Diritti a metà.. Persone a metà...

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Ristretti Orizzonti

(anno 13, numero 1 Gennaio - Febbraio 2011)

Editoriale

Diritti fragili come il cristallo di Ornella Favero

Parliamone

Parliamo di trattamenti inumani e degradanti intervista a Mauro Palma, Presidente del Comitato Europeo per la Prevenzione della tortura

Dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura alla sentenza Sulejmanovic di Elton Kalica

Carceri, sovraffollamento, tutela della dignità intervista a Vittorio Borraccetti, magistrato, membro del CSM

Informazione & Sportelli

Uno sportello che “ce la mette tutta” per rendere il carcere più umano di Salvatore La Barbera

InFormaMinore

Le conseguenze delle cose di Alessandro Busi, psicologo  

Prospettiva: Lavoro

La creatività femminile che resiste, nonostante la galera intervista a cura di Paola Marchetti

Quintali di miele per rendere meno amara la galera intervista a cura di Paola Marchetti

Informazione & Controinformazione

Fosse per Travaglio non sarei più qui di Marco Libietti

Anche un omicida merita di uscire dal carcere un giorno di Altin Demiri

Scuola Dentro

Difendere la scuola in carcere vuol dire produrre sicurezza

La scuola in carcere è come affacciarsi ad una finestra aperta sul mondo esterno di Antonio Floris

Dal vuoto quotidiano sono passato a dare valore al tempo di Gaetano Fiandaca

Senza la scuola, la condanna diventa un pezzo della vita buttato via di Enos Malin

Sprigionare gli affetti

Che senso ha la vita quando ti trovi libero, ma solo? di Milan Grgiç

Una telefonata aiuta a mantenere salda e unita la famiglia di Ulderico Galassini

Egregio signor ladro

Credo che la diffidenza degli altri sia il minimo a cura della Redazione

Mio fratello è da cinque mesi in carcere, e sono stati cinque mesi da incubo di Giorgia

Ci sono familiari di vittime che hanno accettato di venire a parlarci di Bruno Turci

Chi commette il reato non considera l’essere umano di fronte a lui di Andrea Beltramello

PostaCelere

A sua santità Benedetto XVI di Antonio Floris

Donne Dentro

Madri con figli “dentro”  di Marina, mamma di una detenuta

Redazione

Editoriale

 

Diritti fragili come il cristallo

 

di Ornella Favero

 

Quando andiamo nelle scuole, detenuti e volontari, a parlare con i ragazzi di reati, pene, carcere, non ci sogniamo neppure di affrontare il tema dei diritti dei detenuti, o meglio, arriviamo ai diritti per vie traverse: perché è difficile trovare qualcuno disposto a riconoscere che chi ha commesso un reato non perde, entrando in carcere, oltre alla libertà, anche i diritti. Del resto, a sentire nei pomeriggi televisivi conduttori, politici, giornalisti lasciarsi andare ad invocazioni del tipo “metteteli dentro, e che marciscano in galera fino all’ultimo giorno” è quasi impossibile che un cittadino, uno studente che notizie sul carcere le riceve prevalentemente dalla televisione e dai film, si convinca che invece una persona detenuta ha diritto a essere trattata con umanità, e anzi i diritti li dovrebbe mantenere tutti, tranne quello alla libertà di movimento.

Le battaglie che facciamo allora, rispetto alla tutela dei diritti, hanno un loro percorso particolare, forse abbastanza “tortuoso”, ma che sta dando dei risultati confortanti: noi partiamo da una considerazione elementare, che cioè è più facile manifestare indifferenza nei confronti dei diritti dei detenuti, se quei detenuti restano anonimi autori di reati, ma risulta più difficile quando gli anonimi autori di reati diventano storie, testimonianze, persone che raccontano di sé, dei loro figli, delle loro scelte sbagliate, delle loro responsabilità, del desiderio di riparare il danno per le sofferenze procurate.  E tutte le nostre iniziative, di conseguenza, ruotano attorno a questo: tirar fuori l’umanità delle persone, dei buoni e dei cattivi, perché solo se i “buoni” riconosceranno l’umanità dei “cattivi” forse si riuscirà a tornare a discutere di diritti come non si fa più da tempo, da quando la “cattiveria sociale” diffusa impedisce qualsiasi ragionamento equilibrato su questi temi.

Il nostro lavoro così è spaccato in due: da una parte, è come se prendessimo per mano le migliaia di studenti che entrano in carcere per incontrare i detenuti della redazione e li accompagnassimo in un cammino per capire che dire “a me… mai”, costruirsi la certezza che a noi non capiterà mai di uscire dai binari della nostra vita da “regolari” significa esporsi al rischio di diventare sempre più intransigenti verso chi commette reati, di desiderare che i loro diritti siano compressi, e di essere però del tutto impreparati se poi succede a qualcuno che ci è vicino di sperimentare il desolante degrado delle carceri. Ma c’è un’altra parte del nostro lavoro non meno importante, che è quella che ci impegna ogni giorno a combattere proprio sul fronte dei diritti delle persone detenute, perché sono talmente fragili quei diritti, talmente a rischio oggi, soprattutto quelli che riguardano la salute,  che bisogna in qualche modo reagire a questo senso di impotenza che sta travolgendo un po’ tutti quelli che operano in carcere e tentare di fare qualcosa. Noi ci tentiamo in tutti i modi, cercando spiragli e incuneandoci nelle piccole crepe del sistema, e facendo anche piccole proposte perché tutta quella dignità che è sottratta ai detenuti dal sovraffollamento gli venga almeno in parte restituita con più tempo e più spazio per gli affetti, una riforma che non costerebbe quasi nulla ma contribuirebbe a rendere meno dura la solitudine della carcerazione.

Proprio per dare un senso alle nostre proposte, e cercare con tenacia ogni strada per realizzarle, questo numero di Ristretti, attraverso una lunga intervista a Mauro Palma, presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, è dedicato a tutte quelle piccole possibilità che ci sono, in Italia ma soprattutto in Europa, per tutelare i diritti delle persone private della libertà personale.

 

 

Parliamone

Parliamo di trattamenti inumani e degradanti

Intervista a Mauro Palma

 

a cura della Redazione

 

Mauro Palma è Presidente di quel Comitato Europeo per la Prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti, che rappresenta un punto di riferimento per chi guarda con angoscia alla condizione, sempre meno rispettosa della dignità delle persone, delle nostre carceri. Per questa sua straordinaria competenza lo abbiamo invitato in redazione, e lui ha avuto la pazienza

di sottoporsi per più di quattro ore alle domande di Ristretti.

 

Ci piacerebbe cominciare inquadrando il ruolo del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti.

Innanzitutto vi ringrazio dell’invito e devo dire che mi complimento per tutto quello che viene fatto da Ristretti Orizzonti. Vi posso assicurare che non è solo una base di lavoro, come ben sappiamo, per l’amministrazione penitenziaria italiana, perché anche per il nostro Comitato, incaricato di seguire la situazione detentiva nei vari Paesi europei, è estremamente importante avere una credibile rassegna di quanto pubblicato su questi temi; è un supporto al nostro lavoro davvero considerevole. Sarebbe importante avere un simile strumento in tutti i Paesi del Consiglio d’Europa.

Spiego un po’ rapidamente come è nato il Comitato, quali sono i suoi compiti e anche come vi sono invece arrivato io e qual è il mio ruolo al suo interno.

Il Comitato è nato da una Convenzione che è stata aperta alla firma dei vari Stati nel 1987. Quando parlo di Convenzione indico un trattato tra i vari Stati: la differenza tra una Dichiarazione e una Convenzione è che la prima, anche la Dichiarazione universale dei diritti umani, è un’enunciazione di principi, di volontà etico-politica di andare in una certa direzione, mentre la seconda è un trattato vincolante per gli Stati che determina obblighi a cui gli Stati devono adempiere..

La Convenzione del 1987, che si chiama formalmente Convenzione per la prevenzione della tortura dei trattamenti e delle pene inumane o degradanti, è stata aperta alla ratifica dei vari Stati nel 1987 ed è diventata operativa nel 1989.

 

Perché si chiama così il Comitato?

Si chiama così perché l’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti umani recita appunto “nessuno può essere sottoposto a tortura o trattamenti o pene inumani o degradanti”. A partire da questo obbligo è stata costruita la Convenzione per la prevenzione della tortura.

Si tratta, si badi bene, di un obbligo non derogabile. Alcuni articoli della Convenzione europea per i diritti umani indicano obblighi o divieti derogabili in caso di emergenza o di grave allarme, altri non lo sono mai, neppure in situazioni di eccezionalità: l’articolo 3 è uno di questi e indica che nessuna situazione pur grave può consentire il ricorso a pratiche di tortura o a trattamenti o pene contrari al senso di umanità e alla dignità della persona.

Per capire come si sia arrivati a questa nuova Convenzione, ormai più che ventennale, bisogna andare al sistema di tutela previsto dalla Convenzione per i diritti umani. Come è noto, l’organo preposto a stabilire se uno Stato abbia contravvenuto o meno ai suoi obblighi è la Corte europea di Strasburgo. Può accedere alla Corte un individuo che ritenga che uno o più dei diritti a lui garantiti dalla Convenzione siano stati lesi e che abbia inutilmente percorso le vie che l’ordinamento del suo paese gli offre per ottenere riconoscimento e rimedio. Per esempio, nel caso italiano, solo dopo aver esaurito le tre possibili istanze che l’ordinamento offre, cioè dopo l’esito in Cassazione, un individuo può accedere alla Corte. Quest’ultima, sulla base dell’esame del caso, delle norme previste nel singolo Paese, emette poi una sentenza di eventuale condanna dello Stato interessato a cui aggiunge un risarcimento, seppure simbolico, di tipo pecuniario.

 

La Corte non procede d’ufficio, ha bisogno dell’istanza del singolo e necessariamente interviene dopo un tempo considerevole da quando la violazione è avvenuta.

Negli anni Ottanta ci si è chiesti quanto un sistema così strutturato, che pur aveva ottenuto e ottiene importanti risultati, fosse in grado di tutelare pienamente le persone private della libertà da parte di un’autorità pubblica. Si era, infatti, passati attraverso esperienze che avevano posto in dubbio l’effettiva volontà degli Stati di ottemperare ai propri obblighi in situazioni di emergenza. Era noto tra l’altro il ricorso a pratiche di tortura da parte dell’esercito francese nella guerra d’Algeria, così come si avevano notizie di pratiche simili nell’interrogatorio dei militanti dell’Irlanda del nord da parte del Regno Unito.

La risposta sull’effettività del meccanismo esistente era stata negativa, e da qui venne appunto l’elaborazione della nuova Convenzione.

 

Ma chi può rivolgersi alla Corte?

Il ricorso alla Corte è individuale. Ora, una persona privata della libertà che ha subito maltrattamenti o torture difficilmente denuncia quanto subito, soprattutto se deve rimanere nelle mani di coloro che ha indicato come responsabili; teme ritorsioni, intimidazioni o comunque un riflesso negativo sulla propria difficile situazione. Da qui la necessità di prevedere un sistema che permettesse di agire anche senza la denuncia da parte del singolo, cioè di propria iniziativa.

Inoltre di fronte a tali gravi fatti è necessario intervenire subito, senza attendere la fine delle vie offerte dal diritto interno, anzi è importante prevenire tali situazioni, cioè individuare quelle criticità che potrebbero evolversi in situazioni così gravi; da qui la necessità di monitorare i luoghi per capire dove si annidino i rischi, sia per quanto attiene le lacune legislative, sia per quanto riguarda il mancato controllo o un ambiente di particolare tensione. Ma, per poter intervenire prima e in sostituzione delle vie interne, occorre prevedere un organismo di natura non giurisdizionale, per non togliere parte di sovranità allo Stato interessato.

Quindi l’idea allora elaborata è stata quella di un organismo non di natura giurisdizionale, ma preventivo, che intervenisse su propria autonoma decisione e che costantemente tenesse sotto controllo le situazioni di privazione della libertà. Un organismo che non emettesse sentenze, ma che producesse raccomandazioni volte agli Stati, chiedendo loro di intervenire per migliorare la situazione esaminata.

Tale organismo, il Comitato per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o pene inumani o degradanti è stato allora stabilito dalla Convenzione del 1987 ed è sintetizzabile da queste parole chiave: intervento autonomo, intervento ex ante, organo non giurisdizionale, raccomandazioni; mentre la Corte è sintetizzabile da parole chiave diverse: intervento a denuncia, intervento ex post, organo giurisdizionale, sentenze. Due organismi diversi, ma complementari.

Inoltre, la Corte esamina gli obblighi relativi a tutti gli articoli della Convenzione sui diritti umani, mentre il Comitato si limita all’articolo 3 e, in parte, all’articolo 5 (paragrafo 1) che stabilisce che ogni privazione della libertà deve essere confermata da un’autorità giudiziaria e all’articolo 6, che stabilisce che ogni processo deve essere equo.

 

Questa è la struttura. E da chi è composto e che cosa fa il Comitato?

Il Comitato è composto da un membro per ognuno degli Stati che ratificano la Convenzione, attualmente ratificata dai 47 Stati del Consiglio d’Europa: si va dal Portogallo fino al Pacifico, da Malta fino all’Islanda.

C’è solo un grande buco in questa mappa europea ed è la Bielorussia che non fa parte del Consiglio d’Europa, perché un prerequisito per farne parte è l’abolizione della pena di morte, e nelle more del processo legislativo per la sua abolizione, la moratoria delle varie esecuzioni. Per esempio, la Federazione russa non esegue più condanne a morte da quando è entrata nel Consiglio e ha avviato il processo di revisione costituzionale per la sua abolizione. La Bielorussa invece esegue ancora condanne a morte.

I membri del Comitato hanno profili professionali diversi, la maggior parte sono giuristi ma vi sono anche medici legali, psichiatri, esperti di carcere. Il Comitato infatti si interessa di privazione della libertà nella sua accezione più ampia. Il carcere è senz’altro la forma principale, ma non è la sola e non è quindi la sola area del nostro controllo. Vi sono poi le Polizie – e uso volutamente il plurale poiché, oltre al sistema duplice presente in molti Paesi quale quello italiano tra Polizia di Stato e Carabinieri o quello francese tra Polizia di Stato e Gendarmerie, vi sono le polizie di frontiera e le molte polizie locali, alle quali è stata via via data la possibilità di detenere, seppure per periodi brevi, le persone fermate.

Alcuni di voi certamente ricordano, per esempio, due casi che lo scorso anno sono stati riportati dalla stampa: quello di una ragazza tenuta a terra in una cella a Parma, e un altro sempre a Parma di uno straniero tenuto incatenato a un pilone in una strada, in attesa dell’arrivo di un convoglio. Due casi di trattamento offensivo della dignità delle persone coinvolte, entrambi di responsabilità di esponenti dei vigili urbani, cioè della Polizia locale.

Oltre a carcere e polizie, la terza area di controllo è quella dei Centri per gli immigrati, comunque siano denominati nei vari Paesi; rappresentano una forma ormai sempre più frequente di privazione della libertà su base amministrativa. La quarta area riguarda gli istituti psichiatrici con ricovero coatto, o i trattamenti sanitari obbligatori (in Italia indicati appunto come TSO): in Italia fortunatamente molte di queste istituzioni appartengono al passato, grazie alla cosiddetta legge Basaglia, ma nel panorama geografico vasto che ho prima delineato, le realtà manicomiali sono tuttora ampiamente presenti.

Infine, ci sono due ulteriori aree di cui nell’occidente europeo c’è meno esperienza. La prima riguarda la protezione sociale offerta a persone tolte dalla strada, per esempio i bambini abbandonati e posti sotto la tutela dello Stato in appositi istituti dove l’assistenza sfocia nel controllo. Anche in questo caso si tratta di persone private della libertà da parte dell’autorità pubblica. La seconda riguarda la pratica – frequente nei Paesi dell’est europeo – di colloqui informativi condotti spesso dall’intelligence in cui la persona interrogata ha uno status legale ambiguo: non è un sospettato o un imputato, né un testimone, non ha assistenza legale e non è comunque autorizzato a lasciare il luogo del colloquio. Di fatto, seppure per un periodo più o meno breve, e che spesso è un periodo oscuro, sottratto a ogni sguardo e garanzia, è privato della libertà.

Le aree di intervento del Comitato sono, quindi, ampie. Il Comitato effettua visite, principalmente non annunciate, a tutte queste diverse realtà. Spesso le visite sono in orari notturni perché sono queste le ore più a rischio in molte celle di polizia. Il fatto stesso che tali luoghi possano essere visitati in modo inatteso, non annunciato, ha di per sé funzione preventiva rispetto ai maltrattamenti.

 

Come sono organizzate le visite ai luoghi di provazione della libertà

Le visite sono di due tipi, visite di tipo periodico e visite ad hoc.

Le visite periodiche sono attese dai vari Stati; infatti, poiché il Comitato ne compie circa undici o dodici l’anno e gli Stati sono 47, ogni Stato sa di ricevere una visita circa ogni quattro anni; di più l’elenco delle visite di un dato anno viene annunciato al dicembre dell’anno precedente. Per esempio, la Spagna sa che nel 2011 riceverà una visita, anche se non sa quando né sa quali Istituti verranno visitati. Come elemento di cooperazione, il Comitato indica un Istituto che intende visitare, ma ovviamente precisa nella lettera di notifica che la delegazione che visiterà il Paese è libera di visitare ogni altro istituto che riterrà opportuno. Una visita periodica dura circa dodici- tredici giorni.

Le visite ad hoc sono invece più brevi e più mirate e vengono fatte quando richiesto da particolari circostanze, sia per valutare se alcune raccomandazioni hanno trovato un’azione adeguata da parte delle autorità, sia perché è sorta una particolare esigenza. Per esempio, quando ci sono state le elezioni nella Repubblica di Moldova, si è avuta notizia di arresti di massa e di maltrattamenti e si è deciso di inviare immediatamente una delegazione per esaminare la situazione. Analoga è stata la decisione rispetto all’Italia quando sono stati effettuati respingimenti di immigrati in mare aperto.

L’ampiezza delle situazioni da verificare determina la necessità di avere nel Comitato una presenza larga di professionalità. L’ampiezza numerica delle persone private della libertà determina che sempre il controllo sarà un controllo a campione. I detenuti – e mi riferisco al solo carcere – per esempio sono attualmente in Europa circa un milione e ottocentocinquantamila; quindi, il rapporto con reti indipendenti di monitoraggio locale, cioè su base nazionale, è indispensabile.

Soltanto la Federazione russa, per esempio, ha ottocentomila detenuti, di cui più di centoventisettemila sono in attesa di giudizio (il rapporto numerico tra definitivi e detenuti in custodia cautelare è comunque migliore di quello italiano). Il cosiddetto tasso di detenzione nella Federazione russa è circa 6: cioè 6 detenuti ogni mille abitanti.

Riguardo al tasso di detenzione, attualmente in Italia è 1,3, essendoci quasi settantamila detenuti rispetto a una popolazione di circa sessanta milioni. Tuttavia, quando si considera il tasso di detenzione, va tenuto presente che ogni statistica va letta con le dovute cautele. Ricordo una poesia di un noto poe­ta romanesco dello scorso secolo, Trilussa, che sottolineava come da una statistica di mezzo pollo per ciascuno si potesse però ricavare che qualcuno mangiava un pollo intero e qualcun altro non ne mangiava affatto. Ora, la popolazione detenuta è prevalentemente maschile, essendo le donne circa il 5 per cento mediamente nei Paesi europei; questo comporta che se ci si riferisce alla sola popolazione maschile, il tasso di detenzione diviene molto più alto; non solo, ma dall’intera popolazione vanno esclusi neonati, bambini e vecchi: si ricava che considerando la popolazione maschile di età compresa tra i 20 e i 55 anni, il tasso di detenzione diviene circa 4: un detenuto ogni 250 abitanti.

Oltre a prevedere la possibilità d’accesso ai luoghi, la Convenzione prevede per il Comitato la possibilità di parlare in privato con qualsiasi persona privata della libertà, di avere accesso al suo fascicolo e a tutte le informazioni che ritenga utili per il proprio lavoro, nonché di interrogare tutte le persone che ritenga possano fornire informazioni necessarie alla valutazione della situazione.

Quindi la Convenzione prevede per il Comitato poteri molto ampi, molto superiori a quelli di qualunque autorità nazionale. Tuttavia, come ogni trattato, questi poteri sono bilanciati da obblighi: nel caso del Comitato l’obbligo della riservatezza. Le informazioni ottenute non possono essere rese pubbliche se non attraverso un Rapporto inviato agli Stati, la cui pubblicazione però avviene solo a richiesta dello Stato interessato.

Essere tenuti alla segretezza significa che i risultati delle nostre indagini fanno parte di un dialogo tra noi e le autorità dello Stato interessato, una sorta di dialogo sintetizzabile con un’espressione del tipo “tu sai che io so”, quindi discutiamo insieme su cosa cambiare, come e con quali urgenze.

Da qui le raccomandazioni che gli Stati sono tenuti a prendere seriamente e a seguire in tempi rapidi. Le raccomandazioni possono essere di vario tipo, dalle più generali alle più particolari, dall’invito a cambiare la legge al far aprire un procedimento rispetto a quel particolare funzionario. Esse vengono inserite nel rapporto sulla visita che comunque non contiene tutto ciò che il Comitato ha appreso, perché parte del dialogo con lo Stato avviene in incontri e scambi di lettere.

Solo se uno Stato dà informazioni false o se platealmente non dà seguito alle raccomandazioni ricevute, allora il Comitato con un’apposita procedura interna, che prevede la possibilità per lo Stato di fornire il proprio punto di vista e le proprie giustificazioni, e con una maggioranza dei due terzi degli aventi diritto al voto, quindi due terzi dei membri del Comitato stesso, può rompere la segretezza e decidere di pubblicare i documenti di questo scambio: un cosiddetto public statement.

Questa è una misura estrema, spesso più minacciata che adottata. A me personalmente è capitato in uno Stato nello scorso anno, di andare a parlare con le massime autorità governative per dire che la situazione era giunta al “punto terminale” e che il Comitato stava per emettere un public statement se una certa situazione non fosse mutata. Nel colloquio abbiamo fatto presente che certamente al governo sarebbe convenuto adottare la misura richiesta e farla risultare come propria iniziativa e non come decisione presa sotto la minaccia di una dichiarazione pubblica di inadempienza da parte di un organo sovranazionale. Il governo ha deciso a quel punto di fare quanto gli veniva richiesto e nessuno mai saprà in quale contesto tale decisione è stata presa; per noi era importante il risultato raggiunto, non certo far sapere che era stato ottenuto sotto la nostra pressione. Questo sintetizza un po’ il modo di operare in funzione di pressante persuasione, piuttosto che di sanzione.

Da questo punto di vista il Comitato è un organo di cooperazione con gli Stati.

Ho accennato precedentemente che l’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani è inderogabile. Per far capire l’importanza di questa sua connotazione voglio dare un esempio concreto. Quando, dopo l’11 settembre il Regno Unito ha adottato una particolare legislazione di emergenza, che prevedeva la possibilità di privare le persone della libertà a tempo indeterminato senza l’informazione al magistrato e senza un’imputazione formale, ha conseguentemente comunicato la deroga rispetto agli obblighi relativi all’articolo 5 della Convenzione (la conferma della privazione della libertà da parte del magistrato). Una deroga che è andata avanti fino alla fine del 2004, quando è stata abolita dalla Camera dei Lord. In questo stesso periodo però il Comitato ha sempre avuto accesso alle persone detenute secondo questa normativa adottata, proprio perché l’articolo 3 non è invece derogabile e noi dovevamo controllare che le persone così ristrette non fossero sottoposte a maltrattamenti o torture. Poteva il Regno Unito negare le persone finanche al magistrato, in virtù della deroga, ma non a noi che abbiamo il compito di vigilare su un articolo non derogabile. Capite allora che sotto il profilo della prevenzione tale potere ha un significato forte.

Spesso quando parlo con studenti e descrivo ruolo, funzioni e poteri del Comitato, mi viene posta la domanda: “Ma funziona o non funziona questo meccanismo?”. La mia risposta è che certamente non funziona, almeno pienamente, perché le violazioni ancora esistono. Però al contempo funziona, se questo meccanismo non ci fosse, la situazione sarebbe molto peggiore. Per esempio in Europa una situazione come quella di Guantanamo, inteso come luogo ufficialmente definito e legalmente stabilito, ma oscuro e impenetrabile a sguardi esterni, non è possibile, perché il Comitato avrebbe comunque accesso a esso. Non si esclude certo che in Europa vi siano state detenzioni segrete, ma appunto devono essere tenute tali, devono essere tenute nascoste alle nostre indagini, devono essere negate dal potere. La differenza non è di poco conto.

 

Elton Kalica: Noi abbiamo visto nel caso Sulejmanovič che la Corte ha fatto riferimento agli standard stabiliti dal Comitato, ci piacerebbe sapere qualcosa di più su questi standard nei luoghi di detenzione.

Anche qui alla Casa di reclusione di Padova abbiamo un problema di sovraffollamento, noi abbiamo chiesto per lo meno di rendere più vivibile la situazione, per quanto riguarda le attività trattamentali, estendendo gli orari di apertura delle celle e anche gli orari per frequentare le attività, perché almeno si faccia qualcosa per “compensare” le condizioni pesanti in cui si vive con una maggiore “libertà di movimento”.

Ci interessa perciò sapere com’è il panorama che il Comitato ha trovato in giro per l’Europa e quali sarebbero gli standard accettabili.

 

Ornella Favero: Io vorrei capire esattamente le responsabilità, cioè rispetto a questa situazione di illegalità ci sono comunque delle responsabilità precise da individuare.

