Diritti a metà.. Persone a metà...
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Ristretti
Orizzonti
(anno
13, numero 1 Gennaio - Febbraio 2011)
Editoriale
Diritti
fragili come il cristallo di Ornella
Favero
Parliamo
di trattamenti inumani e degradanti intervista
a Mauro Palma, Presidente
del Comitato Europeo per la Prevenzione della tortura
Dal
Comitato europeo per la prevenzione della tortura alla sentenza Sulejmanovic di
Elton Kalica
Carceri,
sovraffollamento, tutela della dignità intervista
a Vittorio Borraccetti, magistrato,
membro del CSM
Informazione & Sportelli
Uno
sportello che “ce la mette tutta” per rendere il carcere più umano di
Salvatore La Barbera
Le
conseguenze delle cose di Alessandro Busi,
psicologo
Prospettiva: Lavoro
La
creatività femminile che resiste, nonostante la galera intervista
a cura di Paola Marchetti
Quintali
di miele per rendere meno amara la galera intervista
a cura di Paola Marchetti
Informazione & Controinformazione
Fosse
per Travaglio non sarei più qui di Marco
Libietti
Anche
un omicida merita di uscire dal carcere un giorno di
Altin Demiri
Scuola Dentro
Difendere
la scuola in carcere vuol dire produrre sicurezza
La
scuola in carcere è come affacciarsi ad una finestra aperta sul mondo esterno di
Antonio Floris
Dal
vuoto quotidiano sono passato a dare valore al tempo di
Gaetano Fiandaca
Senza
la scuola, la condanna diventa un pezzo della vita buttato via di
Enos Malin
Sprigionare gli affetti
Che
senso ha la vita quando ti trovi libero, ma solo? di
Milan Grgiç
Una
telefonata aiuta a mantenere salda e unita la famiglia di
Ulderico Galassini
Egregio signor ladro
Credo
che la diffidenza degli altri sia il minimo a
cura della Redazione
Mio
fratello è da cinque mesi in carcere, e sono stati cinque mesi da incubo di
Giorgia
Ci
sono familiari di vittime che hanno accettato di venire a parlarci di
Bruno Turci
Chi
commette il reato non considera l’essere umano di fronte a lui di
Andrea Beltramello
PostaCelere
A
sua santità Benedetto XVI di Antonio
Floris
Donne Dentro
Madri
con figli “dentro” di
Marina, mamma di una detenuta
Diritti fragili come il cristallo
di Ornella Favero
Quando
andiamo nelle scuole, detenuti e volontari, a parlare con i ragazzi di reati,
pene, carcere, non ci sogniamo neppure di affrontare il tema dei diritti dei
detenuti, o meglio, arriviamo ai diritti per vie traverse: perché è difficile
trovare qualcuno disposto a riconoscere che chi ha commesso un reato non perde,
entrando in carcere, oltre alla libertà, anche i diritti. Del resto, a sentire
nei pomeriggi televisivi conduttori, politici, giornalisti lasciarsi andare ad
invocazioni del tipo “metteteli dentro, e che marciscano in galera fino
all’ultimo giorno” è quasi impossibile che un cittadino, uno studente che
notizie sul carcere le riceve prevalentemente dalla televisione e dai film, si
convinca che invece una persona detenuta ha diritto a essere trattata con umanità,
e anzi i diritti li dovrebbe mantenere tutti, tranne quello alla libertà di
movimento.
Le
battaglie che facciamo allora, rispetto alla tutela dei diritti, hanno un loro
percorso particolare, forse abbastanza “tortuoso”, ma che sta dando dei
risultati confortanti: noi partiamo da una considerazione elementare, che cioè
è più facile manifestare indifferenza nei confronti dei diritti dei detenuti,
se quei detenuti restano anonimi autori di reati, ma risulta più difficile
quando gli anonimi autori di reati diventano storie, testimonianze, persone che
raccontano di sé, dei loro figli, delle loro scelte sbagliate, delle loro
responsabilità, del desiderio di riparare il danno per le sofferenze procurate.
E tutte le nostre iniziative, di conseguenza, ruotano attorno a questo:
tirar fuori l’umanità delle persone, dei buoni e dei cattivi, perché solo se
i “buoni” riconosceranno l’umanità dei “cattivi” forse si riuscirà a
tornare a discutere di diritti come non si fa più da tempo, da quando la
“cattiveria sociale” diffusa impedisce qualsiasi ragionamento equilibrato su
questi temi.
Il
nostro lavoro così è spaccato in due: da una parte, è come se prendessimo per
mano le migliaia di studenti che entrano in carcere per incontrare i detenuti
della redazione e li accompagnassimo in un cammino per capire che dire “a
me… mai”, costruirsi la certezza che a noi non capiterà mai di uscire dai
binari della nostra vita da “regolari” significa esporsi al rischio di
diventare sempre più intransigenti verso chi commette reati, di desiderare che
i loro diritti siano compressi, e di essere però del tutto impreparati se poi
succede a qualcuno che ci è vicino di sperimentare il desolante degrado delle
carceri. Ma c’è un’altra parte del nostro lavoro non meno importante, che
è quella che ci impegna ogni giorno a combattere proprio sul fronte dei diritti
delle persone detenute, perché sono talmente fragili quei diritti, talmente a
rischio oggi, soprattutto quelli che riguardano la salute,
che bisogna in qualche modo reagire a questo senso di impotenza che sta
travolgendo un po’ tutti quelli che operano in carcere e tentare di fare
qualcosa. Noi ci tentiamo in tutti i modi, cercando spiragli e incuneandoci
nelle piccole crepe del sistema, e facendo anche piccole proposte perché tutta
quella dignità che è sottratta ai detenuti dal sovraffollamento gli venga
almeno in parte restituita con più tempo e più spazio per gli affetti, una
riforma che non costerebbe quasi nulla ma contribuirebbe a rendere meno dura la
solitudine della carcerazione.
Proprio
per dare un senso alle nostre proposte, e cercare con tenacia ogni strada per
realizzarle, questo numero di Ristretti, attraverso una lunga intervista a Mauro
Palma, presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, è
dedicato a tutte quelle piccole possibilità che ci sono, in Italia ma
soprattutto in Europa, per tutelare i diritti delle persone private della libertà
personale.
Parliamone
Parliamo
di trattamenti inumani e degradanti
Intervista
a Mauro Palma
a cura della Redazione
Mauro
Palma è Presidente di quel Comitato Europeo per la Prevenzione della tortura e
dei trattamenti inumani e degradanti, che rappresenta un punto di riferimento
per chi guarda con angoscia alla condizione, sempre meno rispettosa della dignità
delle persone, delle nostre carceri. Per questa sua straordinaria competenza lo
abbiamo invitato in redazione, e lui ha avuto la pazienza
di
sottoporsi per più di quattro ore alle domande di Ristretti.
Ci
piacerebbe
cominciare inquadrando il ruolo del Comitato europeo per la prevenzione della
tortura e dei trattamenti inumani e degradanti.
Innanzitutto
vi ringrazio dell’invito e devo dire che mi complimento per tutto quello che
viene fatto da Ristretti Orizzonti. Vi posso assicurare che non è solo una base
di lavoro, come ben sappiamo, per l’amministrazione penitenziaria italiana,
perché anche per il nostro Comitato, incaricato di seguire la situazione
detentiva nei vari Paesi europei, è estremamente importante avere una credibile
rassegna di quanto pubblicato su questi temi; è un supporto al nostro lavoro
davvero considerevole. Sarebbe importante avere un simile strumento in tutti i
Paesi del Consiglio d’Europa.
Spiego
un po’ rapidamente come è nato il Comitato, quali sono i suoi compiti e anche
come vi sono invece arrivato io e qual è il mio ruolo al suo interno.
Il
Comitato è nato da una Convenzione che è stata aperta alla firma dei vari
Stati nel 1987. Quando parlo di Convenzione indico un trattato tra i vari Stati:
la differenza tra una Dichiarazione e una Convenzione è che la prima, anche la
Dichiarazione universale dei diritti umani, è un’enunciazione di principi, di
volontà etico-politica di andare in una certa direzione, mentre la seconda è
un trattato vincolante per gli Stati che determina obblighi a cui gli Stati
devono adempiere..
La
Convenzione del 1987, che si chiama formalmente Convenzione per la
prevenzione della tortura dei trattamenti e delle pene inumane o degradanti,
è stata aperta alla ratifica dei vari Stati nel 1987 ed è diventata operativa
nel 1989.
Perché
si chiama così il Comitato?
Si
chiama così perché l’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti
umani recita appunto “nessuno può essere sottoposto a tortura o trattamenti o
pene inumani o degradanti”. A partire da questo obbligo è stata costruita la
Convenzione per la prevenzione della tortura.
Si
tratta, si badi bene, di un obbligo non derogabile. Alcuni articoli della
Convenzione europea per i diritti umani indicano obblighi o divieti derogabili
in caso di emergenza o di grave allarme, altri non lo sono mai, neppure in
situazioni di eccezionalità: l’articolo 3 è uno di questi e indica che
nessuna situazione pur grave può consentire il ricorso a pratiche di tortura o
a trattamenti o pene contrari al senso di umanità e alla dignità della
persona.
Per
capire come si sia arrivati a questa nuova Convenzione, ormai più che
ventennale, bisogna andare al sistema di tutela previsto dalla Convenzione per i
diritti umani. Come è noto, l’organo preposto a stabilire se uno Stato abbia
contravvenuto o meno ai suoi obblighi è la Corte europea di Strasburgo. Può
accedere alla Corte un individuo che ritenga che uno o più dei diritti a lui
garantiti dalla Convenzione siano stati lesi e che abbia inutilmente percorso le
vie che l’ordinamento del suo paese gli offre per ottenere riconoscimento e
rimedio. Per esempio, nel caso italiano, solo dopo aver esaurito le tre
possibili istanze che l’ordinamento offre, cioè dopo l’esito in Cassazione,
un individuo può accedere alla Corte. Quest’ultima, sulla base dell’esame
del caso, delle norme previste nel singolo Paese, emette poi una sentenza di
eventuale condanna dello Stato interessato a cui aggiunge un risarcimento,
seppure simbolico, di tipo pecuniario.
La
Corte non procede d’ufficio, ha bisogno dell’istanza del singolo e
necessariamente interviene dopo un tempo considerevole da quando la violazione
è avvenuta.
Negli
anni Ottanta ci si è chiesti quanto un sistema così strutturato, che pur aveva
ottenuto e ottiene importanti risultati, fosse in grado di tutelare pienamente
le persone private della libertà da parte di un’autorità pubblica. Si era,
infatti, passati attraverso esperienze che avevano posto in dubbio l’effettiva
volontà degli Stati di ottemperare ai propri obblighi in situazioni di
emergenza. Era noto tra l’altro il ricorso a pratiche di tortura da parte
dell’esercito francese nella guerra d’Algeria, così come si avevano notizie
di pratiche simili nell’interrogatorio dei militanti dell’Irlanda del nord
da parte del Regno Unito.
La
risposta sull’effettività del meccanismo esistente era stata negativa, e da
qui venne appunto l’elaborazione della nuova Convenzione.
Ma
chi può rivolgersi alla Corte?
Il
ricorso alla Corte è individuale. Ora, una persona privata della libertà che
ha subito maltrattamenti o torture difficilmente denuncia quanto subito,
soprattutto se deve rimanere nelle mani di coloro che ha indicato come
responsabili; teme ritorsioni, intimidazioni o comunque un riflesso negativo
sulla propria difficile situazione. Da qui la necessità di prevedere un sistema
che permettesse di agire anche senza la denuncia da parte del singolo, cioè di
propria iniziativa.
Inoltre
di fronte a tali gravi fatti è necessario intervenire subito, senza attendere
la fine delle vie offerte dal diritto interno, anzi è importante prevenire tali
situazioni, cioè individuare quelle criticità che potrebbero evolversi in
situazioni così gravi; da qui la necessità di monitorare i luoghi per capire
dove si annidino i rischi, sia per quanto attiene le lacune legislative, sia per
quanto riguarda il mancato controllo o un ambiente di particolare tensione. Ma,
per poter intervenire prima e in sostituzione delle vie interne, occorre
prevedere un organismo di natura non giurisdizionale, per non togliere parte di
sovranità allo Stato interessato.
Quindi
l’idea allora elaborata è stata quella di un organismo non di natura
giurisdizionale, ma preventivo, che intervenisse su propria autonoma decisione e
che costantemente tenesse sotto controllo le situazioni di privazione della
libertà. Un organismo che non emettesse sentenze, ma che producesse
raccomandazioni volte agli Stati, chiedendo loro di intervenire per migliorare
la situazione esaminata.
Tale
organismo, il Comitato per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o pene
inumani o degradanti è stato allora stabilito dalla Convenzione del 1987 ed è
sintetizzabile da queste parole chiave: intervento autonomo, intervento ex
ante, organo non giurisdizionale, raccomandazioni; mentre la Corte è
sintetizzabile da parole chiave diverse: intervento a denuncia, intervento ex
post, organo giurisdizionale, sentenze. Due organismi diversi, ma
complementari.
Inoltre,
la Corte esamina gli obblighi relativi a tutti gli articoli della Convenzione
sui diritti umani, mentre il Comitato si limita all’articolo 3 e, in parte,
all’articolo 5 (paragrafo 1) che stabilisce che ogni privazione della libertà
deve essere confermata da un’autorità giudiziaria e all’articolo 6, che
stabilisce che ogni processo deve essere equo.
Questa
è la struttura. E da chi è composto e che cosa fa il Comitato?
Il
Comitato è composto da un membro per ognuno degli Stati che ratificano la
Convenzione, attualmente ratificata dai 47 Stati del Consiglio d’Europa: si va
dal Portogallo fino al Pacifico, da Malta fino all’Islanda.
C’è
solo un grande buco in questa mappa europea ed è la Bielorussia che non fa
parte del Consiglio d’Europa, perché un prerequisito per farne parte è
l’abolizione della pena di morte, e nelle more del processo legislativo per la
sua abolizione, la moratoria delle varie esecuzioni. Per esempio, la Federazione
russa non esegue più condanne a morte da quando è entrata nel Consiglio e ha
avviato il processo di revisione costituzionale per la sua abolizione. La
Bielorussa invece esegue ancora condanne a morte.
I
membri del Comitato hanno profili professionali diversi, la maggior parte sono
giuristi ma vi sono anche medici legali, psichiatri, esperti di carcere. Il
Comitato infatti si interessa di privazione della libertà nella sua accezione
più ampia. Il carcere è senz’altro la forma principale, ma non è la sola e
non è quindi la sola area del nostro controllo. Vi sono poi le Polizie – e
uso volutamente il plurale poiché, oltre al sistema duplice presente in molti
Paesi quale quello italiano tra Polizia di Stato e Carabinieri o quello francese
tra Polizia di Stato e Gendarmerie, vi sono le polizie di frontiera e le molte
polizie locali, alle quali è stata via via data la possibilità di detenere,
seppure per periodi brevi, le persone fermate.
Alcuni
di voi certamente ricordano, per esempio, due casi che lo scorso anno sono stati
riportati dalla stampa: quello di una ragazza tenuta a terra in una cella a
Parma, e un altro sempre a Parma di uno straniero tenuto incatenato a un pilone
in una strada, in attesa dell’arrivo di un convoglio. Due casi di trattamento
offensivo della dignità delle persone coinvolte, entrambi di responsabilità di
esponenti dei vigili urbani, cioè della Polizia locale.
Oltre
a carcere e polizie, la terza area di controllo è quella dei Centri per gli
immigrati, comunque siano denominati nei vari Paesi; rappresentano una forma
ormai sempre più frequente di privazione della libertà su base amministrativa.
La quarta area riguarda gli istituti psichiatrici con ricovero coatto, o i
trattamenti sanitari obbligatori (in Italia indicati appunto come TSO): in
Italia fortunatamente molte di queste istituzioni appartengono al passato,
grazie alla cosiddetta legge Basaglia, ma nel panorama geografico vasto che ho
prima delineato, le realtà manicomiali sono tuttora ampiamente presenti.
Infine,
ci sono due ulteriori aree di cui nell’occidente europeo c’è meno
esperienza. La prima riguarda la protezione sociale offerta a persone tolte
dalla strada, per esempio i bambini abbandonati e posti sotto la tutela dello
Stato in appositi istituti dove l’assistenza sfocia nel controllo. Anche in
questo caso si tratta di persone private della libertà da parte dell’autorità
pubblica. La seconda riguarda la pratica – frequente nei Paesi dell’est
europeo – di colloqui informativi condotti spesso dall’intelligence in cui
la persona interrogata ha uno status legale ambiguo: non è un sospettato o un
imputato, né un testimone, non ha assistenza legale e non è comunque
autorizzato a lasciare il luogo del colloquio. Di fatto, seppure per un periodo
più o meno breve, e che spesso è un periodo oscuro, sottratto a ogni sguardo e
garanzia, è privato della libertà.
Le
aree di intervento del Comitato sono, quindi, ampie. Il Comitato effettua
visite, principalmente non annunciate, a tutte queste diverse realtà. Spesso le
visite sono in orari notturni perché sono queste le ore più a rischio in molte
celle di polizia. Il fatto stesso che tali luoghi possano essere visitati in
modo inatteso, non annunciato, ha di per sé funzione preventiva rispetto ai
maltrattamenti.
Come
sono organizzate le visite ai luoghi di provazione della libertà
Le
visite sono di due tipi, visite di tipo periodico e visite ad hoc.
Le
visite periodiche sono attese dai vari Stati; infatti, poiché il Comitato ne
compie circa undici o dodici l’anno e gli Stati sono 47, ogni Stato sa di
ricevere una visita circa ogni quattro anni; di più l’elenco delle visite di
un dato anno viene annunciato al dicembre dell’anno precedente. Per esempio,
la Spagna sa che nel 2011 riceverà una visita, anche se non sa quando né sa
quali Istituti verranno visitati. Come elemento di cooperazione, il Comitato
indica un Istituto che intende visitare, ma ovviamente precisa nella lettera di
notifica che la delegazione che visiterà il Paese è libera di visitare ogni
altro istituto che riterrà opportuno. Una visita periodica dura circa dodici-
tredici giorni.
Le
visite ad hoc sono invece più brevi e più mirate e vengono fatte quando
richiesto da particolari circostanze, sia per valutare se alcune raccomandazioni
hanno trovato un’azione adeguata da parte delle autorità, sia perché è
sorta una particolare esigenza. Per esempio, quando ci sono state le elezioni
nella Repubblica di Moldova, si è avuta notizia di arresti di massa e di
maltrattamenti e si è deciso di inviare immediatamente una delegazione per
esaminare la situazione. Analoga è stata la decisione rispetto all’Italia
quando sono stati effettuati respingimenti di immigrati in mare aperto.
L’ampiezza
delle situazioni da verificare determina la necessità di avere nel Comitato una
presenza larga di professionalità. L’ampiezza numerica delle persone private
della libertà determina che sempre il controllo sarà un controllo a campione.
I detenuti – e mi riferisco al solo carcere – per esempio sono attualmente
in Europa circa un milione e ottocentocinquantamila; quindi, il rapporto con
reti indipendenti di monitoraggio locale, cioè su base nazionale, è
indispensabile.
Soltanto
la Federazione russa, per esempio, ha ottocentomila detenuti, di cui più di
centoventisettemila sono in attesa di giudizio (il rapporto numerico tra
definitivi e detenuti in custodia cautelare è comunque migliore di quello
italiano). Il cosiddetto tasso di detenzione nella Federazione russa è circa 6:
cioè 6 detenuti ogni mille abitanti.
Riguardo
al tasso di detenzione, attualmente in Italia è 1,3, essendoci quasi
settantamila detenuti rispetto a una popolazione di circa sessanta milioni.
Tuttavia, quando si considera il tasso di detenzione, va tenuto presente che
ogni statistica va letta con le dovute cautele. Ricordo una poesia di un noto
poeta romanesco dello scorso secolo, Trilussa, che sottolineava come da una
statistica di mezzo pollo per ciascuno si potesse però ricavare che qualcuno
mangiava un pollo intero e qualcun altro non ne mangiava affatto. Ora, la
popolazione detenuta è prevalentemente maschile, essendo le donne circa il 5
per cento mediamente nei Paesi europei; questo comporta che se ci si riferisce
alla sola popolazione maschile, il tasso di detenzione diviene molto più alto;
non solo, ma dall’intera popolazione vanno esclusi neonati, bambini e vecchi:
si ricava che considerando la popolazione maschile di età compresa tra i 20 e i
55 anni, il tasso di detenzione diviene circa 4: un detenuto ogni 250 abitanti.
Oltre
a prevedere la possibilità d’accesso ai luoghi, la Convenzione prevede per il
Comitato la possibilità di parlare in privato con qualsiasi persona privata
della libertà, di avere accesso al suo fascicolo e a tutte le informazioni che
ritenga utili per il proprio lavoro, nonché di interrogare tutte le persone che
ritenga possano fornire informazioni necessarie alla valutazione della
situazione.
Quindi
la Convenzione prevede per il Comitato poteri molto ampi, molto superiori a
quelli di qualunque autorità nazionale. Tuttavia, come ogni trattato, questi
poteri sono bilanciati da obblighi: nel caso del Comitato l’obbligo della
riservatezza. Le informazioni ottenute non possono essere rese pubbliche se non
attraverso un Rapporto inviato agli Stati, la cui pubblicazione però avviene
solo a richiesta dello Stato interessato.
Essere
tenuti alla segretezza significa che i risultati delle nostre indagini fanno
parte di un dialogo tra noi e le autorità dello Stato interessato, una sorta di
dialogo sintetizzabile con un’espressione del tipo “tu sai che io so”,
quindi discutiamo insieme su cosa cambiare, come e con quali urgenze.
Da
qui le raccomandazioni che gli Stati sono tenuti a prendere seriamente e a
seguire in tempi rapidi. Le raccomandazioni possono essere di vario tipo, dalle
più generali alle più particolari, dall’invito a cambiare la legge al far
aprire un procedimento rispetto a quel particolare funzionario. Esse vengono
inserite nel rapporto sulla visita che comunque non contiene tutto ciò che il
Comitato ha appreso, perché parte del dialogo con lo Stato avviene in incontri
e scambi di lettere.
Solo
se uno Stato dà informazioni false o se platealmente non dà seguito alle
raccomandazioni ricevute, allora il Comitato con un’apposita procedura
interna, che prevede la possibilità per lo Stato di fornire il proprio punto di
vista e le proprie giustificazioni, e con una maggioranza dei due terzi degli
aventi diritto al voto, quindi due terzi dei membri del Comitato stesso, può
rompere la segretezza e decidere di pubblicare i documenti di questo scambio: un
cosiddetto public statement.
Questa
è una misura estrema, spesso più minacciata che adottata. A me personalmente
è capitato in uno Stato nello scorso anno, di andare a parlare con le massime
autorità governative per dire che la situazione era giunta al “punto
terminale” e che il Comitato stava per emettere un public statement se
una certa situazione non fosse mutata. Nel colloquio abbiamo fatto presente che
certamente al governo sarebbe convenuto adottare la misura richiesta e farla
risultare come propria iniziativa e non come decisione presa sotto la minaccia
di una dichiarazione pubblica di inadempienza da parte di un organo
sovranazionale. Il governo ha deciso a quel punto di fare quanto gli veniva
richiesto e nessuno mai saprà in quale contesto tale decisione è stata presa;
per noi era importante il risultato raggiunto, non certo far sapere che era
stato ottenuto sotto la nostra pressione. Questo sintetizza un po’ il modo di
operare in funzione di pressante persuasione, piuttosto che di sanzione.
Da
questo punto di vista il Comitato è un organo di cooperazione con gli Stati.
Ho
accennato precedentemente che l’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani
è inderogabile. Per far capire l’importanza di questa sua connotazione voglio
dare un esempio concreto. Quando, dopo l’11 settembre il Regno Unito ha
adottato una particolare legislazione di emergenza, che prevedeva la possibilità
di privare le persone della libertà a tempo indeterminato senza
l’informazione al magistrato e senza un’imputazione formale, ha
conseguentemente comunicato la deroga rispetto agli obblighi relativi
all’articolo 5 della Convenzione (la conferma della privazione della libertà
da parte del magistrato). Una deroga che è andata avanti fino alla fine del
2004, quando è stata abolita dalla Camera dei Lord. In questo stesso periodo
però il Comitato ha sempre avuto accesso alle persone detenute secondo questa
normativa adottata, proprio perché l’articolo 3 non è invece derogabile e
noi dovevamo controllare che le persone così ristrette non fossero sottoposte a
maltrattamenti o torture. Poteva il Regno Unito negare le persone finanche al
magistrato, in virtù della deroga, ma non a noi che abbiamo il compito di
vigilare su un articolo non derogabile. Capite allora che sotto il profilo della
prevenzione tale potere ha un significato forte.
Spesso
quando parlo con studenti e descrivo ruolo, funzioni e poteri del Comitato, mi
viene posta la domanda: “Ma funziona o non funziona questo
meccanismo?”. La mia risposta è che certamente non funziona,
almeno pienamente, perché le violazioni ancora esistono. Però al
contempo funziona, se questo meccanismo non ci fosse, la
situazione sarebbe molto peggiore. Per esempio in Europa una situazione come
quella di Guantanamo, inteso come luogo ufficialmente definito e legalmente
stabilito, ma oscuro e impenetrabile a sguardi esterni, non è possibile, perché
il Comitato avrebbe comunque accesso a esso. Non si esclude certo che in Europa
vi siano state detenzioni segrete, ma appunto devono essere tenute tali, devono
essere tenute nascoste alle nostre indagini, devono essere negate dal potere. La
differenza non è di poco conto.
Elton
Kalica: Noi
abbiamo visto nel caso Sulejmanovič che la Corte ha fatto riferimento agli
standard stabiliti dal Comitato, ci piacerebbe sapere qualcosa di più su questi
standard nei luoghi di detenzione.
Anche
qui alla Casa di reclusione di Padova abbiamo un problema di sovraffollamento,
noi abbiamo chiesto per lo meno di rendere più vivibile la situazione, per
quanto riguarda le attività trattamentali, estendendo gli orari di apertura
delle celle e anche gli orari per frequentare le attività, perché almeno si
faccia qualcosa per “compensare” le condizioni pesanti in cui si vive con
una maggiore “libertà di movimento”.
Ci
interessa perciò sapere com’è il panorama che il Comitato ha trovato in giro
per l’Europa e quali sarebbero gli standard accettabili.
