della psiche del Magistrato che quantifica la pena, ognuno di noi può rispondere più a titolo personale che a titolo generale. Però io mi sento di dire che in generale noi del settore giudicante, nell’irrogare le pene, non ci preoccupiamo di quali saranno poi le misure nella fase dell’espiazione. E sempre a titolo personale posso dire che qualche volta, però, ho considerato che, se anche nello specifico caso di cui mi stavo occupando non avessi concesso la sospensione condizionale della pena (in una situazione magari di prima condanna in cui sembrava per certi aspetti problematico non riconoscere il beneficio), in realtà la persona che andavo a condannare avrebbe avuto degli altri percorsi utili da seguire, ad esempio attraverso l’affidamento in prova. Allora io dicevo a me stessa ed ai colleghi: non allarmiamoci se anche non diamo la sospensione. Questa persona, in realtà, potrà evitare il carcere con un percorso diverso e più adeguato (penso ed esempio alle ampie possibilità date dalla normativa speciale ai tossicodipendenti che abbiano in corso un programma terapeutico e socio-riabilitativo).

Qualche volta la sospensione condizionale della pena data “così”, senza che la persona che viene condannata conservi un contatto con l’Amministrazione giudiziaria e con chi segue poi la fase successiva alla condanna, può essere a livello individuale più un danno che un vantaggio, perché il condannato può ricavarne un senso di impunità, e quindi può essere più facilmente indotto a sbagliare di nuovo.

Quanto alla supposizione che, quando noi quantifichiamo la pena, teniamo conto di quelle frasi che attraversano l’opinione pubblica del genere “tanto questo con i benefici uscirà subito”, posso dire (e credo di poterlo dire a nome di tutti noi) che è proprio un problema che non ci tocca.

Più significativa è invece la questione della quantificazione della pena nel giudizio abbreviato e su questo è bene sottolineare che il nostro sistema processuale assicura tre gradi di giudizio e – con essi – la possibilità di correggere il mal governo della pena da parte di chi abbia eventualmente applicato una pena base più alta del dovuto, privando di fatto il condannato del beneficio premiale del rito. Questa esigenza di correzione può essere soddisfatta molto bene nel grado di Appello, dal momento che è anche agevole cogliere l’errore.

 

Vincenzo Sgubbi, ufficio Gip di Padova: Posso confermare anche io quello che ha detto la mia collega di Venezia, anche se penso pure io che ognuno dovrebbe rispondere a titolo personale.

Il problema è che queste nostre risposte probabilmente non risolvono il problema, perché noi siamo soggetti soltanto alla legge, la legge ci dà dei criteri in un articolo del Codice penale sul come determinare la pena giusta. Dopo di che ci potranno essere delle pene che sono “ingiuste“ per definizione legale e complicate per l’abbreviato, se prima definiamo la pena giusta e poi la trasformiamo in ingiusta ma legale, perché così ha voluto il legislatore. Discorso analogo vale per le prescrizioni. La pena da uno a cinque anni prevista per un certo reato è un criterio all’interno del quale il Giudice sceglie secondo la norma che stavo citando prima. Se poi questa pena verrà eseguita integralmente, parzialmente o per nulla non è un problema che riguarda il Giudice che la applica, che la determina.

Così come è un altro terreno ancora, quello che presiede alla scelta della sospensione condizionale.

Qualche volta si dice: diamo una pena alta sospesa, anziché una pena bassa non sospesa, no, ma che c’entra? Un criterio è quello che la legge indica per stabilire quale è la pena equa, dopodiché altri presupposti presiedono alla scelta se sospenderla o meno.

Dicevo però che il problema non si risolve, perché voi vi domandate (ed è normale), se sia giusta la pena irrogata a ciascuno di voi, e tutti i discorsi che stiamo facendo non elimineranno le differenze che magari potrete riscontrare se parlando tra di voi vi confronterete sul vostro caso con il caso che è capitato magari al vostro compagno di cella. Perché se la legge sulla droga prevede una pena minima di sei anni ed una massima di venti con un enorme divario tra la pena minima e la massima, i criteri legali per ottenere la pena sono comunque discrezionali, lasciano degli ampi margini di manovra al Giudice, può capitare che due soggetti che abbiano spacciato un etto di eroina per ciascuno, vengano puniti uno con sei anni e un altro con dodici. Ed allora la differenza tra queste due sanzioni farà percepire, a quello che ha preso la pena più alta, l’ingiustizia della propria.

Quindi la risposta a questo è un problema che è insormontabile fino a quando non verrà inventata una macchina che farà uscire la pena giusta.

 

Rossella Favero, (Cooperativa AltraCittà): La mia è una domanda di carattere generale, che riguarda la formazione e l’università. A me ha molto fatto pensare una volta una conversazione con il dottor Cappelleri, che è stato magistrato di Sorveglianza a Padova. Alcune riflessioni mi hanno molto colpito sul fatto che la cultura universitaria, la cultura che vi porta ad essere magistrati non prevede un rapporto con quello che è il mondo del carcere. Allora Cappelleri lo faceva come osservazione generale, come suo interesse a muoversi perché venga introdotto, anche nella vostra formazione, questo rapporto con il mondo del carcere. Invece il dottor Aliprandi, un ex magistrato che adesso fa il volontario, mi ha detto che la prima volta che è andato in carcere, dopo anni che svolgeva il suo lavoro, è andato a vedere, conoscere, ed è rimasto scioccato dal fatto che in precedenza non si era mai posto il problema del “dopo” la fase del giudizio e, con la sua particolare sensibilità ed intelligenza, diceva che è fondamentale vedere l’altro aspetto. Eppure (sembra strano ma è così) non vengono forniti strumenti per capire che la persona condannata avrà un dopo, un dopo in cui deve, secondo la Costituzione, ricostruirsi.

Ecco, mi chiedevo se da questo punto di vista sarebbe possibile proporre di colmare questo che è un buco nella cultura giuridica.

 

Sandro De Nardi, docente di Ordinamento Giudiziario: Concordo sul fatto che attualmente il sistema universitario è carente sotto questo profilo, del resto debbo confessare che io sono venuto in carcere perché una volta ho avuto l’assegnazione di una difesa di ufficio, ma poi non è più capitato, e da allora solo oggi sono tornato. L’esperienza che ho fatto oggi qui è molto formativa, tant’è che ho detto al Direttore che vorrò coinvolgerlo in Università.

È una delle pecche del sistema universitario che andrebbero colmate, perché per giudicare bene, secondo me, il giudice dovrebbe conoscere anche l’ambiente carcerario.

 

Antonella Magaraggia, magistrato del Tribunale dei Minori di Venezia: Volevo fare qualche osservazione sul “dopo reato”, perché questo riguarda voi (ovviamente), con conseguenze anche pesanti, ma vi è un “dopo reato” anche delle vittime. Io credo che se questi due mondi, il “dopo” di chi espia una pena per quello che ha fatto e il “dopo” di chi ha subito il comportamento del primo, entrassero più in contatto, si potrebbero avere dei vantaggi e soprattutto potrebbe averne la società, e in particolare quella società che dice: “Solo quindici anni! ma perché non hanno preso e buttato la chiave?”. Forse quella società si immedesima in quella vittima, che probabilmente non ha avuto la giusta attenzione. Io vi porto l’esperienza della “messa alla prova” del giudizio minorile. C’è un percorso che possono fare i ragazzi che si dichiarano colpevoli e che porta, in caso positivo, all’estinzione del reato. La dichiarazione di colpevolezza è il presupposto di questo percorso ed è una cosa importantissima, anche per le vittime dei reati. Parte, poi, un progetto, il più vario (lavoro, scuola, volontariato ecc), di cui una parte importante è quella che riguarda la riconciliazione con la vittima, che non significa “diventare amici” della vittima, ma “confrontarsi” con questa. Spesso le storie sono pesanti, sono gravi anche i reati che compiono i minori e lo sono sempre di più. e la vittima vuole che la persona che ha commesso quell’azione criminosa lo ammetta e capisca, tocchi con mano quali sono le conseguenze che ha portato a quella persona o alla sua famiglia.

Io debbo dire che, quando questi percorsi vanno a buon fine, e solitamente vanno a buon fine, ne traggono un vantaggio la persona che ha commesso il reato, la vittima, ma anche la società. Perché la prima si rende conto delle conseguenze di quello che ha fatto, la seconda si sente in qualche modo risarcita, non foss’altro dal “riconoscimento” ricevuto dall’altra, e quindi si “sminano” quelle reazioni così violente, così assurde, così demagogiche del “con più pena, con pene più alte siamo tutti più tranquilli”. E sappiamo che non è così.

 

Cinzia Sattin, Funzionaria della professionalità giuridico/pedagogi­ca della Casa di reclusione di Padova: Mi tocca molto il tema trattato dal Giudice del Tribunale dei minori poc’anzi. Alcune delle persone che vengono qui dentro a fare volontariato p a incontrare i detenuti, da Silvia Giralucci ad Agnese Moro, alla fine sono persone che hanno attraversato l’esperienza di vittime o come famigliare o personalmente, e questo tocca anche me, nel senso che la mia mamma e mio zio sono stati uccisi in un incidente da un ragazzo tossicodipendente. Ed io in quel momento ho spedito la cartolina per partecipare al concorso di educatrice in carcere. C’è un forte bisogno che tutta la giustizia vada in questa direzione dell’incontro vittima/autore del reato, perché solo lì si realizza una pena giusta, dove queste due realtà complesse si incontrano, si sanano reciprocamente e capiscono queste umanità di sofferenza, sia di chi infligge la sofferenza, sia di chi la riceve. Il fatto che sia in carcere o no quella persona, non sana niente di questa situazione, non racconta nulla, non spiega niente. Non dà un volto, non dà un significato. Ancora oggi dopo tanti anni nel mio immaginario, a Natale, dove si riacutizzano tanti ricordi, ho il desiderio di incontrare quel volto, di quella persona, ma non per accanirmi. Anche il fatto di essere qui è legato a questo inconsciamente, al desiderio di entrare in contatto con tutti gli autori di reato, con il loro dolore, le loro sofferenze, la droga, le loro famiglie.

Io credo che la pena giusta è solo lì, però mi scontro con una realtà dove la mediazione, l’incontro vittime/autori di reato (vittime reali o magari anche la società), veramente è una arrampicata di sesto grado, una cosa irrealizzabile, per la quale si fanno solo degli esperimenti.

Io penso che “la pena giusta” sia solo lì: in questi due sguardi che si incontrano. Ecco, penso che il desiderio di Agnese Moro o di Silvia Giralucci o mio di essere qui è per vedere in faccia, perché tutti siamo un po’ autori di azioni in un certo senso “negative”. Questo incontro di due sguardi, il desiderio più grande per me è proprio questo: sapere che è pentito. Che sa fino in fondo le conseguenze di quello che ha fatto. Qui in galera non gliela racconta nessuno, la sofferenza di mio papà che è rimasto due anni da solo, che è diventato mezzo matto. Chi glielo racconta a questo signore qual è il male vero che ha causato la sua azione? Ecco solo lì si trova la pena giusta. Questa è la mia esperienza. Scusate l’emozione, ma mi ha toccato molto questo tema. Io credo che il sistema penale minorile sia non un passo, ma dieci passi più avanti di quello per gli adulti.

 

Giorgio Falcone, Procura di Padova: Ecco io di solito parlo per primo perché faccio il Pubblico Ministero, forse c’è uno strumento tecnico sul quale noi magistrati possiamo impegnarci e faccio riferimento a ciò che una volta ha detto il dottor Marcello Bortolato ad un corso di formazione per i magistrati. Nelle sentenze (magari noi P.M., nelle requisitorie, nelle nostre richieste) diamo amplissimo spazio al fatto. Si parla del fatto, le prove che riguardano il fatto, poi c’è la parte che riguarda la pena (per quanto riguarda le nostre richieste di pena, le argomentazioni poste di fronte a quella scelta di pena), e si parla poco della persona che quella pena si prende. L’art. 133, sappiamo tutti che è quello sulla cui base il giudice deve decidere quale sia le pena più congrua, adeguata (non usiamo il termine giusta, che forse è improprio), è fatto di due parti, una parte riguarda il fatto in sé ed una parte riguarda la persona. Si dà poco spazio alla persona e questo ha una duplice valenza secondo me. Perché anzitutto dare spazio nelle argomentazioni per capire chi sia quella persona alla quale si dispone di applicare quella pena, consente al giudice di interrogarsi anche veramente sull’adeguatezza di quella pena a quell’individuo. Perché anche se due persone hanno commesso lo stesso fatto, non è detto che meritino la stessa pena. Ma poi anche chi dovrà subire potrà capire che cosa il giudice si sia chiesto e che cosa abbia capito di lui. È, come dire, una sorta di filtro che crea un dialogo tra il giudice che infligge la pena e condanna e la persona che quella pena riceve e subisce e deve accettare. Quindi non solo nell’ottica che ha detto Marcello Bortolato (che è quella del magistrato di Sorveglianza), che diceva “a me farebbe piacere leggere che cosa ha capito il giudice, quali sono anche le prove che sono state portate sulla personalità del condannato”. Invece spesso i fascicoli, le sentenze, sono “muti” su questo, non si capisce chi è quella persona. Forse si potrebbe perdere un po’ più di tempo (ma addirittura fin dalle indagini), per capire chi sia quella persona e forse così, aggiungeremmo un “tassellino” di avvicinamento alla pena congrua.

 

Marcello Bortolato, magistrato di Sorveglianza a Padova: Se posso aggiungere qualcosa su questo, c’è un modo di uscire da questo dilemma, e tra le varie riforme che dobbiamo chiedere c’è quella di distinguere il giudice del fatto dal giudice della pena. Questo è un obiettivo di civiltà che noi dobbiamo raggiungere. In certi Paesi c’è il Giudice che decide se tizio ha commesso quel reato in base alle prove, e basta, il suo lavoro si ferma li. Poi c’è un Giudice che dice “per quel fatto ti do quella pena, ed allora a quel punto ‘vedo’ chi sei”. Cioè prima ho scattato la fotografia (è un’immagine bella che usa sempre come metafora il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia dott. Pavarin), c’è il giudice che scatta la fotografia e poi c’è il giudice che la guarda e vede che cosa c’è dietro la fotografia, perché la pena a mio modo di vedere dovrebbe essere adeguata alla persona più che al fatto, per poter soddisfare il finalismo rieducativo dell’art. 27 della Costituzione. Ecco perché per lo stesso chilo di eroina uno prende 12 anni ed un altro 6: siamo tutti diversi, giudici e imputati. Anche noi giudici siamo diversi, c’è quello “più cattivo” e quello “più buono”, non c’è niente da fare, siamo uomini e la giustizia è amministrata da uomini. Un imputato può essere punito più gravemente per lo stesso fatto perché la persona è diversa e quindi la pena, se irrogata dopo che si è conosciuta la persona, forse è più giusta. Il processo attuale, in Italia, ti consente poco di conoscere la persona, non sappiamo nulla di cosa c’è dietro quella fotografia. Guardate anche il discorso del movente, noi tecnici ripetiamo spesso che il movente è irrilevante; ho fatto anch’io il giudice della cognizione ed anche io facevo le sentenze: il movente era irrilevante. Adesso che faccio il giudice di Sorveglianza, dico “Il movente è la cosa più importante per capire perché uno ha commesso un delitto, non è affatto irrilevante!”. Forse conta poco per “scattare la foto”: non mi interessa perché hai fatto la rapina, a me interessa sapere se sei stato proprio tu a compierla. Ma il giudice della pena deve invece sapere perché hai fatto quella rapina, deve sapere come sei arrivato a quella rapina e attraverso quale strada ci sei arrivato; attenzione, non c’entra nulla il buonismo, il relativismo, il determinismo sociale perché il reato è sempre il frutto di una scelta personale, c’è sempre un momento nel quale si sceglie, ci si arriva certo attraverso una serie di meccanismi, ma c’è sempre un momento in cui ci si potrebbe fermare prima ed invece si oltrepassa quel limite.

 

Lara Fortuna, Gip di Padova: Vorrei dire anch’io qualcosa, sono contenta di quello che è stato detto dai colleghi perché sottoscrivo tutti gli interventi, che secondo me riescono a dare un’immagine abbastanza complessiva di una serie di problemi che noi abbiamo, facendo il nostro lavoro. Mi sento, a livello quantomeno personale, di dirvi che comunque il mestiere che facciamo è un mestiere complesso e difficile, che siamo appunto persone, e quando voi dicevate “La persona può ritenersi sanata, finita e rieducata (citando Agnese Moro), nel momento in cui rientra in sé”, allora mi verrebbe da pensare che la sanzione dovrebbe essere non determinata, ma voi sapete che noi ci dobbiamo confrontare con un sistema in cui le sanzioni debbono avere una fine determinata a priori. Sappiate che comunque è un mestiere difficile che implica anche per noi, mi viene da dire, talvolta sofferenza nella determinazione di quella che è poi una sanzione, siamo persone non è che siamo macchine, la determinazione della pena non può essere delegata a delle macchine, la legge aiuta e contiene il nostro lavoro. Ci sono ambiti di discrezionalità che sono ineliminabili e quindi inevitabilmente ci possono essere anche i limiti che noi abbiamo come persone.

 

Cosa può cambiare se i magistrati entrano in carcere a incontrare i detenuti?

È importante che un magistrato, sia esso Pubblico Ministero, Giudice o magistrato dell’Esecuzione, visiti il carcere e sappia come e dove il condannato debba scontare la sua pena, così come credo sia fondamentale per loro conoscere le storie delle persone condannate

 

di Bruno Turci

 

Nella nostra redazione abbiamo incontrato una significativa rappresentanza di Magistrati appartenenti alle diverse aree: inquirente, giudicante, dell’esecuzione, dei minori.

Mi aspettavo molto da questo incontro, ero certo che sarebbe stato interessante e costruttivo sia per noi detenuti e volontari della redazione come per i magistrati, che hanno compiuto un passo molto importante che credo davvero denoti equilibrio, spessore e intelligenza notevoli. Per me è anche questo il senso della giustizia. L’incontro è stato forse superiore alle aspettative, certamente teso alla ricerca di risposte che da entrambe le parti hanno trovato ampia soddisfazione.

Mi è stato chiaro da subito che avevamo cercato nella direzione giusta, infatti loro hanno toccato con mano proprio lo sfacelo e il degrado delle condizioni igienico-sanitarie, ma anche dei percorsi rieducativi, in cui versano le carceri dove sono costrette a vivere le persone inquisite o condannate in espiazione della pena. E hanno percepito i problemi che affossano la finalità risocializzante della pena, il limite che impedisce di realizzare il recupero delle persone detenute investendo sulla sicurezza sociale. Si sono resi conto che esiste un carcere dove si detengono in condizioni di illegalità le persone. E devo ammettere che sono stati davvero bravi ad esprimere i loro dubbi e ad ammettere i limiti dell’umano giudicare. Si sono messi in gioco come abbiamo fatto noi, hanno ascoltato, hanno spiegato, è stato un momento davvero significativo, in cui nessuno è stato “buono” per l’occasione, ma credo che tutti siano stati leali e sinceri.