I responsabili sanitari ad esempio devono firmare l’abitabilità delle celle, mi piacerebbe capire come funziona questa questione e chi si assume la responsabilità di far stare illegalmente in uno spazio così stretto un numero di persone così rilevante.

Un cittadino fuori non avrebbe mai l’abitabilità a casa sua se dicesse che la sua famiglia vive nelle condizioni in cui si vive qui dentro, mi vengono in mente certi paesi vicino a Padova dove facevano le ispezioni nelle case degli immigrati e dicevano che lì non ci poteva stare quel numero di persone fuori dalla norma, poi però nelle celle è accettato qualsiasi numero.

 

Filippo Filippi: Aggiungo una domanda molto breve, quanti siete voi del Comitato e come fate fronte a tutti i compiti che avete da svolgere?

 

Mauro Palma: Siamo in quarantasette, uno per Stato. Diciamo che complessivamente è un gruppo di ottanta persone formato dai membri del Comitato e quelli del segretariato; questi ultimi sono impiegati permanenti presso il Consiglio d’Europa, hanno un’organizzazione interna che fa capo al Segretario esecutivo del Comitato, lo stesso da quando il Comitato esiste, e che consta di tre divisioni, a ciascuna delle quali è assegnato un certo numero di Stati. Anche noi come membri abbiamo alcuni Stati, per esempio fin dall’inizio le mie due aree sono state i Balcani e il Caucaso.

Il format di una visita, per esempio periodica, è di questo tipo: la delegazione è composta da cinque-sei membri, due della segreteria che li accompagnano e poi uno-due esperti aggiuntivi necessari a coprire le aree tematiche non coperte dai membri; poi ci sono gli interpreti e uno psichiatra, in primo luogo perché occorre quasi sempre visitare almeno una istituzione psichiatrica, ma anche perché è sempre utile avere nel gruppo un supporto di tipo psicologico.

Soprattutto per quel che riguarda la tortura, occorre tenere presente che quando si indaga su un caso e si interroga la vittima, di fatto si ria­pre una ferita profonda. E, quando si riapre una ferita, attraverso un ricordo che spesso il soggetto ha cancellato o vuole cancellare, occorre anche saperla richiudere. Sono dinamiche complesse; una volta mi sono trovato in una situazione di totale coinvolgimento emotivo dell’interprete che piangeva e non era in grado di proseguire, né io avevo possibilità di continuare perché non conoscevo la lingua. Un sostegno psicologico nel gruppo è ben utile in questi casi.

Come ho detto, una visita periodica dura circa due settimane. Ovviamente si procede a campione nel selezionare gli Istituti, ma anche sulla base di informazioni che noi abbiamo attraverso varie fonti, spesso organizzazioni non governative che suggeriscono dove andare e cosa osservare. Attraverso visite, raccomandazioni e rapporti, il Comitato ha elaborato un insieme di standard. Quando parliamo di standard dobbiamo fare una differenza tra quelli del CPT e quelli definiti dalle Regole penitenziarie europee del Consiglio d’Europa: questi ultimi sono standard relativi a come dovrebbe essere la detenzione; i nostri standard sono invece relativi a come non può mai essere, perché il loro compito non è definire le politiche penitenziarie, ma prevenire il degradare delle situazioni verso condizioni inaccettabili. Essi stabiliscono qual è quella soglia minima al dì sotto della quale il trattamento diventa maltrattamento Per esempio, se le Regole penitenziarie europee indicano che i detenuti dovrebbero avere almeno la possibilità di fare due docce a settimana, il CPT, tenendo presente che allo stato attuale è ben difficile che tutti i 47 Paesi soddisfino questo standard, anche perché in alcuni di essi due docce settimanali non le fanno nemmeno fuori, indica la necessità di almeno una doccia alla settimana.

Va detto comunque che le Regole penitenziarie europee tendono a essere sempre più elemento di riferimento per il Comitato, così come per la Corte.

Nel caso Sulejmanovič, a nostro parere e a parere della Corte, quella soglia minima era stata oltrepassata; il CPT tende a non essere rigido nelle sue valutazioni, pur dando in generale lo standard secondo cui una cella fino agli otto metri quadri dovrebbe contenere una sola persona, soprattutto per quanto riguarda le detenzioni lunghe. Lo standard più generale che diamo, indica che una cella collettiva dovrebbe misurare almeno quattro metri quadri più due per ogni altra persona, quindi se si hanno tre persone dovrebbe essere almeno di dieci metri quadri. Ovviamente vanno considerate anche le condizioni generali, per esempio per quante ore la cella è aperta, quali possibilità di attività al di fuori di essa hanno i detenuti e così via.

Quello però che si è stabilito è che tre metri quadri sono il limite estremo, minimo invalicabile, per la detenzione di una persona; al di sotto di tale limite anche le condizioni generali di apertura della cella e di accesso all’aria non hanno rilevanza perché le condizioni vengono comunque considerate come inaccettabili. Da qui è nata la sentenza Sulejmanovič.

Il problema del sovraffollamento è un problema grave che riguarda molti Paesi europei. Vi sono tuttavia vari modi per considerarlo e per cercare soluzioni; per esempio – e non cito a caso, ma sulla base di esperienze concrete – ci sono Paesi dove l’autorità inquirente, prima di emettere un provvedimento restrittivo, si informa della sua eseguibilità concreta in condizioni dignitose; se non ci sono le condizioni il provvedimento è adottato solo in situazioni di assoluta necessità. E questa è forse la prima forma di regolazione della questione del sovraffollamento.

Da noi c’è un ulteriore problema: in carcere vengono portate anche le persone il cui fermo è in attesa di convalida. Questa misura adottata a suo tempo è una forma di garanzia perché evita il ricorso all’uso delle camere di sicurezza e soprattutto introduce una seconda responsabilità, quella del sistema penitenziario, rispetto a quella che ha operato l’arresto. Avere un sistema che distingue tra responsabilità nelle diverse fasi è sempre una buona garanzia. Tuttavia queste presenze, spesso della durata di uno-due giorni, incidono sui numeri e sulla vita interna di un carcere circondariale, che sembra quasi una stazione ferroviaria.

I giorni scorsi ci sono stati 23 arrestati alle manifestazioni degli studenti a Roma; qual è stato il senso del loro essere stati tradotti in carcere, per poi essere rilasciati due giorni dopo? Non si poteva trovare un’altra soluzione rispetto all’arresto? Non potevano essere tenuti sotto controllo in forme diverse? È un tema da affrontare con grande cautela, perché l’esito non può essere quello di ritornare all’uso sistematico delle camere di sicurezza; soprattutto nelle condizioni in cui sono attualmente in Italia, posti orrendi. Occorre ragionare sulle varie ipotesi e pensare a strutture leggere, diverse da quelle strettamente carcerarie, da mantenere comunque sotto una responsabilità diversa da quella di chi ha operato l’arresto.

Comunque il tema va affrontato e vanno individuate soluzioni percorribili. Vorrei ricordare, oltre alla citata sentenza Sulejmanovič, un’altra sentenza della Corte di Strasburgo, del 2003: la sentenza Kalashnikov contro la Federazione russa, in cui la Corte ha stabilito che le condizioni dal punto di vista sia dell’affollamento sia della situazione igienico-sanitaria in cui questa persona era stata tenuta, erano una violazione dell’articolo 3, indipendentemente dal fatto che nel carcere avevano cercato di attenuare la situazione insostenibile. Le condizioni erano di per sé una violazione. È una sentenza importante perché evidenzia che i trattamenti inumani o degradanti possono concretizzarsi, a differenza della tortura, anche quando non c’è volontà esplicita di infliggere sofferenza, ma come il risultato di una serie di concause.

Nel caso italiano, io credo che per le indecenti condizioni attuali, ci siano anche responsabilità delle autorità sanitarie; c’è una responsabilità delle Asl. Osservo che la sanità è l’unica materia di totale competenza regionale; quindi, è l’unica area in cui l’intervento di un garante regionale dei detenuti potrebbe avere incidenza diretta. Inoltre osservo che la situazione presente ha la fisionomia dell’illegalità, cioè del non rispetto da parte dell’Amministrazione penitenziaria stessa delle regole stabilite (Ordinamento del 1975 e Regolamento del 2000) per la detenzione. È una situazione di a-legalità o forse anche di illegalità. Quest’ultimo è il termine esatto: scusate una parentesi, ma noi siamo abituati a vedere legalità o illegalità solamente relativamente ai diritti individuali e non ai diritti collettivi, per cui se io rubo a lui il portafoglio vado contro il diritto individuale alla proprietà e sono perseguibile, attraverso un meccanismo di intervento penale ben definito. I diritti sociali, collettivi, non hanno una forma di tutela simile: se a me è stata “rubata” la possibilità di accesso effettivo alle cure, la mia salute, per l’inadempienza del sistema sanitario, non ha una forma analoga di tutela; il controllo è affidato per questi diritti proprio alla capacità di organizzazione dal punto di vista sociale e territoriale.

 

Elton Kalica: Proprio sull’assistenza sanitaria in carcere, siccome già al suo terzo rapporto generale il Comitato aveva indicato alcuni standard sulle visite mediche, su come queste devono essere fatte, sul tipo di trattamento medico che il detenuto dovrebbe ricevere, ci interesserebbe capire meglio come dovrebbero funzionare le cose. Le porto degli esempi concreti: per quanto riguarda la prevenzione il Comitato faceva riferimento in questo rapporto anche al fatto che il carcere, o comunque il Sistema Sanitario all’interno del carcere, dovrebbe fare un grosso lavoro di prevenzione, oltre a quello di cura, e invece in questo campo non si vede molto.

Un altro piccolo esempio è che prima del passaggio della Sanità penitenziaria al Sistema Sanitario Nazionale il Ministero della Giustizia garantiva le protesi dentarie ai detenuti che non potevano pagarsele, adesso invece il Servizio Sanitario dice che ai cittadini fuori non vengono date gratuitamente le protesi e quindi nemmeno ai detenuti.

Quali sono allora le indicazioni o l’orientamento del Comitato sulle questioni della salute?

 

Mauro Palma: Questo nel caso italiano è un punto molto sensibile; recentemente c’è stata una visita del CPT centrata proprio sull’esame del passaggio della sanità dall’amministrazione della giustizia al Servizio Sanitario Nazionale.

Io dico subito che noi abbiamo in generale un atteggiamento favorevole a questo passaggio, anche se ciò che a noi preme è che siano assicurate cure e prestazioni, indipendentemente dall’organizzazione che il servizio ha in un determinato Stato. Ci preme però anche che i medici siano indipendenti e che soggettivamente si sentano tali e siano visti come tali dai detenuti.

I due principi rispetto al servizio di sanità in carcere, da tenere ben saldi e da articolare nei vari standard, sono l’indipendenza dei medici e l’equivalenza tra cure previste all’interno e all’esterno, per quanto attiene accesso a visite specialistiche, cure specifiche, tempi ecc.

Partiamo allora dall’indipendenza. È ovvio che si crei spesso un elemento di “colleganza” tra i medici di un carcere e gli altri operatori, inclusa la direzione e l’amministrazione; ed è altrettanto ovvio che l’appartenenza a un’amministrazione esterna tuteli di più. Dico cose banali e concrete: per noi, per esempio, il medico ha un ruolo fondamentale nel prevenire i maltrattamenti, perché in quelle celle che nominavamo prima, dove si è messi subito dopo un fermo o un arresto, avvengono a volte cose un po’ singolari ed è molto singolare che tante volte nel cosiddetto registro 99, dove dovrebbero essere riportate le lesioni riscontrate, si trovino solo pagine bianche. È singolare che esistano medici che visitino una persona all’atto della sua ammissione in carcere alla presenza di personale non medico e dipendente dall’amministrazione, alla presenza di agenti di polizia penitenziaria. Questa situazione è vietata da ogni norma e raccomandazione, eppure avviene; è tollerata solo se un medico richiede la presenza di un agente, in un caso specifico, per ragioni di sicurezza e in tal caso la richiesta va motivata e chi esamina poi registri e carte deve capire perché in quel giorno, in quella situazione, tale richiesta è stata avanzata.

A volte inoltre il medico non richiede alla persona che visita in questa delicata fase di togliersi gli abiti e si limita a una vista esterna e qualche domanda. Ora si sa bene che per menare una persona ci possono essere molti metodi che non lasciano segni nelle parti visibili; quindi fa parte della deontologia medica il fatto, prima di annotare che la persona non presenta segni, di chiedere che si spogli, visitarla, parlarci senza altre orecchie che ascoltano. Tutte queste possibilità sono più effettive quando non c’è un rapporto di dipendenza dei medici dall’amministrazione penitenziaria.

C’è poi una questione italiana su cui noi abbiamo molto da ridire: in Italia, in generale, il medico fa parte del Consiglio di disciplina del carcere; questa situazione per noi è una cosa inaccettabile perché rompe la relazione medico-paziente. Il medico in carcere è il medico del paziente e il paziente è il detenuto; non è parte dell’Amministrazione, ha e deve avere un ruolo di autonomia e indipendenza del tutto impermeabile alle necessità dell’Amministrazione. Se si coinvolge il medico nella procedura disciplinare, per esempio per stabilire se una persona possa essere inviata all’isolamento, si rompe questa connotazione di assoluta indipendenza che non è soltanto una connotazione personale, ma è anche percezione d’indipendenza da parte dei detenuti. Il medico deve avere il potere di visitare immediatamente e autonomamente la persona isolata e di interromperne l’isolamento in qualsiasi momento: questo è quanto avviene negli Stati che seguono i nostri standard.

Per quanto riguarda l’equivalenza, questa non si realizza nell’avere lo stesso atteggiamento rispetto a soggetti che sono in realtà tra loro disuguali. L’equivalenza socialmente vissuta è la possibilità di funzionare in maniera compensativa, rispetto ai soggetti più deboli, cioè chi è in situazione di disagio fuori e chi è in situazione di disagio dentro l’istituzione. È ovvio che se c’è una politica territoriale che non considera chi è in situazione di disagio fuori, tanto meno considererà chi è in situazione di disagio dentro, per cui è una battaglia questa che va fatta in un certo senso fuori dal carcere. Io non ho idea di come sia la situazione qui localmente, però penso che questi problemi possano e debbano essere affrontati in maniera migliore e più coordinata nel rapporto tra Asl, Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria e osservazione esterna. L’occhio esterno è sempre importante; non so per esempio se in Veneto sia stata introdotta o meno la figura del garante.

 

Ornella Favero: No, e di fatto si sente l’assenza di un garante, in modo particolare sulle questioni riguardanti la salute, perché il problema vero in carcere è come far valere i diritti, che una persona non ha perso con la carcerazione. Certo c’è il magistrato di Sorveglianza, ma io vorrei anche ragionare su quali strumenti ha la persona detenuta per far riconoscere i suoi diritti, perché non restino sulla carta.

 

Elton Kalica: Mi pare che ci sia un altro problema che anche il Comitato si deve porre nel caso dell’Italia: siccome il Servizio Sanitario è di competenza delle Asl, se oggi ci dovesse essere una visita della delegazione del Comitato che entra in un carcere italiano e vede una situazione in cui c’è un detenuto al quale per un lungo periodo non sono state fatte le cure mediche adeguate, oppure una situazione igienico-sanitaria in chiara violazione dei suoi diritti, il Comitato a chi si deve rivolgere e con chi se la deve prendere, dato che il carcere e il Ministero della Giustizia possono dire che oramai non hanno più voce in capitolo, ecco anche questo è un problema.

 

Mauro Palma: Mettiamo qualche paletto: quando una persona è privata della libertà da un’autorità pubblica, la responsabilità finale di tutto ciò che si determina è dell’autorità pubblica che la sta privando della libertà e che l’ha in carico. In ultima analisi di quello che succede in carcere è il Direttore a rispondere. D’altra parte questo avviene in tutte le istituzioni dove c’è un “affidamento” a un soggetto pubblico – succede anche per i ragazzi a scuola. Quindi, rispetto a determinati problemi, il primo istituto è quello del ricorso, o alla Direzione o al magistrato di Sorveglianza, che ha dei compiti complessivi di controllo dell’istituto di pena.

Noi purtroppo siamo passati a una logica per cui il magistrato di Sorveglianza è principalmente il magistrato delle misure alternative, più che il magistrato del controllo sull’istituto. Ma, per esempio, il magistrato ha anche la possibilità – e qualcuno l’ha fatto – di chiedere alla Asl di intervenire dal punto di vista igienico-sanitario, così come farebbe un magistrato con il compito di sorvegliare un qualunque altro luogo pubblico rispetto alle condizioni igienico-sanitarie. Quindi il magistrato di Sorveglianza va responsabilizzato in una versione che noi chiamiamo “proattiva”, nel senso di non attivarsi solo in base a reclami e lagnanze ricevute, ma anche di attivarsi autonomamente nell’effettuare controlli.

Credo che potrebbe essere utile organizzare degli incontri con i magistrati di Sorveglianza a livello regionale per affrontare una discussione franca su questi temi. Certamente i magistrati faranno presente la loro difficile e vera situazione di essere sotto organico e di non riuscire neppure a venire in carcere per incontrare i detenuti, però va sempre tenuto presente che il punto centrale della loro funzione è proprio il controllo attivo. Tale controllo è spesso ricordato dai magistrati stessi, quasi reattivamente, quando si parla di introduzione del garante, ma poi è spesso dimenticato nella quotidianità della funzione da parte di molti.

Poi ci sono le vie di ricorso alla Corte di Strasburgo, da cui è partito il nostro colloquio. Se, per esempio, una persona ricorre per omessa cura (ricordatevi anche la sentenza della Corte di Strasburgo nel caso Scoppola contro l’Italia) al magistrato di Sorveglianza e il magistrato non interviene, a quel punto il ricorso va al Tribunale di Sorveglianza, se ancora non si ha un intervento anche in questo caso, la situazione può venir posta a Strasburgo: il percorso è quello già delineato, si accede alla Corte solo dopo aver percorso inutilmente le vie interne per ottenere rimedio.

 

Ornella Favero: Che tempi ci sono per fare in modo che non sia una cosa eterna? Perché un problema che riguarda la salute ha sempre una grande urgenza.

 

Mauro Palma: I tempi sono un punto dolente del sistema giudiziario italiano e anche di quello relativo all’esecuzione penale. Faccio l’esempio del già citato caso Scoppola perché si trattava di un detenuto con patologie, gravi impossibilità motorie e di autoaccudimento ed era impossibile la sua detenzione nel carcere ove era ristretto e dove doveva essere aiutato dai compagni di cella anche per le sue funzioni fisiologiche elementari. Il problema era il suo trasferimento a Parma, dove c’è un Centro per disabili; lo stesso magistrato aveva detto che doveva essere trasferito nel centro specializzato con grande rapidità, ma il DAP ci ha impiegato tredici mesi a trasferirlo. In questo caso l’Italia è stata condannata per violazione dell’articolo 3, perché non ha avuto un atteggiamento di prontezza nel rimuovere la situazione in essere, ma ha atteso dei tempi burocratici lunghissimi.

Guardate che ci deve far riflettere che l’Italia sia stata condannata per tante questioni a Strasburgo, principalmente per l’irragionevole durata del processo, ma anche per non equo processo nel caso Dorigo – non equo processo, anche se nella legge italiana la condanna della Corte non è motivo per la revisione del processo. L’Italia tuttavia per quarantotto anni non era stata mai condannata per la violazione dell’articolo 3. Negli ultimi due anni e mezzo l’Italia lo è stata per le situazioni penitenziarie due volte (caso Sulejmanovič e caso Scoppola); questo è un po’ il segnale che il sistema, per il disinteresse sociale, per il taglio delle risorse, si sta deteriorando pesantemente.

Dopo il caso Sulejmanovič sono già arrivati più di mille ricorsi; recentemente è stata fatta la prima accettabilità del primo stock di ricorsi, che mi sembra riguardino Bergamo. I tempi non sono brevissimi, però attualmente uno specifico protocollo potrà accelerarli poiché quando un caso è palesemente uguale a un caso già esaminato e considerato, la decisione è monocratica; non si riunisce più il collegio e la situazione è ben più spedita.

 

Ornella Favero: Ma il ricorso può essere fatto direttamente a Strasburgo per quanto riguarda il sovraffollamento, e non passando attraverso il magistrato?

 

Mauro Palma: Sulla questione del sovraffollamento non c’è un diritto interno, per cui la Corte ha stabilito che un meccanismo di risarcimento interno rispetto al sovraffollamento non è in essere e quindi puoi rivolgerti direttamente alla Corte.

E poi voi sapete che attualmente non c’è nel Codice penale il reato di tortura, tant’è che nel processo per il G8 di Genova il Pubblico Ministero in udienza ha fatto riferimento all’articolo 3 della Convenzione europea per i Diritti Umani perché – ha detto – non c’è un reato specifico che qualifichi propriamente quanto avvenuto. Questo non significa che le condotte costituenti tortura non siano perseguite in Italia, ma sono perseguite con altre forme di reato tipo l’abuso, la violenza privata, la violenza privata aggravata: figure deboli e a rapida prescrizione.

 

Bruno Turci: Lei prima ha parlato di condanna per ingiusto processo e ha detto anche che la condanna della Corte non è motivo per la revisione del processo, ci può spiegare questa questione?

 

Mauro Palma: La questione è in questi termini: per una possibile revisione del processo, quindi per la sua riapertura, è prevista soltanto la possibilità di nuovi elementi fattuali e probatori che siano nel frattempo emersi. In tale elenco delle possibili motivazioni da esaminare per una ipotesi di riapertura non è compresa la sentenza della Corte sul processo non equo.

Nel caso Dorigo che ho citato, la Corte ha stabilito che il processo non si è svolto in modo equo e l’Italia tuttavia non ha riaperto il caso, non essendoci un nuovo elemento processualmente rilevante che consentisse di esaminare l’istanza di possibile riapertura.

Questa è una delle questioni su cui c’è una forte pressione sull’Italia; tra l’altro recentemente è venuto in Italia anche l’attuale Segretario generale del Consiglio d’Europa e si è incontrato con le massime autorità italiane, e anche questo aspetto è stato inserito nei colloqui, perché è un punto dirimente la possibilità di riaprire un processo, se un organo sovranazionale dichiara che esso non si è svolto in modo equo.          

 

Gentian Belegu: Io mi trovo in carcere dal 2006 per omicidio su due casi analoghi, per i quali nel primo caso ho dichiarato la mia colpevolezza e sono stato condannato a 30 anni, e invece per il secondo, per il quale devo ancora fare la Cassazione, vorrei sapere quali sono gli elementi a mia disposizione per dimostrare la mia estraneità ai fatti.

 

Mauro Palma: Questo è un tipico caso dove bisogna attendere prima che finisca il diritto interno, in quanto la questione non è stata ancora definita in Cassazione.

Solo dopo la Cassazione, si può iniziare la procedura per stabilire se siano stati rispettati o meno i propri diritti fondamentali. Tenete comunque presente che a Strasburgo non si può intervenire sulla sostanza: non è un quarto grado di giudizio. Va soltanto valutato se ci sono state testimonianze non prese in considerazione, notificazioni non avvenute e simili altre mancanze. In questo caso io potrei individuare come unica violazione possibile quella del processo equo, però perché un processo non sia equo deve avere qualche cosa che è stata formalmente richiesta e non concessa, o interrogatori fatti senza la presenza di un avvocato, o non aver fatto le notifiche nei tempi stabiliti e quindi non poter preparare la difesa.

 

Miroslav Lazarov: Mi risulta che uno straniero detenuto in Italia ha diritto ad una traduzione degli atti in lingua madre e ad un interprete.

 

Mauro Palma: Ha diritto ad una traduzione in lingua a lui comprensibile.

 

Miroslav Lazarov: Proprio riguardo al processo equo, come è possibile che un giudice non riconosca il diritto ad avere una traduzione per uno straniero che è in Italia da soli 8 mesi? In 8 mesi uno straniero come può esprimersi, come può difendersi ad esempio in un processo ordinario?

 

Mauro Palma: Io qui vorrei rispondere sia in maniera personale, che in maniera formale.

Sul piano personale, io credo che capire cosa mi sta succedendo costituisca un diritto basilare di ogni persona e trovo che ci sia molta arretratezza nel recepire tale diritto fondamentale. Posso portare l’esempio di quanti respingimenti siano stati messi in atto in mare senza che alcuno abbia fatto richiesta di asilo: mi chiedo quante di quelle persone, appena tolte da quei barconi in una situazione difficile, fossero in grado di comprendere la possibilità e il significato dell’asilo politico.

La risposta formale è invece che su questo c’è molta cautela da parte dei Paesi europei, dove la traduzione è prevista sostanzialmente per gli atti principali di un procedimento. Nell’Unione europea è attualmente in corso una discussione sulle garanzie procedurali; è la cosiddetta “roadmap di Stoccolma”, adottata durante il semestre di Presidenza svedese. La discussione è sulle garanzie fondamentali e la prima di queste, su cui c’è accordo – seppure nei limiti che ho prima detto – è la garanzia della traduzione degli atti principali; la seconda su cui si è ora iniziata la discussione è la possibilità di avere l’avvocato sin dall’inizio della privazione della libertà.

 

Filippo Fillippi: Io invece vorrei che si definisse meglio il ruolo che ha un direttore di un carcere rispetto al sovraffollamento, che in molti istituti rasenta il trattamento inumano e degradante, e qual è quello del magistrato di Sorveglianza, che deve controllare le modalità di gestione della pena, ma anche che venga rispettato il diritto che questa condanna sia scontata nelle modalità che l’Ordinamento penitenziario prevede.