Ornella
Favero: Io
vorrei capire esattamente le responsabilità, cioè rispetto a questa situazione
di illegalità ci sono comunque delle responsabilità precise da individuare.
I
responsabili sanitari ad esempio devono firmare l’abitabilità delle celle, mi
piacerebbe capire come funziona questa questione e chi si assume la
responsabilità di far stare illegalmente in uno spazio così stretto un numero
di persone così rilevante.
Un
cittadino fuori non avrebbe mai l’abitabilità a casa sua se dicesse che la
sua famiglia vive nelle condizioni in cui si vive qui dentro, mi vengono in
mente certi paesi vicino a Padova dove facevano le ispezioni nelle case degli
immigrati e dicevano che lì non ci poteva stare quel numero di persone fuori
dalla norma, poi però nelle celle è accettato qualsiasi numero.
Filippo
Filippi: Aggiungo
una domanda molto breve, quanti siete voi del Comitato e come fate fronte a
tutti i compiti che avete da svolgere?
Mauro
Palma: Siamo in
quarantasette, uno per Stato. Diciamo che complessivamente è un gruppo di
ottanta persone formato dai membri del Comitato e quelli del segretariato;
questi ultimi sono impiegati permanenti presso il Consiglio d’Europa, hanno
un’organizzazione interna che fa capo al Segretario esecutivo del Comitato, lo
stesso da quando il Comitato esiste, e che consta di tre divisioni, a ciascuna
delle quali è assegnato un certo numero di Stati. Anche noi come membri abbiamo
alcuni Stati, per esempio fin dall’inizio le mie due aree sono state i Balcani
e il Caucaso.
Il
format di una visita, per esempio periodica, è di questo tipo: la delegazione
è composta da cinque-sei membri, due della segreteria che li accompagnano e poi
uno-due esperti aggiuntivi necessari a coprire le aree tematiche non coperte dai
membri; poi ci sono gli interpreti e uno psichiatra, in primo luogo perché
occorre quasi sempre visitare almeno una istituzione psichiatrica, ma anche
perché è sempre utile avere nel gruppo un supporto di tipo psicologico.
Soprattutto
per quel che riguarda la tortura, occorre tenere presente che quando si indaga
su un caso e si interroga la vittima, di fatto si riapre una ferita profonda.
E, quando si riapre una ferita, attraverso un ricordo che spesso il soggetto ha
cancellato o vuole cancellare, occorre anche saperla richiudere. Sono dinamiche
complesse; una volta mi sono trovato in una situazione di totale coinvolgimento
emotivo dell’interprete che piangeva e non era in grado di proseguire, né io
avevo possibilità di continuare perché non conoscevo la lingua. Un sostegno
psicologico nel gruppo è ben utile in questi casi.
Come
ho detto, una visita periodica dura circa due settimane. Ovviamente si procede a
campione nel selezionare gli Istituti, ma anche sulla base di informazioni che
noi abbiamo attraverso varie fonti, spesso organizzazioni non governative che
suggeriscono dove andare e cosa osservare. Attraverso visite, raccomandazioni e
rapporti, il Comitato ha elaborato un insieme di standard. Quando parliamo di
standard dobbiamo fare una differenza tra quelli del CPT e quelli definiti dalle
Regole penitenziarie europee del Consiglio d’Europa: questi ultimi sono
standard relativi a come dovrebbe essere la detenzione; i nostri standard
sono invece relativi a come non può mai essere, perché il loro compito
non è definire le politiche penitenziarie, ma prevenire il degradare delle
situazioni verso condizioni inaccettabili. Essi stabiliscono qual è quella
soglia minima al dì sotto della quale il trattamento diventa maltrattamento Per
esempio, se le Regole penitenziarie europee indicano che i detenuti dovrebbero
avere almeno la possibilità di fare due docce a settimana, il CPT, tenendo
presente che allo stato attuale è ben difficile che tutti i 47 Paesi soddisfino
questo standard, anche perché in alcuni di essi due docce settimanali non le
fanno nemmeno fuori, indica la necessità di almeno una doccia alla settimana.
Va
detto comunque che le Regole penitenziarie europee tendono a essere sempre più
elemento di riferimento per il Comitato, così come per la Corte.
Nel
caso Sulejmanovič, a nostro parere e a parere della Corte, quella soglia
minima era stata oltrepassata; il CPT tende a non essere rigido nelle sue
valutazioni, pur dando in generale lo standard secondo cui una cella fino agli
otto metri quadri dovrebbe contenere una sola persona, soprattutto per quanto
riguarda le detenzioni lunghe. Lo standard più generale che diamo, indica che
una cella collettiva dovrebbe misurare almeno quattro metri quadri più due per
ogni altra persona, quindi se si hanno tre persone dovrebbe essere almeno di
dieci metri quadri. Ovviamente vanno considerate anche le condizioni generali,
per esempio per quante ore la cella è aperta, quali possibilità di attività
al di fuori di essa hanno i detenuti e così via.
Quello
però che si è stabilito è che tre metri quadri sono il limite estremo, minimo
invalicabile, per la detenzione di una persona; al di sotto di tale limite anche
le condizioni generali di apertura della cella e di accesso all’aria non hanno
rilevanza perché le condizioni vengono comunque considerate come inaccettabili.
Da qui è nata la sentenza Sulejmanovič.
Il
problema del sovraffollamento è un problema grave che riguarda molti Paesi
europei. Vi sono tuttavia vari modi per considerarlo e per cercare soluzioni;
per esempio – e non cito a caso, ma sulla base di esperienze concrete – ci
sono Paesi dove l’autorità inquirente, prima di emettere un provvedimento
restrittivo, si informa della sua eseguibilità concreta in condizioni
dignitose; se non ci sono le condizioni il provvedimento è adottato solo in
situazioni di assoluta necessità. E questa è forse la prima forma di
regolazione della questione del sovraffollamento.
Da
noi c’è un ulteriore problema: in carcere vengono portate anche le persone il
cui fermo è in attesa di convalida. Questa misura adottata a suo tempo è una
forma di garanzia perché evita il ricorso all’uso delle camere di sicurezza e
soprattutto introduce una seconda responsabilità, quella del sistema
penitenziario, rispetto a quella che ha operato l’arresto. Avere un sistema
che distingue tra responsabilità nelle diverse fasi è sempre una buona
garanzia. Tuttavia queste presenze, spesso della durata di uno-due giorni,
incidono sui numeri e sulla vita interna di un carcere circondariale, che sembra
quasi una stazione ferroviaria.
I
giorni scorsi ci sono stati 23 arrestati alle manifestazioni degli studenti a
Roma; qual è stato il senso del loro essere stati tradotti in carcere, per poi
essere rilasciati due giorni dopo? Non si poteva trovare un’altra soluzione
rispetto all’arresto? Non potevano essere tenuti sotto controllo in forme
diverse? È un tema da affrontare con grande cautela, perché l’esito non può
essere quello di ritornare all’uso sistematico delle camere di sicurezza;
soprattutto nelle condizioni in cui sono attualmente in Italia, posti orrendi.
Occorre ragionare sulle varie ipotesi e pensare a strutture leggere, diverse da
quelle strettamente carcerarie, da mantenere comunque sotto una responsabilità
diversa da quella di chi ha operato l’arresto.
Comunque
il tema va affrontato e vanno individuate soluzioni percorribili. Vorrei
ricordare, oltre alla citata sentenza Sulejmanovič, un’altra sentenza
della Corte di Strasburgo, del 2003: la sentenza Kalashnikov contro la
Federazione russa, in cui la Corte ha stabilito che le condizioni dal punto di
vista sia dell’affollamento sia della situazione igienico-sanitaria in cui
questa persona era stata tenuta, erano una violazione dell’articolo 3,
indipendentemente dal fatto che nel carcere avevano cercato di attenuare la
situazione insostenibile. Le condizioni erano di per sé una violazione. È una
sentenza importante perché evidenzia che i trattamenti inumani o degradanti
possono concretizzarsi, a differenza della tortura, anche quando non c’è
volontà esplicita di infliggere sofferenza, ma come il risultato di una serie
di concause.
Nel
caso italiano, io credo che per le indecenti condizioni attuali, ci siano anche
responsabilità delle autorità sanitarie; c’è una responsabilità delle Asl.
Osservo che la sanità è l’unica materia di totale competenza regionale;
quindi, è l’unica area in cui l’intervento di un garante regionale dei
detenuti potrebbe avere incidenza diretta. Inoltre osservo che la situazione
presente ha la fisionomia dell’illegalità, cioè del non rispetto da parte
dell’Amministrazione penitenziaria stessa delle regole stabilite (Ordinamento
del 1975 e Regolamento del 2000) per la detenzione. È una situazione di
a-legalità o forse anche di illegalità. Quest’ultimo è il termine esatto:
scusate una parentesi, ma noi siamo abituati a vedere legalità o illegalità
solamente relativamente ai diritti individuali e non ai diritti
collettivi, per cui se io rubo a lui il portafoglio vado contro il diritto
individuale alla proprietà e sono perseguibile, attraverso un meccanismo di
intervento penale ben definito. I diritti sociali, collettivi, non hanno una
forma di tutela simile: se a me è stata “rubata” la possibilità di accesso
effettivo alle cure, la mia salute, per l’inadempienza del sistema sanitario,
non ha una forma analoga di tutela; il controllo è affidato per questi diritti
proprio alla capacità di organizzazione dal punto di vista sociale e
territoriale.
Elton
Kalica: Proprio
sull’assistenza sanitaria in carcere, siccome già al suo terzo rapporto
generale il Comitato aveva indicato alcuni standard sulle visite mediche, su
come queste devono essere fatte, sul tipo di trattamento medico che il detenuto
dovrebbe ricevere, ci interesserebbe capire meglio come dovrebbero funzionare le
cose. Le porto degli esempi concreti: per quanto riguarda la prevenzione il
Comitato faceva riferimento in questo rapporto anche al fatto che il carcere, o
comunque il Sistema Sanitario all’interno del carcere, dovrebbe fare un grosso
lavoro di prevenzione, oltre a quello di cura, e invece in questo campo non si
vede molto.
Un
altro piccolo esempio è che prima del passaggio della Sanità penitenziaria al
Sistema Sanitario Nazionale il Ministero della Giustizia garantiva le protesi
dentarie ai detenuti che non potevano pagarsele, adesso invece il Servizio
Sanitario dice che ai cittadini fuori non vengono date gratuitamente le protesi
e quindi nemmeno ai detenuti.
Quali
sono allora le indicazioni o l’orientamento del Comitato sulle questioni della
salute?
Mauro
Palma: Questo
nel caso italiano è un punto molto sensibile; recentemente c’è stata una
visita del CPT centrata proprio sull’esame del passaggio della sanità
dall’amministrazione della giustizia al Servizio Sanitario Nazionale.
Io
dico subito che noi abbiamo in generale un atteggiamento favorevole a questo
passaggio, anche se ciò che a noi preme è che siano assicurate cure e
prestazioni, indipendentemente dall’organizzazione che il servizio ha in un
determinato Stato. Ci preme però anche che i medici siano indipendenti e che
soggettivamente si sentano tali e siano visti come tali dai detenuti.
I
due principi rispetto al servizio di sanità in carcere, da tenere ben saldi e
da articolare nei vari standard, sono l’indipendenza dei medici e
l’equivalenza tra cure previste all’interno e all’esterno, per quanto
attiene accesso a visite specialistiche, cure specifiche, tempi ecc.
Partiamo
allora dall’indipendenza. È ovvio che si crei spesso un elemento di
“colleganza” tra i medici di un carcere e gli altri operatori, inclusa la
direzione e l’amministrazione; ed è altrettanto ovvio che l’appartenenza a
un’amministrazione esterna tuteli di più. Dico cose banali e concrete: per
noi, per esempio, il medico ha un ruolo fondamentale nel prevenire i
maltrattamenti, perché in quelle celle che nominavamo prima, dove si è messi
subito dopo un fermo o un arresto, avvengono a volte cose un po’ singolari ed
è molto singolare che tante volte nel cosiddetto registro 99, dove dovrebbero
essere riportate le lesioni riscontrate, si trovino solo pagine bianche. È
singolare che esistano medici che visitino una persona all’atto della sua
ammissione in carcere alla presenza di personale non medico e dipendente
dall’amministrazione, alla presenza di agenti di polizia penitenziaria. Questa
situazione è vietata da ogni norma e raccomandazione, eppure avviene; è
tollerata solo se un medico richiede la presenza di un agente, in un caso
specifico, per ragioni di sicurezza e in tal caso la richiesta va motivata e chi
esamina poi registri e carte deve capire perché in quel giorno, in quella
situazione, tale richiesta è stata avanzata.
A
volte inoltre il medico non richiede alla persona che visita in questa delicata
fase di togliersi gli abiti e si limita a una vista esterna e qualche domanda.
Ora si sa bene che per menare una persona ci possono essere molti metodi che non
lasciano segni nelle parti visibili; quindi fa parte della deontologia medica il
fatto, prima di annotare che la persona non presenta segni, di chiedere che si
spogli, visitarla, parlarci senza altre orecchie che ascoltano. Tutte queste
possibilità sono più effettive quando non c’è un rapporto di dipendenza dei
medici dall’amministrazione penitenziaria.
C’è
poi una questione italiana su cui noi abbiamo molto da ridire: in Italia, in
generale, il medico fa parte del Consiglio di disciplina del carcere; questa
situazione per noi è una cosa inaccettabile perché rompe la relazione
medico-paziente. Il medico in carcere è il medico del paziente e il paziente è
il detenuto; non è parte dell’Amministrazione, ha e deve avere un ruolo di
autonomia e indipendenza del tutto impermeabile alle necessità
dell’Amministrazione. Se si coinvolge il medico nella procedura disciplinare,
per esempio per stabilire se una persona possa essere inviata all’isolamento,
si rompe questa connotazione di assoluta indipendenza che non è soltanto una
connotazione personale, ma è anche percezione d’indipendenza da parte dei
detenuti. Il medico deve avere il potere di visitare immediatamente e
autonomamente la persona isolata e di interromperne l’isolamento in qualsiasi
momento: questo è quanto avviene negli Stati che seguono i nostri standard.
Per
quanto riguarda l’equivalenza, questa non si realizza nell’avere lo stesso
atteggiamento rispetto a soggetti che sono in realtà tra loro disuguali.
L’equivalenza socialmente vissuta è la possibilità di funzionare in maniera
compensativa, rispetto ai soggetti più deboli, cioè chi è in situazione di
disagio fuori e chi è in situazione di disagio dentro l’istituzione. È ovvio
che se c’è una politica territoriale che non considera chi è in situazione
di disagio fuori, tanto meno considererà chi è in situazione di disagio
dentro, per cui è una battaglia questa che va fatta in un certo senso fuori dal
carcere. Io non ho idea di come sia la situazione qui localmente, però penso
che questi problemi possano e debbano essere affrontati in maniera migliore e più
coordinata nel rapporto tra Asl, Provveditorato dell’amministrazione
penitenziaria e osservazione esterna. L’occhio esterno è sempre importante;
non so per esempio se in Veneto sia stata introdotta o meno la figura del
garante.
Ornella
Favero: No, e di
fatto si sente l’assenza di un garante, in modo particolare sulle questioni
riguardanti la salute, perché il problema vero in carcere è come far valere i
diritti, che una persona non ha perso con la carcerazione. Certo c’è il
magistrato di Sorveglianza, ma io vorrei anche ragionare su quali strumenti ha
la persona detenuta per far riconoscere i suoi diritti, perché non restino
sulla carta.
Elton
Kalica: Mi pare
che ci sia un altro problema che anche il Comitato si deve porre nel caso
dell’Italia: siccome il Servizio Sanitario è di competenza delle Asl, se oggi
ci dovesse essere una visita della delegazione del Comitato che entra in un
carcere italiano e vede una situazione in cui c’è un detenuto al quale per un
lungo periodo non sono state fatte le cure mediche adeguate, oppure una
situazione igienico-sanitaria in chiara violazione dei suoi diritti, il Comitato
a chi si deve rivolgere e con chi se la deve prendere, dato che il carcere e il
Ministero della Giustizia possono dire che oramai non hanno più voce in
capitolo, ecco anche questo è un problema.
Mauro
Palma: Mettiamo
qualche paletto: quando una persona è privata della libertà da un’autorità
pubblica, la responsabilità finale di tutto ciò che si determina è
dell’autorità pubblica che la sta privando della libertà e che l’ha in
carico. In ultima analisi di quello che succede in carcere è il Direttore a
rispondere. D’altra parte questo avviene in tutte le istituzioni dove c’è
un “affidamento” a un soggetto pubblico – succede anche per i ragazzi a
scuola. Quindi, rispetto a determinati problemi, il primo istituto è quello del
ricorso, o alla Direzione o al magistrato di Sorveglianza, che ha dei compiti
complessivi di controllo dell’istituto di pena.
Noi
purtroppo siamo passati a una logica per cui il magistrato di Sorveglianza è
principalmente il magistrato delle misure alternative, più che il magistrato
del controllo sull’istituto. Ma, per esempio, il magistrato ha anche la
possibilità – e qualcuno l’ha fatto – di chiedere alla Asl di intervenire
dal punto di vista igienico-sanitario, così come farebbe un magistrato con il
compito di sorvegliare un qualunque altro luogo pubblico rispetto alle
condizioni igienico-sanitarie. Quindi il magistrato di Sorveglianza va
responsabilizzato in una versione che noi chiamiamo “proattiva”, nel senso
di non attivarsi solo in base a reclami e lagnanze ricevute, ma anche di
attivarsi autonomamente nell’effettuare controlli.
Credo
che potrebbe essere utile organizzare degli incontri con i magistrati di
Sorveglianza a livello regionale per affrontare una discussione franca su questi
temi. Certamente i magistrati faranno presente la loro difficile e vera
situazione di essere sotto organico e di non riuscire neppure a venire in
carcere per incontrare i detenuti, però va sempre tenuto presente che il punto
centrale della loro funzione è proprio il controllo attivo. Tale controllo è
spesso ricordato dai magistrati stessi, quasi reattivamente, quando si parla di
introduzione del garante, ma poi è spesso dimenticato nella quotidianità della
funzione da parte di molti.
Poi
ci sono le vie di ricorso alla Corte di Strasburgo, da cui è partito il nostro
colloquio. Se, per esempio, una persona ricorre per omessa cura (ricordatevi
anche la sentenza della Corte di Strasburgo nel caso Scoppola contro l’Italia)
al magistrato di Sorveglianza e il magistrato non interviene, a quel punto
il ricorso va al Tribunale di Sorveglianza, se ancora non si ha un intervento
anche in questo caso, la situazione può venir posta a Strasburgo: il percorso
è quello già delineato, si accede alla Corte solo dopo aver percorso
inutilmente le vie interne per ottenere rimedio.
Ornella
Favero: Che
tempi ci sono per fare in modo che non sia una cosa eterna? Perché un problema
che riguarda la salute ha sempre una grande urgenza.
Mauro
Palma: I tempi
sono un punto dolente del sistema giudiziario italiano e anche di quello
relativo all’esecuzione penale. Faccio l’esempio del già citato caso
Scoppola perché si trattava di un detenuto con patologie, gravi impossibilità
motorie e di autoaccudimento ed era impossibile la sua detenzione nel carcere
ove era ristretto e dove doveva essere aiutato dai compagni di cella anche per
le sue funzioni fisiologiche elementari. Il problema era il suo trasferimento a
Parma, dove c’è un Centro per disabili; lo stesso magistrato aveva detto che
doveva essere trasferito nel centro specializzato con grande rapidità, ma il
DAP ci ha impiegato tredici mesi a trasferirlo. In questo caso l’Italia è
stata condannata per violazione dell’articolo 3, perché non ha avuto un
atteggiamento di prontezza nel rimuovere la situazione in essere, ma ha atteso
dei tempi burocratici lunghissimi.
Guardate
che ci deve far riflettere che l’Italia sia stata condannata per tante
questioni a Strasburgo, principalmente per l’irragionevole durata del
processo, ma anche per non equo processo nel caso Dorigo – non equo processo,
anche se nella legge italiana la condanna della Corte non è motivo per la
revisione del processo. L’Italia tuttavia per quarantotto anni non era stata
mai condannata per la violazione dell’articolo 3. Negli ultimi due anni e
mezzo l’Italia lo è stata per le situazioni penitenziarie due volte (caso
Sulejmanovič e caso Scoppola); questo è un po’ il segnale che il
sistema, per il disinteresse sociale, per il taglio delle risorse, si sta
deteriorando pesantemente.
Dopo
il caso Sulejmanovič sono già arrivati più di mille ricorsi; recentemente
è stata fatta la prima accettabilità del primo stock di ricorsi, che mi sembra
riguardino Bergamo. I tempi non sono brevissimi, però attualmente uno specifico
protocollo potrà accelerarli poiché quando un caso è palesemente uguale a
un caso già esaminato e considerato, la decisione è monocratica; non si
riunisce più il collegio e la situazione è ben più spedita.
Ornella
Favero: Ma il
ricorso può essere fatto direttamente a Strasburgo per quanto riguarda il
sovraffollamento, e non passando attraverso il magistrato?
Mauro
Palma: Sulla
questione del sovraffollamento non c’è un diritto interno, per cui la Corte
ha stabilito che un meccanismo di risarcimento interno rispetto al
sovraffollamento non è in essere e quindi puoi rivolgerti direttamente alla
Corte.
E
poi voi sapete che attualmente non c’è nel Codice penale il reato di tortura,
tant’è che nel processo per il G8 di Genova il Pubblico Ministero in udienza
ha fatto riferimento all’articolo 3 della Convenzione europea per i Diritti
Umani perché – ha detto – non c’è un reato specifico che qualifichi
propriamente quanto avvenuto. Questo non significa che le condotte costituenti
tortura non siano perseguite in Italia, ma sono perseguite con altre forme di
reato tipo l’abuso, la violenza privata, la violenza privata aggravata: figure
deboli e a rapida prescrizione.
Bruno
Turci: Lei prima
ha parlato di condanna per ingiusto processo e ha detto anche che la condanna
della Corte non è motivo per la revisione del processo, ci può spiegare questa
questione?
Mauro
Palma: La
questione è in questi termini: per una possibile revisione del processo, quindi
per la sua riapertura, è prevista soltanto la possibilità di nuovi elementi
fattuali e probatori che siano nel frattempo emersi. In tale elenco delle
possibili motivazioni da esaminare per una ipotesi di riapertura non è compresa
la sentenza della Corte sul processo non equo.
Nel
caso Dorigo che ho citato, la Corte ha stabilito che il processo non si è
svolto in modo equo e l’Italia tuttavia non ha riaperto il caso, non essendoci
un nuovo elemento processualmente rilevante che consentisse di esaminare
l’istanza di possibile riapertura.
Questa
è una delle questioni su cui c’è una forte pressione sull’Italia; tra
l’altro recentemente è venuto in Italia anche l’attuale Segretario generale
del Consiglio d’Europa e si è incontrato con le massime autorità italiane, e
anche questo aspetto è stato inserito nei colloqui, perché è un punto
dirimente la possibilità di riaprire un processo, se un organo sovranazionale
dichiara che esso non si è svolto in modo equo.
Gentian
Belegu: Io mi
trovo in carcere dal 2006 per omicidio su due casi analoghi, per i quali nel
primo caso ho dichiarato la mia colpevolezza e sono stato condannato a 30 anni,
e invece per il secondo, per il quale devo ancora fare la Cassazione, vorrei
sapere quali sono gli elementi a mia disposizione per dimostrare la mia
estraneità ai fatti.
Mauro
Palma: Questo è
un tipico caso dove bisogna attendere prima che finisca il diritto interno, in
quanto la questione non è stata ancora definita in Cassazione.
Solo
dopo la Cassazione, si può iniziare la procedura per stabilire se siano stati
rispettati o meno i propri diritti fondamentali. Tenete comunque presente che a
Strasburgo non si può intervenire sulla sostanza: non è un quarto grado di
giudizio. Va soltanto valutato se ci sono state testimonianze non prese in
considerazione, notificazioni non avvenute e simili altre mancanze. In questo
caso io potrei individuare come unica violazione possibile quella del processo
equo, però perché un processo non sia equo deve avere qualche cosa che è
stata formalmente richiesta e non concessa, o interrogatori fatti senza la
presenza di un avvocato, o non aver fatto le notifiche nei tempi stabiliti e
quindi non poter preparare la difesa.
Miroslav
Lazarov:
Mi risulta che uno straniero detenuto in Italia ha diritto ad una traduzione
degli atti in lingua madre e ad un interprete.
Mauro
Palma:
Ha diritto ad una traduzione in lingua a lui comprensibile.
Miroslav
Lazarov: Proprio
riguardo al processo equo, come è possibile che un giudice non riconosca il
diritto ad avere una traduzione per uno straniero che è in Italia da soli 8
mesi? In 8 mesi uno straniero come può esprimersi, come può difendersi ad
esempio in un processo ordinario?
Mauro
Palma:
Io qui vorrei rispondere sia in maniera personale, che in maniera formale.
Sul
piano personale, io credo che capire cosa mi sta succedendo costituisca un
diritto basilare di ogni persona e trovo che ci sia molta arretratezza nel
recepire tale diritto fondamentale. Posso portare l’esempio di quanti
respingimenti siano stati messi in atto in mare senza che alcuno abbia fatto
richiesta di asilo: mi chiedo quante di quelle persone, appena tolte da quei
barconi in una situazione difficile, fossero in grado di comprendere la
possibilità e il significato dell’asilo politico.
La
risposta formale è invece che su questo c’è molta cautela da parte dei Paesi
europei, dove la traduzione è prevista sostanzialmente per gli atti
principali di un procedimento. Nell’Unione europea è attualmente in corso
una discussione sulle garanzie procedurali; è la cosiddetta “roadmap di
Stoccolma”, adottata durante il semestre di Presidenza svedese. La
discussione è sulle garanzie fondamentali e la prima di queste, su cui c’è
accordo – seppure nei limiti che ho prima detto – è la garanzia della
traduzione degli atti principali; la seconda su cui si è ora iniziata la
discussione è la possibilità di avere l’avvocato sin dall’inizio della
privazione della libertà.
Filippo
Fillippi: Io
invece vorrei che si definisse meglio il ruolo che ha un direttore di un carcere
rispetto al sovraffollamento, che in molti istituti rasenta il trattamento
inumano e degradante, e qual è quello del magistrato di Sorveglianza, che deve
controllare le modalità di gestione della pena, ma anche che venga rispettato
il diritto che questa condanna sia scontata nelle modalità che l’Ordinamento
penitenziario prevede.