Nella mia lunga carriera criminale ho conosciuto dei magistrati che sono riuscito ad apprezzare per la loro intelligenza e per l’onestà con cui affrontavano il loro lavoro, per la reale terzietà con cui operavano. Tuttavia, non sono stati tutti così, forse è stato anche un mio limite, ma quello che mi è accaduto durante questo incontro è davvero diverso, li ho apprezzati in modo particolare perché nessuno nel confronto ha alzato barriere di alcun tipo.

Credo che sia importante che un magistrato, sia esso Pubblico Ministero, Giudice o magistrato dell’Esecuzione, visiti il carcere e sappia come e dove il condannato debba scontare la sua pena, così come credo sia fondamentale per loro conoscere le storie delle persone condannate e non soltanto il reato per cui sono state accusate o condannate.

Partecipando all’incontro ho rivisto scorrere come in un film le immagini dei miei molti processi in cui sono stato condannato (qualche volta anche da innocente, in questo caso tuttavia debbo ammettere che, considerando i miei trascorsi, sarebbe stato molto difficile essere assolto) e ho fatto un paragone con questa realtà che ho conosciuto ora. Credo che se i giudici, che mi hanno condannato in passato, avessero avuto esperienze analoghe a quella avvenuta qui in redazione per me sarebbe stato diverso, le valutazioni sarebbero anche state determinate da fatti esterni significativi. Fatti che riguardano la storia personale e la storia del reato. Fatti che riguardano le condizioni detentive che sarebbe costretto a sopportare il condannato suo malgrado.

Io sono stato fortunato a vivere questa esperienza, credo che una chance del genere dovrebbe toccare a tutti coloro che sono stati condannati, per aiutarli a capire la misura delle individualità che possono influenzare la pena, e a vedere dietro a chi ci giudica delle persone.

È stato molto utile, per noi sicuramente, spero per entrambi, e aspettiamo che un’occasione del genere possa ripetersi ancora.

 

 

 

Avrei voluto, prima di essere condannato,essere considerato come persona

Io mi aspettavo di poter dire la mia verità al processo,  che all’imputato fosse data la possibilità di parlare, invece nulla

 

Di Qamar Abbas Aslam

 

Sono entrato in carcere nel 2008; non conoscevo nulla della galera, avevo sempre avuto una vita regolare, con una attività mia, ma poi ho risposto all’aggressione di un gruppo di miei connazionali, che chiedeva il pizzo a me e alla mia famiglia, e la storia è finita tragicamente.

Una volta dentro, ho parlato con gli altri detenuti del mio reato, spiegando loro come sono andate le cose: tutti mi davano coraggio, mi dicevano di non pensare al peggio e di non preoccuparmi, “vedrai che le cose cambieranno, quando andrai al processo”. L’accusa però era molto pesante, “omicidio volontario premeditato”. Mi dicevano che c’erano da considerare alcuni elementi a nostro favore, le denunce che avevamo fatto ai carabinieri, perché quella persona non ci lasciava in pace, era arrivata anche a scontri fisici, lesioni e ferite e a dimostrarlo c’erano i rapporti ospedalieri.

I miei compagni di cella mi spiegavano che non dovevo stare così in ansia, perché qui in Italia fanno le indagini analizzando tutto e tutti, interrogando anche il datore di lavoro, le persone che conoscevo, i locali che frequentavo.

Forse era vero o forse mi dicevano tutto questo per farmi restare tranquillo.

Sta di fatto che poi tutte queste denunce non sono servite.

Al processo sono stato condotto in tribunale, e qui prima di tutti ha parlato il P.M. e dopo la difesa, ma solo attraverso la voce di chi mi rappresentava, l’avvocato di fiducia. Io mi aspettavo di poter dire la mia verità, che all’imputato fosse data la possibilità di parlare, invece nulla. Dopo un po’ il Giudice si è ritirato, rientrando dopo due ore per leggere la condanna a sedici anni.

Il fatto di non essere stato parte attiva, di non aver potuto dire la mia, e che tutte le denunce fatte ai carabinieri non erano state tenute in considerazione, mi ha dato la sensazione di essere calpestato nei miei diritti; non tanto per la sentenza di condanna, ma per l’aver subito la privazione della mia parola che mi ha privato del mio essere una persona. Questo mi ha portato a pensare che quella frase presente e ben leggibile, posta alle spalle dei Giudici, che dice “La Legge è uguale per tutti” non sia tanto tanto giusta.

Dopo la condanna definitiva mi hanno allontanato dalla mia famiglia, prima ero a Reggio Emilia, più vicino, poi qui a Padova, molto più scomodo per i miei familiari. Questa lontananza amplifica la pesantezza della pena, non sono solo privato della libertà, ma anche dei miei affetti familiari.

Il tempo è ancora lungo da trascorrere tra queste mura fredde e inadeguate per garantire anche la dignità umana, ma se dovrò rinunciare ai colloqui per le difficoltà dei miei a venire a Padova ho paura che la mia famiglia si allontani e si divida. La mia speranza è quella di rimanere vicino a loro e poter fare qualcosa per aiutarli anche dal carcere, ma senza un lavoro come posso aiutarmi ed aiutarli?

Per ora sono impegnato in una attività di volontariato nella redazione di Ristretti Orizzonti e qui non sono solo un numero di matricola, ho modo di sentirmi utile, posso condividere opinioni e pensieri con tanti altri e ho la possibilità di incontrare molte persone esterne, a partire dai tantissimi studenti delle scuole superiori fino ai magistrati, educatori, direttore.

In uno di questi incontri il magistrato di Sorveglianza, che era accompagnato da altri Giudici, ha detto che prima di essere un magistrato di Sorveglianza era un giudice e ha sostenuto che “il processo attuale, in Italia, ti consente poco di conoscere la persona”. Ora invece ha ribadito che è molto importante “guardare” la persona e non solo il reato commesso. Io avrei tanto voluto, prima di essere condannato, essere considerato come persona.

 

 

 

 

Nel processo non sempre ti senti trattato come un essere umano

E dopo, in carcere, finisci spesso immerso nell’illegalità

 

di Ulderico Galassini

 

Da oltre quattro anni mi trovo in stato di detenzione per aver commesso il reato più grave che una persona possa mettere in atto, l’omicidio, nell’ambito della mia famiglia. Questo mi ha portato ad essere processato e ad avere una prima sentenza, che è avvenuta il 19 settembre 2008.

Nella stessa giornata, ritornando in cella ho trascritto alcune mie riflessioni, che riporto qui:

Il Giudizio di un Giudice…

Oggi, 19 settembre 2008, è una giornata che difficilmente potrò dimenticare.

Oggi un Giudice, con le formule di rito, dopo una presentazione ben relazionata della difesa, si è preso un po’ di tempo per poter decidere una parte del mio futuro, a conseguenza di ciò che mi ha portato in carcere.

Alle ore 12, tutti rigorosamente in piedi, abbiamo ascoltato la sentenza. Colpevole… La condanna viene definita in anni 18…, con una elencazione di motivazioni che non sono più stato in grado di seguire. Un numero che mi ha “inchiodato” la mente, la riflessione, ma ciò nonostante non ho perso una affermazione del giudice, non scritta nel verbale: “Non ho valutato la persona ma il fatto compiuto”.

Ho commesso un grave reato, certo in una particolare situazione; non mi ero neppure immaginato i tempi della pena né ho chiesto indicazioni al mio difensore, ma 18 anni non sono pochi. Soprattutto per il fatto che mi allontanano da un ricongiungimento con mio figlio Andrea.

Doppia condanna, diretta per me ed indiretta per Andrea.

Soffrirà per colpe che non sono sue e questo mi fa tremendamente male. Non doveva succedere una cosa del genere. Non faceva parte dei miei principi, delle mie idee per il futuro della nostra famiglia.

Era forse meglio che io fossi nato con indole negativa, rivolta ad un mondo disonesto, con la coscienza di fare solo del male? Godere del male fatto a discapito di altre persone? No! Rifiuto questa impostazione e rimango fermo sui miei principi, ma posso comunque, nelle mie riflessioni, pensare che non tutto si può definire “Giustizia”, la giustizia che si basa sul fatto non tiene conto che, prima di arrivare a uccidere, ero una persona mite che non aveva mai alzato una mano contro qualcuno.

Devo accettare e vivere questo “strano futuro” sperando che il tempo trascorra veloce e soprattutto che il mio comportamento, il mio essere rimanga quello che è sempre stato.

In una incredibile, disgraziata frazione di tempo, la mattina del 27 maggio 2007, si è inceppato un ingranaggio nella mia mente con conseguenze incredibili.

Ma perché proprio alla mia famiglia?

Bruciati 35 anni di unione con Alessandra e 15 con il mio carissimo figlio Andrea

Ma quanto altro dolore ho riversato sui miei famigliari, parenti, amici e conoscenti?

La cosa ha dell’incredibile, MA E’ SUCCESSO!

 

Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere

 

Ai ragazzi diciamo: Buttate Via I Coltelli

Aggressività, minacce, liti che finiscono con reazioni violente: continuiamo a ripetere che non si possono sottovalutare comportamenti così rischiosi

 

Nel cortile di una scuola superiore di Camposampiero poco tempo fa un ragazzo ne ha ferito un altro con un taglierino: tutto era cominciato due giorni prima, in discoteca, e la lite si è trascinata fino a esplodere, ma poteva finire anche peggio. “15enne accoltellato a una mano mentre va a scuola”, “Studente di 17 anni accoltella il padre nel corso di una lite in casa”, “Litigano per una ragazza, ragazzo accoltellato in centro” sono alcuni dei titoli apparsi sui quotidiani, che riguardano fatti recenti che hanno al centro sempre la stessa cosa: la pessima abitudine di girare con un coltello, l’aggressività esagerata, l’incapacità di controllare la propria rabbia. Protagonisti per lo più ragazzi giovani, che noi poi spesso incontriamo in carcere, perché quella rischia di essere la conseguenza inevitabile di comportamenti tanto pericolosi. Le testimonianze che seguono sono di tre detenuti che, “scherzando” con i coltelli o lasciandosi trascinare in una rissa, hanno accumulato piccole o grandi pene, rovinando la vita a sé e spesso anche alle proprie famiglie.

 

Gli “innocui” coltellini multiuso

 

di Filippo Filippi

 

Sta diventando più frequente la cattiva abitudine di risolvere questioni, anche futili, tra ragazzi sempre più giovani con l’uso improprio di coltelli o taglierini, passando alle vie di fatto con conseguenze non prevedibili. Ma la cosa che ancor più mi fa pensare è che ciò talvolta avviene proprio dentro le scuole. Leggendo le cronache di questi fatti, il mio pensiero inevitabilmente corre alla mia esperienza di tossicodipendente, ma anche poco prima di iniziare questo percorso, quando in seconda o terza media avevo spesso diverbi con un mio compagno di classe, ci facevamo frequentemente dispetti e lui è arrivato al punto di darmi una matitata nella schiena facendomi un bel buco. Ma con il senno del poi, non era tanto per il buco che c’era da preoccuparsi, quanto per l’aggressività repressa che già allora avevamo.

Io stesso per anni sono andato in giro con temperini e coltelli anche multiuso, mi piaceva portarli con me, mi facevano sentire meno indifeso ed inoltre erano funzionali alla vita da tossico e di strada che facevo.

Così ho collezionato numerose denunce a piede libero per possesso ingiustificato di arma bianca (violazione della norma che regolamenta il possesso di armi ed esplosivi, questo è esattamente l’articolo con i suoi molti commi). Denunce che poi, pur seguendo i lunghi iter burocratici, alla fine, anche dopo molti anni, mi sono arrivate tradotte ognuna in mesi da scontare, aggiungendosi ai reati che ho fatto per poter usare droga. Ora però mi rendo conto, pur non avendo mai sferrato un fendente, di quante volte ho tirato fuori quel coltello in modo minaccioso e solo qualche anno fa, nel corso di un’aggressione alle spalle che ho subito, se ne avessi avuto il tempo, credo che avrei estratto un taglierino che adoperavo per lavorare, molto affilato, e in quella circostanza l’avrei usato con conseguenze gravi.

Un coltellino, un temperino, un coltello multiuso o anche un taglierino portato con sé, agli occhi di un adolescente può sembrare una inezia, può farlo sentire più sicuro, ma può creare disastri molto gravi anche solo se usato per istintiva autodifesa. Così per un’occhiata data male, per una ragazza alla quale si tiene particolarmente, per uno sgarbo subito o per un debito mai pagato, ecco che un ragazzo, magari generalmente mite, si ritrova a far del male sul serio, pagandone prima o poi le conseguenze. Questo è quello che potrebbe succedere. Ma più facilmente ancora, può essere denunciato “a piede libero”, perché sorpreso a girare con un coltello, ritrovandosi poi anni dopo a dover pagare in qualche modo per “quell’innocuo coltellino”, a volte anche con il carcere.

 

 

Una catena di minacce e violenze finita tragicamente

 

di Qamar Abbas Aslam

 

Mi chiamo Qamar e sono pachistano. Sono nato in una famiglia modesta e sono giunto in Italia tredici anni fa, all’età di tredici anni. Assieme a mia madre e alle mie tre sorelle ci siamo ricongiunti con mio padre, che già lavorava in Italia.

Qui sono riuscito a finire le scuole medie e a quindici anni ho cominciato a lavorare come operaio, e poi anche con un’attività in proprio. Quando ho compiuto ventun anni sono tornato in Pakistan per sposarmi con una mia connazionale, e il passo successivo al rientro in Italia è stato quello di chiedere il ricongiungimento anche per lei. Ero in attesa del visto, ma nel frattempo le cose sono cambiate in modo tragico.

Come sono finito in carcere? Tutto parte da molti mesi prima, l’attività mia e dei miei famigliari aveva attirato l’attenzione di altri miei connazionali che svolgevano un lavoro ben diverso: pretendevano quello che in Italia si chiama “pizzo”.

Noi abbiamo sempre rifiutato di pagarlo, ma loro hanno continuato in ogni modo a minacciarci. Dal giugno 2008 abbiamo più volte denunciato la cosa ai Carabinieri, ma senza alcun risultato.

Venivamo in vario modo costretti a vivere in situazioni di ansia e paura, ci seguivano in ogni luogo, pure presso la nostra abitazione. Loro non mollavano mai, hanno cercato lo scontro diretto in tutti i modi, sino al giorno che, vedendoli riuniti in un gruppo molto numeroso che mi aspettavano, ho capito che dovevo chiedere aiuto. Sono arrivati altri parenti ed è stato inevitabile lo scontro. Ci siamo difesi con affanno, con la paura di avere la peggio, usando spranghe e quello che abbiamo trovato per respingere quell’attacco. Purtroppo il peggio è successo e uno di loro ne è rimasto vittima.

Le nostre denunce precedenti, il fatto che avevamo detto di essere tormentati da queste persone, non sono serviti a nulla nonostante ci fossero i referti medici a dimostrare le aggressioni che già tanti della mia famiglia avevano subito.

Ora i risultati sono che io ho avuto una condanna di 15 anni con tutte le conseguenze che ricadono sulla mia famiglia: mio padre che si è licenziato dal suo lavoro per la vergogna e non è più in grado di affrontare la vita come prima, mia moglie che vive assieme ai miei genitori e che non riesce a trovare lavoro anche a causa della crisi economica, una famiglia che vive con grandi difficoltà. E pensare che prima eravamo noi ad aiutare gli altri, e però non siamo riusciti a fermarci e a farci aiutare quando ce ne sarebbe stato bisogno per interrompere quella catena di minacce e violenze.

 

 

Un coltello ti porta guai anche se lo tieni sempre chiuso

 

di Mohamed El Ins

 

Per lungo tempo ho portato addosso un coltellino, ma non ho mai pensato di usarlo per fare del male a qualcuno, nemmeno mi ha mai sfiorato l’idea, anche perché sapevo che poteva solo causarmi guai con la giustizia.

Una sera, tuttavia, ero anch’io in giro a divertirmi come tanti altri, sono entrato in un locale, e lì è nato un diverbio con un ragazzo, siamo arrivati alle mani, e all’improvviso sono intervenuti altri suoi amici per spalleggiarlo, così mi è venuta l’idea di infilare la mia mano in tasca tirando fuori il coltellino con il pensiero di minacciarli per difendermi. Il coltellino ce l’avevo in mano ma lo tenevo chiuso, nel frattempo sono intervenuti i carabinieri, chiamati da qualcuno, e mi hanno chiesto di consegnarlo a loro, cosa che ho fatto subito. Dopodiché mi hanno portato in caserma, chiedendomi di aspettare in sala d’attesa, e in quel momento mi sono convinto che non ci fosse niente di grave, visto che non mi hanno messo in cella di sicurezza.

Mi hanno fatto firmare il verbale e poi mandato via. Ero contento perché nessuno si era fatto male e pensavo di non poter essere accusato di niente. Praticamente, ero convinto che la vicenda fosse chiusa, invece mi sbagliavo: dopo quattro anni ho dovuto affrontare il processo, che mi è costato un prezzo salato, mi hanno condannato ad una pena di 20 giorni di reclusione e al pagamento di una multa. Poteva andare peggio, ma per mia fortuna anche i carabinieri, quando hanno compilato il verbale, hanno scritto che il coltello era chiuso, e questo ovviamente ha dimostrato che non avevo nessuna intenzione di fare del male a quei ragazzi. Ma il problema è che è rimasta la segnalazione nella mia fedina penale, che è così macchiata anche per questo fatto, e nel futuro, durante i controlli delle forze dell’ordine, se verrò fermato, mi creerà comunque dei fastidi.

A questo si aggiunge che, se avrò la necessità di cercarmi un lavoro, queste segnalazioni saranno sempre un ulteriore ostacolo per essere accettato dai datori di lavoro, che preferiscono persone “pulite” e che possono pensare che io sia particolarmente aggressivo.

 

 

 

Perché a volte rispondo che Vorrei essere nato donna

 

di Altin Demiri

 

Una volta, durante un incontro con gli studenti, ho raccontato la mia storia, di come sono finito in carcere per aver ucciso in una rissa un ragazzo come me. Dopo avermi ascoltato attentamente, una ragazza si alza e mi domanda: “Se tu dovessi nascere di nuovo, cosa vorresti essere?”. Non so perché, ma la mia risposta di istinto è stata “vorrei nascere donna”. E il mio ragionamento è semplice: se io dovessi rinascere uomo, sarei lo stesso Altin di allora, perché i modelli da seguire anche oggi per i maschi sono gli stessi, e cioè quelli del dover apparire forte, un vero bullo. Allora ci sono grosse probabilità che io farei la stessa fine che ho fatto. Invece se io dovessi rinascere donna, credo che ci sarebbero per me più speranze di non finire in galera.