 

Mauro Palma: Innanzi tutto, il ruolo di un direttore è sempre, a mio parere, in Italia come altrove, quello di pensare e costruire, insieme alla sua équipe, un progetto, lo sviluppo di un’idea sulla detenzione nel carcere che dirige. Progettare, può sembrare banale ma invece è un’attività che compendia molti aspetti, soprattutto indica una visione del carcere che non è quella del mero contenimento. Purtroppo proprio questa progettualità manca in molte amministrazioni penitenziarie.

Il direttore è anche però sintesi e modello delle relazioni che si stabiliscono in carcere, poiché il sistema di relazioni che il direttore stabilisce con il personale e con i detenuti viene comunque replicato a tutti i livelli in un’istituzione tendenzialmente chiusa come è un’istituzione segregativa.

Mi è capitato di recente in un carcere macedone molto grande di vedere un direttore che negli ultimi due anni era entrato nell’area delle celle soltanto quattro volte; non è azzardato in questi casi pensare che le relazioni interne non siano diverse da quelle di un complessivo abbandono e di una mancanza di controllo della situazione.

Quindi il direttore è modello, proprio perché nel suo “progetto di carcere” e nel rapportarsi veicola un messaggio che comunica alle persone detenute: “Siete in una fase complicata della vostra vita, ma che fa parte della vita complessiva”, oppure “Siete in un posto dove a nessuno interessa alcunché di voi”. Questa seconda sensazione è quella di essere in un luogo dimenticato dal sociale, dimenticato anche dal conflitto politico; di essere finiti in un luogo su cui non c’è investimento sociale. Il carcere spesso non è nemmeno motivo di discussione.

Rispetto al sovraffollamento il direttore ha un ruolo chiave, ma la questione è diversa a seconda se parliamo di Case di reclusione o Case circondariali. Se parliamo di Case di reclusione, dove si sconta una pena definitiva, anche lunga, e spesso i numeri sono più controllabili, la necessità di un progetto è davvero ineludibile. Il direttore di una Casa circondariale invece ha un ruolo di pianificazione della situazione; può e deve avere un ruolo forte, anche rispetto alla stessa magistratura di Sorveglianza, un ruolo attivo di chi “rompe le scatole” rispetto alla questione del sovraffollamento e lo fa non solo per rispetto verso i detenuti ma, ci tengo a precisare, anche verso chi in carcere lavora. E, in fondo, anche per se stesso.

Per quanto riguarda il magistrato di Sorveglianza e le sue funzioni di supervisore, vi racconto prima un pezzetto di storia personale: negli anni passati, subito dopo la riforma, sono stato coinvolto nella formazione dei direttori chiamati a esercitare un diverso ruolo professionale. Ricordo perfettamente che la figura su cui puntavamo era il magistrato di Sorveglianza, era la figura della nostra grande speranza. Successivamente però il ruolo di supervisione è diventato un ruolo meno pregnante, rispetto al resto, cioè alla funzione di regolazione dell’accesso o meno alle misure alternative. Anche se io conosco ottimi magistrati di Sorveglianza che tuttora vanno in carcere a effettuare controlli continui.

 

Ornella Favero: Ci sono magistrati che non entrano in carcere neppure per incontrare i detenuti.

 

Mauro Palma: Su questo ho un pensiero radicalmente negativo e penso che difendere l’autonomia della magistratura e il cosiddetto libero convincimento del giudice passi attraverso il fatto che veda le persone, abbia un contatto diretto con loro. Alcuni magistrati difendono la centralità del proprio libero convincimento e poi in realtà decidono solo sulle carte, non accorgendosi che in tal modo prima o poi perderanno in autonomia. Infatti proprio chi ha a cuore la difesa dell’autonomia dovrebbe difendere il meccanismo di costruzione del proprio libero convincimento attraverso il contatto diretto con le persone su cui si è chiamati a decidere.

 

Ornella Favero: Abbiamo ancora una questione importante da affrontare, quella dei famigliari dei detenuti. Il diritto di un detenuto e di un famigliare rispetto agli affetti non può in qualche modo essere fatto valere, non può un familiare presentare un ricorso perché la modalità dei colloqui non permette ad esempio a un padre di fare il padre veramente con i propri figli?

Le ore dei colloqui sono pochissime, in Paesi considerati più arretrati, come in Russia, ogni tre mesi per alcuni giorni i detenuti possono ritrovarsi con i loro famigliari, ci sono anche i colloqui intimi, e sono molti altri i Paesi con delle modalità più ampie di incontro con i famigliari. L’Italia ha queste sei ore perlopiù passate in condizioni di grande promiscuità, è impensabile che così si possano tutelare gli affetti.

 

Elton Kalica: Io vorrei fare anche un ragionamento in prospettiva di un ricorso alla CEDU, perché c’è l’articolo 8 CEDU, diritto al rispetto della vita privata e familiare, però sui rapporti familiari il Comitato non ha indicato degli standard ben precisi su quante ore devono esserci di colloquio e come devono svolgersi, con che modalità.

Anche in relazione alle telefonate e ai colloqui intimi, credo che il Comitato debba sviluppare delle indicazioni.

 

Mauro Palma: È vero che su questo il Comitato ha elaborato abbastanza poco, c’è stata una certa produzione nei vari rapporti più che degli standard definiti.

Per esempio è chiaro che la questione della sessualità è un problema e complessivamente il numero di Paesi dove non è prevista la possibilità di incontri intimi è minoritario attualmente in Europa; mi sembra che sul totale dei 47 Stati in 27-28 è prevista e in 19 no.

L’Italia a questo risponde sempre che ci sono i permessi premio, per sopperire alla mancanza di incontri intimi; tuttavia non tutti possono beneficiarne per vari motivi. E comunque non può essere questa la soluzione al problema.

Dal nostro punto di vista la pena non può mai degenerare in pena corporale; ne consegue per esempio che il Comitato fa rapporti molto duri laddove un detenuto è messo in una cella da solo e l’area dove è previsto il suo passeggio non consente di vedere a una distanza maggiore di qualche metro, perché questo può determinare un’alterazione delle proprie capacità fisiche, un’alterazione corporale. Allo stesso modo diciamo che lunghe pene di privazione della sessualità hanno effetti di ordine psicologico e fisico che rischiano di tramutare la pena detentiva in pena corporale.

Sui colloqui intimi, io ho visto soluzioni che spaziano da alcune praticamente inaccettabili ad altre invece molto positive. Inaccettabili perché in qualche carcere vi era una stanzetta orrenda dove poter avere incontri intimi, assolutamente distante da una possibile espressione di propri sentimenti; in molti altri invece ho visto piccole unità abitative che, oltre alla questione della sessualità, offrivano la possibilità di stare con i bambini, di avere rapporti affettivi “normali”. Piccole casette attrezzate con un paio di stanze, con doppio accesso sia per i detenuti che per i famigliari; i detenuti vengono perquisiti prima e dopo e a loro è affidata la responsabilità del loro mantenimento, senza richiedere al personale di svolgere compiti incongrui di sorveglianza e gestione della questione. Sono previste sanzioni nel caso che il detenuto commetta qualche irregolarità e complessivamente l’atmosfera è di un’accentuazione di responsabilità.

Questo se volete apre a un tema che accenno soltanto, ma a cui mi riferisco spesso in occasione di convegni sui modelli carcerari: è la distinzione tra modello di carcere di tipo infantilizzante e modello di tipo responsabilizzante.

Quello italiano spesso è un modello infantilizzante: il detenuto regredisce verso una situazione quasi di collegiale, riceve tutto, esegue ordini, se ha una necessità anche minima fa domandina, e così via.

Per citare un modello diverso di carcere, cito l’esempio del modello danese, dove i detenuti non ricevono nulla dall’Amministrazione al di fuori di una paga settimanale che devono gestirsi: questo è ciò che io intendo come modello responsabilizzante; un modello che abitua il detenuto alle difficoltà di gestione che comunque incontrerà una volta dimesso dal carcere. Se finisce i soldi deve da solo risolvere il suo problema, se sbaglia però torna a un sistema totalmente diverso, molto più rigido, quasi di isolamento. È chiaro che in un modello di questo tipo anche la gestione delle unità abitative è parte del complessivo processo responsabilizzante.

A me poi dà un po’ fastidio che in Italia appena parli di sessualità ti sostituiscono la parola con “affettività”; credo si debbano invece chiamare le cose con il proprio nome. A proposito dell’affettività e del rapporto con i familiari, è vero che la nostra elaborazione si limita ad alcune linee, per esempio che possano essere cumulati i tempi di visita o i minuti delle telefonate. Tuttavia molto si sta elaborando; sulla scia delle regole penitenziarie europee si sta sviluppando una discussione sulle possibilità comunicative via internet, via Skype, o simili.

Quanto alle violazioni rispetto al mantenimento dei legami familiari, va considerato quanto stabilito dall’articolo 8 della Convenzione europea sui diritti umani. Per i circuiti speciali per esempio, occorre ricordare la sentenza Lorsé c. Paesi Bassi, 4 febbraio 2003, che ha stabilito una violazione dell’articolo 3 da parte delle autorità olandesi, perché in un circuito detentivo speciale, dove i colloqui avvenivano sempre attraverso schermo totale, i detenuti venivano perquisiti integralmente prima e dopo ogni colloquio. Questa è l’unica sentenza rilevante che riguarda direttamente i rapporti con i famigliari.

Il Comitato non ha in verità elaborato molto sui contatti con l’esterno, anche perché spesso si trova a misurarsi con violazioni ben più gravi – situazioni di isolamento, di degrado estremo – e a volte gli standard vengono elaborati su questi livelli bassi. Quando ti occupi di queste situazioni gravissime, rischi di essere meno attento alla quotidianità composta da elementi di vivibilità meno drammatici.

 

Ornella Favero: Questo però forse è un rischio.

 

Mauro Palma: È vero, ed io questo lo dicevo solo a giustificazione del fatto che a volte non si presta la giusta attenzione alla questione dei rapporti con i familiari.

 

Elton Kalica: Al prossimo rapporto generale potrebbe chiedere che venga introdotto un capitolo sugli standard relativi ai diritti delle famiglie.

 

Mauro Palma: Nel Comitato c’è un gruppo di lavoro che ha elaborato un documento chiamato “Il rapporto con il mondo esterno”, spero che a breve se ne possa discutere.

 

Ornella Favero: Alla fine vorremmo anche riflettere sulla durata delle pene e sull’ergastolo.

Noi viviamo in Italia, dove sono tutti convinti che le nostre pene sono le più basse rispetto agli altri Paesi. Ci piacerebbe avere qualche indicazione sugli altri Paesi dell’Europa, in particolare quelli più avanzati, riguardo proprio a quali sono le pene massime, e anche rispetto all’ergastolo.

 

Mauro Palma: In Italia le pene edittali sono molto alte; tra le più alte in Europa. Tuttavia in Italia è molto ampia, troppo forse, la distanza tra la pena comminata e quella concretamente eseguita; questo comporta lo sviluppo delle varie, pretestuose spesso, richieste di “certezza” della pena.

Non sono tempi positivi per quanto riguarda la lunghezza delle pene in Europa. Molti Paesi hanno adottato provvedimenti di maggiorazione delle pene edittali, soprattutto per alcuni tipi di reati.

Nel 1992 Antigone fece alla Camera dei deputati un convegno sull’abolizione dell’ergastolo, perché il Parlamento aveva approvato un ordine del giorno su questa questione; mi ricordo che allora gli ergastolani erano circa 500 e gli Stati che avevano l’ergastolo erano in assoluta minoranza in Europa. Se rifacessimo il convegno domani mattina gli ergastolani in Italia sarebbero quasi 1500 ed io dovrei dire che gli Stati che hanno reintrodotto l’ergastolo sono molti di più e in ben nove Stati europei per alcuni reati specifici non c’è nemmeno la previsione dell’articolo 176 del Codice penale, quello che riguarda la liberazione condizionale; e che anche dove tale possibilità di liberazione dopo un congruo numero di anni esiste, essa è spesso meramente teorica.

Questa previsione di un ergastolo senza possibilità di sospensione è, a nostro parere, in violazione dell’articolo 3 perché non corrisponde ad alcuna possibilità di speranza e reinserimento, neppure dopo moltissimi anni, e rischia di avere effetti sul benessere psicologico di chi la sta scontando.

Ridiscutere sulla lunghezza massima delle pene – e magari anche sulla riduzione della distanza tra pena irrogata e pena eseguita – è forse oggi una necessità su cui lavorare con urgenza.

 

 

Dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura alla sentenza Sulejmanovic

Torniamo a parlare di questa sentenza, che ha senz’altro segnato un importante riconoscimento dei diritti fondamentali in carcere, perché nel frattempo le cose

dal 16 luglio 2009, quando quella sentenza è stata emanata, sono peggiorate

 

di Elton Kalica

 

Gli effetti della globalizzazione, la minaccia del terrorismo, i conflitti interni che si accendono periodicamente, la migrazione di massa verso l’Europa, la percezione dell’insicurezza urbana, sono tutti fenomeni cui molti Stati rispondono, sempre di più, attraverso la giustizia penale. Il sovraffollamento delle carceri che ne deriva crea inevitabilmente una situazione di fragilità per i diritti umani. Così in Italia, per effetto del sovraffollamento, in celle costruite per due o tre detenuti, ci stanno in sei, sette, otto, chiusi dentro dalla mattina alla sera, per lo più senza far nulla: sono sempre più spesso persone giovani, figli di famiglie “regolari”, ma anche immigrati, tossicodipendenti, senza fissa dimora e altre categorie di poveri.

Carceri dove le condizioni di vita sono in continuo peggioramento, ma che offrono ancora degli spazi, soprattutto per quanto riguarda l’istruzione. E grazie alla scuola in carcere che ancora resiste, ho potuto laurearmi, studiando autonomamente. Circa un anno fa, dopo un percorso di studio lungo due anni, ho terminato la laurea magistrale in Scienze Politiche. Ricordo che non fu facile per me scegliere l’argomento della tesi. Precedentemente, avevo conseguito il diploma di laurea triennale, e in quell’occasione, avevo fatto una tesi sull’evoluzione dei diritti dei lavoratori in Albania: pensavo alle difficoltà quotidiane dei miei famigliari e volevo studiare le conseguenze della transizione, dal comunismo reale all’economia di mercato, con tutti i rischi che presentava, nella distruzione della coesione sociale, e soprattutto negli aspetti della radicalizzazione dell’ineguaglianza e nella discriminazione delle persone, che all’improvviso avevano perso anche quei diritti precedentemente garantiti. Una tesi che mi aveva dato delle grosse soddisfazioni, ma alla seconda laurea per la specializzazione, mi sono sentito in dovere di occuparmi di carcere. Allora avevo deciso di studiare quali sono i meccanismi che a livello internazionale tutelano i diritti dei detenuti.

Sapevo che l’organo che ha co­strui­to la macchina migliore di difesa dei diritti delle persone private della libertà personale era il Consiglio d’Europa, pertanto ho deciso di studiare come questo meccanismo di tutela fosse entrato concretamente in funzione rispetto all’Italia. Ho letto quindi i rapporti prodotti sulle condizioni di vita nelle carceri, e alcune sentenze di condanna verso Stati che hanno poi dovuto risarcire persone che erano state trattate in modo inumano e degradante.

 

Al centro, la dignità umana

 

Era inevitabile dedicare il primo capitolo al concetto di tortura, uno strumento concepito, nella storia, come un atto istruttorio con il fine di estorcere delle informazioni o delle confessioni. Anche perché oggi, le diverse “guerre contro il terrore”, e alcuni conflitti interni, hanno di fatto riammesso l’utilizzo della tortura, a volte semplicemente come punizione.

Nello stesso capitolo ho descritto brevemente com’è costruita la macchina con la quale il Consiglio d’Europa cerca di dare risposte sempre più efficaci alla domanda di garanzia dei diritti fondamentali, e specialmente quell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani, che enuncia che “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Questo divieto è categorico, non prevede alcuna eccezione, compresa l’ipotesi di guerra o altro pericolo per la sicurezza della nazione.

Gli individui che ritengono di essere stati sottoposti a maltrattamenti possono fare ricorso ad una Corte istituita appositamente per far rispettare dagli Stati tutti gli articoli della Convenzione. Nel definire i comportamenti vietati dall’art. 3, la Corte non ha assunto definizioni troppo rigide, per lasciare aperta la possibilità di un’evoluzione giurisprudenziale in un senso estensivo dei diritti, il che permette di adeguare costantemente l’art. 3 ai cambiamenti politici, sociali, economici e culturali, preservandolo da ogni rischio di anacronismo.

Al fine di rendere più efficace tale principio nei luoghi di privazione della libertà, il Consiglio ha elaborato la Convenzione europea per la prevenzione della tortura, istituendo un organo, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o dei trattamenti inumani o degradanti (CPT), incaricato di visitare le carceri per verificare se avvengono maltrattamenti.

Il Comitato e la Corte stanno gradualmente rafforzando la relazione tra loro e ci sono casi in cui le sentenze della Corte orientano il CPT, e altri in cui gli standard del CPT influenzano la Corte nelle decisioni. 

La nozione di dignità umana è sempre stata al centro dell’operato sia della Corte che del Comitato, che attraverso le loro sentenze e raccomandazioni, hanno più volte ribadito il principio, secondo il quale lo Stato deve garantire alle persone, che sono in stato di detenzione, condizioni di vita che rispettino la dignità umana.

Rivolgendo l’attenzione all’evoluzione degli ultimi vent’anni compiuta dal CPT, nel mio studio ho riproposto una breve raccolta dei rapporti pubblicati dal Consiglio del CPT. Rapporti che si sono assunti il prezioso compito di dedicarsi ogni anno ad un argomento specifico legato alla vita detentiva nei luoghi di privazione della libertà, producendo così dei parametri, i cosiddetti standard del CPT, diventati oggi punto di riferimento per tutti gli attori che si occupano di carcere.

Il CPT ha effettuato dieci visite in Italia, nel corso delle quali ha esaminato i vari problemi che riguardano la custodia presso le Forze dell’ordine, la detenzione, l’assistenza sanitaria in carcere, i minorenni privati della libertà, le donne detenute, le condizioni di detenzione a cui sono sottoposti gli immigrati ristretti presso i Centri di identificazione e di espulsione, nonché le politiche del governo e la scelta di intercettare gli immigrati irregolari che arrivano sulle coste italiane dal Mediterraneo meridionale e di spedirli di nuovo in Libia. In particolare, la delegazione ha concentrato la sua attenzione sul sistema delle garanzie messo in atto per assicurare che nessuno venga rimandato in un Paese, dove ci sono motivi sostanziali per credere che corra il rischio di essere sottoposto a torture o maltrattamenti.

Alla fine di ogni visita, la delegazione ha prodotto dei rapporti, la pubblicazione dei quali è stata sempre autorizzata dalle autorità italiane.

 

Una sentenza “prodigiosa”

 

Mentre traducevo in italiano i rapporti del Comitato, alcuni giornali hanno dato la notizia di una sentenza della Corte che condannava l’Italia per aver detenuto una persona in condizioni degradanti. Si trattava del caso Sulejmanovic. Una sentenza che ha dato risalto al problema del sovraffollamento carcerario in Italia, stimolando un interessante dibattito a livello politico, da cui sono derivate varie iniziative di monitoraggio delle carceri alle prese con il sovraffollamento, anche se, spesso, il dibattito mediatico-politico ha ridotto la sentenza a una semplice ammonizione riguardante lo spazio medio riservato ad ogni detenuto. Ho analizzato questa sentenza e, a mio parere, la condanna non è solo una questione di spazio personale, basta leggere l’opinione concordante del giudice Sajó, “dans les circonstances particulières de l’espèce, l’inhumanité de la situation réside dans le fait que l’Etat n’a pas montré qu’il avait adopté des mesures compensatoires supplémentaires pour atténuer les conditions extrêmement éprouvantes résultant de la surpopulation carcérale”.

La sentenza Sulejmanovic è stata “prodigiosa” non solo per la mia tesi, ma anche perché ha dimostrato l’esistenza di un sovraffollamento intollerabile, che i detenuti già denunciavano da parecchio tempo. Occorre però capire anche quanto non offra soluzioni efficaci il Piano carceri, che il governo italiano ha proposto come rimedio alle sue politiche securitarie, grazie alle quali oggi l’Italia ha un tasso di carcerizzazione tra i più alti d’Europa.

In tanti si sono ormai abituati all’idea che la situazione politica in cui viviamo è destinata a persistere ancora per molti anni e slogan come “tolleranza zero” e “certezza della pena”, con molta probabilità, continueranno ad essere centrali nei programmi politici dei bipolarismi europei. Ed è triste vedere come le voci che si sollevano per denunciare il disastro che queste politiche producono – come gli enormi costi economici e sociali che la carcerizzazione di massa comporta – purtroppo non riescono a emergere nella giungla della paura, che si è diffusa in modo capillare, anche per effetto di una informazione gestita da mezzi di comunicazione sempre più concentrati nelle mani di pochi.

Per contro, i rapporti del CPT hanno caratteristiche molto tecniche, sono pubblicati in francese e in inglese dal Consiglio d’Europa, e attraggono, solitamente, scarsa attenzione nei media locali e spesso non vengono diffusi nelle lingue dei singoli Stati. Ne deriva che, anche quando gli attivisti delle ONG sono a conoscenza dei rapporti del CPT nei loro Paesi, raramente ne possiedono una visione d’insieme. Pertanto, trovano difficile conte­stualizzare i rapporti relativi ai loro Paesi.

L’obiettivo del CPT è la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, e sono stati proprio i parametri indicati da questo organo, insieme alle raccomandazioni fatte alle autorità italiane, ad aver offerto alla Corte gli strumenti adeguati per valutare da un lato l’oggettività delle condizioni in cui era stato detenuto il ricorrente, e dall’altro lato, le misure adottate dall’amministrazione interessata per fare fronte al problema del sovraffollamento.

Se la Corte, con la sentenza Sulejmanovic, ha confermato, in un certo senso, l’autorevolezza che il CPT ha assunto a livello internazionale, questo verdetto ha prodotto all’interno della società civile, ma anche delle istituzioni un grande fermento, ma per ora non ci sono proposte coraggiose e credibili per affrontare la situazione.

 

Carceri, sovraffollamento, tutela della dignità

L’opinione di Vittorio Borraccetti, magistrato, membro del CSM

Intervista a cura di Ornella Favero e Giuseppe Mosconi

 

Vittorio Borraccetti, magistrato, pubblico ministero a Padova dal 1979 al 1993, dove è stato titolare di indagini importanti come quella su Tangentopoli e sul terrorismo rosso e nero, poi procuratore aggiunto alla Direzione nazionale antimafia e infine procuratore a Venezia, è dallo scorso anno membro del Consiglio Superiore della Magistratura. L’abbiamo intervistato per avere la sua opinione sullo stato delle carceri, e su una figura che sta diventando sempre più importante, in questa situazione di degrado delle condizioni di vita all’interno degli istituti di pena, che è quella del Garante delle persone private della libertà personale.

 

Vorremmo partire con una riflessione sulle cause del sovraffollamento di cui forse non si parla abbastanza, perché si parla del sovraffollamento e si cercano soluzioni “emergenziali”, ma non si analizzano abbastanza le cause strutturali che hanno portato a questa situazione.

 

Per quel che riguarda il sovraffollamento delle carceri, le cause sono molteplici, alcune strutturali che rimandano ad una eccessiva estensione del diritto penale nel nostro ordinamento, un dato di cultura che contraddice l’orientamento che nell’ambito giuridico si era fatto strada negli ultimi decenni con lo slogan del diritto penale minimo, a cui io personalmente non ho mai creduto perché lo ritengo molto difficile da realizzare, ma almeno si dovrebbe auspicare un “diritto penale contenuto” funzionale alla tutela di interessi importanti sia per i singoli che per la collettività, e non usato ed esteso a condotte che si potrebbero sanzionare con altre forme di sanzione diverse dal carcere.

Quindi questo è un dato strutturale. Il secondo dato riguarda la legislazione in materia di stupefacenti che è oggi eccessivamente rigorosa, mentre negli anni ottanta si era affermato un indirizzo che tentava di limitare la sanzione penale allo spaccio di consistente entità e cercava di portare i consumatori fuori dall’esposizione al rischio della sanzione detentiva.

Mi rendo conto che la “questione stupefacenti” è una questione molto difficile da affrontare e non esistono soluzioni definitive, però anche questa questione ha registrato negli ultimi anni un indurimento della legislazione penale e quindi una produzione di più carcere anche da questo punto di vista.

Poi da ultimo citerei la legislazione sull’immigrazione con l’introduzione del reato di immigrazione clandestina, ma anche prima con l’introduzione di reati legati alla violazione dell’ordine di espulsione, quindi anche qui direi un fattore strutturale di sovraffollamento.

In qualche modo connessa al fatto strutturale, c’è anche la legge ex Cirielli con l’indurimento sanzionatorio nei confronti dei recidivi, con una serie di limitazioni anche alla concessione dei benefici in fase esecutiva della pena. Secondo me quindi i fattori sono molteplici.

Nel sovraffollamento c’è un dato, un aspetto che va sempre evidenziato che è quella percentuale elevata di turn over dei detenuti, c’è una percentuale intorno al 30 per cento di persone che sta in carcere 3 - 4 giorni, questo è un dato che influisce pesantemente sulle condizioni degli istituti di pena.

 

D’altra parte c’è anche una crescita dell’entità delle pene comminate, della gravità delle condanne, quindi da una parte il turn over per casi che non dovrebbero neanche andare in carcere e invece condanne più pesanti per quanti diventano definitivi. 