Mauro
Palma: Innanzi
tutto, il ruolo di un direttore è sempre, a mio parere, in Italia come altrove,
quello di pensare e costruire, insieme alla sua équipe, un progetto, lo
sviluppo di un’idea sulla detenzione nel carcere che dirige. Progettare, può
sembrare banale ma invece è un’attività che compendia molti aspetti,
soprattutto indica una visione del carcere che non è quella del mero
contenimento. Purtroppo proprio questa progettualità manca in molte
amministrazioni penitenziarie.
Il
direttore è anche però sintesi e modello delle relazioni che si stabiliscono
in carcere, poiché il sistema di relazioni che il direttore stabilisce con il
personale e con i detenuti viene comunque replicato a tutti i livelli in
un’istituzione tendenzialmente chiusa come è un’istituzione segregativa.
Mi
è capitato di recente in un carcere macedone molto grande di vedere un
direttore che negli ultimi due anni era entrato nell’area delle celle soltanto
quattro volte; non è azzardato in questi casi pensare che le relazioni interne
non siano diverse da quelle di un complessivo abbandono e di una mancanza di
controllo della situazione.
Quindi
il direttore è modello, proprio perché nel suo “progetto di carcere” e nel
rapportarsi veicola un messaggio che comunica alle persone detenute: “Siete in
una fase complicata della vostra vita, ma che fa parte della vita
complessiva”, oppure “Siete in un posto dove a nessuno interessa alcunché
di voi”. Questa seconda sensazione è quella di essere in un luogo dimenticato
dal sociale, dimenticato anche dal conflitto politico; di essere finiti in un
luogo su cui non c’è investimento sociale. Il carcere spesso non è nemmeno
motivo di discussione.
Rispetto
al sovraffollamento il direttore ha un ruolo chiave, ma la questione è diversa
a seconda se parliamo di Case di reclusione o Case circondariali. Se parliamo di
Case di reclusione, dove si sconta una pena definitiva, anche lunga, e spesso i
numeri sono più controllabili, la necessità di un progetto è davvero
ineludibile. Il direttore di una Casa circondariale invece ha un ruolo di
pianificazione della situazione; può e deve avere un ruolo forte, anche
rispetto alla stessa magistratura di Sorveglianza, un ruolo attivo di chi
“rompe le scatole” rispetto alla questione del sovraffollamento e lo fa non
solo per rispetto verso i detenuti ma, ci tengo a precisare, anche verso chi in
carcere lavora. E, in fondo, anche per se stesso.
Per
quanto riguarda il magistrato di Sorveglianza e le sue funzioni di supervisore,
vi racconto prima un pezzetto di storia personale: negli anni passati, subito
dopo la riforma, sono stato coinvolto nella formazione dei direttori chiamati a
esercitare un diverso ruolo professionale. Ricordo perfettamente che la figura
su cui puntavamo era il magistrato di Sorveglianza, era la figura della nostra
grande speranza. Successivamente però il ruolo di supervisione è diventato un
ruolo meno pregnante, rispetto al resto, cioè alla funzione di regolazione
dell’accesso o meno alle misure alternative. Anche se io conosco ottimi
magistrati di Sorveglianza che tuttora vanno in carcere a effettuare controlli
continui.
Ornella
Favero:
Ci sono magistrati che non entrano in carcere neppure per incontrare i detenuti.
Mauro
Palma: Su questo
ho un pensiero radicalmente negativo e penso che difendere l’autonomia della
magistratura e il cosiddetto libero convincimento del giudice passi attraverso
il fatto che veda le persone, abbia un contatto diretto con loro. Alcuni
magistrati difendono la centralità del proprio libero convincimento e poi in
realtà decidono solo sulle carte, non accorgendosi che in tal modo prima o poi
perderanno in autonomia. Infatti proprio chi ha a cuore la difesa
dell’autonomia dovrebbe difendere il meccanismo di costruzione del proprio
libero convincimento attraverso il contatto diretto con le persone su cui si è
chiamati a decidere.
Ornella
Favero: Abbiamo
ancora una questione importante da affrontare, quella dei famigliari dei
detenuti. Il diritto di un detenuto e di un famigliare rispetto agli affetti non
può in qualche modo essere fatto valere, non può un familiare presentare un
ricorso perché la modalità dei colloqui non permette ad esempio a un padre di
fare il padre veramente con i propri figli?
Le
ore dei colloqui sono pochissime, in Paesi considerati più arretrati, come in
Russia, ogni tre mesi per alcuni giorni i detenuti possono ritrovarsi con i loro
famigliari, ci sono anche i colloqui intimi, e sono molti altri i Paesi con
delle modalità più ampie di incontro con i famigliari. L’Italia ha queste
sei ore perlopiù passate in condizioni di grande promiscuità, è impensabile
che così si possano tutelare gli affetti.
Elton
Kalica: Io
vorrei fare anche un ragionamento in prospettiva di un ricorso alla CEDU, perché
c’è l’articolo 8 CEDU, diritto al rispetto della vita privata e familiare,
però sui rapporti familiari il Comitato non ha indicato degli standard ben
precisi su quante ore devono esserci di colloquio e come devono svolgersi, con
che modalità.
Anche
in relazione alle telefonate e ai colloqui intimi, credo che il Comitato debba
sviluppare delle indicazioni.
Mauro
Palma: È vero
che su questo il Comitato ha elaborato abbastanza poco, c’è stata una certa
produzione nei vari rapporti più che degli standard definiti.
Per
esempio è chiaro che la questione della sessualità è un problema e
complessivamente il numero di Paesi dove non è prevista la possibilità di
incontri intimi è minoritario attualmente in Europa; mi sembra che sul totale
dei 47 Stati in 27-28 è prevista e in 19 no.
L’Italia
a questo risponde sempre che ci sono i permessi premio, per sopperire alla
mancanza di incontri intimi; tuttavia non tutti possono beneficiarne per vari
motivi. E comunque non può essere questa la soluzione al problema.
Dal
nostro punto di vista la pena non può mai degenerare in pena corporale; ne
consegue per esempio che il Comitato fa rapporti molto duri laddove un detenuto
è messo in una cella da solo e l’area dove è previsto il suo passeggio non
consente di vedere a una distanza maggiore di qualche metro, perché questo può
determinare un’alterazione delle proprie capacità fisiche, un’alterazione
corporale. Allo stesso modo diciamo che lunghe pene di privazione della
sessualità hanno effetti di ordine psicologico e fisico che rischiano di
tramutare la pena detentiva in pena corporale.
Sui
colloqui intimi, io ho visto soluzioni che spaziano da alcune praticamente
inaccettabili ad altre invece molto positive. Inaccettabili perché in qualche
carcere vi era una stanzetta orrenda dove poter avere incontri intimi,
assolutamente distante da una possibile espressione di propri sentimenti; in
molti altri invece ho visto piccole unità abitative che, oltre alla questione
della sessualità, offrivano la possibilità di stare con i bambini, di avere
rapporti affettivi “normali”. Piccole casette attrezzate con un paio di
stanze, con doppio accesso sia per i detenuti che per i famigliari; i detenuti
vengono perquisiti prima e dopo e a loro è affidata la responsabilità del loro
mantenimento, senza richiedere al personale di svolgere compiti incongrui di
sorveglianza e gestione della questione. Sono previste sanzioni nel caso che il
detenuto commetta qualche irregolarità e complessivamente l’atmosfera è di
un’accentuazione di responsabilità.
Questo
se volete apre a un tema che accenno soltanto, ma a cui mi riferisco spesso in
occasione di convegni sui modelli carcerari: è la distinzione tra modello di
carcere di tipo infantilizzante e modello di tipo responsabilizzante.
Quello
italiano spesso è un modello infantilizzante: il detenuto regredisce verso una
situazione quasi di collegiale, riceve tutto, esegue ordini, se ha una necessità
anche minima fa domandina, e così via.
Per
citare un modello diverso di carcere, cito l’esempio del modello danese, dove
i detenuti non ricevono nulla dall’Amministrazione al di fuori di una paga
settimanale che devono gestirsi: questo è ciò che io intendo come modello
responsabilizzante; un modello che abitua il detenuto alle difficoltà di
gestione che comunque incontrerà una volta dimesso dal carcere. Se finisce i
soldi deve da solo risolvere il suo problema, se sbaglia però torna a un
sistema totalmente diverso, molto più rigido, quasi di isolamento. È chiaro
che in un modello di questo tipo anche la gestione delle unità abitative è
parte del complessivo processo responsabilizzante.
A
me poi dà un po’ fastidio che in Italia appena parli di sessualità ti
sostituiscono la parola con “affettività”; credo si debbano invece chiamare
le cose con il proprio nome. A proposito dell’affettività e del rapporto con
i familiari, è vero che la nostra elaborazione si limita ad alcune linee, per
esempio che possano essere cumulati i tempi di visita o i minuti delle
telefonate. Tuttavia molto si sta elaborando; sulla scia delle regole
penitenziarie europee si sta sviluppando una discussione sulle possibilità
comunicative via internet, via Skype, o simili.
Quanto
alle violazioni rispetto al mantenimento dei legami familiari, va considerato
quanto stabilito dall’articolo 8 della Convenzione europea sui diritti umani.
Per i circuiti speciali per esempio, occorre ricordare la sentenza Lorsé c.
Paesi Bassi, 4 febbraio 2003, che ha stabilito una violazione dell’articolo 3
da parte delle autorità olandesi, perché in un circuito detentivo speciale,
dove i colloqui avvenivano sempre attraverso schermo totale, i detenuti venivano
perquisiti integralmente prima e dopo ogni colloquio. Questa è l’unica
sentenza rilevante che riguarda direttamente i rapporti con i famigliari.
Il
Comitato non ha in verità elaborato molto sui contatti con l’esterno, anche
perché spesso si trova a misurarsi con violazioni ben più gravi – situazioni
di isolamento, di degrado estremo – e a volte gli standard vengono elaborati
su questi livelli bassi. Quando ti occupi di queste situazioni gravissime,
rischi di essere meno attento alla quotidianità composta da elementi di
vivibilità meno drammatici.
Ornella
Favero: Questo
però forse è un rischio.
Mauro
Palma: È vero,
ed io questo lo dicevo solo a giustificazione del fatto che a volte non si
presta la giusta attenzione alla questione dei rapporti con i familiari.
Elton
Kalica:
Al prossimo rapporto generale potrebbe chiedere che venga introdotto un capitolo
sugli standard relativi ai diritti delle famiglie.
Mauro
Palma: Nel
Comitato c’è un gruppo di lavoro che ha elaborato un documento chiamato “Il
rapporto con il mondo esterno”, spero che a breve se ne possa discutere.
Ornella
Favero:
Alla fine vorremmo anche riflettere sulla durata delle pene e sull’ergastolo.
Noi
viviamo in Italia, dove sono tutti convinti che le nostre pene sono le più
basse rispetto agli altri Paesi. Ci piacerebbe avere qualche indicazione sugli
altri Paesi dell’Europa, in particolare quelli più avanzati, riguardo proprio
a quali sono le pene massime, e anche rispetto all’ergastolo.
Mauro
Palma: In Italia
le pene edittali sono molto alte; tra le più alte in Europa. Tuttavia in Italia
è molto ampia, troppo forse, la distanza tra la pena comminata e quella
concretamente eseguita; questo comporta lo sviluppo delle varie, pretestuose
spesso, richieste di “certezza” della pena.
Non
sono tempi positivi per quanto riguarda la lunghezza delle pene in Europa. Molti
Paesi hanno adottato provvedimenti di maggiorazione delle pene edittali,
soprattutto per alcuni tipi di reati.
Nel
1992 Antigone fece alla Camera dei deputati un convegno sull’abolizione
dell’ergastolo, perché il Parlamento aveva approvato un ordine del giorno su
questa questione; mi ricordo che allora gli ergastolani erano circa 500 e gli
Stati che avevano l’ergastolo erano in assoluta minoranza in Europa. Se
rifacessimo il convegno domani mattina gli ergastolani in Italia sarebbero quasi
1500 ed io dovrei dire che gli Stati che hanno reintrodotto l’ergastolo sono
molti di più e in ben nove Stati europei per alcuni reati specifici non c’è
nemmeno la previsione dell’articolo 176 del Codice penale, quello che riguarda
la liberazione condizionale; e che anche dove tale possibilità di liberazione
dopo un congruo numero di anni esiste, essa è spesso meramente teorica.
Questa
previsione di un ergastolo senza possibilità di sospensione è, a nostro
parere, in violazione dell’articolo 3 perché non corrisponde ad alcuna
possibilità di speranza e reinserimento, neppure dopo moltissimi anni, e
rischia di avere effetti sul benessere psicologico di chi la sta scontando.
Ridiscutere
sulla lunghezza massima delle pene – e magari anche sulla riduzione della
distanza tra pena irrogata e pena eseguita – è forse oggi una necessità su
cui lavorare con urgenza.
Dal
Comitato europeo per la prevenzione della tortura alla sentenza Sulejmanovic
Torniamo a parlare di questa sentenza, che
ha senz’altro segnato un importante riconoscimento dei diritti fondamentali in
carcere, perché nel frattempo le cose
dal 16 luglio 2009, quando quella sentenza
è stata emanata, sono peggiorate
di Elton Kalica
Gli
effetti della globalizzazione, la minaccia del terrorismo, i conflitti interni
che si accendono periodicamente, la migrazione di massa verso l’Europa, la
percezione dell’insicurezza urbana, sono tutti fenomeni cui molti Stati
rispondono, sempre di più, attraverso la giustizia penale. Il sovraffollamento
delle carceri che ne deriva crea inevitabilmente una situazione di fragilità
per i diritti umani. Così in Italia, per effetto del sovraffollamento, in celle
costruite per due o tre detenuti, ci stanno in sei, sette, otto, chiusi dentro
dalla mattina alla sera, per lo più senza far nulla: sono sempre più spesso
persone giovani, figli di famiglie “regolari”, ma anche immigrati,
tossicodipendenti, senza fissa dimora e altre categorie di poveri.
Carceri
dove le condizioni di vita sono in continuo peggioramento, ma che offrono ancora
degli spazi, soprattutto per quanto riguarda l’istruzione. E grazie alla
scuola in carcere che ancora resiste, ho potuto laurearmi, studiando
autonomamente. Circa un anno fa, dopo un percorso di studio lungo due anni, ho
terminato la laurea magistrale in Scienze Politiche. Ricordo che non fu facile
per me scegliere l’argomento della tesi. Precedentemente, avevo conseguito il
diploma di laurea triennale, e in quell’occasione, avevo fatto una tesi
sull’evoluzione dei diritti dei lavoratori in Albania: pensavo alle difficoltà
quotidiane dei miei famigliari e volevo studiare le conseguenze della
transizione, dal comunismo reale all’economia di mercato, con tutti i rischi
che presentava, nella distruzione della coesione sociale, e soprattutto negli
aspetti della radicalizzazione dell’ineguaglianza e nella discriminazione
delle persone, che all’improvviso avevano perso anche quei diritti
precedentemente garantiti. Una tesi che mi aveva dato delle grosse
soddisfazioni, ma alla seconda laurea per la specializzazione, mi sono sentito
in dovere di occuparmi di carcere. Allora avevo deciso di studiare quali sono i
meccanismi che a livello internazionale tutelano i diritti dei detenuti.
Sapevo
che l’organo che ha costruito la macchina migliore di difesa dei diritti
delle persone private della libertà personale era il Consiglio d’Europa,
pertanto ho deciso di studiare come questo meccanismo di tutela fosse entrato
concretamente in funzione rispetto all’Italia. Ho letto quindi i rapporti
prodotti sulle condizioni di vita nelle carceri, e alcune sentenze di condanna
verso Stati che hanno poi dovuto risarcire persone che erano state trattate in
modo inumano e degradante.
Al centro, la dignità umana
Era
inevitabile dedicare il primo capitolo al concetto di tortura, uno strumento
concepito, nella storia, come un atto istruttorio con il fine di estorcere delle
informazioni o delle confessioni. Anche perché oggi, le diverse “guerre
contro il terrore”, e alcuni conflitti interni, hanno di fatto riammesso
l’utilizzo della tortura, a volte semplicemente come punizione.
Nello
stesso capitolo ho descritto brevemente com’è costruita la macchina con la
quale il Consiglio d’Europa cerca di dare risposte sempre più efficaci alla
domanda di garanzia dei diritti fondamentali, e specialmente quell’art. 3
della Convenzione europea dei diritti umani, che enuncia che “nessuno può
essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.
Questo divieto è categorico, non prevede alcuna eccezione, compresa l’ipotesi
di guerra o altro pericolo per la sicurezza della nazione.
Gli
individui che ritengono di essere stati sottoposti a maltrattamenti possono fare
ricorso ad una Corte istituita appositamente per far rispettare dagli Stati
tutti gli articoli della Convenzione. Nel definire i comportamenti vietati
dall’art. 3, la Corte non ha assunto definizioni troppo rigide, per lasciare
aperta la possibilità di un’evoluzione giurisprudenziale in un senso
estensivo dei diritti, il che permette di adeguare costantemente l’art. 3 ai
cambiamenti politici, sociali, economici e culturali, preservandolo da ogni
rischio di anacronismo.
Al
fine di rendere più efficace tale principio nei luoghi di privazione della
libertà, il Consiglio ha elaborato la Convenzione europea per la prevenzione
della tortura, istituendo un organo, il Comitato europeo per la prevenzione
della tortura e delle pene o dei trattamenti inumani o degradanti (CPT),
incaricato di visitare le carceri per verificare se avvengono maltrattamenti.
Il
Comitato e la Corte stanno gradualmente rafforzando la relazione tra loro e ci
sono casi in cui le sentenze della Corte orientano il CPT, e altri in cui gli
standard del CPT influenzano la Corte nelle decisioni.
La
nozione di dignità umana è sempre stata al centro dell’operato sia della
Corte che del Comitato, che attraverso le loro sentenze e raccomandazioni, hanno
più volte ribadito il principio, secondo il quale lo Stato deve garantire alle
persone, che sono in stato di detenzione, condizioni di vita che rispettino la
dignità umana.
Rivolgendo
l’attenzione all’evoluzione degli ultimi vent’anni compiuta dal CPT, nel
mio studio ho riproposto una breve raccolta dei rapporti pubblicati dal
Consiglio del CPT. Rapporti che si sono assunti il prezioso compito di dedicarsi
ogni anno ad un argomento specifico legato alla vita detentiva nei luoghi di
privazione della libertà, producendo così dei parametri, i cosiddetti standard
del CPT, diventati oggi punto di riferimento per tutti gli attori che si
occupano di carcere.
Il
CPT ha effettuato dieci visite in Italia, nel corso delle quali ha esaminato i
vari problemi che riguardano la custodia presso le Forze dell’ordine, la
detenzione, l’assistenza sanitaria in carcere, i minorenni privati della
libertà, le donne detenute, le condizioni di detenzione a cui sono sottoposti
gli immigrati ristretti presso i Centri di identificazione e di espulsione,
nonché le politiche del governo e la scelta di intercettare gli immigrati
irregolari che arrivano sulle coste italiane dal Mediterraneo meridionale e di
spedirli di nuovo in Libia. In particolare, la delegazione ha concentrato la sua
attenzione sul sistema delle garanzie messo in atto per assicurare che nessuno
venga rimandato in un Paese, dove ci sono motivi sostanziali per credere che
corra il rischio di essere sottoposto a torture o maltrattamenti.
Alla
fine di ogni visita, la delegazione ha prodotto dei rapporti, la pubblicazione
dei quali è stata sempre autorizzata dalle autorità italiane.
Una sentenza “prodigiosa”
Mentre
traducevo in italiano i rapporti del Comitato, alcuni giornali hanno dato la
notizia di una sentenza della Corte che condannava l’Italia per aver detenuto
una persona in condizioni degradanti. Si trattava del caso Sulejmanovic. Una
sentenza che ha dato risalto al problema del sovraffollamento carcerario in
Italia, stimolando un interessante dibattito a livello politico, da cui sono
derivate varie iniziative di monitoraggio delle carceri alle prese con il
sovraffollamento, anche se, spesso, il dibattito mediatico-politico ha ridotto
la sentenza a una semplice ammonizione riguardante lo spazio medio riservato ad
ogni detenuto. Ho analizzato questa sentenza e, a mio parere, la condanna non è
solo una questione di spazio personale, basta leggere l’opinione concordante
del giudice Sajó, “dans les circonstances particulières de l’espèce,
l’inhumanité de la situation réside dans le fait que l’Etat n’a pas
montré qu’il avait adopté des mesures compensatoires supplémentaires pour
atténuer les conditions extrêmement éprouvantes résultant de la
surpopulation carcérale”.
La
sentenza Sulejmanovic è stata “prodigiosa” non solo per la mia tesi, ma
anche perché ha dimostrato l’esistenza di un sovraffollamento intollerabile,
che i detenuti già denunciavano da parecchio tempo. Occorre però capire anche
quanto non offra soluzioni efficaci il Piano carceri, che il governo italiano ha
proposto come rimedio alle sue politiche securitarie, grazie alle quali oggi
l’Italia ha un tasso di carcerizzazione tra i più alti d’Europa.
In
tanti si sono ormai abituati all’idea che la situazione politica in cui
viviamo è destinata a persistere ancora per molti anni e slogan come
“tolleranza zero” e “certezza della pena”, con molta probabilità,
continueranno ad essere centrali nei programmi politici dei bipolarismi europei.
Ed è triste vedere come le voci che si sollevano per denunciare il disastro che
queste politiche producono – come gli enormi costi economici e sociali che la
carcerizzazione di massa comporta – purtroppo non riescono a emergere nella
giungla della paura, che si è diffusa in modo capillare, anche per effetto di
una informazione gestita da mezzi di comunicazione sempre più concentrati nelle
mani di pochi.
Per
contro, i rapporti del CPT hanno caratteristiche molto tecniche, sono pubblicati
in francese e in inglese dal Consiglio d’Europa, e attraggono, solitamente,
scarsa attenzione nei media locali e spesso non vengono diffusi nelle lingue dei
singoli Stati. Ne deriva che, anche quando gli attivisti delle ONG sono a
conoscenza dei rapporti del CPT nei loro Paesi, raramente ne possiedono una
visione d’insieme. Pertanto, trovano difficile contestualizzare i rapporti
relativi ai loro Paesi.
L’obiettivo
del CPT è la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o
degradanti, e sono stati proprio i parametri indicati da questo organo, insieme
alle raccomandazioni fatte alle autorità italiane, ad aver offerto alla Corte
gli strumenti adeguati per valutare da un lato l’oggettività delle condizioni
in cui era stato detenuto il ricorrente, e dall’altro lato, le misure adottate
dall’amministrazione interessata per fare fronte al problema del
sovraffollamento.
Se
la Corte, con la sentenza Sulejmanovic, ha confermato, in un certo senso,
l’autorevolezza che il CPT ha assunto a livello internazionale, questo
verdetto ha prodotto all’interno della società civile, ma anche delle
istituzioni un grande fermento, ma per ora non ci sono proposte coraggiose e
credibili per affrontare la situazione.
Intervista a cura di Ornella Favero e
Giuseppe Mosconi
Vittorio
Borraccetti, magistrato, pubblico ministero a Padova dal 1979 al 1993, dove è
stato titolare di indagini importanti come quella su Tangentopoli e sul
terrorismo rosso e nero, poi procuratore aggiunto alla Direzione nazionale
antimafia e infine procuratore a Venezia, è dallo scorso anno membro del
Consiglio Superiore della Magistratura. L’abbiamo intervistato per avere la
sua opinione sullo stato delle carceri, e su una figura che sta diventando
sempre più importante, in questa situazione di degrado delle condizioni di vita
all’interno degli istituti di pena, che è quella del Garante delle persone
private della libertà personale.
Vorremmo
partire con una riflessione sulle cause del sovraffollamento di cui forse non si
parla abbastanza, perché si parla del sovraffollamento e si cercano soluzioni
“emergenziali”, ma non si analizzano abbastanza le cause strutturali che
hanno portato a questa situazione.
Per
quel che riguarda il sovraffollamento delle carceri, le cause sono molteplici,
alcune strutturali che rimandano ad una eccessiva estensione del diritto penale
nel nostro ordinamento, un dato di cultura che contraddice l’orientamento che
nell’ambito giuridico si era fatto strada negli ultimi decenni con lo slogan
del diritto penale minimo, a cui io personalmente non ho mai creduto perché lo
ritengo molto difficile da realizzare, ma almeno si dovrebbe auspicare un
“diritto penale contenuto” funzionale alla tutela di interessi importanti
sia per i singoli che per la collettività, e non usato ed esteso a condotte che
si potrebbero sanzionare con altre forme di sanzione diverse dal carcere.
Quindi
questo è un dato strutturale. Il secondo dato riguarda la legislazione in
materia di stupefacenti che è oggi eccessivamente rigorosa, mentre negli anni
ottanta si era affermato un indirizzo che tentava di limitare la sanzione penale
allo spaccio di consistente entità e cercava di portare i consumatori fuori
dall’esposizione al rischio della sanzione detentiva.
Mi
rendo conto che la “questione stupefacenti” è una questione molto difficile
da affrontare e non esistono soluzioni definitive, però anche questa questione
ha registrato negli ultimi anni un indurimento della legislazione penale e
quindi una produzione di più carcere anche da questo punto di vista.
Poi
da ultimo citerei la legislazione sull’immigrazione con l’introduzione del
reato di immigrazione clandestina, ma anche prima con l’introduzione di reati
legati alla violazione dell’ordine di espulsione, quindi anche qui direi un
fattore strutturale di sovraffollamento.
In
qualche modo connessa al fatto strutturale, c’è anche la legge ex Cirielli
con l’indurimento sanzionatorio nei confronti dei recidivi, con una serie di
limitazioni anche alla concessione dei benefici in fase esecutiva della pena.
Secondo me quindi i fattori sono molteplici.
Nel
sovraffollamento c’è un dato, un aspetto che va sempre evidenziato che è
quella percentuale elevata di turn over dei detenuti, c’è una percentuale
intorno al 30 per cento di persone che sta in carcere 3 - 4 giorni, questo è un
dato che influisce pesantemente sulle condizioni degli istituti di pena.
D’altra
parte c’è anche una crescita dell’entità delle pene comminate, della
gravità delle condanne, quindi da una parte il turn over per casi che non
dovrebbero neanche andare in carcere e invece condanne più pesanti per quanti
diventano definitivi.