La causa dei miei guai è stato l’orgoglio, che è una caratteristica di noi uomini, e non delle donne. È per questo che dico che, se dovessi nascere ancora uomo, non escludo il rischio di rifare le stesse cose che ho fatto, stravolgere la mia vita e finire nello stesso posto, il carcere. Attenzione, ciò non significa che gli uomini sono predestinati a finire come me. E lo dimostra il fatto che i miei amici bulli di allora non sono diventati assassini, e non hanno avuto la mia stessa sorte. Tuttavia, avendo la consapevolezza che ai ragazzi capita spesso di non essere padroni di sé, di non dominare i propri istinti, non escludo il rischio di cacciarmi ancora nei guai, giacché esistono circostanze nella vita in cui è tremendamente difficile mantenere il controllo di se stessi e valutare il valore delle proprie azioni. Si tratta di reazioni poco razionali, dovute anche all’età giovanissima, e mi spaventano quei ragazzi che sono invece troppo sicuri di sé e pensano sempre di riuscire a riflettere prima di agire.

Anche io ero troppo sicuro di me, e non deve stupire più di tanto se, in simili circostanze, giovane e lontano da casa, anche un bravo ragazzo va alla deriva, lasciandosi risucchiare da giri di amicizie sempre meno raccomandabili e scambiando per normali anche cose che, solo qualche mese prima, si sarebbe ben guardato dal fare. Per questo affermo che le donne credo siano meno portate a comportamenti pericolosi. Lo dimostra il fatto che di donne nelle carceri italiane ce ne stanno pochissime e dalle poche testimonianze di detenute che ho letto, ho sentito parlare di percorsi di abbandono, di solitudine, di malattia o di tossicodipendenza, oppure so che spesso sono state coinvolte in comportamenti illegali dai loro uomini, ma non ho mai sentito di qualcuna che ha ucciso per orgoglio.

Alcuni amici in confidenza mi prendono in giro chiedendomi se c’è un nome da donna che preferisco, approfitto per rispondere anche a loro del fatto che sono orgogliosamente uomo, e che amo, anzi adoro le donne. Ma ho raccontato questo mio sogno per far capire meglio la differenza che c’è tra l’essere stupidamente orgogliosi, con il rischio di finire in galera, e fregarsene dell’orgoglio come fanno spesso le donne.

 

 

 

Comportamenti da “incoscienti”

 

di Luigi Guida

 

Alcuni giorni fa in redazione siamo tornati a parlare della guida in stato di ebbrezza e del fatto che da un po’ di tempo è previsto il carcere anche per chi, ad esempio, supera di poco il limite consentito di alcol dello 0,5 (ma per i giovani sotto i 21 anni e i neopatentati la tolleranza è zero).

Io, oggi che ho 30 anni, non sono ancora in possesso della patente di guida. Questo perché, già dall’età di 18 anni, mi è stata applicata una misura di prevenzione chiamata “sorveglianza speciale”, che impedisce di avere la patente fino a quando non è stata scontata per intero la misura.

Invece che rispettarla, io questa misura la ignoravo e continuavo a guidare senza patente.

Un giorno, poi, sono stato fermato a un posto di blocco dai Carabinieri. Oltre al ritiro della macchina sono stato denunciato per guida senza patente e sotto l’effetto della cannabis.

Questa denuncia mi ha portato a subire una condanna di trenta giorni da scontare agli arresti domiciliari.

Il fatto di trovarmi in una condizione del genere non mi ha aiutato in alcun modo a riflettere sugli errori commessi e sulle conseguenze che avrei potuto causare. Piuttosto aspettavo con ansia che passassero in fretta quei trenta giorni per tornare di nuovo a guidare, cosa che poi ho fatto, ovviamente sempre senza patente.

Solo oggi, a distanza di anni, mi rendo conto di quanto era rischioso comportarsi in certi modi. Ho preso coscienza con il tempo di quanto era superficiale credere che, al massimo, stavo solo infrangendo una piccola regola e che l’unica conseguenza potesse essere quella di subire una sanzione. Invece le conseguenze vanno ben oltre, perché avrei potuto causare un incidente, avrei potuto investire qualcuno e ucciderlo.

Questo tipo di riflessioni non sono arrivato a farle attraverso la sanzione che mi è stata inflitta dallo Stato, ma attraverso un percorso personale, molto più profondo, iniziato in seguito a esperienze fatte nell’ambito di iniziative, come quella di cui faccio parte all’interno della redazione di Ristretti Orizzonti, dove si affrontano sempre temi importanti e si va a fondo cercando di ricostruire la propria storia con uno sguardo più critico. La forza di questi progetti è il confronto con altre persone e la possibilità di scambiarsi idee ed opinioni diverse. Questo ti porta a riflettere, ad elaborare in te la consapevolezza della gravità dei tuoi comportamenti e anche a cambiare alcune idee, cosa che nel mio caso non è mai avvenuta invece con la semplice restrizione fisica.

Ecco perché mi sento di dire, specialmente nei casi di infrazioni più lievi e soprattutto se si parla di ragazzi giovanissimi, che è più rieducativo sottoporre una persona ad un percorso socialmente utile che a una pura punizione. E si otterrebbero senz’altro risultati migliori spingendo le persone fermate per violazioni del Codice della strada ad assistere le vittime proprio di incidenti stradali o a partecipare a progetti simili a quello di Ristretti Orizzonti, piuttosto che con la restrizione in carcere.

 

 

Quando Giorgio Gaber ci raccontava

“i mostri che abbiamo dentro”

Ma l’idea dominante oggi non è quella  di indagare i mostri che abbiamo dentro,  ma di accusare solo i mostri che ci sono fuori

 

A cura della Redazione

 

I mostri che abbiamo dentro

 

Fa un certo effetto non capire bene

da dove nasce ogni tua reazione.

E tu stai vivendo senza sapere mai

Nel tuo profondo quello che sei

quello che sei.

 

I mostri che abbiamo dentro

che vivono in ogni uomo

nascosti nell’inconscio

sono un atavico richiamo.

 

I mostri che abbiamo dentro

che vagano in ogni mente

sono i nostri oscuri istinti

e inevitabilmente dobbiamo farci i conti.

 

I mostri che abbiamo dentro

silenziosi e insinuanti

sono il gene egoista

che domina e conquista.

 

I mostri che abbiamo dentro

ci spingono alla violenza

che quasi per simbiosi

si è incollata

alla nostra esistenza.

 

La nostra vita civile

la nostra idea di giustizia e uguaglianza

la convivenza sociale

è minacciata

dai mostri che sono la nostra sostanza.

 

I mostri che abbiamo dentro

i mostri che abbiamo dentro.

I mostri che abbiamo dentro

ci fanno illanguidire

di fronte a quella cosa

che spudoratamente

noi chiamiamo amore.

I mostri che abbiamo dentro

sono insaziabili e funesti

sono il potere a tutti i costi

ma anche chi lo odia

soltanto per invidia.

 

I mostri che abbiamo dentro

ci ispirano il grande sogno

di un Dio severo e giusto

col mitico bisogno

di Allah e Gesù Cristo.

 

I mostri che abbiamo dentro

ci inculcano idee contorte

e il gusto sadico e morboso

di fronte a immagini di morte.

 

La nostra vita cosciente

la nostra fede nel giusto e nel bello

è un equilibrio apparente

che è minacciato

dai mostri che abbiamo nel nostro

cervello.

 

I mostri che abbiamo dentro

crescono in tutto il mondo

i mostri che abbiamo dentro

ci stanno devastando.

 

I mostri che abbiamo dentro

che vivono in ogni mente

che nascono in ogni terra

inevitabilmente

ci portano alla guerra.

 

 

 

 

 

Giorgio Gaber

 

 

Mostro: Personaggio mitico o leggendario dalle forme non riscontrabili in natura, creatura fantastica di aspetto orribile: i m. della mitologia antica; Essere vivente deforme; Persona orribile, bruttissima, anche in usi iperb.; Persona che possiede in misura straordinaria una qualità positiva o negativa: essere un m. di crudeltà, di bravura; Chi si è reso responsabile di atroci crimini, specialmente a sfondo sessuale: stanno cercando il m. che ha seviziato i due bambini (Voce dal dizionario Sabatini Coletti)

 

C’è una canzone di Giorgio Gaber che si intitola “I mostri che abbiamo dentro” ed è l’argomento che i ragazzi di una scuola hanno scelto nel loro percorso di conoscenza dei reati, delle pene e del carcere. Proviamo allora anche noi, a partire da questo testo, a discuterne, visto che stiamo in un posto, il carcere, che secondo tanti luoghi comuni ospita “i mostri”.

 

Elton Kalica: Intanto con la sua canzone Gaber ha elencato tanti aspetti della vita di tutti noi ed ha ragione quando dice che in ognuno di questi aspetti si annida anche una parte mostruosa.

Basta vedere già la prima strofa, dove fa riferimento alle reazioni che ognuno di noi ha ai fatti della vita, che spesso non è in grado neppure di controllare. Noi qui dentro abbiamo discusso a lungo sul come sapersi controllare quando ci troviamo in situazioni di difficoltà, di fronte alle quali in passato a volte abbiamo reagito anche in maniera mostruosa.

Nella seconda strofa parla dei mostri che abbiamo dentro, nascosti nell’inconscio, è il tema che più spesso affrontiamo con gli studenti, quando parliamo, per esempio, di certi omicidi in famiglia, o quando richiamiamo quell’affermazione di un magistrato di Sorveglianza, che ha detto che nessuno di noi può sentirsi certo che non gli capiterà mai di uccidere qualcuno, cioè di commettere il reato che a ognuno di noi sembra il più lontano, il più estraneo.

 

Ornella Favero: In una classe di quelle che abbiamo incontrato oggi c’era un ragazzo che aveva la certezza di conoscersi molto bene. In quello che diceva quel ragazzo mi sembra che c’era qualcosa che ricollegherei alla prima strofa, quando Gaber dice: “Vivendo senza sapere mai nel tuo profondo quello che sei”. Io allora chiedo a voi: una persona che ha sperimentato ed ha visto già il peggio di sé è comunque più portata a conoscersi meglio, nel senso che ha sperimentato già “il male”, sa di aver superato i limiti, quindi conosce i meccanismi che l’hanno guidata a scelte sbagliate e forse è in grado di controllarli di più?

 

Bruno Turci: Io l’ho riscontrato in me e in tante altre persone questo aspetto, io ho avuto l’abitudine pessima per anni di portarmi appresso un’arma, ma quando sei abituato ad avere le armi, ad usarle, impari a conoscerle e a saper controllare quegli effetti che possono scaturire da una reazione incontrollata ed è difficile che una persona come me abbia una reazione fuori controllo.

 

Ornella Favero: Ma qui parliamo di istinti, dell’imparare a controllarsi, quello che dici tu è un’altra cosa, è l’autocontrollo di chi sa usare un’arma.

 

Sandro Calderoni: Io volevo dire che il fatto di essere più consapevoli dopo aver affrontato delle scelte sbagliate o essersi trovati in mezzo a delle situazioni pesanti come quelle che abbiamo vissuto noi è senz’altro vero. È vero perché, se penso che a 20 anni le mie reazioni erano spesso aggressive, adesso conoscendo le conseguenze cerco di controllarmi e trovare la maniera più giusta, sempre con attenzione perché, lo dice anche la canzone, abbiamo imparato sulla nostra pelle che la testa a volte non ti dà modo di pensare e agisci d’istinto.

 

Antonio Floris: Secondo me i ragazzi non possono dire che a loro non succederà mai una cosa così perché sono troppo giovani e non hanno fatto molte esperienze per esserne certi, anche noi alla loro età magari dicevamo la stessa cosa.

La frase “senza sapere mai nel tuo profondo quello che sei” ci dice appunto che nessuno si conosce, anche Socrate diceva che lui doveva imparare a conoscersi ancora quando aveva 70 anni.

Nessuno di noi sa con certezza come reagirà in una situazione di difficoltà, e poi uno può credere che in una data circostanza è giusto comportarsi in una maniera e invece poi si rende conto solo quando è troppo tardi che non era giusto fare così.

Elton Kalica: A me pare interessante riflettere anche sul fatto che questi mostri nascono e sono quelli che abbiamo dentro, ma poi si riflettono alla fine in modo più ampio nell’interazione tra le persone, perché le nostre azioni comunque si ripercuotono nel mondo di fuori e nella società.

 

Bruno Turci: Infatti non dobbiamo limitare questo discorso solo al “mostro” che c’è dentro di noi e che a volte porta a gesti irreparabili, come per l’omicida, ma estenderlo a certi comportamenti della vita di tutti i giorni. Anche una semplice trasgressione può essere scatenata da un “mostro” che si nasconde dentro di noi.

 

Ornella Favero: Mi chiedo quanto anche una cattiva informazione possa attivare questi mostri che abbiamo dentro. Io penso che ci sono alcuni spunti sui “mostri” che abbiamo dentro, che noi cogliamo sia nel nostro lavoro che facciamo con le scuole, ma anche in quello che facciamo sull’informazione.

Gaber dice “I mostri che abbiamo dentro ci inculcano idee contorte e il gusto sadico e morboso di fronte a immagini di morte”. Mi viene in mente tutta quella informazione che va a solleticare questo gusto sadico, questa passione per le notizie morbose di cronaca nera, e lo fa creando “i mostri”.

E questo fa anche comodo, perché non si vuole mai ammettere che non conosciamo tutto di noi stessi, dei nostri lati più nascosti, non abbiamo una razionalità e una conoscenza di noi stessi così forte, da renderci sicuri di fronte a qualsiasi rischio e qualsiasi scelta.

Nella “normalità” della vita quotidiana una persona non si sperimenta mai fino in fondo, quando cioè cresci in un ambiente tranquillo senza far fatica per le tue scelte, senza che la scelta tra il bene e il male sia particolarmente difficoltosa, un ambiente dove i rischi sono più limitati, spesso non arrivi neppure alla conoscenza dell’aspetto oscuro che c’è in ognuno di noi.

Oggi chi fa le leggi e un certo tipo di pene lo fa nell’assoluta convinzione che a lui “non capiterà mai”, e quindi nella certezza che ognuno è in grado di dominare il bene e il male che c’è in lui e di scegliere il bene, e se uno non lo fa è semplicemente un criminale. E invece può capitare di “deragliare” anche a chi non ha scelto un certo tipo di vita, non vive nell’illegalità, non è un “delinquente”.

Se dovessi definire quelli che hanno una certa idea della giustizia oggi, direi che sono persone che non hanno nessuna percezione del fatto che può capitare a ognuno di noi. Noi diciamo sempre che la legge dovrebbe essere fatta invece da chi ha la capacità di porsi da tutte e due le parti, di immaginare di poter essere la vittima di un reato, ma anche “il mostro”, l’autore o un famigliare dell’autore di un reato.

Un’altra cosa è che i ragazzi cercano spesso rassicurazioni chiedendo che tipo di educazione voi avete avuto dalla vostra famiglia, con l’idea forse che chi commette reati nasca in famiglie a loro volta un po’ “mostruose”. La storia di Mirko ad esempio, quando dice che è nato a Napoli ed è vissuto in un quartiere con la camorra, che il padre era stato in galera e la madre anche, è come se fosse rassicurante proprio perché lui ha vissuto in quel contesto e quindi chi ha vissuto in altri contesti si sente sicuro che non gli succederà mai.

Poi Gaber dice “sono i nostri oscuri istinti e inevitabilmente dobbiamo farci i conti” ed anche questa è una cosa che dà il senso lo stesso al nostro progetto con le scuole. Mi viene in mente che un altro spunto di discussione con i ragazzi è che di fronte ai propri istinti loro sono spesso disarmati. C’è una scarsa conoscenza dei propri istinti e c’è anche una scarsa educazione a queste cose, la scuola ti insegna a razionalizzare, a capire, a sistematizzare le conoscenze, ma l’aspetto degli istinti è abbastanza scoperto.

Nei versi di Gaber poi c’è uno spunto proprio da galera quando dice: ”i mostri che abbiamo dentro silenziosi e insinuanti sono il gene egoista che senza complimenti domina e conquista”.

La riflessione che noi facciamo è che spesso uno finisce in galera perché al centro dell’attenzione mette se stesso, “Io, io, io… e gli altri”. Tante volte anche il pensiero dei familiari arriva dopo, ed i ragazzi faticano a capire come abbia fatto uno a commettere certi reati senza minimamente pensare ai suoi figli per esempio.

Quindi anche questo dell’egoismo credo che sia un bel tema da affrontare.

 

Oddone Semolin: Il testo della canzone secondo me va letto sempre nel suo contesto e se non ricordo male è riferito agli anni di piombo.

Quando Gaber dice: “I mostri che abbiamo dentro ci inculcano idee contorte e il gusto sadico e morboso di fronte a immagini di morte”, a me ricorda molto una critica che lui faceva ai “cattivi maestri” del terrorismo.

 

Elton Kalica: È vero che in quegli anni c’era chi esultava di fronte a immagini di morte, però è una cosa che trova spazio anche nelle situazioni di oggi.

Quando poi Gaber dice “I mostri che abbiamo dentro sono insaziabili e funesti, sono il potere a tutti i costi ma anche chi lo odia soltanto per invidia”, si riferisce probabilmente a quel periodo, perché si lottava contro il potere dei ricchi, era una lotta con delle motivazioni giuste, ma violenta e sbagliata nei metodi.

Quindi sono i mostri che abbiamo dentro che portano insaziabilità a chi ha il potere, ma anche a chi lo odia solo per invidia. Questa considerazione però io non la condividerei in questo periodo storico, perché se odi il potere oggi non è perché hai dei mostri dentro, non è per motivi ideologici, ma perché non arrivi a fine mese.

 

Oddone Semolin: Anche quando parla dell’egoismo lui dice che è un gene che viene dal mostro che abbiamo dentro.

Noi che stiamo in carcere spesso diciamo che è l’egoismo che non ci ha fatto vedere o considerare le persone che ci vogliono bene, ma quando Gaber parla del “gene egoista che domina e conquista”, è un concetto che per i ragazzi forse non è chiaro, specialmente in un momento in cui per raggiungere il proprio scopo la gente è disposta a tutto, e questo passa nei media come una cosa giusta, da vincenti.

Anche la strofa che viene dopo sulla violenza è bella e noi ne abbiamo parlato spesso e possiamo ragionare anche su questo. Ti dà uno strumento in più, perché Gaber ti dice che la violenza è incollata alla nostra esistenza, quindi anche a chi dice di non aver mai usato la violenza nella sua vita, di fronte ad un ragionamento di questo tipo potrebbe nascergli qualche dubbio.

Quello di fare i conti con i mostri che non sono “esterni”, non siamo solamente noi che abbiamo fatto i reati, i “diversi”, ma sono dentro di noi, e ognuno di noi è capace di fare cose mostruose, è una questione su cui è particolarmente importante riflettere.

 

Marco Libietti: Il punto da dove dobbiamo partire con i ragazzi è l’informazione che crea una falsa distanza tra la parte razionale e la parte che in pochi conoscono, istintiva, a volte “mostruosa”, fuori controllo che c ‘è in tutti, e non solo in noi che siamo qui dentro.