 

Il sovraffollamento significa pregiudizio di due aspetti, previsti in Costituzione, riguardanti la pena detentiva, il primo, che in generale qualsiasi pena non può mai contrastare con la dignità della persona umana, aspetto che viene prima del secondo costituito dalla finalità rieducativa.

Prima di tutto c’è il dovere di rispettare la dignità della persona umana, quindi tutti i suoi diritti fondamentali escluso ovviamente quello alla libertà di movimento, limitazione nella quale si sostanzia la pena stessa.

La finalità rieducativa, a mio parere, costituisce una opportunità offerta a chi è detenuto, a chi è stato condannato, di rivisitare la propria esperienza e di fare, se è possibile, un’autocritica, ma non è un dovere per il detenuto, è un’opportunità che viene offerta.

Quello che assolutamente va preteso è il rispetto della sua dignità.

Il sovraffollamento da una parte non consente il rispetto di quella dignità, dall’altra per quanto riguarda la finalità rieducativa, fa diventare estremamente difficile parlare di percorsi di rieducazione. Ho potuto constatare personalmente a Venezia, nel periodo in cui ero Procuratore della Repubblica, che per alloggiare le persone arrestate in numero elevato per il reato di clandestinità sostanzialmente si occupavano tutti gli spazi destinati alla socializzazione, e addirittura si era arrivati al punto che l’Istituto penitenziario non aveva più nemmeno materassi per far dormire le persone. In tale situazione, questo vuol dire che qualsiasi discorso sulla finalità rieducativa, già difficile per la scarsità delle risorse disponibili, viene pregiudicato. Quindi il sovraffollamento pregiudica proprio gli aspetti costituzionali della pena.

 

Partire da questo quadro può forse conferire alla figura del garante un valore particolare, lei ritiene che sia importante, attuale questa figura, e che il suo compito sia a maggior ragione più necessario in questo stato di cose? Insomma quali sono i suoi pro e i suoi contro di questa figura, in particolare rispetto alla dimensione del problema del sovraffollamento?

 

Credo innanzitutto che le persone investite di pubbliche funzioni nello scenario giudiziario e penitenziario dovrebbero essere le prime a garantire i diritti dei detenuti. Mi riferisco ai magistrati sia inquirenti che giudicanti nei diversi momenti dell’esercizio dell’attività giurisdizionale penale, poi ai magistrati di Sorveglianza. Innanzitutto quando si parla di diritti e tutela dei diritti, tocca ai magistrati e ai diversi organi che intervengono nel giudizio penale garantire i diritti. La giustizia penale ha queste caratteristiche, è repressione secondo il diritto, è applicazione della pena in modo equo laddove ci siano i presupposti per condannare,

Quindi prima di tutto quando si ragiona dei diritti dei detenuti bisogna partire da qui. La giustizia penale non è vendetta, la ragione per cui esistono i giudici e si fanno i processi, anziché prendere la persona e metterla direttamente in prigione, è propria questa, che caratterizza lo Stato di diritto, lo Stato di diritto costituzionale: che anche l’uso della forza nell’applicazione della privazione della libertà personale segue regole e rispetta principi.

Poi noi abbiamo un Ordinamento penitenziario che, nonostante tutte le modifiche in senso restrittivo che abbiamo vissuto negli ultimi anni, è ancora un Ordinamento penitenziario caratterizzato da un’idea di umanità del trattamento e dalla finalità rieducativa, con una previsione di istituti che mirano anche ad evitare la rigidità, la fissità della pena.

E qui apro una parentesi, perché quando si sente parlare di certezza della pena, bisognerebbe sempre rispondere che certezza della pena è espressione accettabile se si vuol dire che vi deve essere certezza che alla persona condannata per un delitto verrà applicata la pena prevista dalla legge. Non è invece accettabile se si intende come FISSITA’ DELLA PENA. Proprio perché questa fissità contraddice l’insieme dei principi dell’ordinamento penale e soprattutto i principi fondamentali della Costituzione.

 

L’Ordinamento penitenziario chiama in causa il ruolo del magistrato di Sorveglianza e del Tribunale di Sorveglianza in funzione della tutela dei diritti e della libertà residua dei detenuti, quindi quando parliamo di detenuti e di tutela dei loro diritti, noi dobbiamo prima di tutto richiamare gli organi giudiziari destinati ad applicare la legge a questa funzione, anche se non è la sola perché ci sono altri diritti da tutelare, quelli delle vittime e quelli della collettività, ma è anche questa.

Poi ci sono i compiti dei diversi organi della struttura penitenziaria, dal vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria fino al delicato ed essenziale ruolo dei direttori degli Istituti penitenziari, per ciò che attiene alla legalità all’interno delle carceri. Perché la legalità all’ interno è costituita anche dal riconoscimento e dalla tutela dei diritti dei detenuti. Senza dimenticare il compito altrettanto decisivo delle persone più vicine ai detenuti, il personale di Polizia penitenziaria, gli educatori, gli assistenti sociali, gli altri operatori.

Allora tutti questi soggetti che ho rapidamente richiamato hanno, tra le altre cose, il dovere di tutelare la legalità della detenzione, quindi di tutelare i diritti dei detenuti, questo dal punto di vista istituzionale.

Il senso della figura del garante secondo me è un po’ spostato verso la società, verso l’attenzione che la società dovrebbe avere nei confronti delle persone che espiano la pena, perché senza questa attenzione quella finalità rieducativa è una parola vuota, in concreto se non si fanno politiche specifiche a livello locale per favorire il rientro lavorativo per esempio di quelli che vengono messi in affidamento ai servizi sociali, è impossibile tradurre in fatti questa idea del recupero e della rieducazione, nel senso del recupero della propria vita secondo dei principi diversi da quelli che hanno orientato i comportamenti di prima.

Quindi la figura del garante la vedo più spostata come una figura importante sul piano della società, e quando dico società intendo non solo una attenzione delle varie componenti della società verso questo problema, ma intendo poi cose molto concrete, per esempio penso ai ruoli che hanno le amministrazioni locali, che sono dei ruoli fondamentali in prospettiva del recupero.

Ecco il garante è una risposta sul versante di tutto quello che alla società, soprattutto alle comunità locali, è richiesto in rapporto a questa esigenza di dignità delle condizioni del detenuto e di recupero sociale, e dall’altra parte il garante è un po’ “dalla parte dei detenuti”, perché i detenuti soggettivamente hanno un approccio che è diverso ovviamente da quello delle istituzioni.

Io vedo poi anche un altro aspetto, una figura che non è dentro le istituzioni quindi ha in qualche modo una maggiore libertà di critica rispetto alle condizioni concrete in cui si trovano le persone che sono in espiazione di pena in un istituto penitenziario. Una figura che può interloquire con le amministrazioni locali in relazione a situazioni concrete, e una figura che verso l’opinione pubblica nel suo complesso può svolgere anche un’azione di orientamento, di riflessione per cosi dire culturale, di formazione, ed è quello che mi pare per esempio nelle città dove è stato istituito il garante venga fatto.

 

Lei ha toccato un punto fondamentale, cioè il rapporto tra una competenza che si riferisce al caso singolo, là dove venga ipotizzata la violazione dei diritti, e una competenza invece che si riferisce a un settore organizzato, un servizio che riguarda tutti i detenuti. Cioè il rapporto tra il garante che dovesse intervenire rispondendo a tutte le istanze che gli giungono dai singoli detenuti e il garante che deve essere il supervisore e l’eventuale correttore o il sollecitatore di correzioni di interi settori di intervento, pensiamo per esempio a quello che riguarda la salute.

 

Io penso che non possiamo trasformare il garante in una specie di ufficio legale generale a cui si rivolge il singolo detenuto, credo che sia corretto ma anche abbastanza sensato che le situazioni individuali vengano fatte valere nelle tante sedi amministrative e giurisdizionali in cui possono essere fatte valere e con l’apporto degli avvocati, il mondo dell’avvocatura è un mondo molto composito e vario, però ci sono strutture e reti di avvocati che pensano alla tutela delle persone che sono nelle condizioni di maggiore debolezza e impossibilità economica. Ecco probabilmente qui dal mondo dell’avvocatura potrebbero nascere esperienze di questo genere a sostegno delle categorie più deboli, inoltre molte delle organizzazioni che si occupano di immigrazione possono fornire un tipo di appoggio di questo genere, però io credo che la tutela del diritto individuale nella singola vicenda debba seguire la strada istituzionale, cioè il detenuto deve rivolgersi per ciò che riguarda gli aspetti amministrativi alla struttura del DAP attraverso i suoi vari aspetti, e però poi ha la possibilità di rivolgersi al magistrato di Sorveglianza per tutta una serie di questioni anche di vita concreta.

Vedo il garante dei detenuti sull’altro versante, che è un po’ quello di prendersi cura in generale della condizione dei detenuti in rapporto alla realtà degli enti locali, dal Comune alla Regione: questo significa avere attenzione a quella che è la realtà delle persone che sono in carcere in quel territorio, quindi con le specificità proprie perché non tutti gli istituti sono uguali, non tutta la tipologia dei detenuti è uguale. Dove ci sono carceri nei quali il grado di sicurezza è elevato ci sono problemi che non ci sono negli istituti in cui questo grado non c’è, quindi un’attenzione a quella realtà di quegli istituti penitenziari che si trovano in quel territorio e un ruolo fondamentale nel rapporto con le realtà delle amministrazioni locali.

Tra l’altro a livello periferico ci sono gli Uffici di Esecuzione penale esterna del Ministero della Giustizia, sarebbe fondamentale il rapporto con questa struttura sul territorio. I Comuni poi sono investiti di alcuni compiti in relazione alla situazione dei detenuti, parlo in particolare di quelli che vanno in affidamento e comunque quelli che cessano l’espiazione della pena, perché dobbiamo tener presente     che le persone che cessano l’espiazione della pena hanno bisogno di un appoggio e di un aiuto da parte di chi può dare questo aiuto, quindi anche qui c’è un ruolo possibile significativo del garante.

 

Un aspetto complesso è il rapporto tra legislazione nazionale e i protocolli locali che hanno attivato la figura del garante. C’è un progetto di legge che giace da diversi anni per un garante nazionale, che per certi aspetti viene anche a prefigurarsi come un passaggio di superamento di certi limiti che i garanti locali hanno denunciato, anche se da quello che lei dice permane fortemente la necessità di una competenza locale.

Io parto dal presupposto che l’esigenza del garante si pone prima di tutto perché la condizione dei detenuti è una condizione in contrasto con il dettato costituzionale, il che significa che c’è una inadempienza complessiva delle istituzioni sul territorio, perché se le cose fossero, non dico le migliori possibili, ma fossero compatibili con il minimo richiesto da quei principi costituzionali, probabilmente noi non discuteremmo con questa urgenza del garante, o forse ne discuteremmo in presenza di quelle situazioni critiche di cui si parlava prima.

Noi comunque non dobbiamo rinunciare a chiedere che si identifichino e si risolvano le inadempienze istituzionali, per esempio non dobbiamo rinunciare a continuare a dire: guardate che dovete limitare la sanzione penale, dovete riservare il carcere solo ai casi estremi, questo noi dobbiamo continuare a dirlo, e non dobbiamo pensare che il garante sia una risposta a errori che stanno a monte.

Noi dobbiamo continuare a chiedere innanzitutto che in carcere ci si vada solo in casi estremi, soltanto quando non esiste altro tipo di sanzione che sia capace di tutelare l’interesse leso, dobbiamo continuare con la critica all’idea che LA PENA SIA IL CARCERE. Ci piacerebbe arrivare ad un tempo in cui non c’è bisogno del garante perché le istituzioni sono in grado di adempiere ai loro doveri in relazione a chi sta in carcere, e perché il numero dei detenuti consente una attenzione per ogni storia, per ogni esperienza personale, e consente anche di dare delle opportunità di recupero.

Però se la realtà è diversa io del garante vedo la necessità in funzione soprattutto delle realtà territoriali, lo vedo meno a livello nazionale, se non come organo di coordinamento. D’altra parte esperienze di altro genere che sono state fatte anche nella nostra Regione, il garante per esempio dei minori, hanno sempre questa caratteristica del raccordo con la realtà territoriale e con le amministrazioni locali.

 

E una legge nazionale che li istituisca a garanzia dell’omogeneità delle competenze di questa figura sul territorio?

 

Esatto, io credo che bisognerebbe fissare alcuni principi in generale che riguardano, a livello nazionale, dove si fa il garante, come si fa, qual è la disciplina, quali sono i compiti, in modo non generico ma di orientamento.

 

Siamo d’accordo che il ruolo fondamentale, al di là dell’emergenza attuale, sia quello di raccordo con gli enti locali, questo è un punto fondamentale, anche per richiamare gli enti locali a fare la loro parte rispetto al carcere e al reinserimento delle persone detenute, però vediamo anche che la condizione della privazione della libertà comunque pone oggettivamente in una situazione per cui è difficile far valere i propri diritti, non basta dire che c’è la direzione, c’è il magistrato di Sorveglianza. Pensiamo al detenuto di fronte ai problemi di salute, certo anche un cittadino libero si scontra con problemi di malasanità, però ha altri strumenti e altre strade per difendersi, va da un altro medico, cerca altre risorse, mentre la persona privata della libertà è impossibilitata a far valere i suoi diritti soprattutto su questioni, che riguardano i temi della salute.

Oggi poi la sanità dipende dalla Regione, quindi una funzione di tutela rispetto al diritto alla salute è importante, perché il garante potrebbe avere quella tempestività nel sollecitare gli enti locali ad essere più attenti nelle prestazioni, che forse il magistrato non può avere.

 

Certo ci sono delle esigenze di vita che sono ovviamente condizionate dal fatto che uno non è libero di rivolgersi a un altro medico.

In relazione a questo io non escludo che il garante si debba occupare anche di queste situazioni concrete, prima parlavamo un po’ della funzione in termini generali, ma penso che sia anche logico che i detenuti segnalino al garante situazioni in cui vi è in qualche modo il rischio della compromissione dei loro diritti fondamentali, cioè il fatto di potersi rivolgere ad un giudice non esclude che il detenuto possa segnalare al garante una certa situazione di difficoltà.

Dico però che il garante deve avere allora dei mezzi e delle risorse, deve avere un ufficio e persone con delle competenze, cioè non può ridursi alla buona volontà del volontariato.

In questo caso il garante può essere di concreto aiuto anche alla singola situazione del detenuto.

Proprio perché non possiamo ridurre tutte le esigenze di vita del detenuto allo schema del ricorso fatto al giudice, per vedersi riconosciuto un diritto, ci sono cose che vanno affrontate e risolte ad un livello pragmatico diverso, ed è chiaro che i detenuti devono avere nel garante un loro interlocutore per tutto ciò che non è declinabile nel senso del ricorso ai superiori amministrativi o al giudice.

 

Il detenuto vede la figura del magistrato, del direttore come una figura che può condizionare la sua esistenza, quindi potrebbe sentirsi meno motivato a immaginarlo come un suo garante

 

Sì certo, le istituzioni e le autorità sono quelle da cui dipende la sorte del detenuto, la possibilità dell’ammissione ai benefici, mentre il garante è visto soggettivamente “dalla parte dei detenuti”, sempre con una funzione pubblica, in qualche misura anche staccato dalla vicenda del singolo e tuttavia collocato non dalla parte dove stanno i giudici e l’amministrazione.

 

Forse dovremmo dire che è una persona collocata “dalla parte della persona privata della libertà personale”, perché se diciamo “dalla parte del detenuto” è una cosa, se diciamo “dalla parte della persona che è privata della libertà personale” è un’altra, si parla cioè di una persona che, non avendo la possibilità di far rispettare un suo diritto, diventa una persona svantaggiata in quel momento. La persona detenuta non è il soggetto debole classico di cui si occupa chi fa volontariato, è un soggetto a volte forte, però è un soggetto che si trova in una condizione temporanea di debolezza determinata dal carcere.

 

La sua debolezza sta nel fatto che non è libero. Si, questo è molto vero, è giusto parlare della persona che è privata della liberta e quindi vive un disagio fortissimo, tra l’altro una delle cose principali da tenere presente è che le modalità della detenzione sono importantissime per la rieducazione, perché il detenuto alla lunga vive la sua detenzione come una ingiustizia, se è una detenzione dove non c’è rispetto della dignità.

Forse anche da questo punto di vista serve il garante, come un soggetto che in qualche modo si prende istituzionalmente cura di tutelare la mia condizione di persona privata della libertà, che si mette dalla mia parte istituzionalmente, anche se ciò non significa che dà ragione sempre al detenuto , ma che ne assume il punto di vista.

 

Da questo punto di vista le prerogative di cui oggi gode questa figura lei le ritiene sufficienti?

 

L’importante è che possa andare in carcere, che i detenuti possano accedere a lui senza particolari formalità.

Necessariamente le funzioni devono restare in questo ambito di controllo e di sollecitazione, perché  non penso che sia possibile attribuirgli più poteri in senso proprio, ma sono già ampie le competenze se noi lo mettiamo nelle condizioni di accedere agli istituti penitenziari, di accedere alle segnalazioni dei detenuti senza formalità particolari, di interloquire con le amministrazioni locali obbligando queste ultime per esempio a consultarlo in una serie di occasioni che riguardino in qualche modo le competenze dei servizi sociali sul territorio e il compito che le amministrazioni locali hanno in relazione ai percorsi di recupero dei detenuti.

 

Già il fatto che possa accedere al carcere senza autorizzazioni, come qualsiasi parlamentare, è importante.

Lei è cresciuto qui a Padova e ha attraversato la storia degli ultimi 40 anni di questa città, pensa che questa figura possa avere un ritorno proficuo proprio rispetto alla storia di questa città?

 

Padova è la sede di due istituti penitenziari, e io ho sempre visto che c’è una presenza di qualità di quello che genericamente si definisce il volontariato, c’è una attenzione al carcere in ambienti qualificati, mi pare che questa città abbia sempre espresso una certa attenzione su questo tema, ricordo di essere stato invitato più volte a ragionare di questi problemi, quindi ho un’esperienza di attenzione da parte di diverse espressioni della comunità padovana verso questo tema, certamente sarà minoritaria ma è una minorità consistente.

Quindi il garante potrebbe costituire un riferimento importante nel rapporto tra le carceri e la real­tà esterna.

 

Un’ultima domanda, in riferimento a quello che diceva lei prima del turn over, perché molte migliaia di persone ogni anno passano in carcere meno di una settimana.

Lei l’anno scorso aveva fatto una circolare, perché queste persone, invece di essere portate in carcere, venissero trattenute nelle questure, ci può spiegare come si può affrontare questa questione del turn over?

 

La mia circolare era un semplice richiamo all’osservanza di due norme del Codice di procedura penale, quindi non costituiva niente di originale, niente di particolarmente clamoroso dal mio punto di vista, tra l’altro era una indicazione che avevo dato un paio di anni prima senza che nessuno dicesse niente.

La prima di queste norme riguarda l’arresto in flagranza per reati di competenza del giudice monocratico e prevede che in caso di arresto in flagranza per uno di questi reati la polizia giudiziaria presenti l’arrestato direttamente davanti al giudice che siede in udienza, sulla base di una imputazione formulata dal pubblico ministero, a cui per legge deve immediatamente comunicare l’arresto.

Se il giudice non tiene udienza, la polizia giudiziaria deve chiedere la fissazione dell’udienza che deve essere fissata nelle 24 ore successive. A meno che, dice quell’articolo, il pubblico ministero non decida che l’arrestato deve essere posto a sua disposizione. La messa a disposizione del pubblico ministero avviene, come previsto da un altro articolo del codice, proprio con l’associazione al carcere.

Questa norma era stata pensata a suo tempo proprio con l’evidente scopo di evitare il passaggio in carcere alle persone che probabilmente il giudice avrebbe scarcerato per assoluzione, concessione dei benefici, per mancanza delle ragioni processuali che giustificano la detenzione preventiva. Insomma c’è una quota consistente, quel 30 per cento che sta in carcere due o tre giorni , che comunque il Giudice poi scarcera per una delle ragioni indicate.

Allora proprio per evitare che queste persone vadano in carcere la polizia giudiziaria deve trattenerle nei propri uffici e poi portarle davanti al Giudice, al quale spetterà di decidere sulla carcerazione o meno.

Questo sta scritto nella legge in vigore da tanto tempo. È vero c’è il problema della idoneità delle camere di sicurezza negli uffici di polizia, ma è problema che si poteva risolvere e che si può risolvere tuttora in realtà, e poi c’è la resistenza del personale della polizia giudiziaria ad assumersi un onere ulteriore, che è quello di custodire temporaneamente gli arrestati.

Si tratta di un problema pratico che dovrebbe essere risolto dalle amministrazioni di competenza.

Nella circolare di cui si sta parlando, diretta ai magistrati dell’ufficio che allora dirigevo e agli organi di polizia giudiziaria del circondario di Venezia, avevo richiamato un’altra norma, secondo la quale se il pubblico ministero ritiene di non dover chiedere una misura cautelare nei confronti dell’arrestato ma la semplice convalida dell’arresto, può disporre la liberazione di quest’ultimo. Invitavo quindi a utilizzare questa previsione di legge qualora non vi fossero esigenze di custodia cautelare da soddisfare, in relazione alla gravità del reato e alla complessità delle indagini.

Pensavo che in questo modo si sarebbe raggiunto l’effetto deflattivo degli ingressi in carcere, che si è effettivamente verificato. Quella era una misura pragmatica ma secondo me di buon senso, che rispondeva un po’ alla necessità di fare qualcosa, perché ripeto io avevo ricevuto lettere dalla direttrice del carcere di Santa Maria maggiore che diceva: non abbiamo più neppure i materassi per mettere le persone a dormire.

 

 

Informazione & Sportelli

 

Uno sportello che “ce la mette tutta” per rendere il carcere più umano

Quello che ci prendiamo in carico cerchiamo

di portarlo a compimento, nel senso che ce ne interessiamo e lo affrontiamo studiando ogni possibile soluzione, per il resto diciamo tanti no, purtroppo

 

di Salvatore La Barbera

 

I cittadini che hanno l’avventura di avere rapporti con la Pubblica Amministrazione per far valere i propri diritti, sperimentano quotidianamente le difficoltà nell’ottenere puntuale e completa soddisfazione dei loro bisogni, che è il minimo in uno Stato di diritto o in una normale società civile. Invece in molti casi non si ottengono neanche risposte: centralini che non rispondono, e-mail inevase e mezzi di comunicazione via web che sono teorici strumenti propagandistici.

Se questo è vero per i cittadini “liberi”, figuratevi come si moltiplicano le difficoltà per i cittadini detenuti. In questo contesto lo Sportello di Orientamento giuridico e Segretariato sociale nella Casa di Reclusione di Padova tenta di semplificare la vita ai detenuti, almeno nel rapporto con le strutture interne ed esterne al carcere.

Quando lo Sportello è operativo noi volontari ci sentiamo addosso una grande frenesia, perché vorremmo dare una risposta a tutti quelli che si presentano, ma le ore a nostra disposizione volano e l’elenco non è mai esaurito. Non abbiamo mai tempo per fermarci e fare il punto. Ecco, forse questo spazio ci dà la possibilità di riflettere su ciò che possiamo migliorare.

Quando entri in carcere tutto è esagerato, tutto diventa più difficile e per arrivare a risultati, grandi o piccoli, devi impegnarti. Noi che entriamo da liberi in carcere ce la mettiamo tutta per rendere ogni giorno il sistema carcere più umano. Il sistema è quello che è, bene o male, qui non ne discutiamo. L’efficienza è un difficile obiettivo, anche se a Padova incontriamo sostanziale collaborazione con il personale penitenziario, anche perché dopo anni c’è sempre più gente disposta ad ammettere che lavoriamo in silenzio, nell’interesse dei detenuti. Tutti lo hanno capito e per questo ci rispettano.

Siamo un manipolo di volontari che si impegna ad ascoltare e tenta di dare soluzioni concrete ai piccoli e ai grandi problemi che le persone detenute sottopongono alla nostra attenzione.

Ci chiedono di tutto, ma le nostre regole di “ingaggio” sono chiare: quello che ci prendiamo in carico cerchiamo di portarlo a compimento, nel senso che ce ne interessiamo, per il resto diciamo tanti no, purtroppo. Ma la verità è che non vogliamo illudere nessuno.

Siamo una bella squadra di persone con professionalità variegate, supportata efficacemente da alcuni detenuti che con la loro collaborazione ed esperienza ci fanno capire di più e meglio la vita del carcere. Però siamo anche convinti che nella nostra attività ci sono ampi spazi di miglioramento soprattutto nel versante del rapporto e della comunicazione con i detenuti, ad esempio ancora non siamo riusciti a far passare il messaggio che nel colloquio con lo Sportello è importantissimo che vengano mostrate le carte... i documenti, le sentenze, la situazione giuridica ed ogni altro elemento che ci aiuti a focalizzare rapidamente il problema.

Rispetto a qualche anno fa si sono fatti decisi progressi nel rapporto con le educatrici: la nostra collaborazione tende a richiamare la loro attenzione su casi particolari (per esempio segnalare all’Ufficio del magistrato di Sorveglianza l’urgenza di una decisione sulla liberazione anticipata, che permetterebbe la definitiva scarcerazione del detenuto), su alcuni elementi di conoscenza che possono essere di aiuto nello svolgimento del lavoro di valutazione che è parte importante della loro funzione. Del resto il flusso di informazioni è a due vie: in più casi abbiamo segnalazioni da parte delle varie strutture interne su situazioni che poi prendiamo in carico.