Il
sovraffollamento significa pregiudizio di due aspetti, previsti in Costituzione,
riguardanti la pena detentiva, il primo, che in generale qualsiasi pena non può
mai contrastare con la dignità della persona umana, aspetto che viene prima del
secondo costituito dalla finalità rieducativa.
Prima
di tutto c’è il dovere di rispettare la dignità della persona umana, quindi
tutti i suoi diritti fondamentali escluso ovviamente quello alla libertà di
movimento, limitazione nella quale si sostanzia la pena stessa.
La
finalità rieducativa, a mio parere, costituisce una opportunità offerta a chi
è detenuto, a chi è stato condannato, di rivisitare la propria esperienza e di
fare, se è possibile, un’autocritica, ma non è un dovere per il detenuto, è
un’opportunità che viene offerta.
Quello
che assolutamente va preteso è il rispetto della sua dignità.
Il
sovraffollamento da una parte non consente il rispetto di quella dignità,
dall’altra per quanto riguarda la finalità rieducativa, fa diventare
estremamente difficile parlare di percorsi di rieducazione. Ho potuto constatare
personalmente a Venezia, nel periodo in cui ero Procuratore della Repubblica,
che per alloggiare le persone arrestate in numero elevato per il reato di
clandestinità sostanzialmente si occupavano tutti gli spazi destinati alla
socializzazione, e addirittura si era arrivati al punto che l’Istituto
penitenziario non aveva più nemmeno materassi per far dormire le persone. In
tale situazione, questo vuol dire che qualsiasi discorso sulla finalità
rieducativa, già difficile per la scarsità delle risorse disponibili, viene
pregiudicato. Quindi il sovraffollamento pregiudica proprio gli aspetti
costituzionali della pena.
Partire
da questo quadro può forse conferire alla figura del garante un valore
particolare, lei ritiene che sia importante, attuale questa figura, e che il suo
compito sia a maggior ragione più necessario in questo stato di cose? Insomma
quali sono i suoi pro e i suoi contro di questa figura, in particolare rispetto
alla dimensione del problema del sovraffollamento?
Credo
innanzitutto che le persone investite di pubbliche funzioni nello scenario
giudiziario e penitenziario dovrebbero essere le prime a garantire i diritti dei
detenuti. Mi riferisco ai magistrati sia inquirenti che giudicanti nei diversi
momenti dell’esercizio dell’attività giurisdizionale penale, poi ai
magistrati di Sorveglianza. Innanzitutto quando si parla di diritti e tutela dei
diritti, tocca ai magistrati e ai diversi organi che intervengono nel giudizio
penale garantire i diritti. La giustizia penale ha queste caratteristiche, è
repressione secondo il diritto, è applicazione della pena in modo equo laddove
ci siano i presupposti per condannare,
Quindi
prima di tutto quando si ragiona dei diritti dei detenuti bisogna partire da
qui. La giustizia penale non è vendetta, la ragione per cui esistono i giudici
e si fanno i processi, anziché prendere la persona e metterla direttamente in
prigione, è propria questa, che caratterizza lo Stato di diritto, lo Stato di
diritto costituzionale: che anche l’uso della forza nell’applicazione della
privazione della libertà personale segue regole e rispetta principi.
Poi
noi abbiamo un Ordinamento penitenziario che, nonostante tutte le modifiche in
senso restrittivo che abbiamo vissuto negli ultimi anni, è ancora un
Ordinamento penitenziario caratterizzato da un’idea di umanità del
trattamento e dalla finalità rieducativa, con una previsione di istituti che
mirano anche ad evitare la rigidità, la fissità della pena.
E
qui apro una parentesi, perché quando si sente parlare di certezza della pena,
bisognerebbe sempre rispondere che certezza della pena è espressione
accettabile se si vuol dire che vi deve essere certezza che alla persona
condannata per un delitto verrà applicata la pena prevista dalla legge. Non è
invece accettabile se si intende come FISSITA’ DELLA PENA. Proprio perché
questa fissità contraddice l’insieme dei principi dell’ordinamento penale e
soprattutto i principi fondamentali della Costituzione.
L’Ordinamento
penitenziario chiama in causa il ruolo del magistrato di Sorveglianza e del
Tribunale di Sorveglianza in funzione della tutela dei diritti e della libertà
residua dei detenuti, quindi quando parliamo di detenuti e di tutela dei loro
diritti, noi dobbiamo prima di tutto richiamare gli organi giudiziari destinati
ad applicare la legge a questa funzione, anche se non è la sola perché ci sono
altri diritti da tutelare, quelli delle vittime e quelli della collettività, ma
è anche questa.
Poi
ci sono i compiti dei diversi organi della struttura penitenziaria, dal vertice
del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria fino al delicato ed
essenziale ruolo dei direttori degli Istituti penitenziari, per ciò che attiene
alla legalità all’interno delle carceri. Perché la legalità all’ interno
è costituita anche dal riconoscimento e dalla tutela dei diritti dei detenuti.
Senza dimenticare il compito altrettanto decisivo delle persone più vicine ai
detenuti, il personale di Polizia penitenziaria, gli educatori, gli assistenti
sociali, gli altri operatori.
Allora
tutti questi soggetti che ho rapidamente richiamato hanno, tra le altre cose, il
dovere di tutelare la legalità della detenzione, quindi di tutelare i diritti
dei detenuti, questo dal punto di vista istituzionale.
Il
senso della figura del garante secondo me è un po’ spostato verso la società,
verso l’attenzione che la società dovrebbe avere nei confronti delle persone
che espiano la pena, perché senza questa attenzione quella finalità
rieducativa è una parola vuota, in concreto se non si fanno politiche
specifiche a livello locale per favorire il rientro lavorativo per esempio di
quelli che vengono messi in affidamento ai servizi sociali, è impossibile
tradurre in fatti questa idea del recupero e della rieducazione, nel senso del
recupero della propria vita secondo dei principi diversi da quelli che hanno
orientato i comportamenti di prima.
Quindi
la figura del garante la vedo più spostata come una figura importante sul piano
della società, e quando dico società intendo non solo una attenzione delle
varie componenti della società verso questo problema, ma intendo poi cose molto
concrete, per esempio penso ai ruoli che hanno le amministrazioni locali, che
sono dei ruoli fondamentali in prospettiva del recupero.
Ecco
il garante è una risposta sul versante di tutto quello che alla società,
soprattutto alle comunità locali, è richiesto in rapporto a questa esigenza di
dignità delle condizioni del detenuto e di recupero sociale, e dall’altra
parte il garante è un po’ “dalla parte dei detenuti”, perché i detenuti
soggettivamente hanno un approccio che è diverso ovviamente da quello delle
istituzioni.
Io
vedo poi anche un altro aspetto, una figura che non è dentro le istituzioni
quindi ha in qualche modo una maggiore libertà di critica rispetto alle
condizioni concrete in cui si trovano le persone che sono in espiazione di pena
in un istituto penitenziario. Una figura che può interloquire con le
amministrazioni locali in relazione a situazioni concrete, e una figura che
verso l’opinione pubblica nel suo complesso può svolgere anche un’azione di
orientamento, di riflessione per cosi dire culturale, di formazione, ed è
quello che mi pare per esempio nelle città dove è stato istituito il garante
venga fatto.
Lei
ha toccato un punto fondamentale, cioè il rapporto tra una competenza che si
riferisce al caso singolo, là dove venga ipotizzata la violazione dei diritti,
e una competenza invece che si riferisce a un settore organizzato, un servizio
che riguarda tutti i detenuti. Cioè il rapporto tra il garante che dovesse
intervenire rispondendo a tutte le istanze che gli giungono dai singoli detenuti
e il garante che deve essere il supervisore e l’eventuale correttore o il
sollecitatore di correzioni di interi settori di intervento, pensiamo per
esempio a quello che riguarda la salute.
Io
penso che non possiamo trasformare il garante in una specie di ufficio legale
generale a cui si rivolge il singolo detenuto, credo che sia corretto ma anche
abbastanza sensato che le situazioni individuali vengano fatte valere nelle
tante sedi amministrative e giurisdizionali in cui possono essere fatte valere e
con l’apporto degli avvocati, il mondo dell’avvocatura è un mondo molto
composito e vario, però ci sono strutture e reti di avvocati che pensano alla
tutela delle persone che sono nelle condizioni di maggiore debolezza e
impossibilità economica. Ecco probabilmente qui dal mondo dell’avvocatura
potrebbero nascere esperienze di questo genere a sostegno delle categorie più
deboli, inoltre molte delle organizzazioni che si occupano di immigrazione
possono fornire un tipo di appoggio di questo genere, però io credo che la
tutela del diritto individuale nella singola vicenda debba seguire la strada
istituzionale, cioè il detenuto deve rivolgersi per ciò che riguarda gli
aspetti amministrativi alla struttura del DAP attraverso i suoi vari aspetti, e
però poi ha la possibilità di rivolgersi al magistrato di Sorveglianza per
tutta una serie di questioni anche di vita concreta.
Vedo
il garante dei detenuti sull’altro versante, che è un po’ quello di
prendersi cura in generale della condizione dei detenuti in rapporto alla realtà
degli enti locali, dal Comune alla Regione: questo significa avere attenzione a
quella che è la realtà delle persone che sono in carcere in quel territorio,
quindi con le specificità proprie perché non tutti gli istituti sono uguali,
non tutta la tipologia dei detenuti è uguale. Dove ci sono carceri nei quali il
grado di sicurezza è elevato ci sono problemi che non ci sono negli istituti in
cui questo grado non c’è, quindi un’attenzione a quella realtà di quegli
istituti penitenziari che si trovano in quel territorio e un ruolo fondamentale
nel rapporto con le realtà delle amministrazioni locali.
Tra
l’altro a livello periferico ci sono gli Uffici di Esecuzione penale esterna
del Ministero della Giustizia, sarebbe fondamentale il rapporto con questa
struttura sul territorio. I Comuni poi sono investiti di alcuni compiti in
relazione alla situazione dei detenuti, parlo in particolare di quelli che vanno
in affidamento e comunque quelli che cessano l’espiazione della pena, perché
dobbiamo tener presente che
le persone che cessano l’espiazione della pena hanno bisogno di un appoggio e
di un aiuto da parte di chi può dare questo aiuto, quindi anche qui c’è un
ruolo possibile significativo del garante.
Un
aspetto complesso è il rapporto tra legislazione nazionale e i protocolli
locali che hanno attivato la figura del garante. C’è un progetto di legge che
giace da diversi anni per un garante nazionale, che per certi aspetti viene
anche a prefigurarsi come un passaggio di superamento di certi limiti che i
garanti locali hanno denunciato, anche se da quello che lei dice permane
fortemente la necessità di una competenza locale.
Io
parto dal presupposto che l’esigenza del garante si pone prima di tutto perché
la condizione dei detenuti è una condizione in contrasto con il dettato
costituzionale, il che significa che c’è una inadempienza complessiva delle
istituzioni sul territorio, perché se le cose fossero, non dico le migliori
possibili, ma fossero compatibili con il minimo richiesto da quei principi
costituzionali, probabilmente noi non discuteremmo con questa urgenza del
garante, o forse ne discuteremmo in presenza di quelle situazioni critiche di
cui si parlava prima.
Noi
comunque non dobbiamo rinunciare a chiedere che si identifichino e si risolvano
le inadempienze istituzionali, per esempio non dobbiamo rinunciare a continuare
a dire: guardate che dovete limitare la sanzione penale, dovete riservare il
carcere solo ai casi estremi, questo noi dobbiamo continuare a dirlo, e non
dobbiamo pensare che il garante sia una risposta a errori che stanno a monte.
Noi
dobbiamo continuare a chiedere innanzitutto che in carcere ci si vada solo in
casi estremi, soltanto quando non esiste altro tipo di sanzione che sia capace
di tutelare l’interesse leso, dobbiamo continuare con la critica all’idea
che LA PENA SIA IL CARCERE. Ci piacerebbe arrivare ad un tempo in cui non c’è
bisogno del garante perché le istituzioni sono in grado di adempiere ai loro
doveri in relazione a chi sta in carcere, e perché il numero dei detenuti
consente una attenzione per ogni storia, per ogni esperienza personale, e
consente anche di dare delle opportunità di recupero.
Però
se la realtà è diversa io del garante vedo la necessità in funzione
soprattutto delle realtà territoriali, lo vedo meno a livello nazionale, se non
come organo di coordinamento. D’altra parte esperienze di altro genere che
sono state fatte anche nella nostra Regione, il garante per esempio dei minori,
hanno sempre questa caratteristica del raccordo con la realtà territoriale e
con le amministrazioni locali.
E
una legge nazionale che li istituisca a garanzia dell’omogeneità delle
competenze di questa figura sul territorio?
Esatto,
io credo che bisognerebbe fissare alcuni principi in generale che riguardano, a
livello nazionale, dove si fa il garante, come si fa, qual è la disciplina,
quali sono i compiti, in modo non generico ma di orientamento.
Siamo
d’accordo che il ruolo fondamentale, al di là dell’emergenza attuale, sia
quello di raccordo con gli enti locali, questo è un punto fondamentale, anche
per richiamare gli enti locali a fare la loro parte rispetto al carcere e al
reinserimento delle persone detenute, però vediamo anche che la condizione
della privazione della libertà comunque pone oggettivamente in una situazione
per cui è difficile far valere i propri diritti, non basta dire che c’è la
direzione, c’è il magistrato di Sorveglianza. Pensiamo al detenuto di fronte
ai problemi di salute, certo anche un cittadino libero si scontra con problemi
di malasanità, però ha altri strumenti e altre strade per difendersi, va da un
altro medico, cerca altre risorse, mentre la persona privata della libertà è
impossibilitata a far valere i suoi diritti soprattutto su questioni, che
riguardano i temi della salute.
Oggi
poi la sanità dipende dalla Regione, quindi una funzione di tutela rispetto al
diritto alla salute è importante, perché il garante potrebbe avere quella
tempestività nel sollecitare gli enti locali ad essere più attenti nelle
prestazioni, che forse il magistrato non può avere.
Certo
ci sono delle esigenze di vita che sono ovviamente condizionate dal fatto che
uno non è libero di rivolgersi a un altro medico.
In
relazione a questo io non escludo che il garante si debba occupare anche di
queste situazioni concrete, prima parlavamo un po’ della funzione in termini
generali, ma penso che sia anche logico che i detenuti segnalino al garante
situazioni in cui vi è in qualche modo il rischio della compromissione dei loro
diritti fondamentali, cioè il fatto di potersi rivolgere ad un giudice non
esclude che il detenuto possa segnalare al garante una certa situazione di
difficoltà.
Dico
però che il garante deve avere allora dei mezzi e delle risorse, deve avere un
ufficio e persone con delle competenze, cioè non può ridursi alla buona volontà
del volontariato.
In
questo caso il garante può essere di concreto aiuto anche alla singola
situazione del detenuto.
Proprio
perché non possiamo ridurre tutte le esigenze di vita del detenuto allo schema
del ricorso fatto al giudice, per vedersi riconosciuto un diritto, ci sono cose
che vanno affrontate e risolte ad un livello pragmatico diverso, ed è chiaro
che i detenuti devono avere nel garante un loro interlocutore per tutto ciò che
non è declinabile nel senso del ricorso ai superiori amministrativi o al
giudice.
Il
detenuto vede la figura del magistrato, del direttore come una figura che può
condizionare la sua esistenza, quindi potrebbe sentirsi meno motivato a
immaginarlo come un suo garante
Sì
certo, le istituzioni e le autorità sono quelle da cui dipende la sorte del
detenuto, la possibilità dell’ammissione ai benefici, mentre il garante è
visto soggettivamente “dalla parte dei detenuti”, sempre con una funzione
pubblica, in qualche misura anche staccato dalla vicenda del singolo e tuttavia
collocato non dalla parte dove stanno i giudici e l’amministrazione.
Forse
dovremmo dire che è una persona collocata “dalla parte della persona privata
della libertà personale”, perché se diciamo “dalla parte del detenuto”
è una cosa, se diciamo “dalla parte della persona che è privata della libertà
personale” è un’altra, si parla cioè di una persona che, non avendo la
possibilità di far rispettare un suo diritto, diventa una persona svantaggiata
in quel momento. La persona detenuta non è il soggetto debole classico di cui
si occupa chi fa volontariato, è un soggetto a volte forte, però è un
soggetto che si trova in una condizione temporanea di debolezza determinata dal
carcere.
La
sua debolezza sta nel fatto che non è libero. Si, questo è molto vero, è
giusto parlare della persona che è privata della liberta e quindi vive un
disagio fortissimo, tra l’altro una delle cose principali da tenere presente
è che le modalità della detenzione sono importantissime per la rieducazione,
perché il detenuto alla lunga vive la sua detenzione come una ingiustizia, se
è una detenzione dove non c’è rispetto della dignità.
Forse
anche da questo punto di vista serve il garante, come un soggetto che in qualche
modo si prende istituzionalmente cura di tutelare la mia condizione di persona
privata della libertà, che si mette dalla mia parte istituzionalmente, anche se
ciò non significa che dà ragione sempre al detenuto , ma che ne assume il
punto di vista.
Da
questo punto di vista le prerogative di cui oggi gode questa figura lei le
ritiene sufficienti?
L’importante
è che possa andare in carcere, che i detenuti possano accedere a lui senza
particolari formalità.
Necessariamente
le funzioni devono restare in questo ambito di controllo e di sollecitazione,
perché non penso che sia possibile
attribuirgli più poteri in senso proprio, ma sono già ampie le competenze se
noi lo mettiamo nelle condizioni di accedere agli istituti penitenziari, di
accedere alle segnalazioni dei detenuti senza formalità particolari, di
interloquire con le amministrazioni locali obbligando queste ultime per esempio
a consultarlo in una serie di occasioni che riguardino in qualche modo le
competenze dei servizi sociali sul territorio e il compito che le
amministrazioni locali hanno in relazione ai percorsi di recupero dei detenuti.
Già
il fatto che possa accedere al carcere senza autorizzazioni, come qualsiasi
parlamentare, è importante.
Lei
è cresciuto qui a Padova e ha attraversato la storia degli ultimi 40 anni di
questa città, pensa che questa figura possa avere un ritorno proficuo proprio
rispetto alla storia di questa città?
Padova
è la sede di due istituti penitenziari, e io ho sempre visto che c’è una
presenza di qualità di quello che genericamente si definisce il volontariato,
c’è una attenzione al carcere in ambienti qualificati, mi pare che questa
città abbia sempre espresso una certa attenzione su questo tema, ricordo di
essere stato invitato più volte a ragionare di questi problemi, quindi ho
un’esperienza di attenzione da parte di diverse espressioni della comunità
padovana verso questo tema, certamente sarà minoritaria ma è una minorità
consistente.
Quindi
il garante potrebbe costituire un riferimento importante nel rapporto tra le
carceri e la realtà esterna.
Un’ultima
domanda, in riferimento a quello che diceva lei prima del turn over, perché
molte migliaia di persone ogni anno passano in carcere meno di una settimana.
Lei
l’anno scorso aveva fatto una circolare, perché queste persone, invece di
essere portate in carcere, venissero trattenute nelle questure, ci può spiegare
come si può affrontare questa questione del turn over?
La
mia circolare era un semplice richiamo all’osservanza di due norme del Codice
di procedura penale, quindi non costituiva niente di originale, niente di
particolarmente clamoroso dal mio punto di vista, tra l’altro era una
indicazione che avevo dato un paio di anni prima senza che nessuno dicesse
niente.
La
prima di queste norme riguarda l’arresto in flagranza per reati di competenza
del giudice monocratico e prevede che in caso di arresto in flagranza per uno di
questi reati la polizia giudiziaria presenti l’arrestato direttamente davanti
al giudice che siede in udienza, sulla base di una imputazione formulata dal
pubblico ministero, a cui per legge deve immediatamente comunicare l’arresto.
Se
il giudice non tiene udienza, la polizia giudiziaria deve chiedere la fissazione
dell’udienza che deve essere fissata nelle 24 ore successive. A meno che, dice
quell’articolo, il pubblico ministero non decida che l’arrestato deve essere
posto a sua disposizione. La messa a disposizione del pubblico ministero
avviene, come previsto da un altro articolo del codice, proprio con
l’associazione al carcere.
Questa
norma era stata pensata a suo tempo proprio con l’evidente scopo di evitare il
passaggio in carcere alle persone che probabilmente il giudice avrebbe
scarcerato per assoluzione, concessione dei benefici, per mancanza delle ragioni
processuali che giustificano la detenzione preventiva. Insomma c’è una quota
consistente, quel 30 per cento che sta in carcere due o tre giorni , che
comunque il Giudice poi scarcera per una delle ragioni indicate.
Allora
proprio per evitare che queste persone vadano in carcere la polizia giudiziaria
deve trattenerle nei propri uffici e poi portarle davanti al Giudice, al quale
spetterà di decidere sulla carcerazione o meno.
Questo
sta scritto nella legge in vigore da tanto tempo. È vero c’è il problema
della idoneità delle camere di sicurezza negli uffici di polizia, ma è
problema che si poteva risolvere e che si può risolvere tuttora in realtà, e
poi c’è la resistenza del personale della polizia giudiziaria ad assumersi un
onere ulteriore, che è quello di custodire temporaneamente gli arrestati.
Si
tratta di un problema pratico che dovrebbe essere risolto dalle amministrazioni
di competenza.
Nella
circolare di cui si sta parlando, diretta ai magistrati dell’ufficio che
allora dirigevo e agli organi di polizia giudiziaria del circondario di Venezia,
avevo richiamato un’altra norma, secondo la quale se il pubblico ministero
ritiene di non dover chiedere una misura cautelare nei confronti
dell’arrestato ma la semplice convalida dell’arresto, può disporre la
liberazione di quest’ultimo. Invitavo quindi a utilizzare questa previsione di
legge qualora non vi fossero esigenze di custodia cautelare da soddisfare, in
relazione alla gravità del reato e alla complessità delle indagini.
Pensavo
che in questo modo si sarebbe raggiunto l’effetto deflattivo degli ingressi in
carcere, che si è effettivamente verificato. Quella era una misura pragmatica
ma secondo me di buon senso, che rispondeva un po’ alla necessità di fare
qualcosa, perché ripeto io avevo ricevuto lettere dalla direttrice del carcere
di Santa Maria maggiore che diceva: non abbiamo più neppure i materassi per
mettere le persone a dormire.
Informazione & Sportelli
Uno
sportello che “ce la mette tutta” per rendere il carcere più umano
Quello
che ci prendiamo in carico cerchiamo
di
portarlo a compimento, nel senso che ce ne interessiamo e lo affrontiamo
studiando ogni possibile soluzione, per il resto diciamo tanti no, purtroppo
di Salvatore La Barbera
I
cittadini che hanno l’avventura di avere rapporti con la Pubblica
Amministrazione per far valere i propri diritti, sperimentano quotidianamente le
difficoltà nell’ottenere puntuale e completa soddisfazione dei loro bisogni,
che è il minimo in uno Stato di diritto o in una normale società civile.
Invece in molti casi non si ottengono neanche risposte: centralini che non
rispondono, e-mail inevase e mezzi di comunicazione via web che sono teorici
strumenti propagandistici.
Se
questo è vero per i cittadini “liberi”, figuratevi come si moltiplicano le
difficoltà per i cittadini detenuti. In questo contesto lo Sportello di
Orientamento giuridico e Segretariato sociale nella Casa di Reclusione di Padova
tenta di semplificare la vita ai detenuti, almeno nel rapporto con le strutture
interne ed esterne al carcere.
Quando
lo Sportello è operativo noi volontari ci sentiamo addosso una grande frenesia,
perché vorremmo dare una risposta a tutti quelli che si presentano, ma le ore a
nostra disposizione volano e l’elenco non è mai esaurito. Non abbiamo mai
tempo per fermarci e fare il punto. Ecco, forse questo spazio ci dà la
possibilità di riflettere su ciò che possiamo migliorare.
Quando
entri in carcere tutto è esagerato, tutto diventa più difficile e per arrivare
a risultati, grandi o piccoli, devi impegnarti. Noi che entriamo da liberi in
carcere ce la mettiamo tutta per rendere ogni giorno il sistema carcere più
umano. Il sistema è quello che è, bene o male, qui non ne discutiamo.
L’efficienza è un difficile obiettivo, anche se a Padova incontriamo
sostanziale collaborazione con il personale penitenziario, anche perché dopo
anni c’è sempre più gente disposta ad ammettere che lavoriamo in silenzio,
nell’interesse dei detenuti. Tutti lo hanno capito e per questo ci rispettano.
Siamo
un manipolo di volontari che si impegna ad ascoltare e tenta di dare soluzioni
concrete ai piccoli e ai grandi problemi che le persone detenute sottopongono
alla nostra attenzione.
Ci
chiedono di tutto, ma le nostre regole di “ingaggio” sono chiare: quello che
ci prendiamo in carico cerchiamo di portarlo a compimento, nel senso che ce ne
interessiamo, per il resto diciamo tanti no, purtroppo. Ma la verità è che non
vogliamo illudere nessuno.
Siamo
una bella squadra di persone con professionalità variegate, supportata
efficacemente da alcuni detenuti che con la loro collaborazione ed esperienza ci
fanno capire di più e meglio la vita del carcere. Però siamo anche convinti
che nella nostra attività ci sono ampi spazi di miglioramento soprattutto nel
versante del rapporto e della comunicazione con i detenuti, ad esempio ancora
non siamo riusciti a far passare il messaggio che nel colloquio con lo Sportello
è importantissimo che vengano mostrate le carte... i documenti, le sentenze, la
situazione giuridica ed ogni altro elemento che ci aiuti a focalizzare
rapidamente il problema.
Rispetto
a qualche anno fa si sono fatti decisi progressi nel rapporto con le educatrici:
la nostra collaborazione tende a richiamare la loro attenzione su casi
particolari (per esempio segnalare all’Ufficio del magistrato di Sorveglianza
l’urgenza di una decisione sulla liberazione anticipata, che permetterebbe la
definitiva scarcerazione del detenuto), su alcuni elementi di conoscenza che
possono essere di aiuto nello svolgimento del lavoro di valutazione che è parte
importante della loro funzione. Del resto il flusso di informazioni è a due
vie: in più casi abbiamo segnalazioni da parte delle varie strutture interne su
situazioni che poi prendiamo in carico.
Ovviamente
la nostra attività prosegue e si fa più difficile fuori dal carcere, dove di
vera lotta si tratta per portare ai detenuti i risultati da loro sperati. Quando
non abbiamo da offrire soluzioni concrete siamo noi i più dispiaciuti e spesso
sono i detenuti a risollevare il nostro morale: “Non importa grazie lo stesso
per il vostro impegno”!