Negli ultimi anni questa tecnica da parte di chi governa e degli organi di informazione si è sviluppata molto, e non parlo solo dell’Italia. Questo è un sistema che toglie la capacità alla massa, in questo caso ai ragazzi, di comprendere razionalmente una parte di se stessi.

 

Ornella Favero: “I mostri che abbiamo dentro” ci inchioda alle nostre responsabilità, e a non cercare sempre negli altri i colpevoli, i “cattivi”. Se pensate alla politica, ad esempio, rispetto agli immigrati, ai diversi o ai rom c’è proprio l’idea non dei mostri che abbiamo dentro, ma dei mostri che ci sono fuori, e invece ognuno di noi deve prima guardarsi dentro, oltre che guardare chi fa certe cose.

L’informazione racconta i fatti sempre in una certa maniera ed esalta da un lato la parte più irrazionale di noi, parlando appunto del mostro, e dall’altra invece convince che il bene e il male si possono razionalmente scegliere, vedere e dividere.

Il nodo del problema è proprio che bisogna rovesciare l’idea dominante di oggi, che i mostri sono altro da noi.

 

Cesk Zefi: Uno studente ha detto che se non lo riguardava personalmente, il fatto di subire un reato, si poteva essere anche più tolleranti sulle pene, e invece se lo riguardava era giusto l’ergastolo.

Evidentemente partiva sempre dalla convinzione che potesse essere coinvolto solo come vittima, e mai che potesse commettere lui un reato.

Ma anch’io non credevo mai di finire in carcere.

 

Ornella Favero: Per i ragazzi è sempre salutare sentire le storie di chi era convinto di non finire mai in carcere.

La base di quello che dice Gaber è che nessuno si deve sentire innocente, nessuno si deve sentire tranquillo. La natura di ognuno di noi ha dei lati oscuri. Perfino i bambini, nonostante non abbiano la consapevolezza di ciò che fanno, a volte fanno delle cose terribili.

Una volta dei miei amici mi hanno raccontato una cosa tremenda dei loro figli: il fratellino più grande andava a dare i baci alla sorellina più piccola ed ogni volta lei si metteva a piangere, i genitori dicevano che lui non era geloso, anzi era molto affettuoso, e invece poi hanno scoperto che quando baciava la sorella si metteva uno stuzzicadenti fra i denti.

A me interessa comunque ragionare sulla parola “consapevolezza”. In realtà se tu hai la consapevolezza che potrebbe succedere anche a te, giudichi meno e sei più mite e attento rispetto alle pene.

 

Marco Libietti: L’essere umano è come se avesse tanti scomparti vuoti e dal primo istante in cui uno comincia a vivere riceve degli stimoli dall’esterno.

Noi in maniera prima inconscia e poi più razionale cominciamo a metterli in questi scomparti, a seconda se creano paura, incertezza, insicurezza noi li mettiamo in determinati scomparti.

Penso che noi abbiamo come una camera oscura dove mettiamo tutto ciò di cui abbiamo paura, che ci dà insicurezza, che non comprendiamo subito. Accade che poi non riusciamo razionalmente a tirare fuori queste cose. All’interno di questa camera è come se ci fosse una continua macina che mescola tutto insieme, e a seconda di come poi si apre esce il mostro, esce tutto un assemblaggio di quello che non si voleva sentire, di cui si aveva paura.

Anche le persone che hanno commesso un reato in famiglia spesso raccontano che credevano di riuscire ad avere sotto controllo tutto di sé, e invece tutto quello che non controllavano lo mettevano lì dentro e poi quella specie di scatola è diventata una bomba ad orologeria. Mettendo via i problemi non li hai risolti, ma solo accantonati. Quando si apre questa porta ed esce “il mostro”, noi lo definiamo così perché non sappiamo che cosa ha fatto aprire questa porta.

 

Ornella Favero: Per uno studente sentir parlare di mostri può sembrare un discorso astratto, invece sentire le testimonianze di persone che sono qui dentro, che potrebbero essere identificate come mostri, diventa più interessante.

Noi cerchiamo sempre di far capire ai ragazzi che quando ti avvicini ad una realtà diversa e complessa come quella di chi ha fatto del male, ne hai meno paura perché capisci che cosa può portare a commettere un reato e soprattutto perché riconosci nell’autore di quel reato la persona.

Quando qui dentro le persone raccontano la loro storia, noi non cerchiamo di giustificare chi commette reati, ma cerchiamo solo di fare dei passi avanti in questo ribaltamento dell’idea del mostro, il nostro sforzo è cercare di far capire se ci sono dei segnali che possono far accorgere che la vita di una persona sta deragliando. Invece l’informazione fa l’esatto contrario, indaga per esempio su come è avvenuto un fatto di sangue in famiglia, ma non fa nessuno sforzo per farti capire come una persona può arrivare a fare cose mostruose.

L’informazione non deve rassicurare sul fatto che certe cose le fanno solo “i mostri”, ma deve far capire come succedono queste cose.

 

Informazione e controinformazione         

 

Lo stupro di gruppo, il carcere e “gli orrori dell’informazione”

Una sentenza della Cassazione letteralmente “reinventata” da giornali e telegiornali, giudici “massacrati”, uno scandalo che non esiste

 

di Antonio Floris

 

Qualche giorno fa praticamente tutti i giornali d’Italia hanno riportato e commentato una sentenza della Cassazione a loro dire “sconcertante”, creando nella gente reazioni di grande indignazione. La notizia sconcertante riportata sui giornali a grandi titoli era che per i colpevoli di violenza sessuale di gruppo il carcere non è più obbligatorio. Se uno si facesse una sua opinione solo in base alle parole riportate nei titoli senza esaminare e riflettere sul contenuto della sentenza, giustamente si indignerebbe nel sapere che un reato così odioso resti impunito. Ma siccome è assai difficile che la Corte di Cassazione emetta sentenze in contrasto con la legge e con la stessa Costituzione, è il caso di approfondire la questione e cercare di capire che cosa esattamente questa sentenza dice.

Proviamo a partire da cosa è successo qualche anno fa. Nel 2009, sulla base di un diffuso allarme sociale legato anche alla recrudescenza di episodi di aggressioni alle donne, ma anche a un fatto ben preciso, il cosiddetto “stupro di capodanno” di cui era accusato un ragazzo di vent’anni, mandato agli arresti domiciliari con grandi urla e strepito sui mezzi di informazione (Lo stupratore è già a casa…), il Parlamento emanò la Legge N°94/2009 sotto la rubrica “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”.

Tra le altre cose tale legge stabiliva che, nei confronti di coloro che erano gravemente indiziati di aver commesso delitti di violenza sessuale o atti sessuali con minorenne, il giudice in pratica doveva applicare “solo ed esclusivamente“ la misura della custodia cautelare in carcere, escludendo il ricorso ad altre misure come ad esempio quella degli arresti domiciliari in attesa di processo.

La Corte Costituzionale investita della vicenda, con la sentenza N°65 del 2010, ha ritenuto la norma in contrasto con gli articoli 3, 13 e 27 della Costituzione e ha detto che anche per questo tipo di reati le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure e non solo col carcere. Naturalmente dopo aver valutato la posizione di ciascun imputato ed acquisito elementi specifici relativi al caso concreto.

Che è successo ora? Due persone, accusate di violenza sessuale di gruppo nei confronti di una ragazza e per questo finite in carcere, hanno fatto ricorso al Tribunale del riesame di Cassino (Frosinone) per annullare la misura della custodia cautelare in carcere magari sostituendola con un’altra meno afflittiva. Il Tribunale ha rigettato la richiesta dicendo che per quel tipo di reato l’unica misura applicabile è quella della custodia in carcere, così come prescritto dalla legge 94/2009. I due hanno fatto ricorso in Cassazione e la Cassazione ha rinviato il fascicolo al Tribunale di Roma, perché faccia una nuova valutazione basandosi su quanto asserito dalla Corte Costituzionale nel 2010.

Per i reati di violenza sessuale il Codice Penale prevede tante ipotesi: violenza sessuale, atti sessuali con minorenne, violenza sessuale di gruppo. Le pene previste per questi reati partono da un minimo di 5 anni fino a 12 con ulteriori aumenti nei casi in cui esistano particolari aggravanti e l’arresto è obbligatorio in flagranza.

Tra l’altro il reato di violenza sessuale di gruppo (art.609 octies C.P.) fa parte di quella categoria di reati compresi nel primo comma dell’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, i quali per chi non lo sapesse sono esclusi da qualsia­si beneficio penitenziario. Quindi chi venisse condannato in via definitiva per il reato di cui all’art. 609 octies non solo prenderebbe una condanna attorno ai 12 anni, ma la sconterebbe per intero senza sperare mai in nessuna misura alternativa. Quindi, da qui a dire che per i reati di violenza sessuale in carcere non si va, già ce ne passa.

La sentenza di rinvio emessa dalla Corte Suprema non dice affatto che chi è accusato di reati di violenza in carcere non ci deve andare, ma dice che, in interpretazione della sentenza della Corte Costituzionale, il giudice di merito può applicare altre misure diverse dalla galera, come per esempio gli arresti domiciliari. Alla stessa maniera come avviene per tutti gli altri reati (che non sono di violenza) quando le prove di colpevolezza non sia­no tanto evidenti o si accerti che la responsabilità è ridotta.

Essere solo indiziato di un reato non significa essere sicuramente colpevole, anzi fino a che la sentenza non diventa definitiva esiste sempre la presunzione di innocenza. E se la misura della detenzione in carcere può essere più che giustificata nel caso di una sentenza definitiva, non è giustificata quando uno è solo indagato.

Nei casi di reati di violenza di gruppo inoltre è molto difficile attribuire a ciascun componente del gruppo delle precise responsabilità, in quanto ci può essere all’interno del gruppo una parte che la violenza l’ha veramente fatta, una parte che si è solo limitata ad assistere e ce ne può essere un’altra parte che potrebbe essere stata anche contraria. Quindi non tutti devono essere condannati alla stessa maniera e non per tutti devono essere prese le stesse misure cautelari. Se la custodia cautelare in carcere potrebbe essere giusta per certi, non lo potrebbe essere per altri, almeno fino a che non si chiariscano le precise responsabilità di ciascuno.

 

 

Un invito a Marco Travaglio

Se è davvero così sicuro dei suoi calcoli sulle pene e sul carcere, perché non viene a confrontarsi con noi detenuti pubblicamente, magari con un “arbitro” che verifichi le sue e le nostre affermazioni?

 

“Dunque si continua a non costruire nuove carceri, a non combattere con misure preventive i fenomeni criminali dilaganti, a non depenalizzare reati inutili e a non cancellare le norme – su droghe, immigrati, microcriminalità e recidiva (la folle ex-Cirielli) – che negli ultimi anni hanno moltiplicato inutilmente la media dei detenuti. Poi ogni tanto si scopre che il sistema produce un numero di reclusi insostenibile dalle strutture esistenti e si adotta la “soluzione scolastica” alla Mastella: chi disturba, fuori! Non potendo fortunatamente ricorrere all’ennesima amnistia, visto che fra poco si vota, ecco i surrogati e i pannicelli caldi: si svuota il mare col cucchiaino salvo ripiombare, fra qualche mese, nell’eterna “emergenza”. Già oggi il condannato, per scontare la pena in carcere, deve avere una condanna superiore ai 3 anni; che diventano addirittura 6 se ha commesso il delitto prima dell’indulto di 3 anni del 2006; con l’indultino Al Fano, per finire dentro per un delitto di 5 anni o più fa, la pena doveva essere di almeno 7 anni; e ora, con l’indulticchio Severino, anzi Morbidino, la soglia sale oltre i 7 e mezzo. Se sentite ancora un ministro invocare la “certezza della pena”, prendetelo a ceffoni. Tanto, mal che vi vada, finite carcerati a casa vostra” (Marco Travaglio, Il Fatto quotidiano, 17 dicembre 2011).

“Il sovraffollamento carcerario è una piaga da lasciare sempre aperta e sempre più purulenta per giustificare l’inesauribile produzione di amnistie e indulti, perlopiù camuffati come quello in cantiere, da parte di una classe politica che se ne infischia dei detenuti, ma cerca semplicemente di salvare dalla galera gli amici e gli amici degli amici.

Dal carcere preventivo li salva il Parlamento, negando l’autorizzazione ai giudici. Da quello definitivo, si mettono al riparo con norme e normette tipo quella escogitata dalla ministra Severino e subito sposata dal neo-inciucio Pdl-Udc-Pd. Che non mira tanto a far uscire dal carcere i detenuti, ma a non farci entrare politici e compari banchieri, finanzieri e imprenditori che potrebbero presto finirci.

Ma non ci finiranno più se, oltre alle scappatoie assicurate dall’ordinamento penitenziario (affidamento ai servizi sociali per gli ultimi 3 anni di pena) e dall’indulto (sconto di 3 anni per i reati commessi fino al 2006), potranno scontare a domicilio altri 18 mesi. È solo un cattivo pensiero? Chi lo pensa ha un modo semplicissimo per smentirci: escludere dai domiciliari per gli ultimi 18 mesi di pena i condannati per i reati di Tangentopoli e di mafia, per quelli finanziari e fiscali (che fra l’altro incidono in modo infinitesimale sull’affollamento delle carceri). Poi magari discutiamo”. (Marco Travaglio, Il Fatto quotidiano, 22 gennaio 2012).

 

a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

 

Travaglio che si confronta solo con Travaglio

 

di Bruno Turci

 

Io sono un condannato per reati contro il patrimonio, in detenzione da molti anni. La giustizia per come l’ho sempre vissuta, soprattutto per le sue lentezze esasperanti, mi ha fatto schierare su posizioni di severa critica e di sfiducia. Mi rendo conto, tuttavia, che una società non può non dotarsi di regole e non ho dubbi sul fatto che coloro che le infrangono debbano risponderne in qualche maniera. Considerando la mia condizione di detenuto, la mia difesa d’ufficio del Ministro della Giustizia potrebbe suonare strana, se non fosse che il 17 dicembre Il Fatto quotidiano pubblicava un articolo di Marco Travaglio a commento del decreto governativo in materia di giustizia, che è davvero pieno di imprecisioni e omissioni, e anche di qualche falsità. Tutto questo condito con una certa arroganza, per dare maggior rilievo ai concetti espressi.

Travaglio definisce il Ministro “Severino anzi Morbidino” e procede nell’analisi del decreto contro il sovraffollamento, sostenendo che contiene delle soluzioni “fra il demenziale e il tragicomico” e bollando come “indultino mascherato” che manda a casa anzitempo 3500 carcerati quel decreto con cui il Ministro ha inteso alzare da 12 a 18 mesi il residuo pena che può essere scontato in detenzione domiciliare. In realtà, la legge 199/2010 relativa alla detenzione domiciliare per quei detenuti che scontano un residuo pena inferiore a un anno, esteso a diciotto mesi, intanto non si applica a tutti, ma esclude tantissimi reati (tutti quelli dell’articolo 4 bis), e poi non manda a casa nessuno come lo fa intendere Travaglio: i condannati vanno a scontare a casa la parte finale della pena, con una serie di controlli rigidissimi, con il divieto di uscire di casa, di incontrare pregiudicati e un’infinità di altre limitazioni. La detenzione domiciliare ha certo il vantaggio di evitare al condannato quelle umiliazioni con cui viene mortificata la sua identità nel degrado delle carceri sovraffollate, ma non è la libertà, non lo è affatto.

Per quel che riguarda invece i 21-22 mila detenuti che danno luogo al fenomeno delle porte girevoli, cioè che entrano in carcere per due massimo tre giorni poiché il giudice della direttissima li manda fuori per diverse ragioni, il decreto consente di trattenerli nelle questure fino a 48 ore per non farli entrare in carcere prima che un giudice li abbia giudicati. Pertanto anche con lo scopo di non intasare le galere, ma non solo, questo provvedimento realizza il principio di evitare quella inutile sofferenza derivante dall’ingresso in carcere a chi poi ci resterebbe pochissimo. Ovviamente le camere di sicurezza delle questure dovranno essere usate solo nel caso non sia possibile concedere gli arresti domiciliari, e dovranno essere attrezzate per ospitare i fermati garantendo loro una detenzione che rispetti le norme igieniche, l’assistenza sanitaria e la dignità della persona trattenuta, allo scopo di evitare qualsiasi abuso e violenza, e dovranno essere sempre controllabili.

Travaglio poi, a cui non piacciono i contraddittori, ha il coraggio di affermare che il governo tecnico segna una sconcertante continuità con quei governi politici che l’hanno preceduto… cioè seguita a muoversi come se le galere scoppiassero per i troppi detenuti anziché per i troppi delinquenti e per i pochi posti cella. Secondo Travaglio, in Italia abbiamo fenomeni criminali come la mafia, la camorra e la ndrangheta e perciò dovremmo costruire nuove carceri per sopperire a tali fenomeni criminali, giacché gli altri Paesi europei hanno un numero di carcerati come il nostro pur non avendo una criminalità di stile mafioso pericolosa e diffusa come la nostra. In realtà la percentuale di detenuti per reati legati alla criminalità di stampo mafioso, camorristico o ndranghetista non supera il 10-12% dei carcerati italiani. Pertanto il numero è esiguo e non influisce granché sul sovraffollamento. Le cause del sovraffollamento vanno individuate in alcune leggi che hanno portato voti ai partiti perché hanno puntato sulla percezione d’insicurezza instillata scientificamente nell’opinione pubblica più vulnerabile, meno preparata alle trappole predisposte per portare molti voti utili a vincere le elezioni.

Travaglio in realtà si contraddice quando prima dice che il numero di detenuti presenti è praticamente quello giusto per il nostro Paese, ma poi individua, e su questo naturalmente siamo d’accordo, non nella criminalità, bensì in alcune leggi del precedente governo l’origine del sovraffollamento delle carceri: la cosiddetta ex Cirielli (che eleva le condanne per i recidivi a livelli esagerati, rende più difficile il loro accesso ai benefici e abbassa i termini per la prescrizione per i reati come il falso in bilancio e gli altri reati tipici dei “colletti bianchi”); la Fini Giovanardi che aumenta le pene per i tossicodipendenti; infine la legge Bossi-Fini che criminalizza l’immigrazione.

Travaglio poi chiude l’articolo nel segno della sua tradizione: fa i conti, sbagliandoli, forse lo fa apposta o forse non è colpa sua e per davvero non ha capito come funziona l’esecuzione della pena. Fa cioè la somma dei benefici “spettanti” ai condannati e ha il coraggio di scrivere che con le leggi precedenti il condannato italiano, per entrare in carcere doveva avere da scontare una pena superiore a 7 anni per un reato commesso prima del maggio 2006, poiché avrebbe avuto dei benefici consistenti in: 3 anni per l’affidamento in prova ai servizi sociali, a cui si dovevano sommare i 3 anni dell’indulto, applicabili ai reati commessi prima del maggio 2006, a cui si dovevano sommare i 12 mesi della legge che concede la detenzione domiciliare nell’ultimo anno di pena, che fanno 7 anni di franchigia per i condannati. Dopo l’aumento di 6 mesi al beneficio della detenzione domiciliare operato dal governo attuale, la “franchigia” arriverebbe a 7 anni e 6 mesi.