Ovviamente la nostra attività prosegue e si fa più difficile fuori dal carcere, dove di vera lotta si tratta per portare ai detenuti i risultati da loro sperati. Quando non abbiamo da offrire soluzioni concrete siamo noi i più dispiaciuti e spesso sono i detenuti a risollevare il nostro morale: “Non importa grazie lo stesso per il vostro impegno”!

Però risolviamo anche tanti casi e attraverso la nostra mediazione la maggior parte dei detenuti che accedono allo Sportello viene sostanzialmente soddisfatta. Le istanze che prepariamo sono sempre più numerose e abbiamo cominciato a costruire un archivio con fac-simili per quelle più ricorrenti. Anche la nostra esperienza è aumentata specialmente nel ricercare metodi efficaci per ottenere risultati positivi per coloro che si rivolgono a noi. E in ogni caso fungiamo da qualificato punto di ascolto.

Non possiamo fare a meno di segnalare un fattore critico: la presenza allo Sportello degli avvocati è discontinua. Ciò comporta che il servizio di consulenza che viene loro richiesto, pur essendo qualificatissimo quando viene erogato, tuttavia non può essere programmato e quindi finisce col risultare poco affidabile sul piano organizzativo. Abbiamo segnalato l’argomento in una recente riunione della nostra associazione (Granello di Senape Padova), ma l’unica soluzione concreta che abbiamo trovato (perché noi alla fin fine dobbiamo dare al nostro operato sempre un risvolto pratico!) è quella che impegna lo Sportello giuridico ad una consulenza telefonica con un gruppo selezionato di avvocati che si dichiarano disponibili a dare risposte “in differita” ai quesiti che ci pongono i detenuti e a cui non siamo in grado di rispondere. Siamo consapevoli che non si tratta di una soluzione ottimale e, pur con tutti i limiti che ci sono nel riferire questioni tecniche complesse, speriamo che sia comunque una soluzione di una qualche efficacia.

Infine una buona notizia per i detenuti che hanno chiesto la visita medica per il rinnovo delle patenti di guida: abbiamo la disponibilità di un nuovo medico che chiederà l’accreditamento presso la Motorizzazione civile. Non appena saremo operativi anche su questo servizio, ve ne daremo comunicazione.

Una cosa però ci piace sottolineare, anche con una punta di orgoglio, proprio perche non è scontata né facile da perseguire: lo Sportello giuridico è un posto in carcere dove si entra e non si viene giudicati. Questo mi sembra il valore aggiunto della nostra attività, e forse è la chiave di volta del nostro modo di conquistare la fiducia di chi chiede il nostro aiuto.

 

Piccoli problemi risolti allo sportello

 

“Vorrei iscrivermi all’Università ma non ho il diploma originale del liceo che ho frequentato in Romania. Non ho nessuno che possa andare a ritirarlo. È urgente perché scadono i termini per l’iscrizione.”

Lo “sportello” tenta tre vie contemporaneamente: scrive al consolato rumeno, in internet ricerca agenzie che svolgono tali pratiche amministrative e prende contatti con l’ufficio comunale che assiste gli stranieri.

Risultato: abbiamo uno studente universitario che ci sorride ogni volta che ci incontra per i corridoi e ci saluta col pollice alzato per dire che tutto è ok. Ho saputo inoltre che ha già superato l’esame di Analisi matematica, considerato un esame molto difficile.

 

Secondo disposizioni Inps, l’indennità di disoccupazione non spetta alle persone di origine straniera senza permesso di soggiorno.

Per ben tre anni abbiamo faticato a spiegare che le persone straniere detenute sono da considerare titolari di una posizione simile a un permesso di soggiorno per motivi di giustizia, tanto più che anche l’Amministrazione Penitenziaria li assume come lavoratori dipendenti. L’articolo 27 della Costituzione prevede che la pena deve tendere alla rieducazione e il lavoro è sicuramente un mezzo importante per realizzare questo scopo. Del resto come si può negare l’indennità di disoccupazione a chi versa i contributi previdenziali a tale titolo?

Con molta costanza e determinazione lo “sportello” questo risultato l’ha sempre portato a casa.

Ottenere il codice fiscale per alcuni è una condanna!

M. D. aveva finalmente ottenuto un “ricco” assegno di 80 euro di indennità di disoccupazione, ma all’ufficio postale non riuscivano a sbloccare il pagamento con il suo codice fiscale.

Era nato in Bosnia, ma il programma dell’Agenzia delle Entrate rilascia differenti codici fiscali se la tua città adesso rientra nel territorio della Croazia. È cominciato un lungo pellegrinaggio tra ufficio postale, Inps e Agenzia delle Entrate e dopo otto mesi finalmente abbiamo festeggiato con una buona torta il sudatissimo traguardo. Finalmente M. D. ha un codice definitivo con il quale può interloquire con i vari uffici. Ma che fatica!!!

 

Sportello di Orientamento giuridico e Segretariato sociale

 

Lo Sportello di Orientamento giuridico e Segretariato sociale, gestito da volontari dell’associazione Granello di Senape di Padova, è attivo nella Casa di Reclusione di Padova dal novembre 2007. Due volte alla settimana i volontari incontrano i detenuti che hanno richiesto l’incontro.

Le questioni giuridiche vengono affrontate grazie alla collaborazione di un gruppo di avvocati del Foro di Padova che prestano gratuitamente la propria consulenza sia direttamente allo Sportello, sia indirettamente, attraverso la mediazione dei volontari che li contattano e poi riferiscono alle persone detenute le risposte.

Gli operatori dello Sportello vengono contattati dai detenuti sia per richieste di consulenza giuridica, sia di segretariato sociale o anche solo per facilitare le comunicazioni con i loro avvocati o con figure istituzionali.

Da circa un anno, le questioni previdenziali sono gestite grazie al supporto di operatori del patronato INCA, che entrano nella Casa di Reclusione una volta al mese.

 

Di cosa si occupa lo sportello?

Orientamento giuridico:

 

Verifica della posizione giuridica

Supporto nella lettura di documenti

Supporto nella compilazione di istanze

Modulistica necessaria per la richiesta di benefici

Consulenza nella lettura dei Codici

Consulenza sulla propria situazione giuridica

 

Segretariato sociale:

 

Rinnovo del permesso di soggiorno

Rinnovo della patente

Mediazione con enti locali e istituzioni

Pratiche di tipo previdenziale (pensioni di invalidità, assegni familiari, domande di disoccu-pazione, trattamento di fine rapporto)

Assistenza nella ricerca di soluzioni abitative e lavorative a fine pena

 

 

InFormaMinore

 

Le conseguenze delle cose

 

di Alessandro Busi, psicologo

 

Dall’esperienza in una comunità per minori, una riflessione su come lavorare con i ragazzi perché imparino a sentirsi umanamente responsabili verso se stessi e verso gli altri

 

 

Se si legge qualche testo di fisica, di fisica quantistica, si capisce presto che l’idea di causa-effetto, di conseguenza, è una semplificazione che non funziona. Dopo la A, non per forza c’è la B. Uno più uno, non per forza fa due.

Personalmente, penso che nell’ambito delle relazioni umane – qualsiasi esse siano, d’amore, di amicizia, di odio, di violenza – questo principio sia uno dei più importanti da tenere in considerazione. Quando si fa un’azione, infatti, non si attiva un percorso unico, ma si apre un ventaglio di possibilità che la vita può prendere.

Se si fosse più rigidi, ci sarebbero meno reati, dicono spesso i politici che vogliono giustificare la logica dell’inasprimento delle pene, la logica del “buttiamo la chiave”, la logica del “dentro fino all’ultimo giorno”. Se così fosse, però, non si capisce come la pena di morte non funzioni da deterrente. Anche la pena massima, infatti, non ha nessun effetto sulla riduzione dei reati. Perché? Presto detto, perché ogni persona vive la propria vita, si costruisce la propria realtà, e dentro questa si muove e agisce. Dentro il proprio specifico mondo, tutti interpretano i dati che arrivano dall’esterno, quindi, anche alla pena di morte possono essere attaccati dei significati che non sono quelli che i legislatori vorrebbero, perdendo così di forza deterrente.

Da un paio d’anni lavoro in una comunità per minori. Uno dei temi che capita di toccare con i ragazzi è quello della conseguenza delle cose, delle conseguenze delle azioni; in particolare per quanto riguarda le risse o le aggressioni.

In genere, il discorso proposto è che sono cose che capitano, che non c’è niente di male e che, se non vuoi farti mettere i piedi in testa, per forza di cose devi parteciparvi e far vedere che sei uno che sa muoversi in quel contesto. In questo modo, infatti, si acquisisce il rispetto.

Quello che mi colpisce sempre in questi discorsi è proprio la linea retta, unica possibile, che unisce i punti toccati: rissa-pugno-rispetto. Una linearità indiscutibile, verrebbe da pensare.

A questo punto, di fronte a questi discorsi, mi si aprono due strade per poter discutere e non adeguarmi ai vincoli che mi vengono posti.

Da un lato, potrei dire che, per una rissa, si può finire in carcere. Se, per ipotesi, per una rissa venisse istituita una pena di dieci anni di carcere potrei controbattere: ma lo sai che rischi dieci anni di carcere? Potrei dire così, ma non avrebbe nessun effetto, perché la risposta sarebbe sicuramente che questa cosa non li riguarda, oppure, che se dovesse succedere non ci sarebbe nessun problema, usando quindi anche il carcere, il rischio del carcere, come dimostrazione del proprio essere sprezzante.

Al contrario, senza usare la minaccia della gabbia, ciò che posso fare per intervenire nei “discorsi del rispetto”, è partire dalla storia che mi viene raccontata e provare ad ampliare il ventaglio di conseguenze, provare a rompere la linearità rissa-pugno-rispetto. Un esempio potrebbe essere quello di dire che in una rissa, ad un certo punto, potrebbe spuntare anche un coltello, perché no, e che la situazione potrebbe degenerare.

Magari, con il coltello in mano, che hai portato solo per spaventare, mica per usarlo, potrei dire, ti capita di ferire uno che si era avvicinato troppo per darti un pugno, o magari ti capita di ferire un tuo amico che ti si stava avvicinando proprio per toglierti quel coltello e per dirti che se devi fare, fai a mani nude. E qui l’orizzonte di conseguenze inizia ad ampliarsi sempre di più: che ferita fai? E se sei tu che vieni ferito? Cosa pensano i tuoi amici se ferisci “uno dei tuoi” perché dimostri nervosismo? E se ammazzi un altro ragazzo? Con che faccia guarderai i genitori di quest’altro al processo? In che modo andrai avanti pensando a quello che hai fatto?

Chiaramente, queste sono solo alcune delle miriadi di alternative che si possono proporre che, sicuramente, lì per lì, vengono rifiutate, ma che, comunque, diventano possibilità che prima non erano nemmeno lontanamente contemplate. L’azione viene riportata, come è giusto che sia, non solo su un piano di legalità, ma, piuttosto, sul piano relazionale, sul piano umano, sul piano della propria vita quotidiana, generando quindi una quantità di scenari possibili che solo le interazioni fra persone sanno offrire.

Ciò che può maggiormente aiutare per intervenire sui reati, quindi, non è tanto entrare nella simmetria reato-pena, perché questo è un aspetto che già fa parte della logica di chi commette i reati stessi. Piuttosto, è importante riuscire a immettere una nuova logica, immettere dei nuovi elementi che vadano oltre gli orizzonti – o l’orizzonte – già conosciuti, già presi in considerazione. Il modo che vedo migliore per modificare questi comportamenti, quindi, è quello di ampliare il panorama nel quale vengono anticipate le conseguenze delle proprie azioni, per farlo diventare un panorama sempre più di tipo relazionale, dove si è umanamente responsabili verso se stessi e verso gli altri.

 

 

Prospettiva: Lavoro

 

Storia del marchio FUMNE

La creatività femminile che resiste,nonostante la galera

 

intervista a cura di Paola Marchetti

 

Un laboratorio nel carcere di Torino che recupera materiali di scarto (stoffe, borse, abiti, accessori,

bijoux) e li rielabora con straordinaria fantasia

 

“Fumne” è la parola dialettale piemontese che significa donna, ed è il nome del marchio che Monica Gallo e Sara Battaglino dell’associazione LaCasadiPinocchio onlus di Torino, insieme alle detenute che lavorano nel suo laboratorio, ha scelto per questa attività, che viene svolta all’interno della Casa circondariale. Un nome che non ricordi il carcere e le sbarre, come ci ha spiegato Monica, per un’attività strettamente legata alla creatività femminile. Oggetti unici, accessori femminili, creatività e artigianato per strappare le donne detenute all’abbrutimento che la detenzione porta con sé, perché la loro femminilità non finisca persa tra le celle e i corridoi.

 

Ci racconta quando e perché avete aperto l’attività?

L’attività è stata aperta tre anni fa da me come attività di volontariato. Io mi sono occupata per quindici anni di laboratori didattici con i bambini, poi ho sentito che quel ciclo era in qualche modo esaurito. Ho fatto quindi una richiesta alla direzione del carcere per capire se c’era la possibilità di intraprendere un’attività sotto forma di volontariato, visto che in carcere soldi per queste cose purtroppo non ne hanno, anche se penso che i primi a esser dispiaciuti di non poter sostenere ad un minimo livello economico queste iniziative, siano proprio i direttori delle carceri. Dopo un’infinita serie di colloqui con la responsabile dell’area trattamentale, Dott.ssa Anna Greco e l’educatrice professionale Dott.ssa Maria Franchitti con cui si è deciso di lavorare sul recupero della femminilità della donna detenuta, ho iniziato l’attività. Infatti il tema è molto preciso ed il filone è stato quello e continua ad essere quello.

La donna detenuta, se ha una pena piuttosto lunga, tende ad imbruttirsi un poco: sta sempre in cella, non fa più uso né di borse, né di scialli, né di collane, né di tutti quegli accessori che solitamente una donna, poco o tanto, mette. Quindi l’attività è iniziata con un gruppo di detenute, circa otto, del “repartino” dove stanno le “protette”, ed è andata avanti cinque/sei mesi. Loro si sono entusiasmate tantissimo a questa iniziativa tant’è che si portavano anche il lavoro in cella. Tutto questo entusiasmo ha fatto sì che le detenute comuni si sentissero un po’ messe da parte. Allora abbiamo cercato di organizzare un gruppo per le detenute comuni, facendo lavorare i due gruppi a giorni alterni. Ma è risultato difficile perché in questa attività c’è bisogno che quando parte il gruppo parta tutto insieme. Allora abbiamo cercato di riunire queste due realtà, abbiamo fatto un gruppo unico dopo aver fatto una riunione con loro e aver appurato che non c’era nessuna di queste donne che non avesse desiderio di stare a contatto anche con le altre. Quindi è iniziata questa “convivenza” e adesso il gruppo è molto bello.

Ci sono 12 detenute in un laboratorio al pian terreno (ci siamo trasferiti nel frattempo) della Casa circondariale “Lorusso e Cutugno”, e produciamo quelli che sono gli accessori femminili: dalle spille alle collane, dalle borse agli scialli. Abbiamo fatto anche qualche abito, privilegiando quella che è la manualità e l’artigianalità che queste donne hanno. Prevalentemente, quindi, lavoriamo ai ferri, all’uncinetto, lavoriamo con tecniche manuali – ci siamo inventate un telaio fatto con il polistirolo – recuperiamo quelle che erano le tradizioni che una volta ci rimandavano le nonne, che a un certo punto noi italiane abbiamo perso. Stranamente quasi tutte queste donne detenute posseggono questa capacità, probabilmente perché le loro origini socialmente un pochino più “sfortunate”, hanno fatto sì che non abbiano perso queste capacità. Per esempio, quasi tutte sanno rammendare. Le zingare poi sono molto brave.

 

È lei che fa la formazione?

Diciamo che quasi sono loro che fanno la formazione a me! A parte gli scherzi, io non ho mai fatto un lavoro di formazione, ho fatto un lavoro sulla creatività pura. Infatti ho sempre portato moltissimo materiale di mille tipi diversi. Ma devo spiegare l’evoluzione del progetto. A un certo punto, da volontaria, non riuscivo più a gestire questa cosa, per cui ho messo insieme un gruppo di persone e abbiamo creato l’associazione che ci consentiva anche di partecipare ai pochissimi bandi – tra l’altro ne abbiamo chiuso uno oggi che speriamo vada bene, quello della Vodafone “Donne e lavoro” – in modo da ottenere finanziamenti. Alla prima mostra-mercato i prodotti hanno avuto subito un grande successo, proprio perché lasciamo alle donne esprimere tutta la loro creatività.

 

Siccome mi ha parlato al plurale, significa che c’è qualcuno che collabora con lei anche in laboratorio…

Sì, la mia collega Sara Battaglino, che è stata un sostegno utile e indispensabile per il progredire dell’attività, altrimenti da sola non sarebbe stato possibile. Quindi questa linea di prodotti a un certo punto aveva bisogno di un nome: abbiamo scelto il nome “Fumnè”, che in dialetto piemontese significa donne, scelta dettata anche dalla volontà di abbandonare appositamente questi nomi e loghi che ricordano le sbarre e il carcere.

 

La prima mostra mercato dove l’avete fatta?

In via dei Mille, che è una via centrale di Torino, in uno spazio del quale usufruiamo ancora oggi per le nostre mostre mercato e che si chiama “Spazio EVENTA”. Questo spazio viene dato gratuitamente agli artisti, in cambio di una donazione di una o due opere. Io e la mia collega abbiamo fondato l’associazione, poco tempo dopo abbiamo ideato questo marchio e abbiamo cercato di allargare il nostro settore-vendita, che è ciò che ci consente di sostenere le donne anche economicamente, perché stanno facendo un grande lavoro. Questo percorso, ad un certo punto, si stava interrompendo per mancanza di fondi - il materiale da reperire, le macchine da cucire che non avevamo, anzi, ci mancava proprio tutto – ma grazie al Direttore, Pietro Buffa una persona che considero “illuminata”, e che ha capito che noi eravamo in estreme difficoltà economiche, siamo riuscite ad avere un contributo dalla Compagnia di San Paolo di Torino, che ci ha permesso di acquistare il materiale, le attrezzature e una base fissa da utilizzare per retribuire le donne: che vendiamo o non vendiamo, noi siamo coperti.

 

Quindi avete messo su un laboratorio vero e proprio?

Si, abbiamo un laboratorio vero e proprio. Tra l’altro, adesso, con il consenso e l’appoggio del direttore, stiamo ristrutturando ulteriormente lo spazio dove c’erano le vecchie cucine, e dove c’era già stato anche un altro laboratorio, perché abbiamo la speranza, e penso che ci riusciremo in qualche maniera, di avere qualche sostegno per aprirci ad un più grande progetto.

I prodotti della prima e della seconda mostra mercato sono piaciuti ed attualmente sono venduti, alcuni nei bookshop dei musei di Torino, ed altri nel museo “Novecento” di Milano. Altri ancora poi in due negozi tra i più carini e ricercati di Torino, come “Bertolini Borse” che è un negozio del centro, che hanno dei corner dedicati a noi. Poi, con il supporto del sito del Ministero della Giustizia, che ci è stato di grandissimo aiuto, soprattutto nei giorni successivi all’intervista al Ministro, abbiamo avuto un picco di mail, con un inizio di vendita on-line, e questo è interessante.

 

Quindi ci sono delle realtà della società civile a Torino, nel senso di negozi di un certo spessore, che vi danno uno spazio. Questo significa che c’è una buona sensibilità nella cittadinanza o che i prodotti sono così belli, che non importa da dove vengono?

Diciamo tutte e due le cose insieme, perché quando andiamo a presentare l’attività ci dicono che si può vedere cosa si può fare, poi quando vedono i prodotti accettano, anche perché i prodotti sono fatti a mano, e quindi non c’è un pezzo uguale all’altro. La nostra produzione è davvero particolare, e noi operiamo per non perdere questa caratteristica, quindi escludiamo una produzione a catena.

 

Anche in carcere si può cadere nella trappola della produzione “industriale”?

Si, infatti io vedo che quando siamo tutte insieme intorno al tavolo di laboratorio e con tutti i materiali, e iniziamo a fare, c’è sempre una grande energia che verrebbe a mancare nel caso di una produzione più, diciamo così, industriale. Io ne ho parlato molto con le donne del laboratorio, che mi hanno detto chiaramente che se dovessimo cambiare tipo di produzione non verrebbero più perché a loro piace produrre questo. Del resto anche nella moda italiana ho notato che nell’ultimo periodo c’è un ritorno non da poco all’artigianato. Missoni ha fatto dei vestiti all’uncinetto ai quali noi ci siamo ispirati, che si possono vedere sul sito del Ministero della Giustizia, e che sono veramente particolari. Se ne fa uno o al massimo due, altrimenti andrebbe proprio a morire la filosofia della nostra produzione. Su questo punto io e Sara siamo ferme .

 

Gli spazi che avete in questo momento vi bastano o pensate di allargarli?

Stiamo cercando degli spazi per un progetto che abbiamo in mente e che ci farebbe ottenere ancora qualche soldino qua e là. In Italia non sono tantissimi i progetti per aprire il carcere verso l’esterno, per far sì che le donne detenute diventino un ponte tra il dentro e il fuori. Poiché le donne detenute hanno queste capacità e manualità che noi “donne libere” non abbiamo più, e poiché però tante “donne libere” quando vedono le nostre cose dicono che gli piacerebbe saperle fare, allora noi organizzeremo dei corsi dentro al carcere dove le detenute diventeranno docenti. Nel fine settimana ci sarà questa possibilità di venire e fare diversi laboratori, con le detenute come insegnanti. Credo sia molto importante per la loro dignità.

 

Così le detenute si sentono di avere qualcosa da dare. Quante sono le donne impiegate?

Dalle undici alle quindici, al momento dodici. Entrano in laboratorio alle 9.30 e escono alle 11.30 così hanno un pasto caldo. Ritornano alle 13.30 ed escono alle 16.00. quindi fanno quattro ore e mezza in laboratorio.

 

Le retribuzioni sono date in borsa lavoro?

In gettoni di presenza, senza contratto. Chi lavora prende un gettone base più una percentuale in base alle vendite. Noi integriamo sempre con altri progetti, come quello dello scorso anno “Arte seduta” che ha portato alle donne una buonissima percentuale. Nel vecchio carcere delle “Nuove” di Torino venivano mandate al macero le quarantasette file di sedie cinematografiche del teatro, sedie molto belle perché erano delle sedie di legno unite quattro a quattro. Il dottor Buffa mi ha chiesto se si poteva far niente con queste sedie, allora siamo andati a prenderle e ogni donna ha avuto a disposizione una fila di queste sedie che ha rivisto e rivisitato a suo piacere. Sono quindi andate all’asta al teatro Regio di Torino ed è stato un successo. Ci sono diverse fotografie nel sito del Ministero della Giustizia.

 

Le donne come vengono scelte?

Le donne fanno una “domandina” e viene data la priorità a chi ha la pena più lunga oppure a chi ha seri problemi. Noi abbiamo aiutato donne con problemi psicologici dati dal trauma del carcere. Infatti nel nostro laboratorio ci mandano sempre le persone più problematiche, ma che alla fine riescono a tirar fuori il meglio, e anche questo ci dà grandi soddisfazioni. L’uso delle mani ha una potenza incredibile: l’uso delle mani vere, quello che parte dall’anima.

 

Quali sono gli elementi di maggiore difficoltà nel lavorare all’interno del carcere?

Sicuramente il tenere a bada i conflitti tra detenute che sicuramente ci sono. È un microambiente dove, secondo me, ci si infantilizza molto perché non c’è contatto con l’esterno. Le donne detenute sono per esempio molto legate al pettegolezzo: è una cosa molto complessa. Diciamo che bisogna sempre essere molto umili perché così si ha più sostegno dalla sorveglianza, che è oberata di lavoro. Bisogna sempre cercare di fare un po’ il moderatore.

 

Avete trovato delle resistenze da parte della Polizia penitenziaria o hanno creduto nel progetto?

Penso che in questi anni nelle carceri di progetti ne passano molti, quindi prima di credere in qualche cosa hanno bisogno di vedere se funziona e ci vuole un po’ di tempo. Ora va tutto bene anche con l’appoggio dell’Ispettore, della Direttrice la dott.ssa Di Rienzo e ovviamente del dott. Buffa

 

Altre difficoltà, altre impressioni?

A volte ci sono piccole difficoltà come piccoli furti all’interno del laboratorio. Quando uno cerca di far capire che certe cose non si fanno, le detenute hanno il timore di essere mandate via dal progetto. Noi non mandiamo via nessuna perché il fine principale è quello di far ritrovar loro un equilibrio, e quest’equilibrio si trova solo uscendo dalla cella e lavorando, perché lo stare in cella a non far niente l’equilibrio lo fa perdere. C’è anche un gran bisogno di formare persone che capiscano le dinamiche del carcere.

 

Dov’è lei è un carcere penale o circondariale?

È circondariale e le donne sono comunque selezionate a seconda della lunghezza della pena, quindi il problema del turn over non è insormontabile, anzi ogni volta che ne esce una facciamo una grande festa e ne inseriamo un’altra.

 

Tra le donne che hanno lavorato con lei e sono uscite, sa di qualcuna che ha trovato lavoro attraverso questo tipo di attività?

Quelle che sono uscite e hanno voluto continuare questa attività stanno continuando con noi attraverso una forma di collaborazione occasionale retribuita diversamente; ci sono già due ragazze e domani ne incontro altre due che sono uscite e che mi hanno contattata sulla pagina di Facebook. Chi ha questo desiderio è da noi appoggiato. Il direttore conosce perfettamente le nostre difficoltà e conosce sicuramente la nostra volontà, la nostra serietà, il nostro impegno. Quello che possiamo fare lo facciamo e su quello che non possiamo fare perché non dipende da noi, stiamo lavorando per renderlo possibile.