Però
risolviamo anche tanti casi e attraverso la nostra mediazione la maggior parte
dei detenuti che accedono allo Sportello viene sostanzialmente soddisfatta. Le
istanze che prepariamo sono sempre più numerose e abbiamo cominciato a
costruire un archivio con fac-simili per quelle più ricorrenti. Anche la nostra
esperienza è aumentata specialmente nel ricercare metodi efficaci per ottenere
risultati positivi per coloro che si rivolgono a noi. E in ogni caso fungiamo da
qualificato punto di ascolto.
Non
possiamo fare a meno di segnalare un fattore critico: la presenza allo Sportello
degli avvocati è discontinua. Ciò comporta che il servizio di consulenza che
viene loro richiesto, pur essendo qualificatissimo quando viene erogato,
tuttavia non può essere programmato e quindi finisce col risultare poco
affidabile sul piano organizzativo. Abbiamo segnalato l’argomento in una
recente riunione della nostra associazione (Granello di Senape Padova), ma
l’unica soluzione concreta che abbiamo trovato (perché noi alla fin fine
dobbiamo dare al nostro operato sempre un risvolto pratico!) è quella che
impegna lo Sportello giuridico ad una consulenza telefonica con un gruppo
selezionato di avvocati che si dichiarano disponibili a dare risposte “in
differita” ai quesiti che ci pongono i detenuti e a cui non siamo in grado di
rispondere. Siamo consapevoli che non si tratta di una soluzione ottimale e, pur
con tutti i limiti che ci sono nel riferire questioni tecniche complesse,
speriamo che sia comunque una soluzione di una qualche efficacia.
Infine
una buona notizia per i detenuti che hanno chiesto la visita medica per il
rinnovo delle patenti di guida: abbiamo la disponibilità di un nuovo medico che
chiederà l’accreditamento presso la Motorizzazione civile. Non appena saremo
operativi anche su questo servizio, ve ne daremo comunicazione.
Una
cosa però ci piace sottolineare, anche con una punta di orgoglio, proprio
perche non è scontata né facile da perseguire: lo Sportello giuridico è un
posto in carcere dove si entra e non si viene giudicati. Questo mi sembra il
valore aggiunto della nostra attività, e forse è la chiave di volta del nostro
modo di conquistare la fiducia di chi chiede il nostro aiuto.
Piccoli problemi risolti allo sportello
“Vorrei
iscrivermi all’Università ma non ho il diploma originale del liceo che ho
frequentato in Romania. Non ho nessuno che possa andare a ritirarlo. È urgente
perché scadono i termini per l’iscrizione.”
Lo
“sportello” tenta tre vie contemporaneamente: scrive al consolato rumeno, in
internet ricerca agenzie che svolgono tali pratiche amministrative e prende
contatti con l’ufficio comunale che assiste gli stranieri.
Risultato:
abbiamo uno studente universitario che ci sorride ogni volta che ci incontra per
i corridoi e ci saluta col pollice alzato per dire che tutto è ok. Ho saputo
inoltre che ha già superato l’esame di Analisi matematica, considerato un
esame molto difficile.
Secondo
disposizioni Inps, l’indennità di disoccupazione non spetta alle persone di
origine straniera senza permesso di soggiorno.
Per
ben tre anni abbiamo faticato a spiegare che le persone straniere detenute sono
da considerare titolari di una posizione simile a un permesso di soggiorno per
motivi di giustizia, tanto più che anche l’Amministrazione Penitenziaria li
assume come lavoratori dipendenti. L’articolo 27 della Costituzione prevede
che la pena deve tendere alla rieducazione e il lavoro è sicuramente un mezzo
importante per realizzare questo scopo. Del resto come si può negare
l’indennità di disoccupazione a chi versa i contributi previdenziali a tale
titolo?
Con
molta costanza e determinazione lo “sportello” questo risultato l’ha
sempre portato a casa.
Ottenere
il codice fiscale per alcuni è una condanna!
M.
D. aveva finalmente ottenuto un “ricco” assegno di 80 euro di indennità di
disoccupazione, ma all’ufficio postale non riuscivano a sbloccare il pagamento
con il suo codice fiscale.
Era
nato in Bosnia, ma il programma dell’Agenzia delle Entrate rilascia differenti
codici fiscali se la tua città adesso rientra nel territorio della Croazia. È
cominciato un lungo pellegrinaggio tra ufficio postale, Inps e Agenzia delle
Entrate e dopo otto mesi finalmente abbiamo festeggiato con una buona torta il
sudatissimo traguardo. Finalmente M. D. ha un codice definitivo con il quale può
interloquire con i vari uffici. Ma che fatica!!!
Sportello di Orientamento giuridico e
Segretariato sociale
Lo
Sportello di Orientamento giuridico e Segretariato sociale, gestito da volontari
dell’associazione Granello di Senape di Padova, è attivo nella Casa di
Reclusione di Padova dal novembre 2007. Due volte alla settimana i volontari
incontrano i detenuti che hanno richiesto l’incontro.
Le
questioni giuridiche vengono affrontate grazie alla collaborazione di un gruppo
di avvocati del Foro di Padova che prestano gratuitamente la propria consulenza
sia direttamente allo Sportello, sia indirettamente, attraverso la mediazione
dei volontari che li contattano e poi riferiscono alle persone detenute le
risposte.
Gli
operatori dello Sportello vengono contattati dai detenuti sia per richieste di
consulenza giuridica, sia di segretariato sociale o anche solo per facilitare le
comunicazioni con i loro avvocati o con figure istituzionali.
Da
circa un anno, le questioni previdenziali sono gestite grazie al supporto di
operatori del patronato INCA, che entrano nella Casa di Reclusione una volta al
mese.
Di cosa si occupa lo sportello?
Orientamento giuridico:
Verifica
della posizione giuridica
Supporto
nella lettura di documenti
Supporto
nella compilazione di istanze
Modulistica
necessaria per la richiesta di benefici
Consulenza
nella lettura dei Codici
Consulenza
sulla propria situazione giuridica
Segretariato sociale:
Rinnovo
del permesso di soggiorno
Rinnovo
della patente
Mediazione
con enti locali e istituzioni
Pratiche
di tipo previdenziale (pensioni di invalidità, assegni familiari, domande di
disoccu-pazione, trattamento di fine rapporto)
Assistenza
nella ricerca di soluzioni abitative e lavorative a fine pena
InFormaMinore
di Alessandro Busi, psicologo
Dall’esperienza
in una comunità per minori, una riflessione su come lavorare con i ragazzi
perché imparino a sentirsi umanamente responsabili verso se stessi e verso gli
altri
Se
si legge qualche testo di fisica, di fisica quantistica, si capisce presto che
l’idea di causa-effetto, di conseguenza, è una semplificazione che non
funziona. Dopo la A, non per forza c’è la B. Uno più uno, non per forza fa
due.
Personalmente,
penso che nell’ambito delle relazioni umane – qualsiasi esse siano,
d’amore, di amicizia, di odio, di violenza – questo principio sia uno dei più
importanti da tenere in considerazione. Quando si fa un’azione, infatti, non
si attiva un percorso unico, ma si apre un ventaglio di possibilità che la vita
può prendere.
Se
si fosse più rigidi, ci sarebbero meno reati, dicono spesso i politici che
vogliono giustificare la logica dell’inasprimento delle pene, la logica del
“buttiamo la chiave”, la logica del “dentro fino all’ultimo giorno”.
Se così fosse, però, non si capisce come la pena di morte non funzioni da
deterrente. Anche la pena massima, infatti, non ha nessun effetto sulla
riduzione dei reati. Perché? Presto detto, perché ogni persona vive la propria
vita, si costruisce la propria realtà, e dentro questa si muove e agisce.
Dentro il proprio specifico mondo, tutti interpretano i dati che arrivano
dall’esterno, quindi, anche alla pena di morte possono essere attaccati dei
significati che non sono quelli che i legislatori vorrebbero, perdendo così di
forza deterrente.
Da
un paio d’anni lavoro in una comunità per minori. Uno dei temi che capita di
toccare con i ragazzi è quello della conseguenza delle cose, delle conseguenze
delle azioni; in particolare per quanto riguarda le risse o le aggressioni.
In
genere, il discorso proposto è che sono cose che capitano, che non c’è
niente di male e che, se non vuoi farti mettere i piedi in testa, per forza di
cose devi parteciparvi e far vedere che sei uno che sa muoversi in quel
contesto. In questo modo, infatti, si acquisisce il rispetto.
Quello
che mi colpisce sempre in questi discorsi è proprio la linea retta, unica
possibile, che unisce i punti toccati: rissa-pugno-rispetto. Una linearità
indiscutibile, verrebbe da pensare.
A
questo punto, di fronte a questi discorsi, mi si aprono due strade per poter
discutere e non adeguarmi ai vincoli che mi vengono posti.
Da
un lato, potrei dire che, per una rissa, si può finire in carcere. Se, per
ipotesi, per una rissa venisse istituita una pena di dieci anni di carcere
potrei controbattere: ma lo sai che rischi dieci anni di carcere? Potrei dire
così, ma non avrebbe nessun effetto, perché la risposta sarebbe sicuramente
che questa cosa non li riguarda, oppure, che se dovesse succedere non ci sarebbe
nessun problema, usando quindi anche il carcere, il rischio del carcere, come
dimostrazione del proprio essere sprezzante.
Al
contrario, senza usare la minaccia della gabbia, ciò che posso fare per
intervenire nei “discorsi del rispetto”, è partire dalla storia che mi
viene raccontata e provare ad ampliare il ventaglio di conseguenze, provare a
rompere la linearità rissa-pugno-rispetto. Un esempio potrebbe essere quello di
dire che in una rissa, ad un certo punto, potrebbe spuntare anche un coltello,
perché no, e che la situazione potrebbe degenerare.
Magari,
con il coltello in mano, che hai portato solo per spaventare, mica per usarlo,
potrei dire, ti capita di ferire uno che si era avvicinato troppo per darti un
pugno, o magari ti capita di ferire un tuo amico che ti si stava avvicinando
proprio per toglierti quel coltello e per dirti che se devi fare, fai a mani
nude. E qui l’orizzonte di conseguenze inizia ad ampliarsi sempre di più: che
ferita fai? E se sei tu che vieni ferito? Cosa pensano i tuoi amici se ferisci
“uno dei tuoi” perché dimostri nervosismo? E se ammazzi un altro ragazzo?
Con che faccia guarderai i genitori di quest’altro al processo? In che modo
andrai avanti pensando a quello che hai fatto?
Chiaramente,
queste sono solo alcune delle miriadi di alternative che si possono proporre
che, sicuramente, lì per lì, vengono rifiutate, ma che, comunque, diventano
possibilità che prima non erano nemmeno lontanamente contemplate. L’azione
viene riportata, come è giusto che sia, non solo su un piano di legalità, ma,
piuttosto, sul piano relazionale, sul piano umano, sul piano della propria vita
quotidiana, generando quindi una quantità di scenari possibili che solo le
interazioni fra persone sanno offrire.
Ciò
che può maggiormente aiutare per intervenire sui reati, quindi, non è tanto
entrare nella simmetria reato-pena, perché questo è un aspetto che già fa
parte della logica di chi commette i reati stessi. Piuttosto, è importante
riuscire a immettere una nuova logica, immettere dei nuovi elementi che vadano
oltre gli orizzonti – o l’orizzonte – già conosciuti, già presi in
considerazione. Il modo che vedo migliore per modificare questi comportamenti,
quindi, è quello di ampliare il panorama nel quale vengono anticipate le
conseguenze delle proprie azioni, per farlo diventare un panorama sempre più di
tipo relazionale, dove si è umanamente responsabili verso se stessi e verso gli
altri.
Prospettiva: Lavoro
La creatività femminile che
resiste,nonostante la galera
intervista a cura di Paola Marchetti
Un
laboratorio nel carcere di Torino che recupera materiali di scarto (stoffe,
borse, abiti, accessori,
bijoux)
e li rielabora con straordinaria fantasia
“Fumne”
è la parola dialettale piemontese che significa donna, ed è il nome del
marchio che Monica Gallo e Sara Battaglino dell’associazione LaCasadiPinocchio
onlus di Torino, insieme alle detenute che lavorano nel suo laboratorio, ha
scelto per questa attività, che viene svolta all’interno della Casa
circondariale. Un nome che non ricordi il carcere e le sbarre, come ci ha
spiegato Monica, per un’attività strettamente legata alla creatività
femminile. Oggetti unici, accessori femminili, creatività e artigianato per
strappare le donne detenute all’abbrutimento che la detenzione porta con sé,
perché la loro femminilità non finisca persa tra le celle e i corridoi.
Ci racconta quando e perché avete aperto
l’attività?
L’attività
è stata aperta tre anni fa da me come attività di volontariato. Io mi sono
occupata per quindici anni di laboratori didattici con i bambini, poi ho sentito
che quel ciclo era in qualche modo esaurito. Ho fatto quindi una richiesta alla
direzione del carcere per capire se c’era la possibilità di intraprendere
un’attività sotto forma di volontariato, visto che in carcere soldi per
queste cose purtroppo non ne hanno, anche se penso che i primi a esser
dispiaciuti di non poter sostenere ad un minimo livello economico queste
iniziative, siano proprio i direttori delle carceri. Dopo un’infinita serie di
colloqui con la responsabile dell’area trattamentale, Dott.ssa Anna Greco e
l’educatrice professionale Dott.ssa Maria Franchitti con cui si è deciso di
lavorare sul recupero della femminilità della donna detenuta, ho iniziato
l’attività. Infatti il tema è molto preciso ed il filone è stato quello e
continua ad essere quello.
La
donna detenuta, se ha una pena piuttosto lunga, tende ad imbruttirsi un poco:
sta sempre in cella, non fa più uso né di borse, né di scialli, né di
collane, né di tutti quegli accessori che solitamente una donna, poco o tanto,
mette. Quindi l’attività è iniziata con un gruppo di detenute, circa otto,
del “repartino” dove stanno le “protette”, ed è andata avanti
cinque/sei mesi. Loro si sono entusiasmate tantissimo a questa iniziativa
tant’è che si portavano anche il lavoro in cella. Tutto questo entusiasmo ha
fatto sì che le detenute comuni si sentissero un po’ messe da parte. Allora
abbiamo cercato di organizzare un gruppo per le detenute comuni, facendo
lavorare i due gruppi a giorni alterni. Ma è risultato difficile perché in
questa attività c’è bisogno che quando parte il gruppo parta tutto insieme.
Allora abbiamo cercato di riunire queste due realtà, abbiamo fatto un gruppo
unico dopo aver fatto una riunione con loro e aver appurato che non c’era
nessuna di queste donne che non avesse desiderio di stare a contatto anche con
le altre. Quindi è iniziata questa “convivenza” e adesso il gruppo è molto
bello.
Ci
sono 12 detenute in un laboratorio al pian terreno (ci siamo trasferiti nel
frattempo) della Casa circondariale “Lorusso e Cutugno”, e produciamo quelli
che sono gli accessori femminili: dalle spille alle collane, dalle borse agli
scialli. Abbiamo fatto anche qualche abito, privilegiando quella che è la
manualità e l’artigianalità che queste donne hanno. Prevalentemente, quindi,
lavoriamo ai ferri, all’uncinetto, lavoriamo con tecniche manuali – ci siamo
inventate un telaio fatto con il polistirolo – recuperiamo quelle che erano le
tradizioni che una volta ci rimandavano le nonne, che a un certo punto noi
italiane abbiamo perso. Stranamente quasi tutte queste donne detenute posseggono
questa capacità, probabilmente perché le loro origini socialmente un pochino
più “sfortunate”, hanno fatto sì che non abbiano perso queste capacità.
Per esempio, quasi tutte sanno rammendare. Le zingare poi sono molto brave.
È lei che fa la formazione?
Diciamo
che quasi sono loro che fanno la formazione a me! A parte gli scherzi, io non ho
mai fatto un lavoro di formazione, ho fatto un lavoro sulla creatività pura.
Infatti ho sempre portato moltissimo materiale di mille tipi diversi. Ma devo
spiegare l’evoluzione del progetto. A un certo punto, da volontaria, non
riuscivo più a gestire questa cosa, per cui ho messo insieme un gruppo di
persone e abbiamo creato l’associazione che ci consentiva anche di partecipare
ai pochissimi bandi – tra l’altro ne abbiamo chiuso uno oggi che speriamo
vada bene, quello della Vodafone “Donne e lavoro” – in modo da ottenere
finanziamenti. Alla prima mostra-mercato i prodotti hanno avuto subito un grande
successo, proprio perché lasciamo alle donne esprimere tutta la loro creatività.
Siccome mi ha parlato al plurale,
significa che c’è qualcuno che collabora con lei anche in laboratorio…
Sì,
la mia collega Sara Battaglino, che è stata un sostegno utile e indispensabile
per il progredire dell’attività, altrimenti da sola non sarebbe stato
possibile. Quindi questa linea di prodotti a un certo punto aveva bisogno di un
nome: abbiamo scelto il nome “Fumnè”, che in dialetto piemontese significa
donne, scelta dettata anche dalla volontà di abbandonare appositamente questi
nomi e loghi che ricordano le sbarre e il carcere.
La prima mostra mercato dove l’avete
fatta?
In
via dei Mille, che è una via centrale di Torino, in uno spazio del quale
usufruiamo ancora oggi per le nostre mostre mercato e che si chiama “Spazio
EVENTA”. Questo spazio viene dato gratuitamente agli artisti, in cambio di una
donazione di una o due opere. Io e la mia collega abbiamo fondato
l’associazione, poco tempo dopo abbiamo ideato questo marchio e abbiamo
cercato di allargare il nostro settore-vendita, che è ciò che ci consente di
sostenere le donne anche economicamente, perché stanno facendo un grande
lavoro. Questo percorso, ad un certo punto, si stava interrompendo per mancanza
di fondi - il materiale da reperire, le macchine da cucire che non avevamo,
anzi, ci mancava proprio tutto – ma grazie al Direttore, Pietro Buffa una
persona che considero “illuminata”, e che ha capito che noi eravamo in
estreme difficoltà economiche, siamo riuscite ad avere un contributo dalla
Compagnia di San Paolo di Torino, che ci ha permesso di acquistare il materiale,
le attrezzature e una base fissa da utilizzare per retribuire le donne: che
vendiamo o non vendiamo, noi siamo coperti.
Quindi avete messo su un laboratorio vero
e proprio?
Si,
abbiamo un laboratorio vero e proprio. Tra l’altro, adesso, con il consenso e
l’appoggio del direttore, stiamo ristrutturando ulteriormente lo spazio dove
c’erano le vecchie cucine, e dove c’era già stato anche un altro
laboratorio, perché abbiamo la speranza, e penso che ci riusciremo in qualche
maniera, di avere qualche sostegno per aprirci ad un più grande progetto.
I
prodotti della prima e della seconda mostra mercato sono piaciuti ed attualmente
sono venduti, alcuni nei bookshop dei musei di Torino, ed altri nel museo
“Novecento” di Milano. Altri ancora poi in due negozi tra i più carini e
ricercati di Torino, come “Bertolini Borse” che è un negozio del centro,
che hanno dei corner dedicati a noi. Poi, con il supporto del sito del Ministero
della Giustizia, che ci è stato di grandissimo aiuto, soprattutto nei giorni
successivi all’intervista al Ministro, abbiamo avuto un picco di mail, con un
inizio di vendita on-line, e questo è interessante.
Quindi ci sono delle realtà della società
civile a Torino, nel senso di negozi di un certo spessore, che vi danno uno
spazio. Questo significa che c’è una buona sensibilità nella cittadinanza o
che i prodotti sono così belli, che non importa da dove vengono?
Diciamo
tutte e due le cose insieme, perché quando andiamo a presentare l’attività
ci dicono che si può vedere cosa si può fare, poi quando vedono i prodotti
accettano, anche perché i prodotti sono fatti a mano, e quindi non c’è un
pezzo uguale all’altro. La nostra produzione è davvero particolare, e noi
operiamo per non perdere questa caratteristica, quindi escludiamo una produzione
a catena.
Anche in carcere si può cadere nella
trappola della produzione “industriale”?
Si,
infatti io vedo che quando siamo tutte insieme intorno al tavolo di laboratorio
e con tutti i materiali, e iniziamo a fare, c’è sempre una grande energia che
verrebbe a mancare nel caso di una produzione più, diciamo così, industriale.
Io ne ho parlato molto con le donne del laboratorio, che mi hanno detto
chiaramente che se dovessimo cambiare tipo di produzione non verrebbero più
perché a loro piace produrre questo. Del resto anche nella moda italiana ho
notato che nell’ultimo periodo c’è un ritorno non da poco
all’artigianato. Missoni ha fatto dei vestiti all’uncinetto ai quali noi ci
siamo ispirati, che si possono vedere sul sito del Ministero della Giustizia, e
che sono veramente particolari. Se ne fa uno o al massimo due, altrimenti
andrebbe proprio a morire la filosofia della nostra produzione. Su questo punto
io e Sara siamo ferme .
Gli spazi che avete in questo momento vi
bastano o pensate di allargarli?
Stiamo
cercando degli spazi per un progetto che abbiamo in mente e che ci farebbe
ottenere ancora qualche soldino qua e là. In Italia non sono tantissimi i
progetti per aprire il carcere verso l’esterno, per far sì che le donne
detenute diventino un ponte tra il dentro e il fuori. Poiché le donne detenute
hanno queste capacità e manualità che noi “donne libere” non abbiamo più,
e poiché però tante “donne libere” quando vedono le nostre cose dicono che
gli piacerebbe saperle fare, allora noi organizzeremo dei corsi dentro al
carcere dove le detenute diventeranno docenti. Nel fine settimana ci sarà
questa possibilità di venire e fare diversi laboratori, con le detenute come
insegnanti. Credo sia molto importante per la loro dignità.
Così le detenute si sentono di avere
qualcosa da dare. Quante sono le donne impiegate?
Dalle
undici alle quindici, al momento dodici. Entrano in laboratorio alle 9.30 e
escono alle 11.30 così hanno un pasto caldo. Ritornano alle 13.30 ed escono
alle 16.00. quindi fanno quattro ore e mezza in laboratorio.
Le retribuzioni sono date in borsa lavoro?
In
gettoni di presenza, senza contratto. Chi lavora prende un gettone base più una
percentuale in base alle vendite. Noi integriamo sempre con altri progetti, come
quello dello scorso anno “Arte seduta” che ha portato alle donne una
buonissima percentuale. Nel vecchio carcere delle “Nuove” di Torino venivano
mandate al macero le quarantasette file di sedie cinematografiche del teatro,
sedie molto belle perché erano delle sedie di legno unite quattro a quattro. Il
dottor Buffa mi ha chiesto se si poteva far niente con queste sedie, allora
siamo andati a prenderle e ogni donna ha avuto a disposizione una fila di queste
sedie che ha rivisto e rivisitato a suo piacere. Sono quindi andate all’asta
al teatro Regio di Torino ed è stato un successo. Ci sono diverse fotografie
nel sito del Ministero della Giustizia.
Le donne come vengono scelte?
Le
donne fanno una “domandina” e viene data la priorità a chi ha la pena più
lunga oppure a chi ha seri problemi. Noi abbiamo aiutato donne con problemi
psicologici dati dal trauma del carcere. Infatti nel nostro laboratorio ci
mandano sempre le persone più problematiche, ma che alla fine riescono a tirar
fuori il meglio, e anche questo ci dà grandi soddisfazioni. L’uso delle mani
ha una potenza incredibile: l’uso delle mani vere, quello che parte
dall’anima.
Quali sono gli elementi di maggiore
difficoltà nel lavorare all’interno del carcere?
Sicuramente
il tenere a bada i conflitti tra detenute che sicuramente ci sono. È un
microambiente dove, secondo me, ci si infantilizza molto perché non c’è
contatto con l’esterno. Le donne detenute sono per esempio molto legate al
pettegolezzo: è una cosa molto complessa. Diciamo che bisogna sempre essere
molto umili perché così si ha più sostegno dalla sorveglianza, che è oberata
di lavoro. Bisogna sempre cercare di fare un po’ il moderatore.
Avete trovato delle resistenze da parte
della Polizia penitenziaria o hanno creduto nel progetto?
Penso
che in questi anni nelle carceri di progetti ne passano molti, quindi prima di
credere in qualche cosa hanno bisogno di vedere se funziona e ci vuole un po’
di tempo. Ora va tutto bene anche con l’appoggio dell’Ispettore, della
Direttrice la dott.ssa Di Rienzo e ovviamente del dott. Buffa
Altre difficoltà, altre impressioni?
A
volte ci sono piccole difficoltà come piccoli furti all’interno del
laboratorio. Quando uno cerca di far capire che certe cose non si fanno, le
detenute hanno il timore di essere mandate via dal progetto. Noi non mandiamo
via nessuna perché il fine principale è quello di far ritrovar loro un
equilibrio, e quest’equilibrio si trova solo uscendo dalla cella e lavorando,
perché lo stare in cella a non far niente l’equilibrio lo fa perdere. C’è
anche un gran bisogno di formare persone che capiscano le dinamiche del carcere.
Dov’è lei è un carcere penale o
circondariale?
È
circondariale e le donne sono comunque selezionate a seconda della lunghezza
della pena, quindi il problema del turn over non è insormontabile, anzi ogni
volta che ne esce una facciamo una grande festa e ne inseriamo un’altra.
Tra le donne che hanno lavorato con lei e
sono uscite, sa di qualcuna che ha trovato lavoro attraverso questo tipo di
attività?
Quelle
che sono uscite e hanno voluto continuare questa attività stanno continuando
con noi attraverso una forma di collaborazione occasionale retribuita
diversamente; ci sono già due ragazze e domani ne incontro altre due che sono
uscite e che mi hanno contattata sulla pagina di Facebook. Chi ha questo
desiderio è da noi appoggiato. Il direttore conosce perfettamente le nostre
difficoltà e conosce sicuramente la nostra volontà, la nostra serietà, il
nostro impegno. Quello che possiamo fare lo facciamo e su quello che non
possiamo fare perché non dipende da noi, stiamo lavorando per renderlo
possibile.
Altri progetti oltre a quello del ponte
fra il territorio e il carcere?