Queste sono le fantasie di Travaglio. In realtà l’unico “sconto di pena” automatico è dovuto all’indulto, per l’affidamento in prova e per la detenzione domiciliare ci sono dei vincoli particolari, ed è, infatti, il Magistrato o il Tribunale di Sorveglianza che valuta se esistono i presupposti della buona condotta, della cessata pericolosità, dell’assoluta assenza del pericolo di fuga per poter concedere i benefici, che non sono comunque mai automatici. Aggiungo che per la concessione dell’affidamento in prova ai servizi sociali esistono dati interessanti sulle percentuali di benefici concessi nei diversi tribunali di Sorveglianza, che dimostrano che non c’è alcun automatismo nella concessione, e anzi moltissime richieste vengono respinte. E i benefici non si sommano, non è che uno ottiene negli ultimi tre anni di pena l’affidamento e poi ottiene nell’ultimo anno e mezzo la detenzione domiciliare, e quindi 3 anni di affidamento + 1 anno e mezzo di detenzione domiciliare non fanno 4 anni e mezzo fuori dal carcere, per la semplice ragione che si può ottenere o l’uno o l’altro, o uno è affidato ai servizi sociali, o uno è in carcere e allora nell’ultimo anno e mezzo può accedere alla detenzione domiciliare.

 

 

La strana matematica di Travaglio

Secondo i calcoli del giornalista, nel nostro Paese si finisce poco in galera. Peccato che nessun Magistrato di Sorveglianza fa i conti come li fa lui

 

di Ulderico Galassini

 

Leggendo i più recenti articoli di Marco Travaglio sulla giustizia e le carceri, non capisco che cosa l’autore intende portare all’attenzione dei lettori, non è chiaro dove voglia giungere con il suo pensiero, tra un’apparente attenzione al problema carcere e però l’opposizione a qualsiasi soluzione proposta da chiunque abbia abbozzato anche un timido passo contro la disumanità della detenzione.

Mi piacerebbe vedere un piano carceri suggerito da Travaglio, magari dopo che si fosse fatto un giro ampio tra le celle e avesse visto così le condizioni disumane in cui chi ha sbagliato sta pagando con lunghi anni di detenzione, che non consentono certo una riabilitazione delle persone detenute. Quello che è certo è che servono misure che diano risultati subito, a meno che non vogliamo continuare a lasciare che il sovraffollamento sia autogestito dai detenuti con un “calendario dei suicidi”.

Condivido il giudizio di Travaglio sul flop del braccialetto elettronico, che non è però scelta fatta dal nuovo Ministro, ma che certo è costato molto allo Stato e molti guadagni ha procurato a qualcun altro, e su questo fallimento spero davvero che il governo si fermi. Certo è che invece quello che viene definito “indultino di Alfano”, la cosiddetta legge “svuotacarceri”, è una misura piccola, ma utile perché allarga la possibilità di andare in detenzione domiciliare nella parte finale della pena, da 12 mesi a 18 mesi di residuo pena. Travaglio parla di “mandare a casa anzitempo”, ma a casa non significa in libertà, per il detenuto significa rimanere chiuso in casa ed essere controllato giorno e notte, e questa misura rappresenta una forte restrizione della libertà anche per i famigliari che accettano un peso non da poco.

Signor Travaglio, lei molto probabilmente è una persona fortunata, non ha “scarti umani“ da custodire nella sua abitazione, ma se fosse in tale situazione cosa preferirebbe per un suo famigliare, un figlio, un fratello, un padre? Lo lascerebbe alla deriva o sarebbe disponibile a limitare la sua stessa libertà per far vivere un suo caro in condizioni “da persona” gli ultimi 18 mesi di pena, che per come si vive ora in carcere è una pena che vale doppio quanto a disumanità e mancanza di dignità? Spero di non offendere la sua sensibilità, ma chiuda un attimo gli occhi e provi a mettersi “dietro le sbarre”. E a riflettere con noi se davvero le uniche pene sensate sono quelle che prevedono la galera.

Posso pensare che in carcere ci debba finire anche l’evasore, ma forse sarebbe più utile privarlo di parte dei suoi averi, forse sarebbe un ottimo deterrente. L’evasore ama accumulare ricchezza a discapito di tanti altri, togliergli ciò che ha preso per lui il posto del cuore stia certo che funzionerebbe. Ritengo che anche per lui il carcere non sarebbe una fonte di rieducazione. Non lo è neppure per tanti altri reati e non è neppure conveniente per lo Stato, e lei sa benissimo che le risorse economiche mancano e costruire nuove carceri è di solo ed esclusivo vantaggio per determinate imprese, e sa altrettanto bene quante strutture già esistono e non sono operative e sa anche benissimo perché non possono essere utilizzate.

In alcuni casi, per certi reati, probabilmente andrebbe indirizzato l’impegno dei rei verso attività sociali dove forse chi ha sbagliato ha un modo diretto di ripagare la società, rimanendo legato e non allontanato dal mondo esterno. Quel mondo che poi, finita la pena, dovrà riaccoglierlo non più con quel distacco con cui ora “bolla” il carcerato e tutta la sua famiglia, ma come una persona che si è sentita utile e quindi psicologicamente è anche più pronta a dare un contributo alla vita sociale. E le disposizioni del ministro, che prevedono per certi reati la messa alla prova, vanno esattamente in questa direzione,

Le carceri sono già piene e scoppiano, i numeri che lei stesso riporta lo dicono: 68.000 detenuti a fronte di una capienza di 45.000. Sono detenuti che non hanno ancora fatto degenerare la situazione con gravi reazioni, e forse dimostrano, insieme alla capacità di sopportazione, più responsabilità che non chi dà un certo tipo di notizie non approfondite, non sempre precise, spesso solo rispondenti al bisogno dell’editore di fare utili a discapito di una attività di informazione “sana”. che rispetti le persone sempre, anche quando si tratta di autori di reato.

Lei mescola insieme tante cose che contrastano; lamenta che si continua a non costruire nuove carceri (non ci sono soldi), a non combattere con misure preventive fenomeni criminali dilaganti, a non depenalizzare reati inutili, a non cancellare norme “che negli ultimi anni hanno moltiplicato inutilmente la media dei detenuti” (dunque anche lei è d’accordo che le carceri sono piene di gente che non dovrebbe stare qui) come la ex – Cirielli (condividiamo anche noi l’idea che bisogna rivedere questa legge), e finisce con l’affermare il suo giudizio negativo sull’amnistia. “Non potendo fortunatamente ricorrere all’ennesima amnistia”, scrive infatti, come se di amnistie ne venissero concesse spesso!

Mi è difficile poi capire la sua matematica applicata ai conteggi degli anni necessari per far varcare le soglie del carcere a chi ha commesso un reato, visto che lei ripesca sempre il solito indulto (ma i suoi effetti non sono infiniti!) e poi quelle alternative al carcere o quei benefici, che lei calcola come assolutamente automatici e invece non lo sono affatto, anzi vengono concessi molto meno che in altri Paesi.

Le auguro tanta fortuna, ma si ricordi di una cosa: non dica e non pensi “a me non capiterà mai!”

Io proprio non ho mai pensato al carcere, ho solo guardato tanti film sul carcere, ma non sono certo la stessa cosa. Oggi ci sono dentro e lo sto vivendo dopo aver vissuto una vita normale per 54 anni, non sto chiedendo di togliermi la pena, ma di viverla da uomo e non in condizioni che non sono degne né di uomini e neppure di animali. Spero solo di non essere considerato un numero di matricola e deresponsabilizzato a causa di un sovraffollamento continuo e senza soluzioni.

Lei lo sa quanti detenuti si “bevono la vita”, nel senso che assumono psicofarmaci a dismisura perché non hanno prospettive in nessun momento della loro permanenza in celle, dove non si riesce neppure a stare in piedi se non a turno?

Qualcuno ci può spiegare che senso ha una pena scontata in questo modo e che sicurezza dà alla società tenere le persone rinchiuse a non far niente e buttarle fuori alla fine della pena in condizioni peggiori di quando sono entrate?

 

 

Un po’ di verità invece di tanta falsa pietà

Quando l’informazione scambia l’internamento in un Ospedale psichiatrico giudiziario per la libertà

 

di Antonio Floris

 

Su “IO DONNA” è apparso di recente un articolo di Aldo Cazzullo dal titolo “Nessuna pietà per Enlou, uccisa per strada”. Enlou era una donna filippina trapiantata a Milano, che è stata uccisa a botte, senza ragione apparente, da un ex pugile ucraino di 25 anni che in quel momento era incapace di intendere e volere, almeno a quanto hanno stabilito le perizie, e che poi in sede di processo è stato inviato per cinque anni in un Ospedale psichiatrico giudiziario. Con il suo articolo il giornalista mette in risalto che la pena inflitta è troppo lieve per un reato così grave, che l’ex pugile non farà un solo giorno di carcere, e tra cinque anni sarà nuovamente libero di andare a uccidere altre donne alla stessa maniera come ha fatto con Enlou, e lancia pertanto un appello ai legislatori affinché si decidano a inasprire le pene per tutti i reati, in quanto esse sono troppo blande, i colpevoli vengono liberati anzitempo e la giustizia non tutela le vittime.

In effetti l’ex pugile non farà un solo giorno di carcere e sconterà una misura di sicurezza all’interno di un manicomio criminale, che in termine tecnico si chiama OPG (Ospedale Psichiatrico Giudiziario) perché quando egli ha commesso il fatto era incapace di intendere e di volere, e quando uno commette un reato perché “non c’è con la testa” non può essere condannato alla pena della reclusione, ma internato in OPG per essere curato.

Il periodo da passare in OPG è stabilito per legge in base al reato commesso. Per certi reati il periodo è di due anni, per certi altri è di cinque anni e per altri di dieci anni.

Nel caso dell’ucraino (omicidio si, ma senza uso di armi, senza premeditazione ecc.) il periodo minimo che la legge prevede di passare in OPG è di 5 anni. Si badi bene però che l’essere stato internato in OPG per 5 anni non vuol dire che allo scadere dei 5 anni gli vengono aperte le porte e lui esce libero e magari anche desideroso di ammazzare altri. Non è così. L’ex pugile resterà in cura in OPG per 5 anni sotto l’osservazione degli psichiatri e solo se allo scadere dei 5 anni gli psichiatri stabiliscono che è sicuramente guarito e quindi non più socialmente pericoloso, verrà messo in libertà e affidato a familiari o altri che si prendano cura di lui. Ma se la sicurezza della cessata pericolosità non sarà stata raggiunta, la permanenza in OPG verrà prolungata a tempo indeterminato. Si dice, e a piena ragione, che la condanna al manicomio criminale è in sostanza un ergastolo bianco.

Il Sig. Cazzullo probabilmente non sa che ci sono degli internati (così si chiamano) che sono entrati nell’OPG per starci due anni e stanno li da 25 anni e più. E ce ne sono altri che stanno dentro anche senza aver commesso niente, come quello che 25 anni fa si era travestito da donna e aveva spaventato i bambini di una scuola (La Repubblica, 16 marzo 2011). Tanti sono abbandonati li semplicemente perché non c’è nessuno disposto a prendersi cura di loro.

Fare poi delle affermazioni del tipo “non farà un solo giorno di carcere” ma solo manicomio, sembrerebbe voler dire che la “pena” scontata in manicomio criminale è una pena senza sofferenza da parte dell’autore di reato. E non essendoci sofferenza si rende alla povera Enlou una grande ingiustizia. In pratica è lo stesso come dire che non verrà “vendicata”.

A parte il fatto che negli OPG si dovrebbe andare per essere curati e quindi la sofferenza dovrebbe essere limitata solo alla privazione della libertà, le condizioni di vita all’interno delle celle dei manicomi sono semplicemente allucinanti. Molto ma molto peggiori di quanto lo possano essere all’interno delle carceri con tutti i problemi del sovraffollamento. Per avere un’idea di com’è la situazione bisognerebbe leggere le relazioni fatte da una commissione d’inchiesta presieduta dal senatore Pd Ignazio Marino che nei mesi di giugno e luglio scorsi ha fatto una serie di ispezioni a sorpresa nei vari manicomi criminali d’Italia. Gli esiti di queste visite, divulgati tra l’altro da tutti i giornali, hanno fatto inorridire tutti e portato alla decisione di chiuderli.

 

 

 

Diritto all’amore della propria famiglia

Piccole proposte per “salvare” le famiglie delle persone detenute

 

Il decreto Severino sulle carceri ha due nomi un po’ tristi: “svuotacarceri” da una parte, il nome attribuitogli dai media e del tutto inadeguato alla portata delle misure previste, o “salvacarceri”, che il ministro Severino preferisce. Ma forse niente può più salvare delle carceri, dove ormai non è più possibile rispettare la Costituzione, né per quel che riguarda il fatto che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, e ancor meno per quella rieducazione che ormai per migliaia di detenuti è solo una parola vuota.

In questa situazione, quello che almeno si potrebbe fare subito è promuovere finalmente alcune misure per “salvare” le famiglie:

 

portare almeno a otto le ore mensili previste per i colloqui;

migliorare i locali adibiti ai colloqui, e in particolare all’attesa dei colloqui, anche venendo incontro alle esigenze che possono avere i famigliari anziani e i bambini piccoli, oggi costretti spesso a restare ore in attesa senza un riparo (servirebbero strutture provviste di servizi igienici); attivare le aree verdi per i colloqui, dove esistono spazi esterni utilizzabili;

autorizzare tutti i colloqui con le “terze persone”;

autorizzare colloqui via Internet per i detenuti che non possono fare regolarmente i colloqui visivi, utilizzando anche sperimentalmente Skype;

“liberalizzare” le telefonate, come avviene in molti Paesi, sia per quel che riguarda la durata che i numeri da chiamare; togliere le limitazioni alle chiamate ai cellulari;

rendere più chiare le regole che riguardano il rapporto dei famigliari con la persona detenuta, uniformando per esempio le liste di quello che è consentito spedire o consegnare a colloquio, che dovrebbero essere più ampie possibile, raddoppiare il peso consentito per i pacchi da spedire alle persone detenute.

 

Chiediamo inoltre che sia predisposto in tutte le carceri il sistema della scheda telefonica come già in atto nella Casa circondariale di Rebibbia, nella Casa di reclusione di Padova e in altre carceri, sistema che permette un grande risparmio di lavoro, eliminando l’inutile burocrazia delle domandine per telefonare, e che consentirebbe di passare con più facilità a una “liberalizzazione” delle telefonate, come avviene appunto nella maggior parte dei Paesi europei. Mantenere contatti più stretti quando si sta male e si sente il bisogno del calore della famiglia, così come quando a star male è un famigliare, potrebbe davvero costituire anche una forma di prevenzione dei suicidi.

 

 

 

Dieci minuti di telefonata da dividere per tre figlie

 

di Luigi Guida

 

Sono un detenuto che deve scontare un cumulo di pena di venti anni, ne ho già scontati la metà, sono padre di tre bambine di 11, 10 e 3 anni, l’unico mezzo possibile per mantenere vivo il rapporto con loro sta nelle sei ore di colloquio mensile oltre alle telefonate, una a settimana della durata di dieci minuti. Allora mi chiedo come un padre possa continuare a svolgere il ruolo di genitore in queste condizioni. La risposta è che no! non è proprio possibile fare il padre nei dieci minuti di telefonata che, poi, divisi per tre figlie sono tre minuti da dedicare a ciascuna figlia. Il rischio è che le bambine crescano con problemi di personalità e con atteggiamenti di rifiuto verso la società. Eppure la loro unica colpa sta nell’essere figlie di un detenuto.

Purtroppo in Italia i figli dei detenuti, con tutte le privazioni che gli vengono imposte, scontano in parte la condanna del loro genitore: come può un detenuto tendere a rieducarsi e a responsabilizzarsi se di fatto gli viene tolta la possibilità di essere davvero genitore? Perciò la conseguenza sarà che, dopo aver scontato la tua pena, dovrai fare rientro in famiglia e ti troverai dei figli che conosci appena e ti sentirai un estraneo nel doverti rapportare con loro. E questo riguarda quelli che hanno la fortuna di trovarla ancora, una famiglia, perché in molti casi la famiglia del detenuto, dopo aver vissuto questo tipo di esperienza, decide di non seguirlo più e quindi sceglie la separazione. Noi tutti siamo consapevoli che abbiamo fatto degli errori e dobbiamo pagare, ma con la privazione della libertà personale e non come avviene attualmente nelle carceri italiane, dove si viene privati del diritto forse più fondamentale della propria vita, che è quello di prendersi cura dei propri figli. Con il pericolo che un figlio, dopo aver vissuto questo tipo di situazione, possa deviare nella crescita e sentirsi un diverso, magari colpevolizzandosi per responsabilità che non ha, perché non è una colpa quella di essere il figlio di un detenuto in un Paese dove le istituzioni carcerarie i figli di detenuti li obbliga a vivere come figli di “serie B” .

Penso che da parte di tutti si dovrebbe fare una lunga riflessione su come attualmente vivono i figli dei detenuti e iniziare a lottare perché le istituzioni si sensibilizzino su questo problema e si adeguino agli altri Paesi europei, dando per lo meno maggiore spazio alle telefonate con i figli e facendoli ritornare figli “normali” con tutti i diritti che ogni figlio deve avere.

 

 

 

Telefonate negate = Affetti violati

 

Di Santo Napoli

 

In carcere ci sono persone che hanno fatto degli errori nella loro esistenza, ed è giusto che lo sbaglio si debba pagare, nessuno dice di no! ma non per questo alla punizione si deve per forza aggiungere un’ulteriore punizione.

Ci sono delle regole che andrebbero infatti cambiate, a cominciare dalle privazioni che ci sono in riferimento agli affetti familiari. Per un detenuto è veramente poco umano avere soltanto dieci minuti alla settimana di telefonata con i propri cari, che significa che, se devi semplicemente salutarli tutti, non bastano proprio; se poi magari in quel dato momento hai qualche problema, dieci minuti non bastano di sicuro, e se invece parli del problema che hai non fai in tempo né a dare spiegazioni, né a salutare i tuoi cari, ma riesci solo a dare notizie approssimative, e per salutare poi, scordatelo proprio.

Se invece parliamo di quei compagni che stanno in regime di 41 bis, Alta Sicurezza, o condannati all’ergastolo ostativo, loro hanno una (1) o due (2) telefonate al mese, questo sulla base del nuovo Regolamento d’esecuzione dell’Ordinamento Penitenziario, che ha confermato definitivamente la discriminazione non solo per certe tipologie di reato, ma anche per i figli di chi ha commesso questi reati. Mi sembra incredibile che nel terzo millennio ancora si privi la persona dei diritti che la nostra Costituzione garantisce: e invece, per i detenuti in particolare non c’è nessuno che gli garantisca i propri diritti e specialmente quel fondamentale diritto agli affetti familiari.