 

Altri progetti oltre a quello del ponte fra il territorio e il carcere?

Il profumo. Abbiamo un chimico che è uno dei migliori “nasi” d’Italia, ovvero una creatrice di profumi o essenze profumate, che fa questo corso per preparare i profumi. Presentato l’otto Marzo, giornata internazionale della donna, verrà distribuito nelle migliori profumerie di Torino e si chiamerà Profumo di Fumne.

 

Il laboratorio sarà lo stesso dove fate il resto dei lavori?

Lo faremo in quello grande che stiamo allestendo. È un solo profumo, nato perché tutti quelli che comprano le nostre cose le annusano, dicendo che hanno uno strano odore, che arriva dal carcere. Abbiamo parecchie idee e le idee sono una cosa che non ci manca!

 

A noi come rivista e sito piace dare notizie anche dei progetti positivi, non solo delle cose negative del carcere.

Ci terrei ad avere la rivista dove pubblicherete l’articolo su di noi, perché appendiamo in laboratorio tutti gli articoli che parlano della nostra attività. Le donne ci tengono tantissimo. È di una difficoltà estrema il far capir loro quello che succede fuori con le cose che producono.

Le detenute chiedono sempre se le loro cose sono vendute, se piacciono, dove sono state vendute. È un altro ponte verso la realtà.

 

 

Prospettiva: Lavoro

 

Quintali di miele per rendere meno amara la galera

A Sant’Angelo dei Lombardi, un carcere impegnato in una ricca produzione di miele e di suoi derivati

 

intervista a cura di Paola Marchetti

 

Massimiliano Forgione è il direttore della Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi (Avellino) dal 2007. L’abbiamo intervistato sull’attività di produzione di miele e suoi derivati che l’istituto ha avviato da anni. Abbiamo trovato un direttore pieno di energie e anche di entusiasmo.

 

Ci spiega che cosa producete? Solo il miele o anche prodotti derivati da esso?

Prima di decidere cosa produrre abbiamo fatto diverse indagini di mercato: la produzione di miele negli ultimi tre anni è aumentata notevolmente e quindi rischiavamo di avere un’abbondante produzione a fronte di un mercato locale limitato come ambito di commercializzazione. Abbiamo quindi pensato di trasformare il miele anche in altri prodotti che fossero maggiormente “appetibili” da un punto di vista commerciale. Abbiamo dunque letteralmente “creato” vari tipi di shampoo e prodotti di apicosmesi, avvalendoci della collaborazione di ditte esterne specializzate in tale trasformazione. Dal 2007 la produzione si è notevolmente accresciuta grazie anche a specifici e determinati accorgimenti: sconfitta infatti la vicenda della moria delle api ed eliminati i diserbanti, siamo riusciti ad ottenere delle produzioni notevoli di miele che si aggirano intorno agli 8-9 quintali all’anno, di cui oltre la metà di miele di sulla, oggi quasi introvabile, e di miele millefiori. Abbiamo sperimentalmente prodotto anche piccole quantità di pappa reale che, però, ha il problema della conservazione. Abbiamo dunque elaborato un sistema che ci permette di produrre del miele di sulla con l’aggiunta di circa il 10% di pappa reale, creando un prodotto energetico ideale per bambini, anziani e persone in stato di denutrizione ed anemia. In questo modo si riesce a mantenere per lungo tempo la pappa reale all’interno del miele, che è un conservante naturale, ottenendo anche una facile commercializzazione. Oltre a questo, a scadenze stabilite, cambiamo la cera per aiutare le api nei periodi più difficili, autunno e inverno, e la cera che recuperiamo la riutilizziamo per fare degli oggetti come candele, ciondoli e altro, che sono andati a ruba. È un’attività non troppo impegnativa che ci permette di allargare la nostra gamma di prodotti.

 

Nel sito del Ministero della Giustizia sono stati pubblicati foto e dati sui vostri prodotti: questa pubblicità è servita per aumentare il vostro giro d’affari, per farvi conoscere?

Certo, se si può parlare di giro d’affari. Sicuramente molte persone che non avevano la possibilità di conoscere tutte le nostre attività, tramite la pubblicazione nel sito del Ministero della Giustizia, sono venute a conoscenza di quello che produciamo e ci hanno contattato, sia per chiedere semplici informazioni che per fare ordinazioni.

 

Questa è un’attività che voi curate come istituzione. C’è qualche cooperativa o associazione che collabora con voi?

Questa attività connessa alla produzione di miele è organizzata con dei finanziamenti europei che vengono gestiti poi dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e dalla FAI - Federazione apicoltori italiani. C’è un progetto, con tecnici apistici accreditati FAI che insegnano ad un nutrito gruppo di detenuti le operazioni principali: è un vero e proprio corso di formazione, dove si insegna sia la parte teorica, sia come portare praticamente a compimento la produzione di miele e dei suoi derivati. Quindi, c’è una parte propedeutica e teorica (in cui i detenuti vedono alcuni dvd e possono accedere a libri specializzati in materia), e una parte pratica in cui visitano il luogo dove ci sono gli alveari, assistono alle operazioni principali, come quelle di smielatura o della cura delle api nel periodo invernale. Di fatto, questa è un’attività che viene gestita dalla Casa di reclusione.

 

Come fate per la commercializzazione dei prodotti, dato che l’istituzione non può vendere direttamente?

Fatta la produzione chiediamo all’ente di assistenza dell’Amministrazione l’autorizzazione a vendere il prodotto nel circuito penitenziario. I soldi, di fatto, tornano allo Stato perché vengono versati in un capitolo dove confluiscono i proventi che la pubblica amministrazione riesce ad ottenere, abbattendo in tal modo il debito pubblico.

Quindi è l’Amministrazione penitenziaria che paga i lavoratori. Con che tipo di contratto vengono assunti, e quanti sono impegnati in queste attività?

Il contratto è il medesimo che si usa per tutti i lavoratori. Orientativamente posso dire che nell’ambito del corso di apicoltura annualmente abbiamo tra i dieci e i quindici detenuti impiegati; poi, con quelli che si alternano, diciamo che raggiungiamo i 20 detenuti circa. Cerchiamo di individuare quelli che rimangono nell’istituto più a lungo e sono intenzionati a seguire un percorso rieducativo “personalizzato”. Però poi siamo costretti a sopperire con delle sostituzioni quando qualcuno viene scarcerato o trasferito.

 

La commercializzazione principale avviene all’interno del circuito carcerario, ma per quanto riguarda la rete di vendita esterna, avete qualche appoggio?

Noi abbiamo cominciato con una produzione minima, quindi non potevamo immetterci sul mercato per vendere minime quantità di miele. Adesso che abbiamo aumentato la produzione, anche per evitare delle giacenze che creerebbero problemi di stoccaggio, abbiamo diversi contatti con cooperative intenzionate a sostenere l’iniziativa e pubblicizzarla. In cambio, ovviamente, devono garantire i livelli occupazionali attuali.

 

Forse si dovrebbe guardare ad altre zone d’Italia dove c’è più richiesta di questi prodotti

Tramite la cooperativa “Il Germoglio”, già attiva all’interno, stiamo appunto affrontando un discorso del genere, che cioè una quota del nostro prodotto sia da destinare ad un mercato più ampio. Ed i primi segnali già ci sono. In occasione del Natale 2010, la Conferenza Episcopale Italiana, per il tramite di una cooperativa calabrese legata al progetto sulla legalità, chiamato “Policoro”, è stata omaggiata del nostro miele.

 

E ai GAS, gruppi di acquisto solidale, che cercano produzioni che siano biologiche, avete pensato?

Noi abbiamo in corso contatti con molte organizzazioni, ci stiamo muovendo per aprire questo tipo di sbocco che porti ad una maggiore occupazione lavorativa della popolazione detenuta.

 

Avete dei grandi spazi esterni per queste attività?

Certo: abbiamo volutamente scelto di allocare gli alveari al di fuori della cinta muraria, in un sito maggiormente adatto alle attività delle api, seguendo ovviamente i consigli dei tecnici.

 

C’è qualcuno dell’istituzione che segue tutte queste attività o avete chiamato qualcuno dall’esterno?

Sul progetto dell’apicoltura la FAI ci garantisce la presenza di due tecnici apistici, che sono quindi specializzati proprio nella produzione.

Per quanto riguarda la serie di iniziative e di idee, c’è un gruppo di collaboratori ai quali chiedo continuamente di pensare a proposte concrete e possibili. Se tra queste ce ne sono di interessanti cerchiamo di realizzarle. In qualche occasione abbiamo coinvolto anche alcuni detenuti chiedendo loro: “Cosa volete fare? Cosa volete che produca questo istituto?”, perché produrre il miele, una volta imparate le cose principali, non è un lavoro molto difficile, per cui si chiede loro di proporre delle idee per letteralmente “inventare” poche cose, carine e commerciabili.

All’inizio avevamo creato una linea di prodotti relativi alla biocosmesi, poi è nata l’idea della pappa reale, di seguito abbiamo istituito una commissione che si occupa dell’inserimento agricolo in genere e ogni tanto, dalle riunioni, viene fuori qualche proposta creativa ed originale che cerchiamo di mettere in atto.

 

Da quanto abbiamo capito lei è un direttore che crede molto nella possibilità di creare lavoro all’interno degli istituti carcerari?

Il nostro lavoro si occupa sicuramente di sicurezza, ma non possiamo mettere in secondo piano l’aspetto del lavoro e della rieducazione. Se la legge afferma come necessità inderogabile che dobbiamo offrire delle opportunità di riscatto ai detenuti, partendo proprio da quelle lavorative, non vedo perché non dobbiamo farlo. Le dico la verità: per noi è lavoro in più… Potremmo limitarci a fare meno, molto meno, ma se abbiamo deciso di fare questo lavoro è nostro dovere perseguire ciò che la legge prevede, e dobbiamo farlo al meglio.

 

Oltre allo spazio esterno per gli alveari, che altri spazi occupate?

Accanto ai locali dedicati alla fungaia (dove produciamo ottimi pleurotus e cardoncelle), abbiamo creato un laboratorio dedicato interamente a tale produzione. Disponiamo di un’intera ala dell’istituto che era già predisposta per le lavorazioni, sia di tipo agricolo che industriale. E dunque, in attesa di altri progetti che già abbiamo in cantiere, accanto alla tipografia (di recente istituzione), alla cantina (ove lavoriamo quattro varietà di vino bianco), ai laboratori artigianali (penso a quello di ristrutturazione piuttosto che a quello di riparazione elettronica), abbiamo dunque predisposto un laboratorio per la lavorazione dei prodotti di apicoltura, per il loro confezionamento, per la etichettatura.

 

Voi producete anche vino?

Nel 2009 c’è stata l’ultima nostra produzione… Parlo volutamente di ultima produzione perché era l’ultima di quelle direttamente gestite da noi. Dal 2010, una cooperativa sociale ha preso in gestione il nostro vigneto, assumendo prima 10 detenuti per quell’anno e, dal febbraio del 2011, una volta a regime, assumendone quattro a tempo indeterminato. La produzione di vino del 2010 è totalmente in gestione a questa cooperativa che provvederà anche alla sua commercializzazione. Un loro agronomo segue l’intero ciclo lavorativo, fino all’imbottigliamento. Il nome del vino è Frescodigalera, nome scelto dai detenuti… Le stesse etichette sono state disegnate da un detenuto iscritto a “Belle Arti”. Ma la produzione agricola non si limita al vigneto: stiamo sviluppando dal 2005 anche un noccioleto micronizzato, dove produrremo tartufi; abbiamo una piantagione di asparagi ed una di fragole.

 

Di media quante ore fanno i detenuti nelle attività?

Per quanto riguarda l’inserimento agricolo, si parla di 4 ore giornaliere di media, mentre per l’apicoltura dipende dal periodo, poiché d’inverno le api sostano negli alveari, e quindi giornalmente viene impiegato un solo detenuto per controllare che non ci siano dei problemi. Per quanto riguarda invece le operazioni dei periodi di attività più intensa, si parla di tre o quattro ore giornaliere.

 

E come vengono scelti i detenuti da inserire nelle attività? in base a quale criterio? Ci si basa anche sul residuo pena che hanno da scontare?

No, all’interno di questa Casa di Reclusione è attiva la commissione lavoro costituita ex articolo 20 dell’Ordinamento penitenziario.

Quindi, al di là dell’assegnazione ai lavori ordinari di mantenimento della struttura, in Commissione (composta da educatori, polizia penitenziaria, volontari, psicologi) si parla anche di chi deve essere assegnato ai diversi corsi o di chi può essere assunto dalla cooperativa o dall’Amministrazione penitenziaria. Se ne parla in equipe, dove cerchiamo di valutare non solo in base alle esigenze che saltano subito all’occhio, come la posizione giuridica e quindi il tempo che il detenuto deve restare nostro ospite. Qui c’è un’attenzione particolare alla persona, anche se detenuta, vi è un approccio multidisciplinare, che considera anche altri fattori, dove l’apporto della polizia penitenziaria è davvero insostituibile. Infatti, i responsabili delle singole attività (che sono degli agenti) per primi esprimono il loro motivato parere in ordine alla possibilità di ammettere al lavoro i detenuti, interagendo non solo con le professionalità esperte (penso agli educatori, agli psicologi ed ai volontari) ma anche con i colleghi che lavorano 24 ore al giorno a contatto con i detenuti, in sezione. Infatti, questo personale per primo si esprime circa il comportamento dei ristretti, ed è nostro dovere tenere ben di conto tale suggerimento. La Commissione dunque opera in perfetta sintonia tra i suoi componenti, perché all’interno di essa agiscono peraltro tutti i responsabili di area, tanto da avere un quadro completo della popolazione detenuta. Cerchiamo di far lavorare chi ha più volontà, più capacità, più bisogno… Valutiamo anche i problemi personali e familiari nonché la situazione che il detenuto ha all’esterno. Diciamo che cerchiamo di avere una visione globale prima di inserire il singolo detenuto al lavoro.

 

Qualche detenuto si è poi reinserito nella società esterna attraverso questo lavoro, oppure no?

La maggior parte dei detenuti che ospitiamo proviene dall’hinterland napoletano e casertano e quindi, all’atto della scarcerazione, tornano nel territorio da dove provengono. Per questo, onestamente, non si ha la percezione chiara di come impiegheranno le professionalità acquisite all’interno della struttura carceraria. Tuttavia, sono stato avvicinato da qualche detenuto che sta pensando seriamente di proseguire con una attività di questo tipo fuori, perché ha visto che è possibile farlo senza un investimento particolarmente oneroso.

 

Avete in mente di sviluppare altre attività lavorative?

Appronteremo alcune serre, dove produrremo sia fiori che frutti, magari da utilizzare anche all’interno dell’istituto perché, vista la facile deperibilità, di difficile commercializzazione. Nel 2010 abbiamo piantato un centinaio di piante di ulivo che daranno i loro frutti tra alcuni anni. Abbiamo altresì piantato anche 200 piante da frutto di vari tipi, di quelli che riescono a crescere in zona, visto che siamo a 900 metri di altitudine. Con la nostra fungaia abbiamo venduto circa quattro quintali di funghi. Disponiamo anche di una piantagione di frutti di bosco, che cominceranno a dare frutti il prossimo anno.

 

Come si fa ad acquistare il vostro miele?

Tramite e-mail (cr.santangelodeilombardi@giustizia.it) si indica la quantità e la pezzatura che volete. Le spese di spedizione sono a carico dell’acquirente.

 

State allargando notevolmente le possibilità di impiego per i detenuti!

La creazione ex novo di attività industriali (come la tipografia) sta a significare l’attenzione che gli operatori di questo Istituto pongono al tema del lavoro, visto quale principale elemento del trattamento risocializzante e rieducativo. Anche se volessi parlare in maniera egoistica, sulla base della mia esperienza personale, posso affermare senza ombra di smentite che il detenuto impegnato in attività lavorative, scolastiche, di formazione, ricreative, sportive crea molti meno problemi di quello dedito all’ozio. In questa Casa di reclusione non abbiamo inventato nulla: applichiamo semplicemente la legge dello Stato che parla di pena da scontare (e tale deve essere, in senso afflittivo) unita alla ricerca della rieducazione del condannato. Pensiamo, in tal modo, di coniugare la doverosa sicurezza e tutela sociale dei cittadini all’altrettanto doverosa attenzione che deve essere riservata alle persone che vivono il disagio della detenzione.

 

 

Informazione & Controinformazione

 

Fosse per Travaglio non sarei più qui…

 

di Marco Libietti

 

Sostiene Travaglio che Cuffaro, su 7 anni di condanna definitiva, in concreto ne espierà, dietro le sbarre, appena 2 e 3 mesi.

 

Leggendo l’articolo di Travaglio su Cuffaro mi sono chiesto come mai io sia ancora qui… e mi sono detto “Forse dovrei parlare con il magistrato di Sorveglianza e con i miei avvocati e far loro presente che si stanno sbagliando… io non dovrei essere qui… lo spiega molto bene Travaglio!!”

Poi però mi sono domandato “Va bè, prima di farlo controlla bene… che, forse, Travaglio si sia sbagliato?... lui così ligio e scrupoloso nel dare le notizie? Così bravo nel ruolo di giornalista-detective al quale nulla (o poco) sfugge?...”. Così mi sono fatto i conti, normativa alla mano (quella ufficiale e non quella da gossip) e, meraviglia delle meraviglie, mi sono accorto che Cuffaro per bene che gli vada dovrà farsi 3 anni e 3 mesi dentro… Travaglio gli ha fatto uno sconto personale di pena di un annetto tondo tondo!

Ora faccio il conteggio passo passo proprio sulla mia pena che, per inciso, è di 7 anni 1 mese e 10 giorni per reati finanziari e che non comporta alcunché di ulteriormente restrittivo e mi concede di “attingere” , potenzialmente, a tutti i benefici di legge nei tempi corretti… e sono in carcere da 3 anni e 2 mesi!

Bene… ora partiamo nel conteggio… come ben sa Travaglio per ogni anno di detenzione esiste la possibilità di ottenere uno sconto di 3 mesi per buona condotta… questo significa che alla fine di ogni anno FATTO (= scontato in carcere) di detenzione si può chiedere (e non ottenere per forza) questo sconto… questa è la base su cui si fanno i conteggi, il che sta a significare che una condanna di 7 anni comporta che dopo il primo anno di detenzione, ottenendo i 3 mesi di sconto per buona condotta, si scende a 6 anni e 9 mesi… dopo il secondo anno, richiedendo altri 3 mesi (sempre per buona condotta) la pena complessiva scende a 6 anni e 6 mesi…

A questo punto, secondo Travaglio, Cuffaro si fa altri 3 mesetti e poi se ne va in affidamento… faccio i conti e mi dico… ma come? Lui è forse più bello di me? E (nonostante abbia “accreditato” un reato ben diverso e ben più pesante) va in affidamento con ancora 4 anni e 3 mesi da scontare?

No caro lettore… Cuffaro dovrà, per forza, farsi, esattamente come il sottoscritto, almeno un altro anno di detenzione, chiedere un terzo sconto pena per buona condotta, vedere la sua pena complessiva scendere a 6 anni e 3 mesi e dopo essersi sorbito 3 anni e altri 3 mesi di detenzione potrà chiedere (non pretendere ed ottenere automaticamente) un regime di DETENZIONE alternativo che può essere un affidamento, e dico “può”, non che deve esserlo per diritto divino quello e basta.

Inoltre si dovrebbe far presente che questo sarebbe il caso “migliore” e, non conoscendo nei dettagli la situazione giuridica del Sig. Cuffaro, non posso fare altre ipotesi che, peraltro, potrebbero essere solo PEGGIORATIVE per la sua persona.

A questo va aggiunto il fatto, per nulla irrilevante, che un conto è quanto scritto sulla normativa e un conto sono le tempistiche per ottenere i benefici e le “volontà” di un magistrato che, sia chiaro, è libero di decidere se e cosa concedere e non obbligato a farlo.

Detto e spiegato questo vorrei chiedere a Travaglio, sempre così preciso e solerte nelle sue dissertazioni (che peraltro, personalmente, mi divertono e piacciono in più di un caso), se questa volta e in genere quando fa questo tipo di conti (non è questa la prima volta che “regala” anni di detenzione in meno con i suoi conteggi e sommatorie varie… vedi la storiella della legge “svuota carceri”… bell’esempio di bufala…) non si sia lasciato prendere dalla foga e, giusto per dare contro aprioristicamente, non abbia visto che stava propinando una ciofeca ai suoi lettori e ascoltatori.

Lei, gentile dottor Travaglio, proprio per il ruolo che ricopre e l’immagine e impatto mediatico che ha (e si è guadagnato) dovrebbe dare informazioni certe e corrette e controllarle prima di farle uscire mentre, in questi casi, “voglio” pensare che sia stato semplicemente superficiale… se fosse altro sarebbe, mi spiace dirglielo, assimilabile a chi di solito lei bastona con tanta solerzia ed efficacia.

Cuffaro, vorrei “rassicurare” lei e chi legge, non uscirà dopo “solo” 2 anni e 3 mesi (a meno che non gli cambino la pena che però è definitiva o arrivi Babbo Natale con un’amnistia o altro) come non esco io e non escono tutti quelli che diventano condannati in via definitiva prima dei termini VERI dettati dalla legge e non quelli presunti e costruiti per dare fiato all’effetto mediatico della notizia.

Le chiedo pertanto, a nome di tutti quelli che la pena la stanno scontando nonché per rispetto e correttezza nei confronti di chi la legge e ascolta, di rettificare le sue affermazioni quando non sono corrette e in linea con quanto accade poi nella realtà. Ritengo che, così come si deve elogiare ed apprezzare ciò che di buono e valido esce da chi fa informazione, allo stesso modo si debba intervenire controbattendo e correggendo ciò che di errato viene diffuso perché la forza di un messaggio è relativa sì al suo contenuto, ma non di meno alla fonte da cui proviene e la sua è di notevole impatto mediatico sulla società. Ed è per questo che ho ritenuto opportuno scriverle questa lettera aperta in forma “leggera” alla quale mi piacerebbe che lei avesse la bontà di rispondere e pure controbattere se lo riterrà opportuno… io intanto sono qui!

 

 

Anche un omicida merita di uscire dal carcere un giorno

Io so però che, nonostante tutto, se chiedessi l’opinione di chi sta là fuori, la maggioranza non vorrebbe che io uscissi dal carcere. A parte forse chi mi conosce per la persona che sono diventato adesso

 

di Altin Demiri

Dedico tempo ed energie ormai da molti anni al progetto “Carcere e Scuola” e penso che l’aspetto più importante di questa attività sia quello di mettere a confronto detenuti e studenti attraverso discussioni e dibattiti molto interessanti. Poiché faccio parte del gruppo di detenuti coinvolto nell’iniziativa, anche oggi ho partecipato a un incontro con alcune classi e, tra tutte le domande che i ragazzi ci hanno rivolto, alcune mi hanno colpito in modo particolare, e ora vorrei cercare di rispondere.

La prima domanda è “Quando hai vent’anni e sai di avere perso tutto ciò che la vita ti offre e le cose belle della gioventù, come fai ad affrontare tanti anni di carcere con questo pensiero?”.

È una domanda che pure io mi facevo subito dopo il mio arresto. Avevo 20 anni e mi hanno condannato a più degli anni che avevo vissuto fino a quel momento. Mi sono trovato definitivo dopo i tre gradi di giudizio con una condanna di ventisei anni. Forse fra i tanti errori commessi per finire qui, c’è anche il fatto che non immaginavo cosa significasse trascorrere cosi tanto tempo isolato dal resto del mondo.

La domanda infatti mi ha portato indietro nel tempo. All’inizio, quanto sono finito in carcere, pensavo sempre in positivo, ero convinto che in qualche modo sarei uscito perché questo non poteva essere il mio mondo. Anche certi avvocati ti danno delle false speranze e ti fanno credere che in qualche modo ti faranno uscire. E questo soltanto per convincermi a dare somme altissime di denaro.

Così ho fatto il primo grado e mi hanno condannato. E il commento dell’avvocato è stato “Eh... ci hanno condannati...”. No avvocato, hanno condannato me direi. Poi il secondo grado ha confermato la condanna, e intanto sono passati due anni di speranze. Mi è rimasta la Cassazione, il terzo grado di giudizio, che doveva guardare se le procedure del processo erano state rispettate. Conclusione: anche la Cassazione ha confermato e la condanna è diventata definitiva.

In tre anni si è concluso il mio processo insieme alla mia speranza di uscire. La realtà era che ero giovane e non sapevo niente delle leggi, se si aggiunge il fatto di essere straniero, ecco che ho creduto a qualsiasi promessa di libertà.

 

In quell’istante volevo morire

 

Certo sapevo di essere dentro per un reato gravissimo, omicidio in una rissa, ed ero consapevole di ciò che avevo commesso, ma con l’ingenuità di allora avevo pensato che l’avvocato mi avrebbe fatto uscire.

Ricordo che quando mi chiamarono in ufficio matricola per comunicarmi la condanna definitiva e mi chiesero di firmare la comunicazione, mi rifiutai di porre la mia firma sul documento. Ovviamente questo non ha cambiato niente, hanno scritto che mi rifiutavo di firmare e basta: non potevo comunque sottrarmi alla condanna.

In quell’istante volevo morire piuttosto che affrontare una condanna che significava passare quello che consideravo il resto della mia vita in carcere. Mi sentivo un morto non dichiarato, sepolto vivo in carcere. Allora ho deciso di fare lo sciopero della fame e della sete. Ho scritto un’istanza al giudice di competenza dove chiedevo di andare via dall’Italia e tornare in Albania, vivo o morto. Ero deciso e convinto che fosse meglio morire che stare ventisei anni in carcere.