Il
profumo. Abbiamo un chimico che è uno dei migliori “nasi” d’Italia,
ovvero una creatrice di profumi o essenze profumate, che fa questo corso per
preparare i profumi. Presentato l’otto Marzo, giornata internazionale della
donna, verrà distribuito nelle migliori profumerie di Torino e si chiamerà
Profumo di Fumne.
Il laboratorio sarà lo stesso dove fate
il resto dei lavori?
Lo
faremo in quello grande che stiamo allestendo. È un solo profumo, nato perché
tutti quelli che comprano le nostre cose le annusano, dicendo che hanno uno
strano odore, che arriva dal carcere. Abbiamo parecchie idee e le idee sono una
cosa che non ci manca!
A noi come rivista e sito piace dare
notizie anche dei progetti positivi, non solo delle cose negative del carcere.
Ci
terrei ad avere la rivista dove pubblicherete l’articolo su di noi, perché
appendiamo in laboratorio tutti gli articoli che parlano della nostra attività.
Le donne ci tengono tantissimo. È di una difficoltà estrema il far capir loro
quello che succede fuori con le cose che producono.
Le
detenute chiedono sempre se le loro cose sono vendute, se piacciono, dove sono
state vendute. È un altro ponte verso la realtà.
Prospettiva: Lavoro
Quintali
di miele per rendere meno amara la galera
A Sant’Angelo dei Lombardi, un carcere
impegnato in una ricca produzione di miele e di suoi derivati
intervista a cura di Paola Marchetti
Massimiliano
Forgione è il direttore della Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi
(Avellino) dal 2007. L’abbiamo intervistato sull’attività di produzione di
miele e suoi derivati che l’istituto ha avviato da anni. Abbiamo trovato un
direttore pieno di energie e anche di entusiasmo.
Ci spiega che cosa producete? Solo il
miele o anche prodotti derivati da esso?
Prima
di decidere cosa produrre abbiamo fatto diverse indagini di mercato: la
produzione di miele negli ultimi tre anni è aumentata notevolmente e quindi
rischiavamo di avere un’abbondante produzione a fronte di un mercato locale
limitato come ambito di commercializzazione. Abbiamo quindi pensato di
trasformare il miele anche in altri prodotti che fossero maggiormente
“appetibili” da un punto di vista commerciale. Abbiamo dunque letteralmente
“creato” vari tipi di shampoo e prodotti di apicosmesi, avvalendoci della
collaborazione di ditte esterne specializzate in tale trasformazione. Dal 2007
la produzione si è notevolmente accresciuta grazie anche a specifici e
determinati accorgimenti: sconfitta infatti la vicenda della moria delle api ed
eliminati i diserbanti, siamo riusciti ad ottenere delle produzioni notevoli di
miele che si aggirano intorno agli 8-9 quintali all’anno, di cui oltre la metà
di miele di sulla, oggi quasi introvabile, e di miele millefiori. Abbiamo
sperimentalmente prodotto anche piccole quantità di pappa reale che, però, ha
il problema della conservazione. Abbiamo dunque elaborato un sistema che ci
permette di produrre del miele di sulla con l’aggiunta di circa il 10% di
pappa reale, creando un prodotto energetico ideale per bambini, anziani e
persone in stato di denutrizione ed anemia. In questo modo si riesce a mantenere
per lungo tempo la pappa reale all’interno del miele, che è un conservante
naturale, ottenendo anche una facile commercializzazione. Oltre a questo, a
scadenze stabilite, cambiamo la cera per aiutare le api nei periodi più
difficili, autunno e inverno, e la cera che recuperiamo la riutilizziamo per
fare degli oggetti come candele, ciondoli e altro, che sono andati a ruba. È
un’attività non troppo impegnativa che ci permette di allargare la nostra
gamma di prodotti.
Nel sito del Ministero della Giustizia
sono stati pubblicati foto e dati sui vostri prodotti: questa pubblicità è
servita per aumentare il vostro giro d’affari, per farvi conoscere?
Certo,
se si può parlare di giro d’affari. Sicuramente molte persone che non avevano
la possibilità di conoscere tutte le nostre attività, tramite la pubblicazione
nel sito del Ministero della Giustizia, sono venute a conoscenza di quello che
produciamo e ci hanno contattato, sia per chiedere semplici informazioni che per
fare ordinazioni.
Questa è un’attività che voi curate
come istituzione. C’è qualche cooperativa o associazione che collabora con
voi?
Questa
attività connessa alla produzione di miele è organizzata con dei finanziamenti
europei che vengono gestiti poi dal Dipartimento dell’Amministrazione
penitenziaria e dalla FAI - Federazione apicoltori italiani. C’è un progetto,
con tecnici apistici accreditati FAI che insegnano ad un nutrito gruppo di
detenuti le operazioni principali: è un vero e proprio corso di formazione,
dove si insegna sia la parte teorica, sia come portare praticamente a compimento
la produzione di miele e dei suoi derivati. Quindi, c’è una parte
propedeutica e teorica (in cui i detenuti vedono alcuni dvd e possono accedere a
libri specializzati in materia), e una parte pratica in cui visitano il luogo
dove ci sono gli alveari, assistono alle operazioni principali, come quelle di
smielatura o della cura delle api nel periodo invernale. Di fatto, questa è
un’attività che viene gestita dalla Casa di reclusione.
Come fate per la commercializzazione dei
prodotti, dato che l’istituzione non può vendere direttamente?
Fatta
la produzione chiediamo all’ente di assistenza dell’Amministrazione
l’autorizzazione a vendere il prodotto nel circuito penitenziario. I soldi, di
fatto, tornano allo Stato perché vengono versati in un capitolo dove
confluiscono i proventi che la pubblica amministrazione riesce ad ottenere,
abbattendo in tal modo il debito pubblico.
Quindi
è l’Amministrazione penitenziaria che paga i lavoratori. Con che tipo di
contratto vengono assunti, e quanti sono impegnati in queste attività?
Il
contratto è il medesimo che si usa per tutti i lavoratori. Orientativamente
posso dire che nell’ambito del corso di apicoltura annualmente abbiamo tra i
dieci e i quindici detenuti impiegati; poi, con quelli che si alternano, diciamo
che raggiungiamo i 20 detenuti circa. Cerchiamo di individuare quelli che
rimangono nell’istituto più a lungo e sono intenzionati a seguire un percorso
rieducativo “personalizzato”. Però poi siamo costretti a sopperire con
delle sostituzioni quando qualcuno viene scarcerato o trasferito.
La commercializzazione principale avviene
all’interno del circuito carcerario, ma per quanto riguarda la rete di vendita
esterna, avete qualche appoggio?
Noi
abbiamo cominciato con una produzione minima, quindi non potevamo immetterci sul
mercato per vendere minime quantità di miele. Adesso che abbiamo aumentato la
produzione, anche per evitare delle giacenze che creerebbero problemi di
stoccaggio, abbiamo diversi contatti con cooperative intenzionate a sostenere
l’iniziativa e pubblicizzarla. In cambio, ovviamente, devono garantire i
livelli occupazionali attuali.
Forse si dovrebbe guardare ad altre zone
d’Italia dove c’è più richiesta di questi prodotti
Tramite
la cooperativa “Il Germoglio”, già attiva all’interno, stiamo appunto
affrontando un discorso del genere, che cioè una quota del nostro prodotto sia
da destinare ad un mercato più ampio. Ed i primi segnali già ci sono. In
occasione del Natale 2010, la Conferenza Episcopale Italiana, per il tramite di
una cooperativa calabrese legata al progetto sulla legalità, chiamato
“Policoro”, è stata omaggiata del nostro miele.
E ai GAS, gruppi di acquisto solidale, che
cercano produzioni che siano biologiche, avete pensato?
Noi
abbiamo in corso contatti con molte organizzazioni, ci stiamo muovendo per
aprire questo tipo di sbocco che porti ad una maggiore occupazione lavorativa
della popolazione detenuta.
Avete dei grandi spazi esterni per queste
attività?
Certo:
abbiamo volutamente scelto di allocare gli alveari al di fuori della cinta
muraria, in un sito maggiormente adatto alle attività delle api, seguendo
ovviamente i consigli dei tecnici.
C’è qualcuno dell’istituzione che
segue tutte queste attività o avete chiamato qualcuno dall’esterno?
Sul
progetto dell’apicoltura la FAI ci garantisce la presenza di due tecnici
apistici, che sono quindi specializzati proprio nella produzione.
Per
quanto riguarda la serie di iniziative e di idee, c’è un gruppo di
collaboratori ai quali chiedo continuamente di pensare a proposte concrete e
possibili. Se tra queste ce ne sono di interessanti cerchiamo di realizzarle. In
qualche occasione abbiamo coinvolto anche alcuni detenuti chiedendo loro:
“Cosa volete fare? Cosa volete che produca questo istituto?”, perché
produrre il miele, una volta imparate le cose principali, non è un lavoro molto
difficile, per cui si chiede loro di proporre delle idee per letteralmente
“inventare” poche cose, carine e commerciabili.
All’inizio
avevamo creato una linea di prodotti relativi alla biocosmesi, poi è nata
l’idea della pappa reale, di seguito abbiamo istituito una commissione che si
occupa dell’inserimento agricolo in genere e ogni tanto, dalle riunioni, viene
fuori qualche proposta creativa ed originale che cerchiamo di mettere in atto.
Da quanto abbiamo capito lei è un
direttore che crede molto nella possibilità di creare lavoro all’interno
degli istituti carcerari?
Il
nostro lavoro si occupa sicuramente di sicurezza, ma non possiamo mettere in
secondo piano l’aspetto del lavoro e della rieducazione. Se la legge afferma
come necessità inderogabile che dobbiamo offrire delle opportunità di riscatto
ai detenuti, partendo proprio da quelle lavorative, non vedo perché non
dobbiamo farlo. Le dico la verità: per noi è lavoro in più… Potremmo
limitarci a fare meno, molto meno, ma se abbiamo deciso di fare questo lavoro è
nostro dovere perseguire ciò che la legge prevede, e dobbiamo farlo al meglio.
Oltre allo spazio esterno per gli alveari,
che altri spazi occupate?
Accanto
ai locali dedicati alla fungaia (dove produciamo ottimi pleurotus e
cardoncelle), abbiamo creato un laboratorio dedicato interamente a tale
produzione. Disponiamo di un’intera ala dell’istituto che era già
predisposta per le lavorazioni, sia di tipo agricolo che industriale. E dunque,
in attesa di altri progetti che già abbiamo in cantiere, accanto alla
tipografia (di recente istituzione), alla cantina (ove lavoriamo quattro varietà
di vino bianco), ai laboratori artigianali (penso a quello di ristrutturazione
piuttosto che a quello di riparazione elettronica), abbiamo dunque predisposto
un laboratorio per la lavorazione dei prodotti di apicoltura, per il loro
confezionamento, per la etichettatura.
Voi producete anche vino?
Nel
2009 c’è stata l’ultima nostra produzione… Parlo volutamente di ultima
produzione perché era l’ultima di quelle direttamente gestite da noi. Dal
2010, una cooperativa sociale ha preso in gestione il nostro vigneto, assumendo
prima 10 detenuti per quell’anno e, dal febbraio del 2011, una volta a regime,
assumendone quattro a tempo indeterminato. La produzione di vino del 2010 è
totalmente in gestione a questa cooperativa che provvederà anche alla sua
commercializzazione. Un loro agronomo segue l’intero ciclo lavorativo, fino
all’imbottigliamento. Il nome del vino è Frescodigalera, nome scelto dai
detenuti… Le stesse etichette sono state disegnate da un detenuto iscritto a
“Belle Arti”. Ma la produzione agricola non si limita al vigneto: stiamo
sviluppando dal 2005 anche un noccioleto micronizzato, dove produrremo tartufi;
abbiamo una piantagione di asparagi ed una di fragole.
Di media quante ore fanno i detenuti nelle
attività?
Per
quanto riguarda l’inserimento agricolo, si parla di 4 ore giornaliere di
media, mentre per l’apicoltura dipende dal periodo, poiché d’inverno le api
sostano negli alveari, e quindi giornalmente viene impiegato un solo detenuto
per controllare che non ci siano dei problemi. Per quanto riguarda invece le
operazioni dei periodi di attività più intensa, si parla di tre o quattro ore
giornaliere.
E come vengono scelti i detenuti da
inserire nelle attività? in base a quale criterio? Ci si basa anche sul residuo
pena che hanno da scontare?
No,
all’interno di questa Casa di Reclusione è attiva la commissione lavoro
costituita ex articolo 20 dell’Ordinamento penitenziario.
Quindi,
al di là dell’assegnazione ai lavori ordinari di mantenimento della
struttura, in Commissione (composta da educatori, polizia penitenziaria,
volontari, psicologi) si parla anche di chi deve essere assegnato ai diversi
corsi o di chi può essere assunto dalla cooperativa o dall’Amministrazione
penitenziaria. Se ne parla in equipe, dove cerchiamo di valutare non solo in
base alle esigenze che saltano subito all’occhio, come la posizione giuridica
e quindi il tempo che il detenuto deve restare nostro ospite. Qui c’è
un’attenzione particolare alla persona, anche se detenuta, vi è un approccio
multidisciplinare, che considera anche altri fattori, dove l’apporto della
polizia penitenziaria è davvero insostituibile. Infatti, i responsabili delle
singole attività (che sono degli agenti) per primi esprimono il loro motivato
parere in ordine alla possibilità di ammettere al lavoro i detenuti,
interagendo non solo con le professionalità esperte (penso agli educatori, agli
psicologi ed ai volontari) ma anche con i colleghi che lavorano 24 ore al giorno
a contatto con i detenuti, in sezione. Infatti, questo personale per primo si
esprime circa il comportamento dei ristretti, ed è nostro dovere tenere ben di
conto tale suggerimento. La Commissione dunque opera in perfetta sintonia tra i
suoi componenti, perché all’interno di essa agiscono peraltro tutti i
responsabili di area, tanto da avere un quadro completo della popolazione
detenuta. Cerchiamo di far lavorare chi ha più volontà, più capacità, più
bisogno… Valutiamo anche i problemi personali e familiari nonché la
situazione che il detenuto ha all’esterno. Diciamo che cerchiamo di avere una
visione globale prima di inserire il singolo detenuto al lavoro.
Qualche detenuto si è poi reinserito
nella società esterna attraverso questo lavoro, oppure no?
La
maggior parte dei detenuti che ospitiamo proviene dall’hinterland napoletano e
casertano e quindi, all’atto della scarcerazione, tornano nel territorio da
dove provengono. Per questo, onestamente, non si ha la percezione chiara di come
impiegheranno le professionalità acquisite all’interno della struttura
carceraria. Tuttavia, sono stato avvicinato da qualche detenuto che sta pensando
seriamente di proseguire con una attività di questo tipo fuori, perché ha
visto che è possibile farlo senza un investimento particolarmente oneroso.
Avete in mente di sviluppare altre attività
lavorative?
Appronteremo
alcune serre, dove produrremo sia fiori che frutti, magari da utilizzare anche
all’interno dell’istituto perché, vista la facile deperibilità, di
difficile commercializzazione. Nel 2010 abbiamo piantato un centinaio di piante
di ulivo che daranno i loro frutti tra alcuni anni. Abbiamo altresì piantato
anche 200 piante da frutto di vari tipi, di quelli che riescono a crescere in
zona, visto che siamo a 900 metri di altitudine. Con la nostra fungaia abbiamo
venduto circa quattro quintali di funghi. Disponiamo anche di una piantagione di
frutti di bosco, che cominceranno a dare frutti il prossimo anno.
Come si fa ad acquistare il vostro miele?
Tramite
e-mail (cr.santangelodeilombardi@giustizia.it) si indica la quantità e la
pezzatura che volete. Le spese di spedizione sono a carico dell’acquirente.
State allargando notevolmente le
possibilità di impiego per i detenuti!
La
creazione ex novo di attività industriali (come la tipografia) sta a
significare l’attenzione che gli operatori di questo Istituto pongono al tema
del lavoro, visto quale principale elemento del trattamento risocializzante e
rieducativo. Anche se volessi parlare in maniera egoistica, sulla base della mia
esperienza personale, posso affermare senza ombra di smentite che il detenuto
impegnato in attività lavorative, scolastiche, di formazione, ricreative,
sportive crea molti meno problemi di quello dedito all’ozio. In questa Casa di
reclusione non abbiamo inventato nulla: applichiamo semplicemente la legge dello
Stato che parla di pena da scontare (e tale deve essere, in senso afflittivo)
unita alla ricerca della rieducazione del condannato. Pensiamo, in tal modo, di
coniugare la doverosa sicurezza e tutela sociale dei cittadini all’altrettanto
doverosa attenzione che deve essere riservata alle persone che vivono il disagio
della detenzione.
Informazione & Controinformazione
Fosse
per Travaglio non sarei più qui…
di Marco Libietti
Sostiene
Travaglio che Cuffaro, su 7 anni di condanna definitiva, in concreto ne espierà,
dietro le sbarre, appena 2 e 3 mesi.
Leggendo
l’articolo di Travaglio su Cuffaro mi sono chiesto come mai io sia ancora
qui… e mi sono detto “Forse dovrei parlare con il magistrato di Sorveglianza
e con i miei avvocati e far loro presente che si stanno sbagliando… io non
dovrei essere qui… lo spiega molto bene Travaglio!!”
Poi
però mi sono domandato “Va bè, prima di farlo controlla bene… che, forse,
Travaglio si sia sbagliato?... lui così ligio e scrupoloso nel dare le notizie?
Così bravo nel ruolo di giornalista-detective al quale nulla (o poco)
sfugge?...”. Così mi sono fatto i conti, normativa alla mano (quella
ufficiale e non quella da gossip) e, meraviglia delle meraviglie, mi sono
accorto che Cuffaro per bene che gli vada dovrà farsi 3 anni e 3 mesi dentro…
Travaglio gli ha fatto uno sconto personale di pena di un annetto tondo tondo!
Ora
faccio il conteggio passo passo proprio sulla mia pena che, per inciso, è di 7
anni 1 mese e 10 giorni per reati finanziari e che non comporta alcunché di
ulteriormente restrittivo e mi concede di “attingere” , potenzialmente, a
tutti i benefici di legge nei tempi corretti… e sono in carcere da 3 anni e 2
mesi!
Bene…
ora partiamo nel conteggio… come ben sa Travaglio per ogni anno di detenzione
esiste la possibilità di ottenere uno sconto di 3 mesi per buona condotta…
questo significa che alla fine di ogni anno FATTO (= scontato in carcere) di
detenzione si può chiedere (e non ottenere per forza) questo sconto… questa
è la base su cui si fanno i conteggi, il che sta a significare che una condanna
di 7 anni comporta che dopo il primo anno di detenzione, ottenendo i 3 mesi di
sconto per buona condotta, si scende a 6 anni e 9 mesi… dopo il secondo anno,
richiedendo altri 3 mesi (sempre per buona condotta) la pena complessiva scende
a 6 anni e 6 mesi…
A
questo punto, secondo Travaglio, Cuffaro si fa altri 3 mesetti e poi se ne va in
affidamento… faccio i conti e mi dico… ma come? Lui è forse più bello di
me? E (nonostante abbia “accreditato” un reato ben diverso e ben più
pesante) va in affidamento con ancora 4 anni e 3 mesi da scontare?
No
caro lettore… Cuffaro dovrà, per forza, farsi, esattamente come il
sottoscritto, almeno un altro anno di detenzione, chiedere un terzo sconto pena
per buona condotta, vedere la sua pena complessiva scendere a 6 anni e 3 mesi e
dopo essersi sorbito 3 anni e altri 3 mesi di detenzione potrà chiedere (non
pretendere ed ottenere automaticamente) un regime di DETENZIONE alternativo che
può essere un affidamento, e dico “può”, non che deve esserlo per diritto
divino quello e basta.
Inoltre
si dovrebbe far presente che questo sarebbe il caso “migliore” e, non
conoscendo nei dettagli la situazione giuridica del Sig. Cuffaro, non posso fare
altre ipotesi che, peraltro, potrebbero essere solo PEGGIORATIVE per la sua
persona.
A
questo va aggiunto il fatto, per nulla irrilevante, che un conto è quanto
scritto sulla normativa e un conto sono le tempistiche per ottenere i benefici e
le “volontà” di un magistrato che, sia chiaro, è libero di decidere se e
cosa concedere e non obbligato a farlo.
Detto
e spiegato questo vorrei chiedere a Travaglio, sempre così preciso e solerte
nelle sue dissertazioni (che peraltro, personalmente, mi divertono e piacciono
in più di un caso), se questa volta e in genere quando fa questo tipo di conti
(non è questa la prima volta che “regala” anni di detenzione in meno con i
suoi conteggi e sommatorie varie… vedi la storiella della legge “svuota
carceri”… bell’esempio di bufala…) non si sia lasciato prendere dalla
foga e, giusto per dare contro aprioristicamente, non abbia visto che stava
propinando una ciofeca ai suoi lettori e ascoltatori.
Lei,
gentile dottor Travaglio, proprio per il ruolo che ricopre e l’immagine e
impatto mediatico che ha (e si è guadagnato) dovrebbe dare informazioni certe e
corrette e controllarle prima di farle uscire mentre, in questi casi,
“voglio” pensare che sia stato semplicemente superficiale… se fosse altro
sarebbe, mi spiace dirglielo, assimilabile a chi di solito lei bastona con tanta
solerzia ed efficacia.
Cuffaro,
vorrei “rassicurare” lei e chi legge, non uscirà dopo “solo” 2 anni e 3
mesi (a meno che non gli cambino la pena che però è definitiva o arrivi Babbo
Natale con un’amnistia o altro) come non esco io e non escono tutti quelli che
diventano condannati in via definitiva prima dei termini VERI dettati dalla
legge e non quelli presunti e costruiti per dare fiato all’effetto mediatico
della notizia.
Le
chiedo pertanto, a nome di tutti quelli che la pena la stanno scontando nonché
per rispetto e correttezza nei confronti di chi la legge e ascolta, di
rettificare le sue affermazioni quando non sono corrette e in linea con quanto
accade poi nella realtà. Ritengo che, così come si deve elogiare ed apprezzare
ciò che di buono e valido esce da chi fa informazione, allo stesso modo si
debba intervenire controbattendo e correggendo ciò che di errato viene diffuso
perché la forza di un messaggio è relativa sì al suo contenuto, ma non di
meno alla fonte da cui proviene e la sua è di notevole impatto mediatico sulla
società. Ed è per questo che ho ritenuto opportuno scriverle questa lettera
aperta in forma “leggera” alla quale mi piacerebbe che lei avesse la bontà
di rispondere e pure controbattere se lo riterrà opportuno… io intanto sono
qui!
Anche
un omicida merita di uscire dal carcere un giorno
Io
so però che, nonostante tutto, se chiedessi l’opinione di chi sta là fuori,
la maggioranza non vorrebbe che io uscissi dal carcere. A parte forse chi mi
conosce per la persona che sono diventato adesso
di Altin Demiri
Dedico
tempo ed energie ormai da molti anni al progetto “Carcere e Scuola” e penso
che l’aspetto più importante di questa attività sia quello di mettere a
confronto detenuti e studenti attraverso discussioni e dibattiti molto
interessanti. Poiché faccio parte del gruppo di detenuti coinvolto
nell’iniziativa, anche oggi ho partecipato a un incontro con alcune classi e,
tra tutte le domande che i ragazzi ci hanno rivolto, alcune mi hanno colpito in
modo particolare, e ora vorrei cercare di rispondere.
La
prima domanda è “Quando hai vent’anni e sai di avere perso tutto ciò che
la vita ti offre e le cose belle della gioventù, come fai ad affrontare tanti
anni di carcere con questo pensiero?”.
È
una domanda che pure io mi facevo subito dopo il mio arresto. Avevo 20 anni e mi
hanno condannato a più degli anni che avevo vissuto fino a quel momento. Mi
sono trovato definitivo dopo i tre gradi di giudizio con una condanna di
ventisei anni. Forse fra i tanti errori commessi per finire qui, c’è anche il
fatto che non immaginavo cosa significasse trascorrere cosi tanto tempo isolato
dal resto del mondo.
La
domanda infatti mi ha portato indietro nel tempo. All’inizio, quanto sono
finito in carcere, pensavo sempre in positivo, ero convinto che in qualche modo
sarei uscito perché questo non poteva essere il mio mondo. Anche certi avvocati
ti danno delle false speranze e ti fanno credere che in qualche modo ti faranno
uscire. E questo soltanto per convincermi a dare somme altissime di denaro.
Così
ho fatto il primo grado e mi hanno condannato. E il commento dell’avvocato è
stato “Eh... ci hanno condannati...”. No avvocato, hanno condannato me
direi. Poi il secondo grado ha confermato la condanna, e intanto sono passati
due anni di speranze. Mi è rimasta la Cassazione, il terzo grado di giudizio,
che doveva guardare se le procedure del processo erano state rispettate.
Conclusione: anche la Cassazione ha confermato e la condanna è diventata
definitiva.
In
tre anni si è concluso il mio processo insieme alla mia speranza di uscire. La
realtà era che ero giovane e non sapevo niente delle leggi, se si aggiunge il
fatto di essere straniero, ecco che ho creduto a qualsiasi promessa di libertà.
In quell’istante volevo morire
Certo
sapevo di essere dentro per un reato gravissimo, omicidio in una rissa, ed ero
consapevole di ciò che avevo commesso, ma con l’ingenuità di allora avevo
pensato che l’avvocato mi avrebbe fatto uscire.
Ricordo
che quando mi chiamarono in ufficio matricola per comunicarmi la condanna
definitiva e mi chiesero di firmare la comunicazione, mi rifiutai di porre la
mia firma sul documento. Ovviamente questo non ha cambiato niente, hanno scritto
che mi rifiutavo di firmare e basta: non potevo comunque sottrarmi alla
condanna.
In
quell’istante volevo morire piuttosto che affrontare una condanna che
significava passare quello che consideravo il resto della mia vita in carcere.
Mi sentivo un morto non dichiarato, sepolto vivo in carcere. Allora ho deciso di
fare lo sciopero della fame e della sete. Ho scritto un’istanza al giudice di
competenza dove chiedevo di andare via dall’Italia e tornare in Albania, vivo
o morto. Ero deciso e convinto che fosse meglio morire che stare ventisei anni
in carcere.
Così
ho portato avanti per sessanta giorni uno sciopero della fame, diventando uno
straccio. Ero nel carcere di Bologna, e ricordo che ho perso i sensi per diverse
volte e mi sono trovato in ospedale, nella camera riservata ai detenuti, con la
flebo in vena. Giusto il tempo di riprendermi e di nuovo nell’infermeria del
carcere. Ma ero ancora ostinato ad uscire dal carcere, a modo mio. Vivo o morto.