Mi trovo in carcere da undici anni e non mi sono mai lamentato di come vanno le cose, anche perché forse nel mio piccolo sono sempre stato ”fortunato”, ho fatto per molti anni la carcerazione vicino alla famiglia, in istituti non lontani da casa mia; da due anni però mi trovo lontano e purtroppo non faccio colloqui, ma posso usufruire soltanto di una telefonata a settimana con mio padre. Ho fatto ultimamente tre richieste per poter telefonare a mia madre una volta al mese, dato che da due anni non la vedo né la sento per telefono, giacché lei possiede solo un cellulare, e per le utenze mobili ci sono grossi problemi per essere autorizzati. Con lei posso comunicare solo per lettera, ma una cosa per un figlio è sentire la propria madre, un’altra cosa è scriversi. Anche soltanto sentire la voce per telefono una volta al mese non è tanto, però certo è meglio di niente, ma questo non viene capito da chi real­mente in carcere dovrebbe facilitare il tuo reinserimento sociale, e invece magari ti nega la possibilità di un contatto con tua madre, e non sto parlando di chiamare un amico o una persona qualunque, ma una persona talmente cara che un detenuto farebbe carte false per sentirla o vederla. Eppure queste persone non lo capiscono e poi mi parlano di recupero dei detenuti e di rieducazione, io non so chi decide con chi si può avere contatti e con chi no, ma penso che un contatto con la propria madre si dovrebbe far di tutto per non negarlo a nessuno.

Tante volte il carcere non lo capisco, perché vedo delle diversità di trattamento da una persona ad un’altra che non mi so spiegare. La legge dovrebbe essere uguale per tutti, ma secondo me non è sempre così, io vedo che ci sono figli e figliastri, e che le risposte alle richieste dei detenuti non sono sempre le stesse. Chi poi ti deve dare queste risposte tante volte si sente in difficoltà, perché deve trovare il modo di comunicarti le decisioni di qualcun altro, e non è che tutti i detenuti sono uguali, c’è quello che reagisce bene, ed invece quello che reagisce male. E certo non puoi dargli torto, perché le risposte negative alle richieste di chiamare i propri cari sono la privazione di un diritto, una privazione che non è prevista dalla vita, ma soltanto da chi ci governa.

Intanto noi detenuti, persone dotate di sentimenti, non possiamo fare altro che attendere che qualcuno si renda conto che tante di quelle regole che sono vigenti nelle patrie galere non contengono in sé nessuna prospettiva di democrazia, né di diritto per la persona detenuta. Ma questo è il carcere!!

 

 

Quanto è bella la libertà di telefonare

Ormai sono passati sette anni da quando sono detenuto in Italia e da sette anni non ho un colloquio telefonico con nessuno dei miei cari

 

di Serghei Vitali

 

Nella mia esperienza carceraria, che purtroppo è avvenuta in diversi Paesi europei, ho avuto modo di conoscere sistemi carcerari ben diversi da quelli italiani, per esempio sono molti i sistemi che prevedono per il detenuto la possibilità di telefonare liberamente. Cioè puoi acquistare la scheda telefonica a tue spese e puoi anche prestarla ad altri compagni che non hanno la possibilità di comprarne una, puoi telefonare sia al telefono fisso che al cellulare dove vuoi e quando vuoi durante il giorno, senza presentare alcuna bolletta telefonica, come succede in Italia. Qui infatti se non esibisci la bolletta del telefono con la richiesta di poter telefonare a quel numero, che poi viene controllato per vedere se corrisponde oppure no alla persona che vuoi chiamare, che deve essere un famigliare, non ti viene concesso il colloquio telefonico.

Io ho scontato una pena nel carcere francese nel 2004 e da lì potevo telefonare a tutti quelli che mi erano stati vicini, i miei famigliari, la mia ragazza, gli amici, e posso dire che i rapporti con loro erano davvero stretti, e la mia carcerazione aveva un senso. Ma siccome ero ricercato dallo Stato italiano per i reati commessi sul territorio italiano, la mia esperienza in Francia ben presto è finita. Un giorno sono stato chiamato a colloquio, al primo momento ho detto che non avevo nessuno che poteva venire a trovarmi perché ero molto lontano da tutti i miei cari, ma quando sono entrato a colloquio ho visto otto agenti penitenziarie e tutti di grado alto e ho capito che la situazione era molto grave, poi d’un tratto ho visto due donne sedute nella stanza, una di loro era l’interprete e la seconda il procuratore generale dell’Interpol, che mi contestava i fatti per i quali ero ricercato dallo Stato Italiano e mi comunicava che sarei stato estradato dopo aver finito di scontare la pena sul territorio francese. Nel momento in cui mi davano quella notizia, io ho capito che tutto era finito e non sarei uscito più insieme ai miei amici il 30 di novembre come pensavo, cioè dopo cinque giorni, quando doveva scadere la mia pena, ma che sarei stato trattenuto molto a lungo.

Ero disperato e mi passavano molte cose per la testa e tutte negative, non mi importava più niente di nessuno perché sapevo che in Italia sei spacciato anche se non sei tu il colpevole al cento per cento ma hai partecipato, mi riferisco ai reati come l’omicidio. Con quello stato d’animo avrei potuto commettere dei reati gravi all’interno del carcere, come accade spesso nelle carceri quando reagisci se un agente ti insulta, oppure se lo fa un detenuto che non è in grado di comprendere in che situazione ti trovi in quell’istante, ed ecco come in un attimo cambia tutto e tu distruggi la vita tua e di qualcun altro. Ma quando sono tornato nel reparto accompagnato da tutte quelle guardie, io ho detto loro che avevo bisogno solo di una cosa in quel momento, di telefonare ai miei cari, e me l’hanno concesso, ho parlato circa un’ora e dopo la telefonata mi sono sentito sollevato di morale e mi sono detto che avrei dovuto affrontare tutte le conseguenze che mi aspettavano in modo il più possibile positivo. Ma ora mi chiedo se fossi stato in un Paese come l’Italia, che non ti permette di telefonare liberamente senza fare tutto quel giro di richieste inutili, dove sarei finito e che cosa avrei combinato per disperazione, se si considera che avevo solo 19 anni?

Finita la pena in Francia, sono stato estradato in Italia, ormai sono passati sette anni da quando sono detenuto in Italia e da sette anni non ho un colloquio telefonico con nessuno dei miei cari, e ci sono molti altri detenuti nella mia situazione. Il rapporto con la mia famiglia è sceso a una lettera ogni tre mesi che mi scambio con mia sorella, perché tutto il resto della famiglia, zii cugini ragazza e amici li ho persi negli anni che passavano senza un contatto telefonico, qualcuno è morto e io non ho avuto la possibilità di parlargli qualche volta prima che si ammalasse, perché nessuno di loro ha un telefono fisso o perché non ha il mio cognome, per mandarmi la bolletta telefonica e permettermi di fare la richiesta di potergli telefonare, perché questo è il sistema carcerario in Italia.

Ho incontrato parecchi ragazzi di diverse nazionalità, in tutti questi sette anni da quando sono nelle carceri italiane, e ho visto me stesso in loro, ragazzi con tanti problemi, che non potevano risolvere in nessun modo all’interno del carcere, erano disperati e si tagliavano da soli oppure si imbottivano di tranquillanti solo per evadere dalla realtà nella quale si trovavano, ne ho visti che accumulavano altri anni di galera commettendo diversi reati all’interno del carcere, fin quando qualcuno toccava il fondo e si suicidava per la disperazione e l’abbandono. Altri ancora, non potendo avere contatti con nessuno dei loro cari, succedeva che si sentivano senza vie d’uscita e non avevano la libertà di telefonare ai loro cari, ai figli piccoli o a qualcuno che gli potesse dare un po’ di sollievo o un po’ di speranza di affrontare la situazione in modo diverso. Ma quella piccola libertà di telefonare non esisteva all’inizio della mia carcerazione e non esiste neanche ora.

           

 

Attenti al libro

 

Undici ore d’amore di un uomo ombra

L’uomo ombra è Carmelo Musumeci, condannato alla “pena della morte viva”, l’ergastolo ostativo, le undici ore sono un piccolo, straordinario “permesso di necessità” che gli è stato concesso, ma che rischia di essere il primo e l’ultimo della sua vita

 

Recensione a cura di Oddone Semolin

 

Undici ore d’amore: sono undici ore di un permesso “straordinario” o “di necessità”, che Carmelo Musumeci, dopo vent’anni di carcere, scontati per una condanna all’ergastolo ostativo, ha potuto passare fuori dalla galera, per discutere la tesi di laurea e festeggiare poi con i suoi cari, riabbracciando “in libertà” i figli, i nipoti, la compagna.

Ci sono momenti, situazioni, occasioni, in cui ogni commento, ogni considerazione è fuori luogo, in cui si avverte netta la sensazione di inadeguatezza rispetto a ciò, a cui ci troviamo di fronte; la consapevolezza che qualsiasi commento non potrebbe essere all’altezza, non potrebbe che sminuire in qualche modo l’evento. Questo breve testo di Carmelo Musumeci, “Undici ore d’amore”, credo sia uno di quei casi. Una narrativa scarna, essenziale, sincopata, estremamente efficace, ci catapulta nel turbinio di sentimenti e sensazioni di un uomo murato vivo. Murato vivo per legge, in quanto condannato all’ergastolo ostativo, in cui non vi può essere alcuna speranza di libertà, a meno di non collaborare con la giustizia e di mettere un altro al posto suo. Alcune eccezioni sono previste, casi eccezionali appunto, come la discussione di una tesi di laurea, in cui la determinata ostinazione di chi vuole vivere a tutti i costi si è saldata ad una ferrea volontà di combattere una delle più grandi aberrazioni del nostro tempo, la pena del “fine pena mai”. Carmelo Musumeci ci accompagna per mano attraverso gli innumerevoli sbarramenti che lo separano dalla vita, mentre si accinge, per la prima volta dopo vent’anni, a varcare la soglia del carcere di Spoleto, per recarsi all’università di Perugia, per conseguire la laurea in giurisprudenza grazie ad un permesso di undici ore. Undici ore di disperata rincorsa alla vita, alla riappropriazione dei suoi affetti e sentimenti dopo vent’anni di galera, che dovrebbero certificare e garantire la sicurezza sociale. “Undici ore d’amore” è un testo breve, veloce che si legge in un soffio, ma che lascia uno smarrimento, uno sconcerto, un vuoto che non dà spazio ai tentativi di comprendere una barbarie assurda che dovrebbe fungere da baluardo al bisogno di giustizia e sicurezza della nostra società. Non si può capire, non ha senso una pena che condanna a una morte lenta e crudele, con la finzione di essere più umana della pena di morte. Immediata sorge una sorta di muta solidarietà, di empatica comprensione, che prima ancora di essere razionale meditazione è istintiva sintonia con chi in ogni dove anela alla libertà.

 

Spazio libero

 

Dare più spazio agli uomini ombra e ai detenuti più “cattivi”

È quello che ci propone Carmelo Musumeci, e noi accettiamo la sfida, perché di temi scottanti come l’ergastolo ostativo e il regime del 41 bis vogliamo e dobbiamo parlare sempre di più

 

a cura della Redazione

 

Quando si parla di ergastolo ostativo, non si può non pensare al grande lavoro che fa su questi temi Carmelo Musumeci, un uomo condannato a questa pena che la scrittrice Barbara Alberti definisce così: “È da solo un giornale di denuncia, un bollettino delle ingiustizie e dei soprusi”. Quando Carmelo ci ha scritto con una proposta precisa di collaborazione, ne è nato uno scambio di messaggi e l’inizio di un rapporto, che noi pensiamo valga la pena costruire.

 

Ciao Ornella,

ho letto il tuo articolo “Un albanese “rieducato” in un paese a volte ancora maleducato”, del numero di ottobre-novembre 2011, complimenti, molto bello e significativo. Dai primi numeri dei primi anni “Ristretti Orizzonti” ne ha fatta di strada, ma a mio parere ne potrebbe fare di più.

Eccoti la mia idea: perché non allarghi la redazione anche a dei collaboratori detenuti esterni al carcere di Padova per farlo diventare un giornale nazionale come fonte dell’universo carcerario? Potresti creare vari corrispondenti da vari carceri soprattutto nelle sezioni AS1, AS2 e AS3 e dare più spazio agli uomini ombra e ai detenuti più “cattivi” offrendo delle collaborazioni fisse ai detenuti più attivi.

Se l’idea ti piace, ti farò una lista di nomi di detenuti con la voglia di fare che in seguito potresti contattare direttamente tu.

Ristretti Orizzonti è una importante realtà e a mio parere sarebbe altrettanto importante estenderla e “nazionalizzarla”. Buon lavoro a te e a tutta la redazione.

Carmelo Musumeci

Uomo ombra del carcere di Spoleto.

www.carmelomusumeci.com

Gennaio 2012.-

 

Caro Carmelo Musumeci,

ho ricevuto la tua lettera e ne ho parlato anche in redazione.

Mi hanno fatto piacere le tue parole di stima per il lavoro di Ristretti Orizzonti, sono anni che cerchiamo in tutti i modi di fare un’informazione seria, sobria, non lamentosa.

Ti pongo subito con la massima franchezza i problemi che vedo nella tua proposta, che trovo senz’altro molto interessante: io nella mia redazione mi batto ogni giorno per non fare un’informazione “gridata”, anche quando ci sarebbe davvero da gridare. Il fatto è che noi abbiamo un progetto che porta in carcere, a gruppi di 50 ragazzi alla volta, migliaia di studenti, e con loro bisogna ogni giorno misurare le parole, rimettersi continuamente in discussione, imparare a comunicare. Il giornale è un ponte con loro, gli studenti, e con la società, incattivita, recalcitrante a capire, astiosa a volte, ma alla quale noi vogliamo parlare. Se mi arrivano allora dei testi “urlati”, se mi arrivano dei testi di cui non condivido l’impostazione, non mi va di censurarli, ma neppure di pubblicarli come sono, stravolgendo un po’ il senso del mio giornale. Senza contare che io ne sono il direttore, e rispondo di quello che viene scritto. Se ho a che fare con scritti dei “miei detenuti”, posso discuterne, litigare, costringerli a riscriverli se non funzionano (perché un testo deve anche “funzionare”), ma sempre in un rapporto diretto e franco con loro. Come posso comportarmi con i testi che ricevo da altre carceri, da detenuti con i quali non sono in grado in alcun modo di rapportarmi?

A me interessa molto ricevere materiali da altre carceri, mi interessa in particolare approfondire temi difficili come l’ergastolo ostativo, il 41 bis, i reati del 4 bis comma 1 con tutte le limitazioni che questo articolo prevede, però voglio capire come posso mantenere la fisionomia, i toni, lo stile del mio giornale, che tengo in piedi ormai da ben quindici anni. Se hai dei suggerimenti, delle idee, io sono disponibile, tieni conto che abbiamo anche una news letter quotidiana e un sito frequentatissimo.

A presto Ornella-

 

Ciao Ornella,

inizio a risponderti da queste tue parole: “Io nella mia redazione mi batto ogni giorno per non fare una informazione “gridata”, anche quando ci sarebbe davvero da gridare”.

Come ti sarai accorta da quello che scrivo, io sono uno che grida per cercare di essere sentito e soprattutto ascoltato.

Qualcuno bisogna che faccia il lavoro sporco e che scriva che l’Assassino dei Sogni (il carcere come lo chiamo io) è la malattia (sia per il mafioso, per l’extracomunitario che per il tossicodipendente) e non la medicina.

Qualcuno bisogna che scriva che se si vuole veramente sconfiggere la mafia bisogna che i boss non stiano dieci, venti, trenta anni chiusi in una cella senza fare nulla, ma piuttosto dovrebbero stare a spazzare le strade dei loro paesi o a fare i volontari in qualche Pronto Soccorso per essere da esempio ai giovani che il crimine non paga.

Qualcuno bisogna che scriva che la galera in Italia è il posto più illegale che qualsiasi altro luogo e che se arrivassero i finanzieri, com’è accaduto a Cortina, arresterebbero gli stessi direttori, guardie e detenuti.

Qualcuno bisogna che scriva che ci sono detenuti che non abbracciano e baciano un loro familiare da venti anni e che da venti anni dalle loro celle non vedono il cielo perché c’è una barriera che glielo impedisce.

Qualcuno bisogna che scriva che la legalità prima di pretenderla bisogna darla e non si può fare giustizia con una pena come l’ergastolo ostativo, con le celle lisce o con il regime di tortura del 41 bis.

Qualcuno bisogna che scriva che nei fatti c’è una strategia in comune fra lo Stato e la mafia perché entrambi hanno interesse che l’ergastolo in Italia non sia mai abolito, perché in caso contrario il primo perderebbe un comodo nemico da sfruttare politicamente e il secondo perderebbe il suo esercito.

Qualcuno bisogna che scriva che se alcuni criminali avessero una speranza di rifarsi una vita, molti abbandonerebbero le organizzazioni malavitose.

Qualcuno bisogna che scriva che buona parte della politica usa la criminalità organizzata e poi mura vivi al regime di tortura del 41 bis.

Qualcuno bisogna che scriva che in percentuale (la fonte è il giornale “La Repubblica”) in parlamento ci sono più condannati e indagati che in di qualsiasi altro luogo.

Qualcuno bisogna che scriva che riempiendo le carceri si vincono le elezioni e svuotandoli si perdono.

Qualcuno bisogna che scriva che nella stragrande maggioranza dei casi gli ergastolani sono tutti del sud, come i condannati a morte negli Stati Uniti sono quasi tutti negri.

Qualcuno bisogna che scriva che i veri delinquenti sono gli incensurati, almeno quelli più pericolosi, e non certo i tossicodipendenti, gli extracomunitari o i ribelli sociali che fanno avanti ed indietro per le carceri.

Ornella, sai cosa spesso mi dice il mio Angelo (Nadia Bizzotto, volontaria dell’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII)?

Carmelo, dici delle cose giuste, ma in modo sbagliato.

E sai io cosa le rispondo?

Quando troverò qualcuno che a parte sentirmi mi ascolterà le dirò in modo giusto, ma per adesso fammi ululare alla luna.

Ornella, lo so, non ho prove per affermare certe cose, ma io non sono un giudice e non voglio condannare nessuno, neppure il peggiore politico mafioso, io voglio solo informare e cercare di educare e fare diventare più buono e onesto l’Assassino dei Sogni.

Non ci riuscirò?

Che importa, è più importante provarci.

Ci proverò con tutte le mie forze.

E ci proverò con i buoni o con i cattivi, con gli atei o con i religiosi, con quelli di sinistra o con quelli di destra.

Ornella, lo so, sono troppo ribelle per far parte della redazione del tuo giornale e sarei un cattivo esempio per gli altri, ma ti assicuro che alcuni miei compagni sarebbero più “disciplinati” e ne sarebbero felici.