Così ho portato avanti per sessanta giorni uno sciopero della fame, diventando uno straccio. Ero nel carcere di Bologna, e ricordo che ho perso i sensi per diverse volte e mi sono trovato in ospedale, nella camera riservata ai detenuti, con la flebo in vena. Giusto il tempo di riprendermi e di nuovo nell’infermeria del carcere. Ma ero ancora ostinato ad uscire dal carcere, a modo mio. Vivo o morto.

Arrivato a un certo punto, sono venuti a trovarmi il comandante del carcere, il dirigente sanitario e tanti dottori. Hanno cercato a turno di convincermi a smettere, in quanto in questa maniera non potevo ottenere niente altro che rovinarmi la salute e la vita. Il dirigente è stato franco: “Noi non ti possiamo lasciare morire, ogni volta che perdi i sensi, ti inseriamo la flebo e possiamo andare avanti anche per tutta la tua condanna”, mi ha detto. Confesso che questo mi ha fatto ragionare sul fatto che ero giovane, e che a nessuno importava se morivo, a parte ai miei famigliari. Avevano ragione. Quel giorno, di punto in bianco, ho smesso di scioperare. Si è aperta una speranza di cambiamento in me e ho interrotto la mia battaglia d’orgoglio e di non accettazione della realtà. Ho deciso di vivere e di prendermi le mie responsabilità, con la speranza che un giorno, non tanto vicino ma neanche tanto lontano, avrei riavuto indietro la mia libertà.

Da allora ho cercato quotidianamente di trovare l’armonia anche nelle convivenze con gli altri detenuti, e di dare un senso alla carcerazione pensando sempre in positivo, dandomi da fare, attraverso il leggere, lo sport, e soprattutto sono stato fortunato anche ad avere un lavoro. Ho fatto il cuoco, il che non è poco, in quanto il lavoro mi ha reso autonomo per le mie esigenze economiche. Anche lo sport mi ha aiutato tanto. È sempre stato una mia passione, perché sin da giovane mio padre mi aveva iscritto a una palestra di lotta greco-romana, dove mi sono allenato fine all’età di diciassette anni. Qui in carcere, questo tipo di sport non è possibile, ma si può correre nell’area dei passeggi, una corsa circolare in un cubicolo di 16 metri per 16, dove ho fatto tante di quelle corse che se fossi stato libero sarei andato cento volte avanti e indietro di corsa in Albania.

In questo modo mi sono conservata la salute, perché se avessi passato i diciassette anni in branda e riempito di psicofarmaci, come fanno tanti, non so in quali condizioni sarei oggi. Ma l’obiettivo che mi ero posto, spinto dal mio carattere e dall’orgoglio, era ed è di uscire sano fisicamente e mentalmente. La salute per me in carcere è un investimento per il mio futuro.

Se provo a guardare indietro ai diciassette anni passati qui dentro, mi viene male. Non è facile ricordare tutti i Natali e i compleanni passati lontano da casa, la morte di mio padre, i matrimoni di mio fratello e di mia sorella, e tutti i desideri repressi nella solitudine della cella.

Quando sono stato in misura alternativa al lavoro esterno in art.21, ho conosciuto una donna che studiava e in questi giorni si è anche laureata in infermieristica. In una delle sue bellissime lettere mi ha scritto una cosa che mi piace ricordare ora: “...da oggi inizio il tirocinio in Oncologia. Il personale è disponibile, ma a vedere tutti questi tumori ti dico che mi vengono i brividi. Ci sono anche tanti giovani che ti fanno rendere conto di quello che siamo e a che cosa possiamo andare incontro, e che dobbiamo essere felici di quello che abbiamo perché le sfortune nel mondo sono infinite. Scusami che ti scrivo delle cose tristi, ma credo di essere stata fortunata fino ad ora, e vorrei che ti sentissi anche tu fortunato, nonostante il posto in cui ti trovi...”.

Mi hanno fatto riflettere queste parole, perché credo che il carcere sia una specie di ospedale. La mia amica ringrazia la fortuna, perché le conseguenze dei nostri comportamenti ricadono anche sulla salute, e in ogni aspetto della vita.

Adesso che rifletto con me stesso dico che è vero, perché anche dietro parecchie tipologie di reati ci sono scelte che ti trasportano senza che tu ti renda conto di quello a cui puoi andare incontro.

Nel mio caso il carattere e l’orgoglio sono stati alla fine autodistruttivi, come spesso succede allo Scorpione, il mio segno. E qui subentra l’ambiente dove cresci, la mentalità inculcata magari da modelli sbagliati, che mi aveva fatto credere che per apparire un duro bisognava tenere un coltello, a tal punto che farlo era diventata una normalità. Dovevo essere un duro, mai arretrare di un millimetro, se no temevo di essere considerato un debole. Fin quanto un giorno in una rissa il coltello l’ho usato e ho commesso il grave reato di omicidio. Ora mi ritrovo con una condanna di ventisei anni, lontano dal mio Paese e lontano dai famigliari. E ho distrutto così la vita altrui e la mia.

 

Per chi uccide, gli anni di galera sono sempre pochi?

 

In diversi incontri ho sentito che, per il reato di omicidio, la pena non è mai abbastanza. Da persona che ha ucciso vorrei però capire quant’è la pena giusta. È vero, una persona può prendere 15, 20, 30 anni o l’ergastolo, in base alle circostanze e altri elementi giuridici che forse una persona normale non può capire, ma cosa dovrebbe fare poi uno che ha scontato la sua pena?

Io ho preso 26 anni e ne ho fatti fino ad ora 17. Ho avuto degli sconti di pena, che qui si chiama liberazione anticipata, per essermi comportato secondo le regole e in più ci sono stati i tre anni di indulto. Quindi mi rimangono ancora circa tre anni da scontare. Però so che nonostante tutto, se chiedessi l’opinione di chi sta là fuori, la maggioranza non vorrebbe che io uscissi dal carcere. A parte forse chi mi conosce per la persona che sono diventato adesso.

In realtà non saprei come convincere le persone che anche per me è giusto uscire un giorno, e avere un’altra possibilità. Io però posso dire che in ogni reato di omicidio c’è una persona e c’è una storia. Caino non è poi tanto diverso da Abele, spesso è animato dalla stessa sensibilità e appartiene alla stessa specie umana, nonostante un momento, o un periodo di devastante offuscamento di quella sensibilità lo abbia portato, un giorno, a calpestare quei valori nel modo più atroce. Giusto che paghi, ma giusto anche riconoscergli comunque di essere un uomo.

Io non mi sarei mai trovato dalla parte di Caino se il lato razionale del mio carattere non fosse stato oscurato da quel progressivo, ubriacante distacco dalla vita regolare e dalle sue convenzioni. Un uomo che uccide non è più lo stesso agli occhi degli altri, ma non può esserlo più anche nel chiuso della propria coscienza. Io vivo con la consapevolezza di quel che ho fatto che mi pesa ogni giorno addosso, e di cui so che non mi libererò neppure quando avrò scontato per intero la mia pena e tornerò libero fra i liberi. Quando si è dolorosamente consapevoli delle gravità del delitto, credo di poter e anzi dover dire che uscire dalle mura del carcere spaventa, per certi versi ti senti più libero in carcere che fuori, in quanto qui nessuno ti giudica diversamente da quello che sei. Là fuori devi muoverti in punta di piedi per non urtare la sensibilità della gente, e ogni volta in silenzio, e le uniche persone che ti sono vicine sono coloro che ti conoscono e comprendono come uomo e che credono in un tuo cambiamento. Ma il passato spesso ti sta addosso e ti impedisce di vivere il presente.

 

 

Scuola Dentro

 

Difendere la scuola in carcere vuol dire produrre sicurezza

 

Sono stati quasi ottomila nello scorso anno scolastico gli studenti-detenuti, la scuola in carcere è forse una delle poche cose che ancora funzionano, nonostante il sovraffollamento. Ma gli insegnanti dell’ITC Gramsci e due studenti dal Due Palazzi ci scrivono per chiederci di difenderla insieme, questa scuola, che oggi rischia di essere ridotta e svuotata, e invece è importante perché permette alle persone di acquisire gli strumenti culturali per rientrare dignitosamente nella società, alla fine della pena.

 

Preoccupazioni per il futuro della scuola in carcere

 

i docenti dell’ITC “A. Gramsci” sezione carceraria Due Palazzi

 

Tra le tante novità che si prospettano nella scuola italiana, le notizie che circolano sul futuro della scuola in carcere sollevano qualche preoccupazione in noi, docenti dell’Istituto Tecnico Commerciale “A. Gramsci”, che da molti anni ci lavoriamo.

Sembra infatti che sia nelle intenzioni del Ministero assimilare in modo indifferenziato la scuola in carcere a tutta la restante educazione degli adulti. Se questa ipotesi di riforma si concretizzasse, le conseguenze, secondo la nostra più che decennale esperienza, sarebbero molto gravi.

Innanzi tutto il percorso scolastico, fin qui sviluppato nell’arco di cinque anni, verrebbe ridotto a tre soli anni: le classi prima e seconda da svolgere in un unico anno con docenti dei Corsi per Adulti, le classi terza e quarta, analogamente, in un unico anno e solo la quinta in un anno intero.

Questa riduzione del percorso però non tiene conto della natura peculiare degli alunni in carcere i quali, nella maggior parte dei casi, provengono da esperienze scolastiche a dir poco irregolari: molti hanno compiuto la totalità del percorso scolastico in carcere; quelli che viceversa hanno conseguito la licenza media nella vita “di prima”, lo hanno fatto in un periodo molto distante nel tempo (a volte più di vent’anni) e per la vita che hanno fatto, difficilmente hanno mantenuto una qualche dimestichezza coi libri e di certo hanno perduto l’allenamento allo studio, che è fatto di applicazione costante e di una progressiva messa a punto di tecniche di apprendimento.

Ma non è tutto, in carcere a Padova è attivo un Polo universitario: parecchi degli alunni che si sono diplomati in questi ultimi anni si sono iscritti all’università e procedono verso la laurea. Ebbene, in tale ipotesi di riforma, è prevista la possibilità di iscriversi all’università col diploma conseguito? E se anche così fosse, come si può pensare di fornire in soli tre anni una preparazione sufficiente? Temiamo fortemente che non sia così.

Infine, la divisione del percorso tra Corso per Adulti e secondaria superiore avrebbe probabilmente una ulteriore, grave, conseguenza e cioè la progressiva perdita di identità della scuola superiore in carcere.

Ed è invece, questa, una identità da salvaguardare perché costruita da una esperienza più che decennale, che si traduce in memoria storica e quindi in capacità di formare i docenti che per la prima volta affrontano l’esperienza della scuola in carcere, ma che consiste anche in prestigio acquisito nel rapporto con tutte le altre componenti che operano in carcere, con l’Amministrazione carceraria e con gli agenti, gli educatori e gli psicologi, i magistrati di Sorveglianza, i volontari e le cooperative che in carcere lavorano.

L’assunzione quotidiana di responsabilità che la scuola richiede, senza offrire nulla di tangibile e immediato in cambio, costituisce un aspetto importante nel percorso di ciascuno studente-detenuto, una tappa fondamentale in un processo rieducativo che dovrebbe essere lo scopo fondamentale della detenzione.

Non è il diploma che si consegue alla fine del percorso la cosa più importante, come invece avviene nelle tradizionali scuole per adulti, bensì il percorso in sé. Ridurlo sarebbe svilirne la finalità, financo l’utilità, all’interno di quel processo di “rieducazione” che le nostre leggi prevedono per ciascun detenuto.

 

La scuola in carcere è come affacciarsi ad una finestra aperta sul mondo esterno

 

di Antonio Floris

 

La scuola superiore in carcere non riveste solo una funzione di approfondimento della cultura, ma offre un importante spazio di relazione con gli insegnanti che sono sempre disponibili a dialogare su qualsiasi argomento, anche di attualità, e portare così chi è recluso a conoscenza di certe realtà che molto difficilmente potrebbe apprendere da altre fonti. In pratica per i detenuti frequentare la scuola superiore è un po’ come affacciarsi a una finestra aperta sul mondo esterno, il che li fa sentire meno estranei e un po’ partecipi della vita sociale.

Ci sono anche altre motivazioni che spingono dei detenuti adulti a frequentare le scuole superiori e la principale è l’uso del tempo, che in carcere si può impiegare in maniera costruttiva, ma anche sprecare senza costruire niente di utile. In taluni casi quando si è costretti all’ozio forzato, perché non c’è lavoro, né scuola, la persona finisce che si abbrutisce, perché lo stare nell’ozio impedisce all’individuo di uscire dal circolo vizioso e criminogeno nel quale si trova.

Io mi trovo in carcere a scontare una lunga condanna e chi è nelle mie condizioni non può vivere solo facendo cella – passeggio, perché in questo modo rischia di invecchiare senza migliorarsi mai e senza concludere niente di concreto.

Una volta arrivato a Padova ho pensato di iscrivermi a Ragioneria. in quanto due anni della stessa scuola li avevo già fatti al carcere di Secondigliano a Napoli. La cosa che più mi ha convinto è stata la presenza sia della scuola superiore che dell’università. Questo è un particolare importante perché permette a uno che è fresco di diploma di continuare con gli studi universitari senza aspettare, magari per anni o inutilmente, di essere trasferito in qualche carcere dove ci sia un Polo universitario. La continuità nello studio per uno studente adulto è fondamentale in quanto si fa in fretta a dimenticare le cose imparate e se c’è un’interruzione solo di uno o due anni si rischia di dimenticare quanto si è fatto prima, mentre se la cosa è continua si arriva senza sforzo al traguardo che ci si è posti.

L’Istituto di Ragioneria nel carcere di Padova, grazie anche alla serietà e competenza dei professori, svolge egregiamente il suo compito portando tutti gli anni un buon numero di studenti alla maturità, nonché dando a decine di loro l’opportunità di uscire quelle 5 ore al giorno dalle loro piccole e sovraffollate celle a respirare quello che si può dire un surrogato di libertà.

 

Dal vuoto quotidiano sono passato a dare valore al tempo

 

di Gaetano Fiandaca

 

Dopo due anni di corso di cultura generale quest’anno ho avuto la possibilità di iscrivermi a ragioneria.

Da subito ne ho visto i benefici, passando dall’ozio quotidiano fatto di consuetudine e di tempi meccanici, ad un’attività mentale completa. Io che ho “arsura di sapere”, mi sono trovato a mio agio nel potermi occupare di qualcosa che mi accresce sul piano culturale.

Dal vuoto quotidiano sono passato a dare valore al tempo e non solo, dato che i riflessi positivi sono molteplici.

In luoghi come il carcere poter parlare d’altro è una notevole apertura al mondo, ti schiude quegli spazi che altrimenti rimarrebbero invalicabili. Gli stimoli si susseguono come una sorta di gioco del domino ove un argomento ne investe subito un altro.

Per me è certamente importante lo studio, è un’opportunità che consiglio a tutti, soprattutto a chi vuole migliorarsi culturalmente ed umanamente, dato che lo studio dà modo di guardarsi dentro, e di sviluppare capacità critica, come avviene anche nella realtà esterna.

Mi affascina molto anche l’aspetto competitivo che automaticamente si innesca con me stesso quando affronto lo studio non più da adolescente.

Il mio più vivo auspicio è che questo corso di ragioneria che sto frequentando in carcere continui senza alcun problema negli anni futuri. Mi auguro anche che siano ampliate in questi istituti altre attività culturali per non far logorare i detenuti dall’ozio e dalla noia con cui vivono quotidianamente.

 

 

Senza la scuola, la condanna diventa un pezzo della vita buttato via

Quando si entra in aula e si chiude la porta, viene chiuso fuori anche il carcere, e tutti iniziano una autentica “ginnastica mentale”

 

di Enos Malin

 

Ho deciso di riprendere gli studi per migliorare il mio modo di esprimermi, cioè non solo essere in grado di usare terminologie più “forbite”, ma anche sapere il significato giusto ed appropriato delle parole che uso.

Un saggio disse che scrivere è disegnare i suoni, io aggiungo che è anche raffigurare i sentimenti, colorare le emozioni, esternare la coscienza. Io credo che sia basilare saper scrivere. Mi viene in mente un aneddoto: quando i conquistadores giunsero nel Centro America, gli indios considerarono la scrittura una magia, perché quegli uomini bianchi riuscivano a dire le cose senza che un solo suono uscisse dalla bocca, e per di più le dicevano ad altri uomini molto lontani.

È eccezionale riuscire a trasmettere ad altre persone il proprio pensiero, i propri intenti. Per un detenuto è essenziale saper scrivere, è l’unico mezzo che lo collega al mondo esterno, alla famiglia, alla persona amata, ai figli, agli amici. Lo può far sentire partecipe e quindi vivo anche se sepolto tra quattro mura. È meraviglioso poter essere in grado di esprimere ai propri cari ogni sentimento che alberga nel suo animo e che lo lega a loro, tutte le ansie, le speranze, il dolore, l’amore.

Ma a un detenuto lo scrivere necessita anche a fini giuridici, per spiegare ad un avvocato la propria posizione rispetto ad un reato; redigere un memoriale descrivendo come sono accaduti gli eventi; sostenere la propria estraneità ai fatti; stilare un’istanza ad un Magistrato sia per chiedere il rispetto di un diritto, che l’applicazione di un beneficio.

Per tanti detenuti la scuola è la miglior palestra ove tenere in allenamento il cervello. È risaputo che qualunque organo umano può ottenere la miglior funzionalità solo attraverso un continuo uso. Il cervello non è un muscolo che con l’inattività può atrofizzarsi, ma è comprovato che se lo si lascia a riposo, si addormenta. In carcere non è concesso ragionare, tutto è programmato, infantilizzato e sottratto alla responsabilità. I detenuti sono degli automi, ogni funzione ha un orario: la doccia, l’aria, i pasti, le conte, l’infermiere, tutto prestabilito e scandito nel tempo. Ogni richiesta deve essere fatta per iscritto. Tutto è predisposto dall’alto, non c’è spazio per fare delle scelte. È un copione che si ripete ogni giorno, all’infinito.

È comprensibile allora come un detenuto chiuso per quasi 20 ore in cella, inoperoso per l’intero arco della giornata, amorfo perché non riceve stimoli, senza la necessità di ragionare dato che tutto è prestabilito, disconnetta il cervello. Anche i ricordi si fanno sempre più lontani e le fantasie sempre più difficili da forgiare. La scuola offre invece al detenuto l’opportunità di evadere con la mente, uscire dalla solitudine, ribellarsi a molte coercizioni, reagire alle previste programmazioni, evitare il reset della psiche e non perdere il lume della ragione.

Quando si entra in aula e si chiude la porta, viene chiuso fuori anche il carcere, rimangono estromessi i reati, forse qualcuno torna ragazzo, ma di sicuro tutti iniziano la ginnastica mentale. Il contatto col mondo esterno è diretto, i professori quando vengono a scuola gettano un ponte levatoio sopra il muro perimetrale che cinge il carcere e lo ritraggono alla loro uscita, ma nell’aria rimane sospesa un po’ di libertà, ed inoltre sappiamo che il giorno dopo quel ponte verrà ricollocato e nuovamente dismetteremo i panni del detenuto per indossare quelli dello scolaro, anche perché veniamo trattati dagli insegnanti come semplici alunni e non come reclusi.

In ultima analisi poi c’è il bagaglio culturale che la scuola ti dà, l’equipaggiamento che ogni persona dovrebbe portare con sé nel viaggio della vita. Qualche conoscenza culturale è indispensabile per poter dialogare, o perlomeno capire quanto stai ascoltando. In un confronto si sarà sicuramente avvantaggiati, in un dibattito ascoltati. Questi sono i motivi per cui ritengo preziosa la scuola in carcere, la considero indispensabile per un percorso che sia in qualche modo anche “creativo”. La galera altrimenti, per com’è conformata attualmente, non serve a nulla, anzi facilita la reiterazione del reato, è solo tanto tempo perso in modo inoperoso, un pezzo della vita buttata via. Perciò ritengo importante occupare questo enorme lasso di tempo in modo costruttivo. e ritengo che la scuola sia lo strumento più semplice per un detenuto per dimostrare concretamente la volontà di reinserimento, anche se sicuramente c’è qualche detenuto che ha deciso di frequentare la scuola solo per non vivere in una sezione inospitale, dove spesso ci sono il caos e una promiscuità inaccettabile a causa del sovraffollamento.

Però la scuola rischia di non servire al detenuto quando riconquisterà la libertà, perché spesso il contesto sociale respinge a priori l’ex carcerato, e il titolo di studio viene annullato dalla macchia sul certificato penale. Chi frequenta la scuola è consapevole di avere un marchio indelebile che lo accompagnerà per tutta la vita, e un diploma non riuscirà a cancellarlo e neppure a “riscattare” la sua vita, concedendogli la possibilità di un’attività lavorativa dignitosa, quindi chi ha optato per la scuola l’ha fatto principalmente per esaudire il proprio desiderio di conoscenza, e non per migliorare le condizioni future di cittadino libero integrato nel tessuto sociale.

 

 

Sprigionare gli affetti

 

Che senso ha la vita quando ti trovi libero, ma solo?

Ho sessant’anni e sono preoccupato di cosa farò adesso che sto per finire la pena

 

di Milan Grgic

 

Tra i diversi temi affrontati nelle riunioni della redazione, ultimamente abbiamo discusso dei rapporti affettivi e famigliari, particolarmente con la moglie o con la compagna. Questo è un tema importante che regala sempre spunti di riflessione validi.

Un altro tema di cui spesso discutiamo è quello della lunghezza della pena, cioè quale pena è giusta per il recupero del detenuto, ed è in grado nello stesso tempo di soddisfare anche la parte offesa e la società. In ogni campo si dice che qualunque eccesso produce effetti negativi. Allora penso che anche quando si parla della durata della pena, l’eccesso ha come effetto negativo che la pena perde la sua funzione principale, quella del recuperare la persona, renderla meno cattiva e reinserirla nella società.

Allora io credo che il diritto di mantenere i legami affettivi e la durata della pena sono due questioni che si intrecciano. Spesso accade che la persona, dopo anni di galera, si trova sola, perché sono morti i genitori e gran parte della famiglia, o perché è stata abbandonata e praticamente dimenticata, o perche la famiglia non ce la fa a seguirla e i figli, che sono cresciuti senza il padre, non ne sentono più il bisogno. A volte è il tempo che cancella quei sentimenti e legami che esistevano prima dell’arresto, altre volte è la distanza a contribuire ad allontanare o scoraggiare le persone dal seguirti, oppure è il detenuto stesso che non ha potuto o saputo costruirsi una famiglia prima. In ogni caso, la durata della pena è fondamentale nel rapporto con la famiglia.

Io mi consideravo un padre premuroso, perché credevo di aver fatto tutto perché i miei figli non crescessero nella povertà come me, ma avessero tutto il necessario e le condizioni migliori per studiare ed avere così una professione e un futuro garantito, che gli permettesse di essere indipendenti. Insomma non volevo che anche loro si trovassero obbligati dalla povertà ad arrangiarsi e rischiassero di finire in carcere come me.

Ma oggi mi sono trovato con i miei figli che praticamente sono cresciuti senza di me, e che si sono completamente sottratti alla mia influenza. In loro, non vedo più quel calore di una volta. Inoltre, i miei genitori sono morti e con loro anche altri parenti e famigliari. Tutto questo mi fa sentire più solo. Mi domando se potevo fare qualcosa perché questo non succedesse. Non lo so. Ma ora provo a guardare avanti e penso che, dopo tanti anni di carcere, un uomo solo abbia poche speranze di costruirsi un futuro, soprattutto una famiglia.

Forse ho sbagliato tutto nella mia vita, ma almeno amavo delle persone e avevo degli obiettivi. Oggi invece non so più per chi vivere, per chi lavorare, per chi lottare. Mi domando che senso ha la vita quando ti trovi libero, ma solo.

Far fare la galera è giusto, ma si dovrebbe dare importanza agli affetti del detenuto, per renderlo anche più responsabile: se mi trovo senza punti di riferimento io che ho sessant’anni, moglie, figli e nipoti, posso immaginare le difficoltà delle persone più giovani di me, che magari passano anni in carcere senza nessuno vicino e quando escono, non sanno dove sbattere la testa, se non tornando a delinquere. Se io sono preoccupato di cosa farò adesso che sto per finire la pena, mi chiedo: cosa passa per la testa dei più giovani?

Il carcere di oggi non solo non ti mette nelle condizioni di formarti una famiglia, ma spesso fa di tutto per distruggere quella esistente, senza capire che in realtà, isolando la persona, la si rende emarginata e poco motivata a ricostruirsi un futuro.

E allora non si tratta più di un recupero e reinserimento della persona, ma di pura punizione, che ti rende la vita ancora più difficile una volta libero.

 

Una telefonata aiuta a mantenere salda e unita la famiglia

Le modalità per essere autorizzati a chiamare a un telefono cellulare sono ancora troppo restrittive, eppure a volte i famigliari non hanno un telefono fisso, e sono così tagliati fuori dalla comunicazione con i loro cari

 

di Ulderico Galassini

 

Da circa 4 anni, per un reato commesso all’interno della mia famiglia, mi trovo a vivere in carcere e a confrontarmi con le regole previste per i detenuti per iniziare un percorso di rieducazione in vista di un futuro reinserimento nella società. Certo non posso perdonarmi per quello che ho fatto, e che mi costringe a ripensare continuamente ai danni provocati alle vittime, e a me stesso per le conseguenze che ne sono derivate e per le inevitabili ripercussioni negative che ricadono su tutti i miei famigliari. Gli stessi che, nonostante tutto, per primi si prodigano in ogni modo per assistermi, per non farmi sentire solo, abbandonato.