Arrivato
a un certo punto, sono venuti a trovarmi il comandante del carcere, il dirigente
sanitario e tanti dottori. Hanno cercato a turno di convincermi a smettere, in
quanto in questa maniera non potevo ottenere niente altro che rovinarmi la
salute e la vita. Il dirigente è stato franco: “Noi non ti possiamo lasciare
morire, ogni volta che perdi i sensi, ti inseriamo la flebo e possiamo andare
avanti anche per tutta la tua condanna”, mi ha detto. Confesso che questo mi
ha fatto ragionare sul fatto che ero giovane, e che a nessuno importava se
morivo, a parte ai miei famigliari. Avevano ragione. Quel giorno, di punto in
bianco, ho smesso di scioperare. Si è aperta una speranza di cambiamento in me
e ho interrotto la mia battaglia d’orgoglio e di non accettazione della realtà.
Ho deciso di vivere e di prendermi le mie responsabilità, con la speranza che
un giorno, non tanto vicino ma neanche tanto lontano, avrei riavuto indietro la
mia libertà.
Da
allora ho cercato quotidianamente di trovare l’armonia anche nelle convivenze
con gli altri detenuti, e di dare un senso alla carcerazione pensando sempre in
positivo, dandomi da fare, attraverso il leggere, lo sport, e soprattutto sono
stato fortunato anche ad avere un lavoro. Ho fatto il cuoco, il che non è poco,
in quanto il lavoro mi ha reso autonomo per le mie esigenze economiche. Anche lo
sport mi ha aiutato tanto. È sempre stato una mia passione, perché sin da
giovane mio padre mi aveva iscritto a una palestra di lotta greco-romana, dove
mi sono allenato fine all’età di diciassette anni. Qui in carcere, questo
tipo di sport non è possibile, ma si può correre nell’area dei passeggi, una
corsa circolare in un cubicolo di 16 metri per 16, dove ho fatto tante di quelle
corse che se fossi stato libero sarei andato cento volte avanti e indietro di
corsa in Albania.
In
questo modo mi sono conservata la salute, perché se avessi passato i
diciassette anni in branda e riempito di psicofarmaci, come fanno tanti, non so
in quali condizioni sarei oggi. Ma l’obiettivo che mi ero posto, spinto dal
mio carattere e dall’orgoglio, era ed è di uscire sano fisicamente e
mentalmente. La salute per me in carcere è un investimento per il mio futuro.
Se
provo a guardare indietro ai diciassette anni passati qui dentro, mi viene male.
Non è facile ricordare tutti i Natali e i compleanni passati lontano da casa,
la morte di mio padre, i matrimoni di mio fratello e di mia sorella, e tutti i
desideri repressi nella solitudine della cella.
Quando
sono stato in misura alternativa al lavoro esterno in art.21, ho conosciuto una
donna che studiava e in questi giorni si è anche laureata in infermieristica.
In una delle sue bellissime lettere mi ha scritto una cosa che mi piace
ricordare ora: “...da oggi inizio il tirocinio in Oncologia. Il personale è
disponibile, ma a vedere tutti questi tumori ti dico che mi vengono i brividi.
Ci sono anche tanti giovani che ti fanno rendere conto di quello che siamo e a
che cosa possiamo andare incontro, e che dobbiamo essere felici di quello che
abbiamo perché le sfortune nel mondo sono infinite. Scusami che ti scrivo delle
cose tristi, ma credo di essere stata fortunata fino ad ora, e vorrei che ti
sentissi anche tu fortunato, nonostante il posto in cui ti trovi...”.
Mi
hanno fatto riflettere queste parole, perché credo che il carcere sia una
specie di ospedale. La mia amica ringrazia la fortuna, perché le conseguenze
dei nostri comportamenti ricadono anche sulla salute, e in ogni aspetto della
vita.
Adesso
che rifletto con me stesso dico che è vero, perché anche dietro parecchie
tipologie di reati ci sono scelte che ti trasportano senza che tu ti renda conto
di quello a cui puoi andare incontro.
Nel
mio caso il carattere e l’orgoglio sono stati alla fine autodistruttivi, come
spesso succede allo Scorpione, il mio segno. E qui subentra l’ambiente dove
cresci, la mentalità inculcata magari da modelli sbagliati, che mi aveva fatto
credere che per apparire un duro bisognava tenere un coltello, a tal punto che
farlo era diventata una normalità. Dovevo essere un duro, mai arretrare di un
millimetro, se no temevo di essere considerato un debole. Fin quanto un giorno
in una rissa il coltello l’ho usato e ho commesso il grave reato di omicidio.
Ora mi ritrovo con una condanna di ventisei anni, lontano dal mio Paese e
lontano dai famigliari. E ho distrutto così la vita altrui e la mia.
Per chi uccide, gli anni di galera sono
sempre pochi?
In
diversi incontri ho sentito che, per il reato di omicidio, la pena non è mai
abbastanza. Da persona che ha ucciso vorrei però capire quant’è la pena
giusta. È vero, una persona può prendere 15, 20, 30 anni o l’ergastolo, in
base alle circostanze e altri elementi giuridici che forse una persona normale
non può capire, ma cosa dovrebbe fare poi uno che ha scontato la sua pena?
Io
ho preso 26 anni e ne ho fatti fino ad ora 17. Ho avuto degli sconti di pena,
che qui si chiama liberazione anticipata, per essermi comportato secondo le
regole e in più ci sono stati i tre anni di indulto. Quindi mi rimangono ancora
circa tre anni da scontare. Però so che nonostante tutto, se chiedessi
l’opinione di chi sta là fuori, la maggioranza non vorrebbe che io uscissi
dal carcere. A parte forse chi mi conosce per la persona che sono diventato
adesso.
In
realtà non saprei come convincere le persone che anche per me è giusto uscire
un giorno, e avere un’altra possibilità. Io però posso dire che in ogni
reato di omicidio c’è una persona e c’è una storia. Caino non è poi tanto
diverso da Abele, spesso è animato dalla stessa sensibilità e appartiene alla
stessa specie umana, nonostante un momento, o un periodo di devastante
offuscamento di quella sensibilità lo abbia portato, un giorno, a calpestare
quei valori nel modo più atroce. Giusto che paghi, ma giusto anche
riconoscergli comunque di essere un uomo.
Io
non mi sarei mai trovato dalla parte di Caino se il lato razionale del mio
carattere non fosse stato oscurato da quel progressivo, ubriacante distacco
dalla vita regolare e dalle sue convenzioni. Un uomo che uccide non è più lo
stesso agli occhi degli altri, ma non può esserlo più anche nel chiuso della
propria coscienza. Io vivo con la consapevolezza di quel che ho fatto che mi
pesa ogni giorno addosso, e di cui so che non mi libererò neppure quando avrò
scontato per intero la mia pena e tornerò libero fra i liberi. Quando si è
dolorosamente consapevoli delle gravità del delitto, credo di poter e anzi
dover dire che uscire dalle mura del carcere spaventa, per certi versi ti senti
più libero in carcere che fuori, in quanto qui nessuno ti giudica diversamente
da quello che sei. Là fuori devi muoverti in punta di piedi per non urtare la
sensibilità della gente, e ogni volta in silenzio, e le uniche persone che ti
sono vicine sono coloro che ti conoscono e comprendono come uomo e che credono
in un tuo cambiamento. Ma il passato spesso ti sta addosso e ti impedisce di
vivere il presente.
Scuola Dentro
Difendere
la scuola in carcere vuol dire produrre sicurezza
Sono stati quasi ottomila nello scorso
anno scolastico gli studenti-detenuti, la scuola in carcere è forse una delle
poche cose che ancora funzionano, nonostante il sovraffollamento. Ma gli
insegnanti dell’ITC Gramsci e due studenti dal Due Palazzi ci scrivono per
chiederci di difenderla insieme, questa scuola, che oggi rischia di essere
ridotta e svuotata, e invece è importante perché permette alle persone di
acquisire gli strumenti culturali per rientrare dignitosamente nella società,
alla fine della pena.
Preoccupazioni per il futuro della scuola
in carcere
i docenti dell’ITC “A. Gramsci”
sezione carceraria Due Palazzi
Tra
le tante novità che si prospettano nella scuola italiana, le notizie che
circolano sul futuro della scuola in carcere sollevano qualche preoccupazione in
noi, docenti dell’Istituto Tecnico Commerciale “A. Gramsci”, che da molti
anni ci lavoriamo.
Sembra
infatti che sia nelle intenzioni del Ministero assimilare in modo
indifferenziato la scuola in carcere a tutta la restante educazione degli
adulti. Se questa ipotesi di riforma si concretizzasse, le conseguenze, secondo
la nostra più che decennale esperienza, sarebbero molto gravi.
Innanzi
tutto il percorso scolastico, fin qui sviluppato nell’arco di cinque anni,
verrebbe ridotto a tre soli anni: le classi prima e seconda da svolgere in un
unico anno con docenti dei Corsi per Adulti, le classi terza e quarta,
analogamente, in un unico anno e solo la quinta in un anno intero.
Questa
riduzione del percorso però non tiene conto della natura peculiare degli alunni
in carcere i quali, nella maggior parte dei casi, provengono da esperienze
scolastiche a dir poco irregolari: molti hanno compiuto la totalità del
percorso scolastico in carcere; quelli che viceversa hanno conseguito la licenza
media nella vita “di prima”, lo hanno fatto in un periodo molto distante nel
tempo (a volte più di vent’anni) e per la vita che hanno fatto, difficilmente
hanno mantenuto una qualche dimestichezza coi libri e di certo hanno perduto
l’allenamento allo studio, che è fatto di applicazione costante e di una
progressiva messa a punto di tecniche di apprendimento.
Ma
non è tutto, in carcere a Padova è attivo un Polo universitario: parecchi
degli alunni che si sono diplomati in questi ultimi anni si sono iscritti
all’università e procedono verso la laurea. Ebbene, in tale ipotesi di
riforma, è prevista la possibilità di iscriversi all’università col diploma
conseguito? E se anche così fosse, come si può pensare di fornire in soli tre
anni una preparazione sufficiente? Temiamo fortemente che non sia così.
Infine,
la divisione del percorso tra Corso per Adulti e secondaria superiore avrebbe
probabilmente una ulteriore, grave, conseguenza e cioè la progressiva perdita
di identità della scuola superiore in carcere.
Ed
è invece, questa, una identità da salvaguardare perché costruita da una
esperienza più che decennale, che si traduce in memoria storica e quindi in
capacità di formare i docenti che per la prima volta affrontano l’esperienza
della scuola in carcere, ma che consiste anche in prestigio acquisito nel
rapporto con tutte le altre componenti che operano in carcere, con
l’Amministrazione carceraria e con gli agenti, gli educatori e gli psicologi,
i magistrati di Sorveglianza, i volontari e le cooperative che in carcere
lavorano.
L’assunzione
quotidiana di responsabilità che la scuola richiede, senza offrire nulla di
tangibile e immediato in cambio, costituisce un aspetto importante nel percorso
di ciascuno studente-detenuto, una tappa fondamentale in un processo rieducativo
che dovrebbe essere lo scopo fondamentale della detenzione.
Non
è il diploma che si consegue alla fine del percorso la cosa più importante,
come invece avviene nelle tradizionali scuole per adulti, bensì il percorso in
sé. Ridurlo sarebbe svilirne la finalità, financo l’utilità, all’interno
di quel processo di “rieducazione” che le nostre leggi prevedono per ciascun
detenuto.
La
scuola in carcere è come affacciarsi ad una finestra aperta sul mondo esterno
di Antonio Floris
La
scuola superiore in carcere non riveste solo una funzione di approfondimento
della cultura, ma offre un importante spazio di relazione con gli insegnanti che
sono sempre disponibili a dialogare su qualsiasi argomento, anche di attualità,
e portare così chi è recluso a conoscenza di certe realtà che molto
difficilmente potrebbe apprendere da altre fonti. In pratica per i detenuti
frequentare la scuola superiore è un po’ come affacciarsi a una finestra
aperta sul mondo esterno, il che li fa sentire meno estranei e un po’
partecipi della vita sociale.
Ci
sono anche altre motivazioni che spingono dei detenuti adulti a frequentare le
scuole superiori e la principale è l’uso del tempo, che in carcere si può
impiegare in maniera costruttiva, ma anche sprecare senza costruire niente di
utile. In taluni casi quando si è costretti all’ozio forzato, perché non
c’è lavoro, né scuola, la persona finisce che si abbrutisce, perché lo
stare nell’ozio impedisce all’individuo di uscire dal circolo vizioso e
criminogeno nel quale si trova.
Io
mi trovo in carcere a scontare una lunga condanna e chi è nelle mie condizioni
non può vivere solo facendo cella – passeggio, perché in questo modo rischia
di invecchiare senza migliorarsi mai e senza concludere niente di concreto.
Una
volta arrivato a Padova ho pensato di iscrivermi a Ragioneria. in quanto due
anni della stessa scuola li avevo già fatti al carcere di Secondigliano a
Napoli. La cosa che più mi ha convinto è stata la presenza sia della scuola
superiore che dell’università. Questo è un particolare importante perché
permette a uno che è fresco di diploma di continuare con gli studi universitari
senza aspettare, magari per anni o inutilmente, di essere trasferito in qualche
carcere dove ci sia un Polo universitario. La continuità nello studio per uno
studente adulto è fondamentale in quanto si fa in fretta a dimenticare le cose
imparate e se c’è un’interruzione solo di uno o due anni si rischia di
dimenticare quanto si è fatto prima, mentre se la cosa è continua si arriva
senza sforzo al traguardo che ci si è posti.
L’Istituto
di Ragioneria nel carcere di Padova, grazie anche alla serietà e competenza dei
professori, svolge egregiamente il suo compito portando tutti gli anni un buon
numero di studenti alla maturità, nonché dando a decine di loro l’opportunità
di uscire quelle 5 ore al giorno dalle loro piccole e sovraffollate celle a
respirare quello che si può dire un surrogato di libertà.
Dal
vuoto quotidiano sono passato a dare valore al tempo
di Gaetano Fiandaca
Dopo
due anni di corso di cultura generale quest’anno ho avuto la possibilità di
iscrivermi a ragioneria.
Da
subito ne ho visto i benefici, passando dall’ozio quotidiano fatto di
consuetudine e di tempi meccanici, ad un’attività mentale completa. Io che ho
“arsura di sapere”, mi sono trovato a mio agio nel potermi occupare di
qualcosa che mi accresce sul piano culturale.
Dal
vuoto quotidiano sono passato a dare valore al tempo e non solo, dato che i
riflessi positivi sono molteplici.
In
luoghi come il carcere poter parlare d’altro è una notevole apertura al
mondo, ti schiude quegli spazi che altrimenti rimarrebbero invalicabili. Gli
stimoli si susseguono come una sorta di gioco del domino ove un argomento ne
investe subito un altro.
Per
me è certamente importante lo studio, è un’opportunità che consiglio a
tutti, soprattutto a chi vuole migliorarsi culturalmente ed umanamente, dato che
lo studio dà modo di guardarsi dentro, e di sviluppare capacità critica, come
avviene anche nella realtà esterna.
Mi
affascina molto anche l’aspetto competitivo che automaticamente si innesca con
me stesso quando affronto lo studio non più da adolescente.
Il
mio più vivo auspicio è che questo corso di ragioneria che sto frequentando in
carcere continui senza alcun problema negli anni futuri. Mi auguro anche che
siano ampliate in questi istituti altre attività culturali per non far logorare
i detenuti dall’ozio e dalla noia con cui vivono quotidianamente.
Senza
la scuola, la condanna diventa un pezzo della vita buttato via
Quando si entra in aula e si chiude la
porta, viene chiuso fuori anche il carcere, e tutti iniziano una autentica
“ginnastica mentale”
di Enos Malin
Ho
deciso di riprendere gli studi per migliorare il mio modo di esprimermi, cioè
non solo essere in grado di usare terminologie più “forbite”, ma anche
sapere il significato giusto ed appropriato delle parole che uso.
Un
saggio disse che scrivere è disegnare i suoni, io aggiungo che è anche
raffigurare i sentimenti, colorare le emozioni, esternare la coscienza. Io credo
che sia basilare saper scrivere. Mi viene in mente un aneddoto: quando i
conquistadores giunsero nel Centro America, gli indios considerarono la
scrittura una magia, perché quegli uomini bianchi riuscivano a dire le cose
senza che un solo suono uscisse dalla bocca, e per di più le dicevano ad altri
uomini molto lontani.
È
eccezionale riuscire a trasmettere ad altre persone il proprio pensiero, i
propri intenti. Per un detenuto è essenziale saper scrivere, è l’unico mezzo
che lo collega al mondo esterno, alla famiglia, alla persona amata, ai figli,
agli amici. Lo può far sentire partecipe e quindi vivo anche se sepolto tra
quattro mura. È meraviglioso poter essere in grado di esprimere ai propri cari
ogni sentimento che alberga nel suo animo e che lo lega a loro, tutte le ansie,
le speranze, il dolore, l’amore.
Ma
a un detenuto lo scrivere necessita anche a fini giuridici, per spiegare ad un
avvocato la propria posizione rispetto ad un reato; redigere un memoriale
descrivendo come sono accaduti gli eventi; sostenere la propria estraneità ai
fatti; stilare un’istanza ad un Magistrato sia per chiedere il rispetto di un
diritto, che l’applicazione di un beneficio.
Per
tanti detenuti la scuola è la miglior palestra ove tenere in allenamento il
cervello. È risaputo che qualunque organo umano può ottenere la miglior
funzionalità solo attraverso un continuo uso. Il cervello non è un muscolo che
con l’inattività può atrofizzarsi, ma è comprovato che se lo si lascia a
riposo, si addormenta. In carcere non è concesso ragionare, tutto è
programmato, infantilizzato e sottratto alla responsabilità. I detenuti sono
degli automi, ogni funzione ha un orario: la doccia, l’aria, i pasti, le
conte, l’infermiere, tutto prestabilito e scandito nel tempo. Ogni richiesta
deve essere fatta per iscritto. Tutto è predisposto dall’alto, non c’è
spazio per fare delle scelte. È un copione che si ripete ogni giorno,
all’infinito.
È
comprensibile allora come un detenuto chiuso per quasi 20 ore in cella,
inoperoso per l’intero arco della giornata, amorfo perché non riceve stimoli,
senza la necessità di ragionare dato che tutto è prestabilito, disconnetta il
cervello. Anche i ricordi si fanno sempre più lontani e le fantasie sempre più
difficili da forgiare. La scuola offre invece al detenuto l’opportunità di
evadere con la mente, uscire dalla solitudine, ribellarsi a molte coercizioni,
reagire alle previste programmazioni, evitare il reset della psiche e non
perdere il lume della ragione.
Quando
si entra in aula e si chiude la porta, viene chiuso fuori anche il carcere,
rimangono estromessi i reati, forse qualcuno torna ragazzo, ma di sicuro tutti
iniziano la ginnastica mentale. Il contatto col mondo esterno è diretto, i
professori quando vengono a scuola gettano un ponte levatoio sopra il muro
perimetrale che cinge il carcere e lo ritraggono alla loro uscita, ma
nell’aria rimane sospesa un po’ di libertà, ed inoltre sappiamo che il
giorno dopo quel ponte verrà ricollocato e nuovamente dismetteremo i panni del
detenuto per indossare quelli dello scolaro, anche perché veniamo trattati
dagli insegnanti come semplici alunni e non come reclusi.
In
ultima analisi poi c’è il bagaglio culturale che la scuola ti dà,
l’equipaggiamento che ogni persona dovrebbe portare con sé nel viaggio della
vita. Qualche conoscenza culturale è indispensabile per poter dialogare, o
perlomeno capire quanto stai ascoltando. In un confronto si sarà sicuramente
avvantaggiati, in un dibattito ascoltati. Questi sono i motivi per cui ritengo
preziosa la scuola in carcere, la considero indispensabile per un percorso che
sia in qualche modo anche “creativo”. La galera altrimenti, per com’è
conformata attualmente, non serve a nulla, anzi facilita la reiterazione del
reato, è solo tanto tempo perso in modo inoperoso, un pezzo della vita buttata
via. Perciò ritengo importante occupare questo enorme lasso di tempo in modo
costruttivo. e ritengo che la scuola sia lo strumento più semplice per un
detenuto per dimostrare concretamente la volontà di reinserimento, anche se
sicuramente c’è qualche detenuto che ha deciso di frequentare la scuola solo
per non vivere in una sezione inospitale, dove spesso ci sono il caos e una
promiscuità inaccettabile a causa del sovraffollamento.
Però
la scuola rischia di non servire al detenuto quando riconquisterà la libertà,
perché spesso il contesto sociale respinge a priori l’ex carcerato, e il
titolo di studio viene annullato dalla macchia sul certificato penale. Chi
frequenta la scuola è consapevole di avere un marchio indelebile che lo
accompagnerà per tutta la vita, e un diploma non riuscirà a cancellarlo e
neppure a “riscattare” la sua vita, concedendogli la possibilità di
un’attività lavorativa dignitosa, quindi chi ha optato per la scuola l’ha
fatto principalmente per esaudire il proprio desiderio di conoscenza, e non per
migliorare le condizioni future di cittadino libero integrato nel tessuto
sociale.
Sprigionare gli affetti
Che
senso ha la vita quando ti trovi libero, ma solo?
Ho sessant’anni e sono preoccupato di cosa farò adesso che sto per
finire la pena
di Milan Grgic
Tra
i diversi temi affrontati nelle riunioni della redazione, ultimamente abbiamo
discusso dei rapporti affettivi e famigliari, particolarmente con la moglie o
con la compagna. Questo è un tema importante che regala sempre spunti di
riflessione validi.
Un
altro tema di cui spesso discutiamo è quello della lunghezza della pena, cioè
quale pena è giusta per il recupero del detenuto, ed è in grado nello stesso
tempo di soddisfare anche la parte offesa e la società. In ogni campo si dice
che qualunque eccesso produce effetti negativi. Allora penso che anche quando si
parla della durata della pena, l’eccesso ha come effetto negativo che la pena
perde la sua funzione principale, quella del recuperare la persona, renderla
meno cattiva e reinserirla nella società.
Allora
io credo che il diritto di mantenere i legami affettivi e la durata della pena
sono due questioni che si intrecciano. Spesso accade che la persona, dopo anni
di galera, si trova sola, perché sono morti i genitori e gran parte della
famiglia, o perché è stata abbandonata e praticamente dimenticata, o perche la
famiglia non ce la fa a seguirla e i figli, che sono cresciuti senza il padre,
non ne sentono più il bisogno. A volte è il tempo che cancella quei sentimenti
e legami che esistevano prima dell’arresto, altre volte è la distanza a
contribuire ad allontanare o scoraggiare le persone dal seguirti, oppure è il
detenuto stesso che non ha potuto o saputo costruirsi una famiglia prima. In
ogni caso, la durata della pena è fondamentale nel rapporto con la famiglia.
Io
mi consideravo un padre premuroso, perché credevo di aver fatto tutto perché i
miei figli non crescessero nella povertà come me, ma avessero tutto il
necessario e le condizioni migliori per studiare ed avere così una professione
e un futuro garantito, che gli permettesse di essere indipendenti. Insomma non
volevo che anche loro si trovassero obbligati dalla povertà ad arrangiarsi e
rischiassero di finire in carcere come me.
Ma
oggi mi sono trovato con i miei figli che praticamente sono cresciuti senza di
me, e che si sono completamente sottratti alla mia influenza. In loro, non vedo
più quel calore di una volta. Inoltre, i miei genitori sono morti e con loro
anche altri parenti e famigliari. Tutto questo mi fa sentire più solo. Mi
domando se potevo fare qualcosa perché questo non succedesse. Non lo so. Ma ora
provo a guardare avanti e penso che, dopo tanti anni di carcere, un uomo solo
abbia poche speranze di costruirsi un futuro, soprattutto una famiglia.
Forse
ho sbagliato tutto nella mia vita, ma almeno amavo delle persone e avevo degli
obiettivi. Oggi invece non so più per chi vivere, per chi lavorare, per chi
lottare. Mi domando che senso ha la vita quando ti trovi libero, ma solo.
Far
fare la galera è giusto, ma si dovrebbe dare importanza agli affetti del
detenuto, per renderlo anche più responsabile: se mi trovo senza punti di
riferimento io che ho sessant’anni, moglie, figli e nipoti, posso immaginare
le difficoltà delle persone più giovani di me, che magari passano anni in
carcere senza nessuno vicino e quando escono, non sanno dove sbattere la testa,
se non tornando a delinquere. Se io sono preoccupato di cosa farò adesso che
sto per finire la pena, mi chiedo: cosa passa per la testa dei più giovani?
Il
carcere di oggi non solo non ti mette nelle condizioni di formarti una famiglia,
ma spesso fa di tutto per distruggere quella esistente, senza capire che in
realtà, isolando la persona, la si rende emarginata e poco motivata a
ricostruirsi un futuro.
E
allora non si tratta più di un recupero e reinserimento della persona, ma di
pura punizione, che ti rende la vita ancora più difficile una volta libero.
Una
telefonata aiuta a mantenere salda e unita la famiglia
Le modalità per essere autorizzati a
chiamare a un telefono cellulare sono ancora troppo restrittive, eppure a volte
i famigliari non hanno un telefono fisso, e sono così tagliati fuori dalla
comunicazione con i loro cari
di Ulderico Galassini
Da
circa 4 anni, per un reato commesso all’interno della mia famiglia, mi trovo a
vivere in carcere e a confrontarmi con le regole previste per i detenuti per
iniziare un percorso di rieducazione in vista di un futuro reinserimento nella
società. Certo non posso perdonarmi per quello che ho fatto, e che mi costringe
a ripensare continuamente ai danni provocati alle vittime, e a me stesso per le
conseguenze che ne sono derivate e per le inevitabili ripercussioni negative che
ricadono su tutti i miei famigliari. Gli stessi che, nonostante tutto, per primi
si prodigano in ogni modo per assistermi, per non farmi sentire solo,
abbandonato.
Le
richieste per i colloqui e per le telefonate solitamente vengono accolte nei
limiti previsti dall’Ordinamento penitenziario: sei ore di colloqui al mese,
anche cumulabili, ed una telefonata alla settimana della durata di dieci minuti.