Il mio suggerimento è semplice: io parlo con qualche compagno, loro ti scrivono per offrirti la loro disponibilità e tu detti le tue condizioni, perché è ovvio che tu sei il direttore e quindi è normale che tu abbia il diritto di veto e di argomento.

Avere dei corrispondenti in altri carceri per te sarà più faticoso, ma nello stesso tempo il giornale si avvantaggerebbe di un’informazione più ampia.

Ornella, una volta ho letto che ti sei trovata in sezione (forse era l’ultimo giorno dell’anno) e che hai notato la differenza di emozioni nel vedere lo stesso detenuto in redazione e chiuso in una cella.

Ornella, aprendo la redazione del tuo giornale e offrendo collaborazione ai detenuti più “cattivi” potresti scoprire tante cose.

Il carcere è molto peggiore, criminale e fa più male di quello che tu pensi.

Appena mi dai il via inizierò a scrivere a qualche compagno disposto a collaborare con “Ristretti” chiedendogli di mettersi in contatto con te.

E se sono rose, fioriranno.

Un sorriso.

Il mio cuore ti manda il migliore dei suoi sorrisi.

Carmelo.

Spoleto 18/02/2012.-

 

Caro Carmelo,

dico senz’altro di sì alla tua proposta, anche perché ti assicuro che il mio interesse per questi temi è grande, la modalità che mi proponi mi va bene, aspetto quindi notizie da altre carceri per vedere di iniziare questa collaborazione.

Ma siccome sono anch’io piuttosto “un osso duro”, vorrei anche risponderti perché su alcune questioni non sono d’accordo: quando tu dici “Qualcuno bisogna che scriva…” e citi alcuni temi, io credo che su Ristretti di tutto questo abbiamo scritto e continuiamo a scrivere, all’ergastolo abbiamo appena dedicato un numero, abbiamo parlato anche dell’ergastolo ostativo, torniamo a parlarne in questo numero ultimo e a questi temi abbiamo dedicato ampio spazio anche nel Seminario con i giornalisti che facciamo ogni anno in redazione. Non ci sottraiamo di certo alla responsabilità di trattare argomenti “scottanti”, è solo una questione di “toni”, io ho l’idea che per farsi ascoltare a volte è più efficace la sobrietà, il rigore nella scrittura, e cerco di arrivare alla testa e al cuore delle persone, un po’ meno alla “pancia”.

Ma vedi, quello che rispondi a Nadia, “Quando troverò qualcuno che a parte sentirmi mi ascolterà le dirò in modo giusto, ma per adesso fammi ululare alla luna”, lo capisco, può darsi che tu abbia anche ragione, io sono solo convinta che a volte ci ascoltano di più se non forziamo i toni. Però accetto più che volentieri il confronto, le sollecitazioni che mi arrivano da te e sono contenta di avviare un rapporto di collaborazione, in cui possiamo senz’altro confrontarci su tutto, compresa la questione dell’urlare, o invece dell’usare toni più “sommessi” per parlare comunque degli stessi temi che ci stanno a cuore.

Aspetto allora i primi materiali, nel frattempo comincerò anch’io a mandarvi dei suggerimenti su questioni che vorrei trattare su Ristretti, per esempio ora vorrei parlare di un tema piccolissimo ma significativo, il fatto che chi ha un reato del 4bis, comma 1, può fare solo due telefonate mensili, ci sono donne detenute straniere con due o tre figli che possono avere solo quelle due telefonate come unico rapporto coi figli, voglio fare un piccolo dossier di testimonianze che si intitola “Figli del 4 bis”, considerati proprio come “figli di un Dio minore”.

Vorrei chiedere l’autorizzazione per venire a Spoleto, pensi possa essere utile?

A presto Ornella.

 

 Con Alessandro Bergonzoni, l’Arte è entrata in galera

Di Alessandro Bergonzoni i detenuti sapevano che è un comico, scrittore, autore e attore di teatro, poi è arrivato lui, con la sua presenza ingombrante, con la sua abilità di narratore travolgente, ed è stato incontenibile. Per una volta, di carcere si è parlato in modo diverso, per capire che cosa un Artista come lui può fare per “allargare le anime” raccontando loro una realtà complessa come quella delle galere. Partendo magari dai bambini dell’asilo, i soli che ancora non hanno menti già chiuse, ostili a questa realtà. Ecco un po’ di “Bergonzoni in galera”

 

a cura della Redazione

 

Bisogna andare negli asili a raccontare altre realtà

La gente pensa sempre che le parole siano importanti, bisogna vedere però se sotto ci sono le idee, ci sono i concetti. Io dico che bisogna andare negli asili a raccontare altre realtà, altre idee, non basta nelle scuole, nelle università, bisogna andare negli asili a raccontare che non esiste un tipo di vita solo, un tipo di uomo solo, un tipo di malattia solo, un tipo di ricchezza solo, un tipo di religione solo, un tipo di medicina solo.

Portare le scolaresche in carcere è importante, ma bisogna allora vedere come si portano, se si portano per dire “Guardate che cosa vi succede se trasgredite” o invece le si porta aprendogli la testa e dicendogli “Guardate come qui dentro sono stati levati non un diritto, quello della libertà, ma tutti gli altri diritti” e lavorare su questo. Quindi non per impaurire, ma per invitare i ragazzi a venire a vedere che cosa si può fare perché non ci siano più carceri di questo genere, e perché l’idea di “chi è fuori è fuori, chi è dentro è dentro” non esista più. Io questo lo faccio sul tema della malattia, da molto tempo lavoro sul tema del coma e della malattia, e chi si interessa al tema del coma e degli stati vegetativi? Si interessa chi ha avuto un parente in coma, chi è stato in coma lui. Per il carcere è ancora peggio perché ti interessi del tema solo quando sei coinvolto. I genitori di questi ragazzi che sono in coma dicono: a me cosa interessava degli stati vegetativi prima che mio figlio cadesse in motorino e perdesse conoscenza, per me la salute era naturale, il lavoro di mio figlio naturale, la gioia di mio figlio naturale, non ho mai pensato a questo. Tutti però mostriamo affetto nei confronti del malato, il malato ha bisogno di cure, ha bisogno di tenerezza, ha bisogno di dolcezza perché non ha una colpa. Dove invece il tema è quello della colpa, difficilmente qualcuno può dire “facciamo qualche cosa di più per chi è in carcere”. Se già si fa fatica a farlo per il tema della malattia, figuriamoci per il tema di chi è in carcere, e quindi “se l’è voluto”.

Bisogna andare negli asili perché nelle università ormai è tardi, sono già delle menti costruite in un certo modo. Bisogna andarci per far si che vengano fuori delle nuove menti, delle nuove anime, per capire che il tema carcerario non è un tema che riguarda i carcerati, che il tema dei diritti fondamentali non è un tema che può essere solo legislativo, giurisprudenziale, ma è un tema che fa parte della cultura, dell’arte, e deve entrare nella testa della gente dal primo giorno in cui si va all’asilo.

Io ho pensato di andare a parlare con i bambini dell’asilo perché sono i più pronti, ma secondo me è già tardi anche all’asilo. Bisognerebbe riuscire a parlare alle pance delle madri per raccontare che non è più possibile attendere oltre. Ma io lo sento già che poi mi dicono: tu che in carcere non ci sei mai stato cosa ne sai? Come per la malattia, molti ti dicono: ma tu non hai mai avuto un tumore? Allora perché parli di questo? ma tu sai cosa significhi stare per morire? Il grande tema è questo: chi non conosce, come fa a imparare da voi che siete in carcere che cosa è importante, che cosa è doveroso, che cosa è necessario per cambiare, e come è possibile che un artista riesca a narrare questo, a poterlo raccontare agli altri?

Cosa può fare un artista oltre a sensibilizzare attraverso la radio, la televisione, come è possibile far diventare ognuno di noi “carcerato di se stesso”? perché tendenzialmente carcerati non si è, ma lo si può diventare. Come è possibile dire ai ragazzi che presto si può essere carcerati, come si può raccontare allora che sono importanti i diritti e i doveri del futuro carcerato che sono io, come quelli del futuro malato che posso essere io?

 

Imparare a immedesimarsi

 

Io parlo di immedesimazione. Ma può una persona comunque immedesimarsi, anche se non è materialmente dentro quella situazione lì? Di solito, così come i malati dicono no, probabilmente anche voi che siete in carcere dite no. Allora che cosa possiamo dire per creare questo ponte con il carcere, senza che anche voi che provate queste cose ci accusiate di “esternità”, di essere esterni, fuori? Io voglio rendere al minimo se possibile questo tipo di diaframma e credo che l’immedesimazione sia una delle forme di conoscenza. La poesia fa immedesimare, l’Arte fa immedesimare, perché non lo può fare anche con una realtà come questa?

Quando un giornalista mi chiede “Com’è il tuo lavoro? Ti svegli la mattina e crei?”, io dico a lui “Io mi sveglio alla mattina e comincio ad immedesimarmi”. Io non sono quello che sono qui e basta! Io sono pezzi di persone che adesso hanno dei problemi ovunque, io sono quei pezzi lì. Io sono una persona che sta per essere operata per un tumore al cervello.

Qualcuno di voi prima diceva “Il popolo non decide mai”, però secondo me dentro noi stessi noi abbiamo un grande governo interiore, che vota tutti i giorni! A seconda delle cose che noi vediamo noi possiamo “votare”. Quando io vedo una persona diversamente abile e dico “poveretto”, ecco io in quel momento sto “votando”. Sto dicendo “Sei perduto!”. Quando un padre mi dice “Mio figlio ha un tumore”, ed io lo guardo come a dire “a me non è toccata!”, sto votando ed ho votato contro quell’uomo li! Quando leggo una notizia “Ucciso in una cella, suicidato” e dico “E però se la sarà voluta!”, io in quel momento sto votando.

Allora io credo che il Popolo sia anche quello che noi abbiamo dentro, che sembra poco, che sembra piccolo, ma lavora moltissimo come esplosione di energia e collegamento di energie. Io sento che si spostano delle energie quando più persone muovono i temi che muovete voi dal carcere, anche se non sono “elettorali”, anche se non sono materiali, c’è un’energia, c’è un’elettricità che circola ed è una potenza uguale a quella di un Governo secondo me, e c’è solo da metterla in moto.

 

Come considero il carcere

 

Io il carcere lo considero come un aereo enorme, come un Jumbo con dentro tutti i suoi problemi e una gravità, una potenza di cose che richiede un Jumbo. Il Jumbo è un aereo che richiede chilometri e chilometri di pista per poter atterrare. Per far scendere questi concetti, per farli atterrare noi cittadini abbiamo delle piste corte, abbiamo delle piste da Piper, da elicottero, da decollo verticale.

Questi concetti quando arrivano, perché non si fermano nel cittadino? Perché un concetto come carcere, pena, dolore viene giù, arriva, ma abbiamo delle piste così corte che l’aereo tocca un attimo, poi torna su.

Infatti la gente non si interessa. Allora il lavoro che deve fare l’arte, che deve fare gente come me nel mio piccolo è cercare di allargare l’anima. E con l’anima si intende la propria idea interiore, la propria idea di coscienza, l’Arte anche, non il prete, la religione, la suora.

Noi dobbiamo raggiungere una naturalezza nei confronti della malattia, della condanna, del dolore e portarcela dietro nella nostra felicità e nella nostra quotidianità.

 

Certe trasmissioni

 

Uno dice “Io faccio teatro, che me ne frega a me! Io faccio letteratura, che me ne frega a me?!”. Ma intanto mentre noi stiamo parlando ci sono delle trasmissioni in TV dove prendi un caso e vivisezioni questa povera persona morta, già morta da molti anni, e 20 volte morta ancora perché la rievochi e poi parli dello zio, parli del padre, e questo sciacallaggio, questo modo di scarnificare intanto produce nella gente una pruroginosità, un senso di “Chi è il colpevole”, tutti interessati su chi è il colpevole. Non è importante quale è la pena, la condanna, dove va, ma conta solo un concetto, l’intrattenimento. Allora certi presentatori sono conniventi, hanno delle responsabilità enormi in questo.

Un Artista non può non rendersi conto di tutto ciò e continuare a fare il suo lavorino e “lasciare che sia così”. Non bisogna accettare più “che sia così”, e nel proprio piccolo, mattone per mattone, testa per testa, telefonata per telefonata, amico per amico, fare un lavoro continuo, capillare, ai fianchi su questi temi. Questo richiede anche energia, fisicamente tu non hai più identità, perché vivi veramente una giornata immedesimandoti nel male, immedesimandoti nel dolore, nella coercizione, vivi una giornata pesante. Ma l’Artista dovrebbe essere questo, lavorare su questo. Il Poeta, l’Artista cosa fa? Entra in prigione, entra nella malattia, va vicino alla morte, torna indietro.

 

Noi abbiamo questo compito, di parlare delle cose difficili, complesse, pesanti. Non posso io venire qui e farvi ridere. Oppure posso e ci tornerò, farò uno spettacolo e quello è il mio mezzo. Ma il mio fine è anche uscire di qui ed andare a raccontare delle storie diverse e a parlare di carcere.

 

 

 

European learning network: il primo seminario di ristretti fuori italia

 

di Elton Kalica, nostro “inviato” a Bruxelles

 

Una missione inaspettata

 

Sono trascorsi quasi quattro mesi da quando ho lasciato il carcere, ma la sensazione è che sia passato un tempo molto più lungo. Me ne accorgo ora che mi sforzo di iniziare questo articolo e sento che un po’ mi mancano le serate passate sulla mia branda con il portatile sopra le ginocchia, a scrivere di galera. L’unica forma di scrittura fino ad ora è stata riempire i miei taccuini con appunti scarabocchiati, speranzoso di usarli un giorno per ricordarmi di questa fase della mia vita.

Sin dal mio primo giorno a Padova, ho continuato a fare esattamente quello che facevo dentro: incontri con le scuole, riunioni, partecipazione ad eventi, manifestazioni ed altri lavori redazionali. L’entusiasmo si rinnova giorno dopo giorno a partire dalle vicende e dalle sensazioni che mi sorprendono continuamente; senza però farmi dimenticare la ricchezza che mi dava lavorare dentro con i miei compagni detenuti e le emozioni altrettanto forti di cui conservo un eterno ricordo. Ma quando è arrivato l’invito a partecipare ad un seminario internazionale, ho dovuto fare uno sforzo triplo per manifestare la mia gioia con una certa compostezza.

Un’agenzia del Ministero del lavoro ci informava di un progetto della Commissione europea che voleva mettere insieme realtà diverse, che si occupano di aree emarginate, con l’intenzione di creare un momento di scambio di esperienze positive.

Abbiamo accettato subito l’invito. Se raccontiamo la nostra esperienza in giro per l’Italia con la speranza che venga ricalcata e riprodotta in sempre più carceri, far conoscere il modello Ristretti anche fuori dai confini nazionali significa offrire uno strumento in più per migliorare le condizioni di vita dei detenuti, anche in Paesi in cui forse in carcere si sta un po’ meglio rispetto all’Italia, ma dove c’è sempre molto da fare.

Ci contattano gli organizzatori. Scambiamo delle mail. Ricevo il programma e poche informazioni organizzative sul viaggio. Mi mandano un questionario con la richiesta di descrivere in modo dettagliato le attività di Ristretti. Il mio inglese arrugginito non mi asseconda, ma dopo tanti anni di lontananza dal dizionario, sfogliarlo mi fa venire in mente i tempi dell’università. Il lavoro e l’emozione mi tengono sveglio tutta la notte. Anche questo mi porta a rivivere l’ansia degli esami. Alla fine, spedisco sei pagine delle attività più importanti, ma con il dispiacere di aver lasciato fuori quasi la metà delle cose che facciamo.

 

Il viaggio

 

Finalmente arriva il giorno della partenza. Faccio il check-in e poi mi metto in fila per il controllo. Consegno cintura, orologio, giacca e borsa al nastro che trasporta la cesta dentro la macchina dei raggi, e penso alle attese settimanali di migliaia di famigliari che affollano le porte delle carceri per stare un’ora con il proprio caro. E la prospettiva di incontrare la sofferenza della persona amata sicuramente rende queste perquisizioni infinitamente più intollerabili. Penso a mio padre e a mia madre. Quante volte hanno dovuto spogliarsi prima di entrare a colloquio? E ancora, altre reminiscenze di lontane perquisizioni mi trascinano in corridoi sporchi, sotto neon ingialliti, tra cancelli rossi e finestre buie.

Mi mordo la lingua, guardo il biglietto in cerca dell’orario, mi guardo intorno in cerca di qualsiasi distrazione per sfuggire al malessere in cui sto per sprofondare. Mi rivesto. Tiro un sospiro di sollievo e mi metto alla ricerca della porta d’imbarco.

Dopo poco più di un’ora e mezzo di viaggio atterriamo senza applausi. Il treno che mi porta verso il centro di Bruxelles non corre, permettendomi di avere un anticipo dell’architettura fiamminga. Appena esco dalla stazione centrale sbuco in una piazza il cui nome tradotto in italiano sarebbe Il mercato delle erbe. A Padova, insieme al mercato della frutta, quello delle erbe è il più famoso. Qui invece è un corso lungo, lastricato di pietre nere e lisce, che porta un fiume di gente a passeggiare tra case medievali. Le case si stringono a fatica tra di loro, ma sfoggiano orgogliose dei tetti disegnati con tanta cura: mi incuriosisce la diversità di questi tetti, come se le famiglie volessero personalizzare la propria casa rifiutando di costruir­la uguale agli altri concittadini: un istintivo rifiuto all’uniformità. Mentre cerco inutilmente due tetti uguali, raggiungo il mio albergo.

 

Il seminario

 

L’albergo raccoglie tutti i partecipanti, il che ci agevola. Consultando continuamente la mappa, Brita, una delle organizzatrici, irlandese, ci conduce a Gasthuisstraat dove ha la sede l’Ente organizzatore.

Dal programma avevo capito che non si trattava del solito convegno, in cui si sale in cattedra e si racconta. Il metodo si chiama learning network, che nella pratica significa riunire persone che operano in diversi ambiti e costruire dei tavoli di discussione dove le persone imparano scambiando esperienze. “Alla fine dei lavori, dovremo produrre un documento che raccolga esempi, proposte e possibili soluzioni, che saranno poi pubblicati e divulgati a livello europeo”, spiega Allen, che dirige l’evento.

Iniziamo subito il lavoro. La parte introduttiva prevede una breve spiegazione della attività che ognuno di noi rappresenta. Comincio a prendere appunti. I primi a raccontare sono i padroni di casa. Si presenta Griet, coma rappresentante dell’associazione Stebo che segue un progetto chiamato “Fuochi d’artificio”. “Si tratta di un metodo di allenamento”, ci spiega Griet, “un allenamento pensato per le persone disoccupate di lunga durata e per lavoratori appartenenti alle categorie svantaggiate”. Queste persone, mentre continuano a cercare lavoro, hanno bisogno di continuare anche la loro formazione. Così, l’associazione mette a disposizione degli specialisti che cercano di conoscere bene queste persone. Centrale nel progetto pare essere il metodo d’indagine, che segue una specie di percorso in cui si scoprono, passo dopo passo, i sogni, i progetti e il destino dei partecipanti. E da quelli, si individuano progetti futuri che li aiutino a sviluppare il loro talento e le loro aspirazioni.