Le richieste per i colloqui e per le telefonate solitamente vengono accolte nei limiti previsti dall’Ordinamento penitenziario: sei ore di colloqui al mese, anche cumulabili, ed una telefonata alla settimana della durata di dieci minuti.

Per quanto mi riguarda posso dire che, da quando sono arrivato a Padova, con la condanna definitiva, ho avuto la possibilità di estendere i colloqui anche ad amici e conoscenti, le cosiddette “terze persone”. Quanto alle telefonate, sino a qualche mese fa le ho suddivise, una settimana a mio figlio e l’altra a mia madre. Certo è che dieci minuti di dialogo non possono consentire di tenere vivo il rapporto con mio figlio, tenuto presente che lui è stato vittima diretta del mio gesto, e per fortuna è ancora in vita, e per giunta, sempre a causa mia, non potrà più pronunciare una bellissima parola, “MADRE”. Ecco perche è importante che noi due riusciamo anche a telefonarci. Da settembre 2010, avendo lui scelto di iscriversi all’università di Trieste e dovendo soggiornare in tale città e non più al suo paese, l’unico mezzo che ci è rimasto per le nostre comunicazioni telefoniche è il suo cellulare. Ho provveduto a chiedere regolare autorizzazione, confermata senza difficoltà, ma qui si innesta una regola che è stata stabilita con una circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, che autorizza sì la chiamata, ma con dei vincoli: non devi aver fatto altre telefonate e/o colloqui nei precedenti 15 giorni, con nessuno. Se c’è questa regola ci sarà forse un valido motivo, ma diventa difficile accettarlo senza capirlo.

Il cellulare è diventato oggi ovunque uno dei principali mezzi di comunicazione insieme a internet, e tra l’altro i nostri governanti, anche per i servizi garantiti dall’amministrazione pubblica, premono sui cittadini per il loro utilizzo. Allora forse sono sistemi di comunicazione che vanno presi in considerazione anche per i detenuti, soprattutto nell’ottica di preservare gli affetti, nel mio caso di salvare il rapporto con mio figlio. Ma anche per aiutarci a non perdere la capacità di usare questi mezzi nel nostro futuro da “liberi”, quando avremo bisogno di saper adoperare ogni giorno sistemi ed apparecchiature sempre più evoluti. Mi auguro che i cellulari vengano considerati alla stessa stregua di un telefono fisso, e sinceramente spero anche che prima o poi si decidano ad aumentari tempi di conversazione, in modo da non vivere più quelle sensazioni che si provano quando il bip bip chiude inesorabilmente la porta in faccia a chi magari stava ricevendo notizie urgenti o parlava con un famigliare di situazioni di salute preoccupanti.

Recentemente ho letto con piacere nel periodico “Le due città”, ottobre 2010, l’editoriale: “Genitori e figli - un legame oltre il carcere”, e ritengo utile riportare alcuni punti essenziali che mi hanno dato un po’ di speranza di poter ampliare i momenti di affettività: “C’è un legame che neanche la detenzione può spezzare, ed è quello degli affetti. Anzi, è proprio dietro i cancelli di un carcere che l’abbraccio tra un genitore e un figlio diviene appiglio per non finire dentro anche con lo spirito (…). Nell’incontro tra genitori e figli si gioca una partita decisiva, necessaria non solo per allentare le tensioni all’interno del carcere, ma fondamentale per ricostruire quell’intreccio di legami indispensabili per vivere la propria libertà in modo sano e consapevole”.

Avendo apprezzato e condiviso quanto scritto nella rivista dell’Amministrazione penitenziaria, mi chiedo poi perché anche le piccole cose che riguardano gli affetti sono così difficili in carcere: come è possibile che una semplice telefonata ad un cellulare sia trattata in modo così difforme da quella fatta ad un numero fisso? Perché non rivedere questi limiti, viste anche le attuali situazioni di sovraffollamento, con tutte le difficoltà che le persone detenute vivono, che creano tensioni che poi ricadono anche sulla gestione del carcere?

Ridurre le tensioni e preoccupazioni anche attuando piccole migliorie che siano rivolte soprattutto all’ambito famigliare, e quindi possano consolidare i legami affettivi, penso sia la cosa giusta da fare. Ci sarebbe un beneficio per tutti, per chi è dentro e per chi ci attende fuori. A volte basta una telefonata per mantenere salda e unita la famiglia, diversamente, cosa troveremo fuori, chi ci aspetterà fuori una volta che saremo liberi?

Da soli, quando dovremo affrontare un mondo diverso, dal quale siamo stati allontanati per colpa nostra per lunghi anni, ci sentiremo sempre più spaventati. Incapaci di muoverci, e con una società che ha tanti altri problemi da gestire e non avrà né il tempo, né i mezzi, né la volontà di ascoltare chi si è macchiato di un reato. Eppure, prima o poi dovremo tutti comunque rientrare nel mondo libero.

 

 

Egregio signor ladro

 

Credo che la diffidenza degli altri sia il minimo

 

Un messaggio “giustamente incazzato” sul nostro sito di Susy, una lettrice che ha subito più reati, ci costringe a riflettere

sulla responsabilità, che significa assumersi fino in fondo

le conseguenze delle proprie azioni.

Ecco le risposte della sorella di un detenuto, e di due detenuti

 

C’è stato di recente un dialogo interessante, nello spazio che il nostro sito dedica a raccogliere le riflessioni dei lettori. Tutto inizia con un severo commento di Susy, una lettrice che è stata più volte vittima di reati e che si rivolge con una certa durezza ai detenuti, che animano il sito con le loro testimonianze:

“Gentili Signori, mi dispiace per le vostre angosce, ma purtroppo non riesco a condividerle.

Ho subito uno scippo di una catenina con tanto di mani al collo, un borseggio in autobus, uno scippo di una borsa, e dulcis in fundo mi hanno svaligiato la casa. E perdonatemi il cinismo, ma non vedo perché dovrei comprendere le ansie di chi mi ha rubato la cosa più importante: la serenità. Mi alzo tutte le mattine e vado a lavorare per assicurare un futuro a mio figlio, ho fatto in passato le pulizie e la tuttofare per uno studio dove dietro lauto compenso di 150 mila lire al mese prestavo lavoro per 12 ore al giorno. Perdonatemi ma credo che la diffidenza con cui debbano convivere i cosiddetti “signori ladri, signori assassini e signori quant’altro” sia nulla rispetto a quello che una persona onesta deve vivere per le azioni dei signori di cui sopra. Da quando un immondo essere si è permesso di entrare in casa mia non dormo più, ho paura di stare in casa mia, ho paura di stare fuori e non c’è prezzo a questo non c’è pena detentiva che possa ridarmi quello che ho perso. Chiedo ancora scusa, ma credo che la diffidenza degli altri sia il minimo. Guardare le proprie atrocità negli occhi di chi ha perso una persona cara per mano di un altro è ancora poco paragonato al dolore che chi resta si porterà dietro per la vita. Purtroppo come dite voi indietro non si può tornare, non si può tornare per voi ma neanche per noi che siamo dall’altro lato della barricata, noi che subiamo, che siamo stuprati nell’anima con segni indelebili che non saranno mai più cancellati. Buona giornata a tutti .

Susy

 

Susy è una donna che è stata vittima di quei reati, spesso sottovalutati in carcere perché ritenuti “contro il patrimonio”, e invece no, sono reati che fanno male anche alle persone. Ma a risponderle è un’altra donna, Giorgia, a cui è capitato in sorte di essere anche lei vittima, però in un’altra maniera: vittima perché sorella di un ragazzo finito in carcere, in una famiglia che tutto si sarebbe aspettata, tranne una fine del genere:

 

Mio fratello è da cinque mesi in carcere, e sono stati cinque mesi da incubo

 

Proprio oggi dopo mesi di agonie indicibili avevo bisogno di un appiglio, di uno spiraglio sebbene piccolo... ho bisogno di parlare con chi è sulla mia stessa barca, che tutto è meno una barca, sembra essere più una zattera che sta andando in pezzi.

Mio fratello è da cinque mesi in carcere, e sono stati cinque mesi da incubo, non perché li lo abbiano trattato male ma perché oltre alla sofferenza di dover scontare una pena si aggiunge la difficoltà di sentirlo, vederlo, sapere come sta.

Facciamo con lui un colloquio alla settimana di un’ora.

Lui a volte è talmente stravolto dalla settimana passata, emozionato di vederci che a mala pena parla, è preoccupato per noi fuori e per la sua sorte là dentro, sta pagando una pena altissima per un reato che non ha neanche commesso lui... spiegherò poi meglio di cosa si tratta ma oggi non è questo il punto, lui è ovviamente colpevole, colpevole di essere stato infinitamente incosciente e di essersi ritrovato in un vortice più grande di lui... ma poi si sa si toccano certe categorie e l’occhio attraverso il quale si analizza una vicenda non è più quello dell’imparzialità e della giustizia, ma diventa quello del pregiudizio e del sentirsi superiore, senza capire che è con la vita delle persone che si sta giocando, anche se di persone che hanno sbagliato si parla. Sì loro hanno sbagliato e mio fratello lo riconosce, vuole pagare i danni, e le sue colpe, ma tutti noi a casa, sua mamma, noi fratelli e sorelle paghiamo la sua stessa pena amplificata... siamo soli, ci manca, non sappiamo mai se sta bene, quando va bene riceviamo una lettera ogni due giorni e lo vediamo una volta alla settimana, e dobbiamo fare ore di macchina per raggiungerlo.

Insomma ci manca infinitamente, e quel giudice che incurante della vera situazione lo ha condannato a una pena tanto pesante, ha condannato con lui altre 7 persone, che per lui vivono, che gli vogliono bene, che sono la sua famiglia, che non ha assolutamente nessuna colpa se non quella di volere infinitamente bene a una persona che ha commesso un errore, che vuole sì pagare, ma che ha anche bisogno di un’altra possibilità.

Scusate lo sfogo, è che davvero a momenti si crolla… speriamo ce la faccia, noi ogni tre giorni per lettera, e una volta alla settimana al colloquio cercheremo di stargli accanto e di fargli capire che fuori lo aspetta una possibilità... perché la merita... era semplicemente il passeggero accanto...

Mi rivolgo a Susy: voi dite di essere dall’altra parte della barricata. significa che avete l’assoluta certezza che a Voi certe cose non accadranno mai, e io non posso che augurarvi che Voi abbiate ragione, sono sicura che anche mio padre, morto anni fa per una leucemia dovuta al lavoro, non avrebbe mai creduto che il piccolo dei suoi figli si sarebbe trovato a dover fare i conti con la giustizia, a dover pagare per una colpa commessa.. Neanche mia mamma avrebbe potuto immaginare una storia simile, visto che si è massacrata di lavoro per crescere me che sono laureata e faccio l’educatrice sociale di professione, esattamente come il mio fratello che per una serie di eventi si trova a dover affrontare questa situazione tanto devastante.

Io non voglio fare pena a nessuno, ma sono anche certa che chi non è mai entrato in un carcere e non si è sentito chiudere dietro le porte per poter sentire anche solo per un’ora la voce del proprio caro, non possa capire di che cosa stiamo parlando.

Le vittime hanno diritto a essere risarcite, capite, protette, tutelate, questo è ovvio, nella mia breve vita sono stata anche vittima, ad esempio di un investimento stradale da parte di un signore anziano che a una battuta di caccia aveva bevuto qualche bicchiere di vino in più... beh io ho capito anche il suo dolore, anche la disperazione della moglie e della figlia, e badate bene all’epoca la vicenda di mio fratello non solo non era ancora capitata ma non avremmo neanche mai potuto prevedere che sarebbe successa. Per questo senza voler giudicare nessuno, resto fermamente convinta che tutti possono sbagliare, ma tutti hanno anche bisogno di una seconda possibilità e di poter disporre dello stesso diritto che si difende per la vittima, quello a una vita nel rispetto dell’identità umana.

Le chiedo solo una cosa: se suo figlio crescendo si dovesse trovare poi, magari lasciandosi trascinare da cattive compagnie, in qualcosa di poco regolare, in qualcosa di pericoloso, smetterebbe di amarlo? Io non credo. Ci rifletta, e pensi al figlio di suo figlio, e al figlio di suo figlio ancora... forse vi sarà più semplice capirci!”

Giorgia

 

 

Ci sono familiari di vittime che hanno accettato di venire a parlarci

 

di Bruno Turci

 

Gentilissima Susy,

lei ha ragione quando dice che si è sempre rotta la schiena anche per pochi soldi e malgrado le difficoltà non le è mai venuto in mente di andare a rubare. Persone come lei ce ne sono tantissime, siete la stragrande maggioranza di questo Paese. Esistono, tuttavia, altre persone le quali, fortunatamente, rappresentano una piccolissima parte della società e sono più deboli di lei e di tutta quella parte maggioritaria degli italiani che instancabilmente dà il suo contributo, affinché le sorti di questa società possano migliorare. Noi abbiamo avuto il torto di privare questa società delle nostre forze per migliorarla, per renderla più equa, affinché la giustizia sociale fosse possibile per tutti.

Certamente le responsabilità dei colpevoli non si limitano al reato commesso, ma investono una più ampia gamma di mancanze. Ad esempio i familiari delle vittime dei nostri reati sono anch’essi vittime. I nostri familiari sono vittime anche loro, con pari dignità di tutte le altre vittime. Ma lei pensa davvero che per questo motivo noi non dobbiamo sperare in un percorso di riconciliazione con la società? Ci sono familiari di vittime che hanno accettato di venire a parlarci, hanno accettato di liberarci dal male che ci opprimeva lasciandosi guardare negli occhi. Forse lo hanno fatto più per se stessi che per noi, ma la prego di credermi che ha fatto tanto bene ad entrambi. Forse questo è servito davvero ad evitare che qualcuno potesse continuare nella recidiva. Io sono convinto che l’incontro e il dialogo con le vittime siano veramente uno strumento per aiutare quelli più deboli a diventare consapevoli di se stessi.

La mediazione penale è l’incontro con le vittime, ci sono ottimi professionisti che stanno lavorando per realizzare questa forma di giustizia e renderla parte del sistema penale. Ci vuole un po’ di coraggio ed è necessario credere nell’uomo. Lei avrà le sue ragioni per obiettare, ma le chiedo per favore di accettare il nostro invito e venire a sedersi intorno al tavolo delle riunioni che facciamo qui in redazione, in carcere.

Lei ha un modo di scrivere per raccontare le sue drammatiche disavventure che è molto efficace, leggendo la sua lettera ho colto una capacità di spirito notevole. Per questo le chiedo ancora: pagare il nostro debito, cosa comporta secondo lei? Che si debba venire stipati e pressati nelle celle peggio di come sono tenuti i polli nelle stie? Crede che dovrebbero infliggerci sofferenze peggiori oltre quello che già stiamo pagando? Pensa che i suicidi nelle carceri non debbano far pensare alle condizioni di vita pessime delle carceri e alla malasanità che è una costante delle strutture sanitarie in galera?

A noi piacerebbe poterci confrontare con lei su questi temi. O anche soltanto per conoscerla e farci conoscere. Credo che sarebbe un incontro interessante da ambo le parti.

La saluto con simpatia.

 

 

Chi commette il reato non considera l’essere umano di fronte a lui

 

di Andrea Beltramello

Gentile signora Susy,

mi chiamo Andrea, ho trentasei anni e sono detenuto per aver commesso numerose rapine ai danni di istituti bancari. Nonostante sia diverso tempo che partecipo alla redazione di Ristretti Orizzonti, non ho mai risposto a chi, come lei, ha trovato il coraggio di manifestare il proprio disagio nel subire reati che incidono profondamente nel contesto personale. Il suo scritto riporta alla mia memoria un nome a me caro, è per questo motivo che mi sento in dovere di risponderLe. Ho immaginato che quello che le è successo, fosse capitato a questa persona a me cara, ed è per questo che mi permetto di parlarle con estrema sincerità. Mai nessuno le ridarà la serenità che aveva prima di subire queste violenze, è più che normale che lei si senta arrabbiata e violata nella propria intimità.

Non è mai facile capire perché queste cose avvengano, fermarsi a riflettere qual è il motivo che spinge una persona a compiere reati come quelli che ha subito lei. Le dico questo in quanto, io per primo, non mi ero mai immedesimato nelle vittime dei miei reati. Leggendo lo sfogo nella sua testimonianza e avendo partecipato, qui in carcere, ad incontri con vittime di reati, ho iniziato a mettermi nei panni di chi questi torti li ha subiti. Le assicuro che se una testa calda come me inizia a capirci qualcosa, allora tutto il nostro confrontarci comincia ad avere un senso. Fermarci a considerare il prossimo è il primo passo che ci consente di scrollarci di dosso l’indifferenza.

Chi commette il reato non considera l’essere umano di fronte a lui, e chi lo subisce odia profondamente colui che lo ha commesso, senza repliche. Lei è stata capace di esprimere il suo disagio e sono certo che capirà che se entrambe le parti non faranno uno sforzo, rimarremo in un circolo vizioso. Io vedo nel confronto l’unica soluzione, sarebbe bello ed importante che lei riuscisse a superare la fase dell’odio e fosse così forte e altruista da riuscire a confrontarsi con chi, per meschinità, per disagio o per disperazione, questi reati li ha commessi. Sarei felice se lei volesse rispondermi o ancor meglio, partecipare una volta ad un nostro incontro nel carcere di Padova, sono certo che sarebbe per tutti un’occasione di crescita.

Riguardo le sofferenze di chi è detenuto, mi trovo in accordo con lei, fuori ci sono persone che, pur comportandosi correttamente, vivono profondi disagi. Io avevo scelto la via del crimine per ovviare questi disagi e quindi accetto le conseguenze. Non ho parole che possano lenire la sua rabbia e il dolore, ciò che posso fare è dirle che mi dispiace veramente.

Ringraziandola per aver avuto voglia di ascoltarmi, le porgo i miei più cordiali saluti.

 

 

 

Posta Celere

 

A sua santità Benedetto XVI

Ci serve la voce della Chiesa, che dica in modo forte e chiaro che le carceri in queste condizioni non rispettano la dignità delle persone

 

di Antonio Floris

 

Verso la fine dell’anno passato abbiamo letto sui giornali che Sua Santità ha voluto donare ai suoi collaboratori 232 panettoni prodotti dai detenuti per la cooperativa Giotto all’interno del carcere due Palazzi di Padova. Non è sicuramente casuale la Sua scelta. In effetti il laboratorio di Pasticceria della Casa di Reclusione è famoso in tutta Italia per la bontà dei suoi panettoni, colombe pasquali e dolci vari. Tanto pubblicizzato che chi sente parlare del carcere due Palazzi, lo associa subito alla pasticceria.

Tanta è la fama acquisita che le persone che leggono sui giornali queste cose, e non hanno conoscenza di come è la realtà all’interno di questo istituto, sono portate magari a pensare che tutti i detenuti qui ristretti siano impegnati (e pagati) per produrre dolci. Quindi che ci sia abbondanza di soldi e abbondanza di dolci alla portata di tutti.

Ma non è esattamente così. Padova non è immune dai mali che affliggono tutte le altre carceri d’Italia, in primo luogo quello del sovraffollamento. Il carcere di Padova era in origine progettato per 350 posti ma dopo un po’ di tempo era stato riempito con 700 detenuti (cioè il doppio della capienza prevista) e ora con l’emergenza sovraffollamento il numero dei detenuti ospitati si sta avvicinando inesorabilmente a mille, il che significa che in stanze per una persona ci si ritrova ristretti in tre!

Dei quasi 900 detenuti ospitati attualmente all’interno dell’Istituto di Padova, oltre ai 10 che lavorano in pasticceria, ce ne sono circa altri 200 che svolgono altri lavori a vario titolo, una parte impiegati in lavorazioni delle cooperative e un’altra parte alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria, per la quale svolgono lavori di pulizia nelle sezioni e corridoi, oppure fanno i portavitto, i magazzinieri ecc.

In pratica, se su 900 sono 200 quelli che lavorano, significa che altri 700 sono ozianti che trascorrono l’intera giornata senza fare niente di niente, chiusi nelle loro piccolissime celle di dimensioni 3,80 x 2,70 in condizioni, come si dice da tutte le parti “disumane e degradanti”. Detto in confidenza, di questi ultimi 700 sono ben pochi quelli che a Natale e Capodanno hanno potuto assaggiare una sola fetta degli ottimi panettoni, in quanto per la stragrande maggioranza dei detenuti il loro prezzo era proibitivo.

Nel panorama delle carceri italiane Padova non è certo l’istituto messo peggio, anzi chi ne ha girati tanti dice che a confronto di altre carceri qui si sta addirittura bene. Se si sta bene qui figuriamoci come si può stare negli altri istituti, nei quali le condizioni sono semplicemente invivibili.

Per capire quanto sia grave la situazione del sovraffollamento basti pensare che nel 2006 quando il numero dei detenuti stava arrivando a 61000 (numero mai raggiunto prima), l’80% dei Parlamentari votò a favore dell’indulto ritenendo la situazione non ulteriormente tollerabile.

Oggi il numero dei detenuti all’interno dei penitenziari italiani oscilla attorno ai 70000!! Con la differenza rispetto al 2006 che ci sono stati tagli alle spese per la sanità, per il lavoro dei detenuti, per i prodotti di prima necessità tipo forniture di saponi, dentifrici, spazzolini e anche per l’alimentazione, basti pensare che il budget per garantire i tre pasti giornalieri ai detenuti fino allo scorso anno era di 4,15 €. Adesso è sceso a 3,18 €.

Sempre più allarmanti sono le notizie sulle morti in carcere, ci sono persone che muoiono o per malasanità o per suicidio senza che nessuno muova un dito. Non passa giorno che non siano fatti reclami per protestare contro le condizioni disumane in cui i detenuti sono costretti a passare le loro giornate in violazione palese sia dell’Ordinamento Penitenziario che della stessa Costituzione e della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. A tutto questo bisogna naturalmente aggiungere il disagio delle persone che lavorano all’interno degli istituti, che sono in numero molto inferiore a quello che dovrebbe essere.

La Corte Europea ha condannato l’Italia parecchie volte per violazione dei diritti dell’uomo e ha esortato il governo italiano a trovare subito soluzioni al problema. Ma dal Ministero si limitano a dire che la soluzione è quella di costruire nuove carceri. È stato annunciato un piano carceri dove si prevedeva di creare 20.000 nuovi posti. È stato dichiarato lo stato di emergenza per tutto l’anno 2010, ora questo stato di emergenza è stato rinnovato per tutto il 2011, solo che in un anno e più di stato di emergenza non si sono visti significativi risultati, mentre il numero degli arrestati è sempre in aumento e il numero dei morti in carcere pure.

Visto che il Governo è sordo ai nostri appelli noi detenuti ci rivolgiamo a Sua Santità affinché faccia sentire la Sua voce presso le Autorità italiane, così come aveva fatto il suo mai abbastanza compianto predecessore, Papa Woityla, per ricordare a chi ci governa che le carceri sono fatte per riabilitare le persone al fine di un reinserimento nella società. Ora come ora invece altro non sono che dei lager.

Tutti noi ci auguriamo che un Suo autorevole intervento possa scuotere i nostri governanti e l’opinione pubblica dalla loro indifferenza e dal loro cinismo.

 

Donne Dentro

 

Pensieri e sentimenti di una madre in visita alla figlia . Madri con figli “dentro”

 

La madre di una giovane detenuta “osserva” le altre madri, con le quali condivide il dolore di avere un figlio in carcere, la paura, l’ansia di sentirsi giudicate

 

di Marina, mamma di una detenuta

 

Sono la mamma di una giovane donna detenuta, vivo fuori dal carcere ma il mio cuore è “dentro”.

Dal giorno dell’arresto di mia figlia, la mia vita è cambiata. Ho imparato a convivere e a dominare sentimenti forti e dolorosi: ansia, paura, preoccupazione, rabbia, sconforto.

Ma il grande amore che provo per lei, la vicinanza di mio marito e quella delle nostre famiglie, la solidarietà di moltissime persone, la fiducia nella Giustizia e la fede in Dio mi permettono di camminare, giorno dopo giorno, in questo faticoso sentiero a testa alta, senza voltarmi indietro, guardando solo il tratto di strada che sto percorrendo in attesa della sua fine.

Siamo tante, troppe, madri con i figli “dentro”.

Ci sono quelle che sono rimaste accanto al proprio figlio fin dall’inizio, fin da quando, cioè, egli è diventato il protagonista di due processi: quello nelle aule del Tribunale e quello mediatico. Quelle che per mesi o anni, silenziose ed invisibili, attendono il proprio turno per abbracciare il loro figlio in carcere. Cuore gonfio all’entrata, occhi gonfi all’uscita…

E ci sono quelle alle quali è venuto meno il coraggio, la forza, la possibilità o l’amore ed hanno voltato le spalle a quel figlio che, in questo modo, è stato condannato non soltanto alla reclusione ma anche a restare solo con il suo dramma.

Nell’immaginario collettivo siamo madri brutte, cattive, ignoranti, incapaci di dare un’educazione e di amare, magari prostitute o tossicodipendenti, in ogni caso facenti parte di una famiglia “difficile”.

Ma io, quando sono in attesa di abbracciare mia figlia, mi guardo intorno e vedo sempre più spesso madri “normali” di figli “normali”, provenienti da famiglie “normali”

 

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n° 1315 dell’11 gennaio 1999. Spedizione in A.P.

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