Per
quanto mi riguarda posso dire che, da quando sono arrivato a Padova, con la
condanna definitiva, ho avuto la possibilità di estendere i colloqui anche ad
amici e conoscenti, le cosiddette “terze persone”. Quanto alle telefonate,
sino a qualche mese fa le ho suddivise, una settimana a mio figlio e l’altra a
mia madre. Certo è che dieci minuti di dialogo non possono consentire di tenere
vivo il rapporto con mio figlio, tenuto presente che lui è stato vittima
diretta del mio gesto, e per fortuna è ancora in vita, e per giunta, sempre a
causa mia, non potrà più pronunciare una bellissima parola, “MADRE”. Ecco
perche è importante che noi due riusciamo anche a telefonarci. Da settembre
2010, avendo lui scelto di iscriversi all’università di Trieste e dovendo
soggiornare in tale città e non più al suo paese, l’unico mezzo che ci è
rimasto per le nostre comunicazioni telefoniche è il suo cellulare. Ho
provveduto a chiedere regolare autorizzazione, confermata senza difficoltà, ma
qui si innesta una regola che è stata stabilita con una circolare del
Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, che autorizza sì la
chiamata, ma con dei vincoli: non devi aver fatto altre telefonate e/o colloqui
nei precedenti 15 giorni, con nessuno. Se c’è questa regola ci sarà forse un
valido motivo, ma diventa difficile accettarlo senza capirlo.
Il
cellulare è diventato oggi ovunque uno dei principali mezzi di comunicazione
insieme a internet, e tra l’altro i nostri governanti, anche per i servizi
garantiti dall’amministrazione pubblica, premono sui cittadini per il loro
utilizzo. Allora forse sono sistemi di comunicazione che vanno presi in
considerazione anche per i detenuti, soprattutto nell’ottica di preservare gli
affetti, nel mio caso di salvare il rapporto con mio figlio. Ma anche per
aiutarci a non perdere la capacità di usare questi mezzi nel nostro futuro da
“liberi”, quando avremo bisogno di saper adoperare ogni giorno sistemi ed
apparecchiature sempre più evoluti. Mi auguro che i cellulari vengano
considerati alla stessa stregua di un telefono fisso, e sinceramente spero anche
che prima o poi si decidano ad aumentari tempi di conversazione, in modo da non
vivere più quelle sensazioni che si provano quando il bip bip chiude
inesorabilmente la porta in faccia a chi magari stava ricevendo notizie urgenti
o parlava con un famigliare di situazioni di salute preoccupanti.
Recentemente
ho letto con piacere nel periodico “Le due città”, ottobre 2010,
l’editoriale: “Genitori e figli - un legame oltre il carcere”, e ritengo
utile riportare alcuni punti essenziali che mi hanno dato un po’ di speranza
di poter ampliare i momenti di affettività: “C’è un legame che neanche la
detenzione può spezzare, ed è quello degli affetti. Anzi, è proprio dietro i
cancelli di un carcere che l’abbraccio tra un genitore e un figlio diviene
appiglio per non finire dentro anche con lo spirito (…). Nell’incontro tra
genitori e figli si gioca una partita decisiva, necessaria non solo per
allentare le tensioni all’interno del carcere, ma fondamentale per ricostruire
quell’intreccio di legami indispensabili per vivere la propria libertà in
modo sano e consapevole”.
Avendo
apprezzato e condiviso quanto scritto nella rivista dell’Amministrazione
penitenziaria, mi chiedo poi perché anche le piccole cose che riguardano gli
affetti sono così difficili in carcere: come è possibile che una semplice
telefonata ad un cellulare sia trattata in modo così difforme da quella fatta
ad un numero fisso? Perché non rivedere questi limiti, viste anche le attuali
situazioni di sovraffollamento, con tutte le difficoltà che le persone detenute
vivono, che creano tensioni che poi ricadono anche sulla gestione del carcere?
Ridurre
le tensioni e preoccupazioni anche attuando piccole migliorie che siano rivolte
soprattutto all’ambito famigliare, e quindi possano consolidare i legami
affettivi, penso sia la cosa giusta da fare. Ci sarebbe un beneficio per tutti,
per chi è dentro e per chi ci attende fuori. A volte basta una telefonata per
mantenere salda e unita la famiglia, diversamente, cosa troveremo fuori, chi ci
aspetterà fuori una volta che saremo liberi?
Da
soli, quando dovremo affrontare un mondo diverso, dal quale siamo stati
allontanati per colpa nostra per lunghi anni, ci sentiremo sempre più
spaventati. Incapaci di muoverci, e con una società che ha tanti altri problemi
da gestire e non avrà né il tempo, né i mezzi, né la volontà di ascoltare
chi si è macchiato di un reato. Eppure, prima o poi dovremo tutti comunque
rientrare nel mondo libero.
Egregio signor ladro
Credo
che la diffidenza degli altri sia il minimo
Un
messaggio “giustamente incazzato” sul nostro sito di Susy, una lettrice che
ha subito più reati, ci costringe a riflettere
sulla
responsabilità, che significa assumersi fino in fondo
le
conseguenze delle proprie azioni.
Ecco
le risposte della sorella di un detenuto, e di due detenuti
C’è
stato di recente un dialogo interessante, nello spazio che il nostro sito dedica
a raccogliere le riflessioni dei lettori. Tutto inizia con un severo commento di
Susy, una lettrice che è stata più volte vittima di reati e che si rivolge con
una certa durezza ai detenuti, che animano il sito con le loro testimonianze:
“Gentili Signori, mi dispiace per le
vostre angosce, ma purtroppo non riesco a condividerle.
Ho subito uno scippo di una catenina con tanto di mani al collo, un
borseggio in autobus, uno scippo di una borsa, e dulcis in fundo mi hanno
svaligiato la casa. E perdonatemi il cinismo, ma non vedo perché dovrei
comprendere le ansie di chi mi ha rubato la cosa più importante: la serenità.
Mi alzo tutte le mattine e vado a lavorare per assicurare un futuro a mio
figlio, ho fatto in passato le pulizie e la tuttofare per uno studio dove dietro
lauto compenso di 150 mila lire al mese prestavo lavoro per 12 ore al giorno.
Perdonatemi ma credo che la diffidenza con cui debbano convivere i cosiddetti
“signori ladri, signori assassini e signori quant’altro” sia nulla
rispetto a quello che una persona onesta deve vivere per le azioni dei signori
di cui sopra. Da quando un immondo essere si è permesso di entrare in casa mia
non dormo più, ho paura di stare in casa mia, ho paura di stare fuori e non
c’è prezzo a questo non c’è pena detentiva che possa ridarmi quello che ho
perso. Chiedo ancora scusa, ma credo che la diffidenza degli altri sia il
minimo. Guardare le proprie atrocità negli occhi di chi ha perso una persona
cara per mano di un altro è ancora poco paragonato al dolore che chi resta si
porterà dietro per la vita. Purtroppo come dite voi indietro non si può
tornare, non si può tornare per voi ma neanche per noi che siamo dall’altro
lato della barricata, noi che subiamo, che siamo stuprati nell’anima con segni
indelebili che non saranno mai più cancellati. Buona giornata a tutti .
Susy
Susy
è una donna che è stata vittima di quei reati, spesso sottovalutati in carcere
perché ritenuti “contro il patrimonio”, e invece no, sono reati che fanno
male anche alle persone. Ma a risponderle è un’altra donna, Giorgia, a cui è
capitato in sorte di essere anche lei vittima, però in un’altra maniera:
vittima perché sorella di un ragazzo finito in carcere, in una famiglia che
tutto si sarebbe aspettata, tranne una fine del genere:
Mio
fratello è da cinque mesi in carcere, e sono stati cinque mesi da incubo
Proprio
oggi dopo mesi di agonie indicibili avevo bisogno di un appiglio, di uno
spiraglio sebbene piccolo... ho bisogno di parlare con chi è sulla mia stessa
barca, che tutto è meno una barca, sembra essere più una zattera che sta
andando in pezzi.
Mio
fratello è da cinque mesi in carcere, e sono stati cinque mesi da incubo, non
perché li lo abbiano trattato male ma perché oltre alla sofferenza di dover
scontare una pena si aggiunge la difficoltà di sentirlo, vederlo, sapere come
sta.
Facciamo
con lui un colloquio alla settimana di un’ora.
Lui
a volte è talmente stravolto dalla settimana passata, emozionato di vederci che
a mala pena parla, è preoccupato per noi fuori e per la sua sorte là dentro,
sta pagando una pena altissima per un reato che non ha neanche commesso lui...
spiegherò poi meglio di cosa si tratta ma oggi non è questo il punto, lui è
ovviamente colpevole, colpevole di essere stato infinitamente incosciente e di
essersi ritrovato in un vortice più grande di lui... ma poi si sa si toccano
certe categorie e l’occhio attraverso il quale si analizza una vicenda non è
più quello dell’imparzialità e della giustizia, ma diventa quello del
pregiudizio e del sentirsi superiore, senza capire che è con la vita delle
persone che si sta giocando, anche se di persone che hanno sbagliato si parla. Sì
loro hanno sbagliato e mio fratello lo riconosce, vuole pagare i danni, e le sue
colpe, ma tutti noi a casa, sua mamma, noi fratelli e sorelle paghiamo la sua
stessa pena amplificata... siamo soli, ci manca, non sappiamo mai se sta bene,
quando va bene riceviamo una lettera ogni due giorni e lo vediamo una volta alla
settimana, e dobbiamo fare ore di macchina per raggiungerlo.
Insomma
ci manca infinitamente, e quel giudice che incurante della vera situazione lo ha
condannato a una pena tanto pesante, ha condannato con lui altre 7 persone, che
per lui vivono, che gli vogliono bene, che sono la sua famiglia, che non ha
assolutamente nessuna colpa se non quella di volere infinitamente bene a una
persona che ha commesso un errore, che vuole sì pagare, ma che ha anche bisogno
di un’altra possibilità.
Scusate
lo sfogo, è che davvero a momenti si crolla… speriamo ce la faccia, noi ogni
tre giorni per lettera, e una volta alla settimana al colloquio cercheremo di
stargli accanto e di fargli capire che fuori lo aspetta una possibilità...
perché la merita... era semplicemente il passeggero accanto...
Mi
rivolgo a Susy: voi dite di essere dall’altra parte della barricata. significa
che avete l’assoluta certezza che a Voi certe cose non accadranno mai, e io
non posso che augurarvi che Voi abbiate ragione, sono sicura che anche mio
padre, morto anni fa per una leucemia dovuta al lavoro, non avrebbe mai creduto
che il piccolo dei suoi figli si sarebbe trovato a dover fare i conti con la
giustizia, a dover pagare per una colpa commessa.. Neanche mia mamma avrebbe
potuto immaginare una storia simile, visto che si è massacrata di lavoro per
crescere me che sono laureata e faccio l’educatrice sociale di professione,
esattamente come il mio fratello che per una serie di eventi si trova a dover
affrontare questa situazione tanto devastante.
Io
non voglio fare pena a nessuno, ma sono anche certa che chi non è mai entrato
in un carcere e non si è sentito chiudere dietro le porte per poter sentire
anche solo per un’ora la voce del proprio caro, non possa capire di che cosa
stiamo parlando.
Le
vittime hanno diritto a essere risarcite, capite, protette, tutelate, questo è
ovvio, nella mia breve vita sono stata anche vittima, ad esempio di un
investimento stradale da parte di un signore anziano che a una battuta di caccia
aveva bevuto qualche bicchiere di vino in più... beh io ho capito anche il suo
dolore, anche la disperazione della moglie e della figlia, e badate bene
all’epoca la vicenda di mio fratello non solo non era ancora capitata ma non
avremmo neanche mai potuto prevedere che sarebbe successa. Per questo senza
voler giudicare nessuno, resto fermamente convinta che tutti possono sbagliare,
ma tutti hanno anche bisogno di una seconda possibilità e di poter disporre
dello stesso diritto che si difende per la vittima, quello a una vita nel
rispetto dell’identità umana.
Le
chiedo solo una cosa: se suo figlio crescendo si dovesse trovare poi, magari
lasciandosi trascinare da cattive compagnie, in qualcosa di poco regolare, in
qualcosa di pericoloso, smetterebbe di amarlo? Io non credo. Ci rifletta, e
pensi al figlio di suo figlio, e al figlio di suo figlio ancora... forse vi sarà
più semplice capirci!”
Giorgia
Ci
sono familiari di vittime che hanno accettato di venire a parlarci
di Bruno Turci
Gentilissima
Susy,
lei
ha ragione quando dice che si è sempre rotta la schiena anche per pochi soldi e
malgrado le difficoltà non le è mai venuto in mente di andare a rubare.
Persone come lei ce ne sono tantissime, siete la stragrande maggioranza di
questo Paese. Esistono, tuttavia, altre persone le quali, fortunatamente,
rappresentano una piccolissima parte della società e sono più deboli di lei e
di tutta quella parte maggioritaria degli italiani che instancabilmente dà il
suo contributo, affinché le sorti di questa società possano migliorare. Noi
abbiamo avuto il torto di privare questa società delle nostre forze per
migliorarla, per renderla più equa, affinché la giustizia sociale fosse
possibile per tutti.
Certamente
le responsabilità dei colpevoli non si limitano al reato commesso, ma investono
una più ampia gamma di mancanze. Ad esempio i familiari delle vittime dei
nostri reati sono anch’essi vittime. I nostri familiari sono vittime anche
loro, con pari dignità di tutte le altre vittime. Ma lei pensa davvero che per
questo motivo noi non dobbiamo sperare in un percorso di riconciliazione con la
società? Ci sono familiari di vittime che hanno accettato di venire a parlarci,
hanno accettato di liberarci dal male che ci opprimeva lasciandosi guardare
negli occhi. Forse lo hanno fatto più per se stessi che per noi, ma la prego di
credermi che ha fatto tanto bene ad entrambi. Forse questo è servito davvero ad
evitare che qualcuno potesse continuare nella recidiva. Io sono convinto che
l’incontro e il dialogo con le vittime siano veramente uno strumento per
aiutare quelli più deboli a diventare consapevoli di se stessi.
La
mediazione penale è l’incontro con le vittime, ci sono ottimi professionisti
che stanno lavorando per realizzare questa forma di giustizia e renderla parte
del sistema penale. Ci vuole un po’ di coraggio ed è necessario credere
nell’uomo. Lei avrà le sue ragioni per obiettare, ma le chiedo per favore di
accettare il nostro invito e venire a sedersi intorno al tavolo delle riunioni
che facciamo qui in redazione, in carcere.
Lei
ha un modo di scrivere per raccontare le sue drammatiche disavventure che è
molto efficace, leggendo la sua lettera ho colto una capacità di spirito
notevole. Per questo le chiedo ancora: pagare il nostro debito, cosa comporta
secondo lei? Che si debba venire stipati e pressati nelle celle peggio di come
sono tenuti i polli nelle stie? Crede che dovrebbero infliggerci sofferenze
peggiori oltre quello che già stiamo pagando? Pensa che i suicidi nelle carceri
non debbano far pensare alle condizioni di vita pessime delle carceri e alla
malasanità che è una costante delle strutture sanitarie in galera?
A
noi piacerebbe poterci confrontare con lei su questi temi. O anche soltanto per
conoscerla e farci conoscere. Credo che sarebbe un incontro interessante da ambo
le parti.
La
saluto con simpatia.
Chi
commette il reato non considera l’essere umano di fronte a lui
di Andrea Beltramello
Gentile
signora Susy,
mi
chiamo Andrea, ho trentasei anni e sono detenuto per aver commesso numerose
rapine ai danni di istituti bancari. Nonostante sia diverso tempo che partecipo
alla redazione di Ristretti Orizzonti, non ho mai risposto a chi, come lei, ha
trovato il coraggio di manifestare il proprio disagio nel subire reati che
incidono profondamente nel contesto personale. Il suo scritto riporta alla mia
memoria un nome a me caro, è per questo motivo che mi sento in dovere di
risponderLe. Ho immaginato che quello che le è successo, fosse capitato a
questa persona a me cara, ed è per questo che mi permetto di parlarle con
estrema sincerità. Mai nessuno le ridarà la serenità che aveva prima di
subire queste violenze, è più che normale che lei si senta arrabbiata e
violata nella propria intimità.
Non
è mai facile capire perché queste cose avvengano, fermarsi a riflettere qual
è il motivo che spinge una persona a compiere reati come quelli che ha subito
lei. Le dico questo in quanto, io per primo, non mi ero mai immedesimato nelle
vittime dei miei reati. Leggendo lo sfogo nella sua testimonianza e avendo
partecipato, qui in carcere, ad incontri con vittime di reati, ho iniziato a
mettermi nei panni di chi questi torti li ha subiti. Le assicuro che se una
testa calda come me inizia a capirci qualcosa, allora tutto il nostro
confrontarci comincia ad avere un senso. Fermarci a considerare il prossimo è
il primo passo che ci consente di scrollarci di dosso l’indifferenza.
Chi
commette il reato non considera l’essere umano di fronte a lui, e chi lo
subisce odia profondamente colui che lo ha commesso, senza repliche. Lei è
stata capace di esprimere il suo disagio e sono certo che capirà che se
entrambe le parti non faranno uno sforzo, rimarremo in un circolo vizioso. Io
vedo nel confronto l’unica soluzione, sarebbe bello ed importante che lei
riuscisse a superare la fase dell’odio e fosse così forte e altruista da
riuscire a confrontarsi con chi, per meschinità, per disagio o per
disperazione, questi reati li ha commessi. Sarei felice se lei volesse
rispondermi o ancor meglio, partecipare una volta ad un nostro incontro nel
carcere di Padova, sono certo che sarebbe per tutti un’occasione di crescita.
Riguardo
le sofferenze di chi è detenuto, mi trovo in accordo con lei, fuori ci sono
persone che, pur comportandosi correttamente, vivono profondi disagi. Io avevo
scelto la via del crimine per ovviare questi disagi e quindi accetto le
conseguenze. Non ho parole che possano lenire la sua rabbia e il dolore, ciò
che posso fare è dirle che mi dispiace veramente.
Ringraziandola
per aver avuto voglia di ascoltarmi, le porgo i miei più cordiali saluti.
Posta Celere
Ci serve la voce della Chiesa, che dica in
modo forte e chiaro che le carceri in queste condizioni non rispettano la dignità
delle persone
di Antonio Floris
Verso
la fine dell’anno passato abbiamo letto sui giornali che Sua Santità ha
voluto donare ai suoi collaboratori 232 panettoni prodotti dai detenuti per la
cooperativa Giotto all’interno del carcere due Palazzi di Padova. Non è
sicuramente casuale la Sua scelta. In effetti il laboratorio di Pasticceria
della Casa di Reclusione è famoso in tutta Italia per la bontà dei suoi
panettoni, colombe pasquali e dolci vari. Tanto pubblicizzato che chi sente
parlare del carcere due Palazzi, lo associa subito alla pasticceria.
Tanta
è la fama acquisita che le persone che leggono sui giornali queste cose, e non
hanno conoscenza di come è la realtà all’interno di questo istituto, sono
portate magari a pensare che tutti i detenuti qui ristretti siano impegnati (e
pagati) per produrre dolci. Quindi che ci sia abbondanza di soldi e abbondanza
di dolci alla portata di tutti.
Ma
non è esattamente così. Padova non è immune dai mali che affliggono tutte le
altre carceri d’Italia, in primo luogo quello del sovraffollamento. Il carcere
di Padova era in origine progettato per 350 posti ma dopo un po’ di tempo era
stato riempito con 700 detenuti (cioè il doppio della capienza prevista) e ora
con l’emergenza sovraffollamento il numero dei detenuti ospitati si sta
avvicinando inesorabilmente a mille, il che significa che in stanze per una
persona ci si ritrova ristretti in tre!
Dei
quasi 900 detenuti ospitati attualmente all’interno dell’Istituto di Padova,
oltre ai 10 che lavorano in pasticceria, ce ne sono circa altri 200 che svolgono
altri lavori a vario titolo, una parte impiegati in lavorazioni delle
cooperative e un’altra parte alle dipendenze dell’Amministrazione
Penitenziaria, per la quale svolgono lavori di pulizia nelle sezioni e corridoi,
oppure fanno i portavitto, i magazzinieri ecc.
In
pratica, se su 900 sono 200 quelli che lavorano, significa che altri 700 sono
ozianti che trascorrono l’intera giornata senza fare niente di niente, chiusi
nelle loro piccolissime celle di dimensioni 3,80 x 2,70 in condizioni, come si
dice da tutte le parti “disumane e degradanti”. Detto in confidenza, di
questi ultimi 700 sono ben pochi quelli che a Natale e Capodanno hanno potuto
assaggiare una sola fetta degli ottimi panettoni, in quanto per la stragrande
maggioranza dei detenuti il loro prezzo era proibitivo.
Nel
panorama delle carceri italiane Padova non è certo l’istituto messo peggio,
anzi chi ne ha girati tanti dice che a confronto di altre carceri qui si sta
addirittura bene. Se si sta bene qui figuriamoci come si può stare negli altri
istituti, nei quali le condizioni sono semplicemente invivibili.
Per
capire quanto sia grave la situazione del sovraffollamento basti pensare che nel
2006 quando il numero dei detenuti stava arrivando a 61000 (numero mai raggiunto
prima), l’80% dei Parlamentari votò a favore dell’indulto ritenendo la
situazione non ulteriormente tollerabile.
Oggi
il numero dei detenuti all’interno dei penitenziari italiani oscilla attorno
ai 70000!! Con la differenza rispetto al 2006 che ci sono stati tagli alle spese
per la sanità, per il lavoro dei detenuti, per i prodotti di prima necessità
tipo forniture di saponi, dentifrici, spazzolini e anche per l’alimentazione,
basti pensare che il budget per garantire i tre pasti giornalieri ai detenuti
fino allo scorso anno era di 4,15 €. Adesso è sceso a 3,18 €.
Sempre
più allarmanti sono le notizie sulle morti in carcere, ci sono persone che
muoiono o per malasanità o per suicidio senza che nessuno muova un dito. Non
passa giorno che non siano fatti reclami per protestare contro le condizioni
disumane in cui i detenuti sono costretti a passare le loro giornate in
violazione palese sia dell’Ordinamento Penitenziario che della stessa
Costituzione e della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. A tutto questo
bisogna naturalmente aggiungere il disagio delle persone che lavorano
all’interno degli istituti, che sono in numero molto inferiore a quello che
dovrebbe essere.
La
Corte Europea ha condannato l’Italia parecchie volte per violazione dei
diritti dell’uomo e ha esortato il governo italiano a trovare subito soluzioni
al problema. Ma dal Ministero si limitano a dire che la soluzione è quella di
costruire nuove carceri. È stato annunciato un piano carceri dove si prevedeva
di creare 20.000 nuovi posti. È stato dichiarato lo stato di emergenza per
tutto l’anno 2010, ora questo stato di emergenza è stato rinnovato per tutto
il 2011, solo che in un anno e più di stato di emergenza non si sono visti
significativi risultati, mentre il numero degli arrestati è sempre in aumento e
il numero dei morti in carcere pure.
Visto
che il Governo è sordo ai nostri appelli noi detenuti ci rivolgiamo a Sua
Santità affinché faccia sentire la Sua voce presso le Autorità italiane, così
come aveva fatto il suo mai abbastanza compianto predecessore, Papa Woityla, per
ricordare a chi ci governa che le carceri sono fatte per riabilitare le persone
al fine di un reinserimento nella società. Ora come ora invece altro non sono
che dei lager.
Tutti
noi ci auguriamo che un Suo autorevole intervento possa scuotere i nostri
governanti e l’opinione pubblica dalla loro indifferenza e dal loro cinismo.
Donne
Dentro
Pensieri
e sentimenti di una madre in visita alla figlia
La
madre di una giovane detenuta “osserva” le altre madri, con le quali
condivide il dolore di avere un figlio in carcere, la paura, l’ansia di
sentirsi giudicate
di Marina,
mamma di una detenuta
Sono
la mamma di una giovane donna detenuta, vivo fuori dal carcere ma il mio cuore
è “dentro”.
Dal
giorno dell’arresto di mia figlia, la mia vita è cambiata. Ho imparato a
convivere e a dominare sentimenti forti e dolorosi: ansia, paura,
preoccupazione, rabbia, sconforto.
Ma
il grande amore che provo per lei, la vicinanza di mio marito e quella delle
nostre famiglie, la solidarietà di moltissime persone, la fiducia nella
Giustizia e la fede in Dio mi permettono di camminare, giorno dopo giorno, in
questo faticoso sentiero a testa alta, senza voltarmi indietro, guardando solo
il tratto di strada che sto percorrendo in attesa della sua fine.
Siamo
tante, troppe, madri con i figli “dentro”.
Ci
sono quelle che sono rimaste accanto al proprio figlio fin dall’inizio, fin da
quando, cioè, egli è diventato il protagonista di due processi: quello nelle
aule del Tribunale e quello mediatico. Quelle che per mesi o anni, silenziose ed
invisibili, attendono il proprio turno per abbracciare il loro figlio in
carcere. Cuore gonfio all’entrata, occhi gonfi all’uscita…
E
ci sono quelle alle quali è venuto meno il coraggio, la forza, la possibilità
o l’amore ed hanno voltato le spalle a quel figlio che, in questo modo, è
stato condannato non soltanto alla reclusione ma anche a restare solo con il suo
dramma.
Nell’immaginario
collettivo siamo madri brutte, cattive, ignoranti, incapaci di dare
un’educazione e di amare, magari prostitute o tossicodipendenti, in ogni caso
facenti parte di una famiglia “difficile”.
Ma
io, quando sono in attesa di abbracciare mia figlia, mi guardo intorno e vedo
sempre più spesso madri “normali” di figli “normali”, provenienti da
famiglie “normali”
Gentian Belegu, Luigi Bellanca, Andrea Beltramello, Vincenzo
Boscarino, Sandro Calderoni, Gianluca Cappuzzo, Marco Cavallini, Altin Demiri,
Mohamed El Ins, Filippo Filippi, Antonio Floris, Ulderico Galassini, Franco
Garaffoni, Gentian Germani, Milan Grgic, Dritan Iberisha, Bardhyl Ismaili,
Pierin Kola, Davor Kovac, Miroslav Lazarov, Marco Libietti, Enos Malin, Michele
Montagnoli, Bruno Monzoni, Halid Omerovic, Elvin Pupi, Salem Rachid, Oddone
Semolin, Walter Sponga, Hasin Taha, Bruno Turci, Igor Muntenau, Germano
Vetturini, Serghej Vitali, Cesk Zefi
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n°
1315 dell’11 gennaio 1999. Spedizione in A.P.
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