Segue un’altra associazione belga, la Vierderwereldgroep, che opera all’interno di quartieri poveri dove svolge un’attività di informazione e di sostegno per aiutare ad accedere al mercato del lavoro.

La parola passa ad Ahmed, il rappresentante del “Forum greco per gli immigrati”. Ahmed è un ex-rifugiato sudanese che ora ha la cittadinanza greca e dirige un Osservatorio, che coordina e fornisce sostegno ad una rete di associazioni che si occupano di inserimento degli immigrati e dei rifugiati nel mercato del lavoro. La missione dell’Osservatorio è praticamente quella di raccogliere, elaborare e diffondere le informazioni relative alla occupazione degli immigrati e dei rifugiati e di coordinare e sostenere la funzione dei vari sportelli creati sul territorio.

La parola passa ad Andreas, figlio di immigrati greci che vive e lavora in Spagna, è venuto per raccontare l’esperienza dell’Associazione di Segretariato Rom. “Con il nostro lavoro, cerchiamo di contribuire allo sviluppo globale della comunità Rom”, ci spiega Andreas. “La partecipazione e la responsabilizzazione della comunità Rom sono elementi chiave per raggiungere questo obiettivo e vengono pienamente valorizzati in tutti i progetti dell’Associazione”. Prendo appunti e penso ai ragazzi Rom che ho conosciuto in carcere, e tutti gli anni di galera che si sono accumulati facendo furti e borseggi. Ascolto Andreas e mi convinco che loro per lo meno sono riusciti a togliere qualche ragazzo Rom dalla strada e dai reati.

Dal Portogallo proviene un’esperienza chiamata, “Programma Scelte”. Si tratta di un programma governativo per l’inclusione sociale integrata, creato per promuovere l’inclusione sociale dei bambini e dei giovani appartenenti alle comunità più vulnerabili, in particolare i figli degli immigrati e delle minoranze etniche, con lo scopo di parificare le opportunità e di rafforzare la coesione sociale. “Per raggiungere questo obiettivo”, sintetizza Poul, “il programma sostiene le azioni a livello locale in ambiti come l’integrazione scolastica e l’educazione informale, la formazione professionale e l’occupabilità, la partecipazione civica e della comunità, inclusione digitale, imprenditorialità ed empowerment”.

Si presenta Julia, con un perfetto inglese, e racconta SOVA, un’associazione britannica che opera in sette carceri nello Yorkshire e nell’Humberside con l’intenzione di formare professionalmente e accompagnare i detenuti a trovare una occupazione lavorativa. “Da noi si possono presentare tutti”, spiega Julia, “anche senza alcuna qualifica, oppure con problemi di tossicodipendenza, di alcool o altri disturbi comportamentali, noi cerchiamo di assisterli ad entrare nel mondo del lavoro attraverso la formazione professionale e la riqualificazione”.

Un’associazione nella quale, come molte in Italia, i membri operano su base volontaria. L’interessante è che non sono soltanto volontari provenienti dalla società civile a fare formazione, ma ci sono anche detenuti che fanno da mentore per sostenere altri detenuti. “In totale” conclude Julia, “il programma ha formato 126 detenuti diventati mentori per altri detenuti in 7 carceri”.

Poi è Patrick, con un forte accento irlandese, a raccontare che il suo progetto si chiama “Inclusione giovanile – un percorso di diritti e doveri”, e si occupa di giovani tra i 16 e i 21 anni provenienti da tutta l’Irlanda del Nord, che per svariati motivi sono rimasti fuori dai percorsi normali di studio. Nella maggior parte dei casi si tratta di giovani, affidati a famiglie, che hanno trascorsi di orfanotrofio o di carcere minorile: “L’idea è nata per rispondere ai risultati di alcune ricerche che hanno evidenziato lo svantaggio educativo e gli ostacoli nell’ambito scolastico che affrontano molti giovani provenienti da aree a rischio di esclusione sociale”, spiega Patrick, “a tal fine è stato creato un centro dove si svolgono continuamente corsi di formazione professionale e corsi di sviluppo personale. I ragazzi iscritti al programma sono coinvolti in tutto il percorso di progettazione, attuazione e revisione di un piano di azione individuale personalizzato, volto a superare gli ostacoli alla formazione e all’occupazione”.

Poi tocca a un gruppo di tre svedesi. Inizia Namu, che ci descrive il progetto BASTA. “Siamo un’associazione sociale gestita da ex-tossicodipendenti, molti di noi hanno anche avuto esperienze di carcere, ma abbiamo trasformato una cattiva esperienza in qualcosa di utile, che offre ai tossicodipendenti una casa e un contesto”.

La parola passa ad Alec che racconta l’altra esperienza svedese che si chiama “Bruksvärde” e che si potrebbe tradurre “Valore d’uso”. Alec ci spiega che si tratta di una collaborazione tra il mondo accademico e le persone con esperienza di emarginazione all’interno della quale si organizzano incontri tra persone con trascorsi di tossicodipendenza e gli studenti universitari. Nell’ambito dei progetti di BASTA, Elisabeth racconta un altro progetto che si chiama “Vägen ut! Susanne”: “É una casa di accoglienza per donne che vogliono smettere di usare droghe e di commettere reati” continua Elisabeth, “e mentre le donne stanno in questa casa iniziano a lavorare”. Insomma anche in questo caso il lavoro è mezzo di disintossicazione, finché la persona decide da sola cosa vuole fare.

Alla fine arriva il mio turno. Comincio a raccontare la nostra esperienza di informazione dal carcere e sul carcere. Il mio inglese, inizialmente incerto, migliora progressivamente e mi assiste mentre racconto il nostro progetto con le scuole, i nostri convegni annuali, il nostro sito. Sono solo a metà della lista delle attività che ho in mente, quando Anna, la moderatrice svedese che è seduta proprio affianco a me, mi invita cortesemente a rinviare gli approfondimenti per la fase successiva del workshop. Sorridente obbedisco, ma mi sento insoddisfatto per non aver potuto dire tutto; d’altronde credo che impegnarsi in così tanti fronti, comporta anche una grande difficoltà nel dover poi raccontare le cose, che tra l’altro sono sempre complesse: certamente, se Ristretti facesse meno cose, non correrei il rischio di passare per una natura logorroica.

Rappresento Ristretti, rappresento l’Italia, e forse rappresento anche quelle migliaia di detenuti stranieri che vorrebbero avere soltanto un’altra chance per ricominciare a vivere, e a lavorare con onesta serietà.

 

Il ritorno

 

Dopo due giorni, i lavori si dichiarano conclusi e gli organizzatori ci ringraziano per il materiale prodotto. Scambiamo saluti sinceri e speranze di altre collaborazioni, lascio l’edificio con quella sensazione di gioia che si ha alla fine di un lavoro che ti ha appassionato, come il pittore che guarda il suo quadro finito.

Mancano cinque ore al mio volo per l’Italia. Decido allora di dedicare le successive tre ore ad una gita turistica. Ritorno a visitare le vie del centro. Intorno a me, ragazzi giovani dall’abbigliamento leggero sembra che non risentano del freddo. È chiaro che in loro c’è un surplus di calore proveniente dalle famose birre belghe. Tuttavia vorrei nascondere la mia sensibilità alle basse temperature, ma il giaccone, la sciarpa, il cappuccio, i guanti e lo zaino strapieno smascherano la mia diversità. Mi guardo intorno con occhi golosi. Vetrine di cioccolato attirano la mia curiosità. Entro. C’è l’assaggio libero. Approfitto. Decido di riempire un vasetto ed esco mangiando. Dal numero di birrerie e di ristoranti etnici comprendo che in una città multietnica come questa, la vera attrazione è il bere in compagnia. Fuori dai bar, gruppi di ragazzi occupano i marciapiedi. Mi avvicino ad un gruppo e li sento parlare in greco. Portano tutti giacche di pelle nera e jeans neri. Discutono a voce alta, ma rimangono composti, invisibili ai passanti.

Arrivo in una piazza dove un gruppo di ragazzi canta in fiammingo. Alcuni sollevano delle bottiglie di birra e brindano. Altri si sparpagliano nella piazza urlando versi a me incomprensibili. Uno di loro viene nella mia direzione, cantando con grinta si avvicina a pochi centimetri, ci fissiamo a vicenda finché non finisce il suo ritornello, e poi ritorna dal suo gruppo. Due poliziotti con dei cavalli enormi attraversano la piazza lentamente.

Proseguo verso un’altra piazza. Di fronte la porta enorme di una galleria piena di luci e di negozi nuovi. Molti edifici sono così: fuori delle facciate antiche e dentro nuove lunghe gallerie di centri commerciali. In un angolo un altro gruppo occupa il marciapiede. Parlano in italiano. Mi fermo a guardarli, non tanto per la nostalgia della lingua, quanto per la curiosità che suscita in me il loro abbigliamento. Sono tutti molto eleganti. Appoggiato alla vetrina c’è il più anziano e gli altri lo guardano formando un cerchio, in ordine d’età.

Arrivato in un’altra piazza, lo sguardo viene agganciato dalla facciata enorme di una chiesa. Mi fermo. Trovo una panchina e mi siedo per osservare meglio i dettagli di un’architettura diversa rispetto a quella vista in Italia. A un certo punto sento parlare in albanese. Mi giro e vedo un gruppo di ragazzi. Sono vestiti in tute da ginnastica nere e scarpe da tennis bianche, tutti uguali. Ridono, giocano con le mani e i piedi. Mentre ascolto i loro discorsi, mi sembra di essere tornato in un quartiere di periferia di Tirana, ma sono l’unico che trova il tempo per guardarli. Tiro fuori il taccuino dalla tasca e scrivo “livello di tolleranza al disordine”. È un pensiero che voglio conservare perché credo che una caratteristica di questa città sia l’alto livello di accettazione del disordine.

Se fossi stato a Padova sicuramente più di una persona avrebbe detto che quei gruppi di stranieri avevano un atteggiamento “ostile”, oppure che quegli studenti ubriachi avevano un comportamento “minaccioso”. Concludo la mia visita riflettendo che, in una città storicamente multietnica come Bruxelles, sembra che si sia meno preoccupati, e simili comportamenti non sono vissuti con quella drammaticità che spesso prevale in Italia.

 

Donne dentro

 

 

Figli del 4 bis

L’articolo 4 bis non si limita a definire la gravità del reato, ma porta anche con sé il trattamento poco umano dei figli, a partire dal fatto che in alcuni casi le telefonate concesse sono due al mese. Il racconto di come si svolgono le telefonate ai figli, fatto da due donne detenute alla Giudecca, illustra bene la loro condizione di figli doppiamente penalizzati

 

a cura della Redazione

 

Sull’onda emotiva provocata dagli omicidi dei magistrati Falcone e Borsellino, dal 1991 è stato creato un “regime differenziato” per l’ottenimento dei benefici penitenziari, stabilendo delle limitazioni e degli obblighi per i condannati per delitti di particolare gravità, quelli indicati all’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario. Il 4 bis però, in certi casi non si limita a definire la gravità del reato, ma porta anche con sé il trattamento poco umano dei figli, figli del 4 bis qualcuno potrebbe chiamarli. Il racconto di come si svolgono le telefonate ai figli, fatto da due donne detenute alla Giudecca, illustra bene questa condizione, per cui pare che un figlio di un genitore detenuto sia condannato a essere inesorabilmente il “figlio di un Dio minore”, e lo sarà doppiamente se quel genitore ha commesso un reato del 4 bis.

 

 

Dopo venti mesi ho risentito la parola “mamma”

 

testimonianza di Mimosa

 

Ho dovuto fare venti mesi di attesa per riuscire finalmente a parlare al telefono con i miei figli e i miei genitori per la prima volta da quando mi hanno arrestata. Dopo tanti mesi che non sentivo la loro voce è stata un’emozione fortissima poterli chiamare. Sentire poi la parola “mamma”, sentirmi chiamare mamma non è stato facile, anche perché non ero più abituata a quella parola. Stavo poi parlando con mia madre che mi stava spiegando alcune delle cose che in questi venti mesi sono successe, mi pareva di avere appena iniziato quando ho sentito l’agente che mi ha detto “passate ai saluti”. Non mi ero resa conto che il tempo era volato e che avevo già finito. Non so cosa ho detto io e cosa hanno detto loro, mi sembra di non essere riuscita a dire nulla in dieci minuti. Sono così pochi soprattutto per quelli come me, che la famiglia ce l’hanno lontana! Comunque, dopo tutto quel tempo, il suono della parola mamma mi aveva tolto anche la forza di parlare!

Con il 4 bis in sentenza mi sono permesse solo due telefonate al mese, e io devo ringraziare la direttrice, perché la mia famiglia in Albania non ha un telefono fisso, ma solo cellulari. La circolare sulle telefonate ai cellulari permette di chiamare a un cellulare chi non ha colloqui visivi nei quindici giorni precedenti, ma io i colloqui visivi li ho perché viene a trovarmi il mio compagno, allora sono andata a parlare con la direttrice, le ho spiegato il mio problema, le ho spiegato che volevo sentire la voce dei miei figli e lei mi ha autorizzato subito. Ma il regolamento non dovrebbe essere cosi rigido, ci sono delle situazioni particolari, nelle quali riescono a ottenere qualcosa solo le persone un po’ più intraprendenti, o che sono, come noi, in un carcere piccolo dove si riesce a parlare con il direttore, e il direttore conosce più o meno tutti i detenuti. In realtà di solito è difficilissimo chiamare i cellulari, se non dimostri la relazione di parentela, il contratto della carta sim, oltre all’assenza di colloqui visivi nelle due settimane precedenti.

Ai miei figli quando ero libera telefonavo almeno due volte al giorno: al mattino gli davo il buongiorno e alla sera gli chiedevo come era andata la giornata. Adesso, dallo scorso giugno, vivono da soli. Provo angoscia, ansia che possa succedere loro qualcosa, che abbiano la febbre, che stiano male, con me lontana. La mia mamma non è più molto vicina a loro, i miei genitori sono anziani, e non sono in grado di aiutarli come potrei fare io.

Se ora qui mi venissero a dire “Ti autorizziamo a fare una telefonata straordinaria”, io immediatamente telefonerei di nuovo ai miei figli. Subito. Per chiedere loro come stanno, se hanno bisogno di qualcosa. Ormai gli studi li hanno lasciati, lavorano tutti e due e si stanno mantenendo da soli, ma io non riesco ad arrivare a chiedere come va il lavoro, se si stancano, come hanno sistemato la casa, non ho assolutamente tempo a sufficienza.

Il pensiero è sempre li, perché sono soli, quando mio marito e io ci siamo separati ho preteso che la casa rimanesse ai miei figli, solo che i mobili erano già stati venduti, per cui loro si sono trovati senza niente in casa. Adesso piano piano con il loro lavoro, e qualcosa mando io che sto lavorando qui in carcere, stanno comprando anche i mobili, le cose di casa…

Ma con una telefonata di dieci minuti come faccio ad aiutarli, a essere loro vicina?

Il pensiero è sempre li, perché sono soli.

 

 

 

“Al telefono non voglio sentirti piangere più”

 

testimonianza di Luminita

 

Io, anche se il mio è un reato del 4 bis, per due anni di telefonate ne ho fatte quattro al mese. In ben tre istituti si sono sbagliati, poi si sono resi conto che con il mio reato ne possono fare solo due, e mi hanno tolto subito le due in più che facevo. Ma cosa potevo dire a quel punto a mio figlio? Che avevano fatto una legge nuova per cui non potevo più chiamarlo ogni sabato ma solo due volte al mese? Cosa puoi dire a un bambino di 12 anni? Come lo capisce? E che cosa riuscirò ora a dire a mio figlio in venti minuti al mese: forse solo “come stai? come vai a scuola?” e poco altro.

In realtà siccome le telefonate vengono registrate, non esiste nemmeno il problema del controllo, del rischio. In Francia per esempio mi hanno detto che telefoni dove e quanto vuoi, con la tua scheda chiami qualsiasi numero.

Ma perché continuare a registrare le telefonate anche dopo che le indagini si sono concluse: a che scopo? Io comunque ero contentissima se le registrazioni delle mie telefonate arrivavano al giudice, e sarei curiosa di sapere cosa ha pensato il giudice quando mio figlio, allora aveva 11 anni, mi ha detto: “Mamma, la scuola è chiusa in questi giorni. Posso venire con te in carcere a passare la vacanza?”.

Mio figlio vive con mia mamma in Romania e il padre lo segue poco, l’aiuto economico arriva più da parte mia che da parte sua. Il bambino ha bisogno di sostegno adesso, ma io per telefono cosa gli posso raccontare? Allora gli scrivo tanto, anche per conoscerlo. Per iscritto, facciamo tutto, anche dei quiz! Io non lo conosco più, lo conosco fisicamente ma mentalmente questo bambino io non lo conosco proprio più. Ho iniziato allora a interrogarlo domandandogli che colore gli piace, che musica. L’ho lasciato a 10 anni adesso ne ha 14, è un’altra persona, per questo devo fargli delle domande così, e a periodi diversi ripeterle, perché lui cresce, cambia. In questo modo, quando arriverò a casa, non perderò tempo per conoscerlo, perché ne sto approfittando per farlo da qui!

Gli chiedo di tutto: se crede in Dio per esempio, che materia gli piace, con che cosa gioca, tutto… Faccio delle liste di domande e lui mi risponde. Sono quattro anni che non lo vedo, non lo tocco. Già fisicamente è un altro, lui mi manda fotografie, se le fa lui stesso, e ho notato una cosa particolare: non mi manda solo le fotografie con lui come soggetto, ma mi manda foto con tutta la città, le panchine del parco, il comune, la scuola, un alberello… Ho pensato “Forse mio figlio si rende conto che non mi manca solo lui, ma anche tutto il resto, e allora mi coinvolge in tutto, mi manda la foto del lago ghiacciato, delle strade, perfino del tavolo, il tavolo apparecchiato a casa mentre mangiano, tutto.

Proprio tra le ultime foto che mi sono arrivate - con le strade piene di neve, la sua torta di compleanno, il garage che vedo dalla finestra, la sua bicicletta, una panchina del parco nuova - quelle di lui sono una o due e una con mia mamma. Lui mi ha mandato tutto il mondo che pensa mi manchi. E io mi sono detta “Guarda quanto sono fortunata con mio figlio, perché lui mi dà più forza di quella che gli dò io!”. Oggi gli ho parlato di nuovo, e lui mi ha consolata dicendomi “Non piangere più, approfitta di quei pochi minuti che hai, al telefono non voglio sentirti piangere più…”.

 

 

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Pubblicazione registrata del Tribunale di Venezia n° 1315 dell’11 gennaio 1999. Spedizione in A.P.

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