Ristrettamente utili

 

C’è chi gioca la carta della “percezione dell’insicurezza”

Aumentare le pene è indicativo di una 

impotenza di fronte ai problemi sociali

Un’intervista a Giovanni Palombarini, Procuratore

Generale Aggiunto della Corte di Cassazione

 

Intervista a cura di Marino Occhipinti

 

Dottor Palombarini, quanto grave è, a suo parere, la situazione della Giustizia in Italia?

La situazione, sinceramente, è molto brutta. È brutta perché per lunghi anni si sono lasciati incancrenire problemi che si erano configurati già negli anni Settanta; ed è brutta perché oggi non sono all’orizzonte interventi adeguati per affrontare i problemi. Mi è già capitato di dire che oggi chi volesse affrontare la questione Giustizia per quella che è, dovrebbe atteggiarsi come normalmente si fa di fronte a una catastrofe, cioè con un drastico programma di interventi radicali, contemporaneamente di emergenza e di prospettiva. Invece, nulla di tutto questo. Il ceto politico – uso impropriamente questo termine per fare riferimento all’intero sistema dei partiti – ha considerato il tema Giustizia esclusivamente sotto l’aspetto del conflitto giurisdizione/potere politico insorto all’inizio degli anni Ottanta e poi progressivamente cresciuto d’intensità. Oggi, dopo la lunga vicenda della Bicamerale e i contrasti sui progetti della Destra in materia di ordinamento giudiziario, tutto sembra essersi acquietato. Penso che le alleanze dei partiti che si alternano al governo ritengano di avere definito ogni questione, salvo mettersi in allarme quando le conversazioni di qualche esponente di rilievo vengono intercettate. Così la situazione è destinata a rimanere grave.

 

E per quanto riguarda invece la sicurezza, il contesto è davvero così allarmante come viene rappresentato dagli organi di informazione?

Ovviamente no. Basti pensare che i delitti di sangue, omicidi e ferimenti volontari, sono da decenni in continua diminuzione. Nel 2005 e nel 2006 gli omicidi sono stati poco più di 600; all’inizio degli anni Novanta erano più del doppio. Il fatto è che una serie di soggetti hanno politicamente giocato la carta della “percezione dell’insicurezza” da parte dei cittadini. Qui però la questione si fa complessa perché il tema dei reati di livello inferiore – innanzitutto quelli “predatori”, ma anche lo spaccio e lo sfruttamento della prostituzione – s’intreccia con quello dell’immigrazione. Così da parte di alcuni si prospetta ai cittadini italiani una verità parziale: e cioè che questo tipo di reati siano in continua crescita perché commessi da stranieri. Si tace l’altra parte della verità, e cioè che se si scompone il dato complessivo distinguendo fra cittadini extracomunitari regolarmente residenti da un lato e irregolari e clandestini dall’altro, si vede facilmente come i primi commettano reati in numero certamente non superiore a quello degli italiani (è sulla questione clandestinità che si dovrebbe intervenire con coraggio, per ridurre il fenomeno, con effetti anche sotto l’aspetto della sicurezza). Così si ottiene il doppio risultato di deviare l’attenzione dalle varie ragioni effettive d’insicurezza (il lavoro, i salari eccetera) e di ridurre i diritti dell’intera marginalità sociale.

 

Qual è il suo parere sul cosiddetto “pacchetto sicurezza” e su interventi “emergenziali” di questo genere? Nonostante in molti Paesi la “tolleranza zero” abbia prodotto ben pochi risultati in termini di sicurezza sociale, in Italia si sta parlando ancora di inasprire le pene…

Credo poco alla bontà sia dei “pacchetti” che delle “cialtronate” (così le ha giustamente definite Alberto Asor Rosa) del tipo di quella sui lavavetri.

In generale penso che inventare nuovi reati o aumentare le pene non serva a nulla; imporre ai giudici una maggiore severità in tema di custodia preventiva nella forma carceraria, o inventare forme di carcerazione preventiva obbligatoria, è indicativo di una complessiva impotenza di fronte ai problemi sociali che richiederebbero ben altri interventi, ovviamente a monte. La “tolleranza zero” americana ha prodotto soltanto il moltiplicarsi del numero dei carcerati, giunto ormai in Usa a livelli incredibili. Un numero crescente e disumano di ispanici, neri, tossici ecc. popola ormai i luoghi di detenzione.

Si parte dai lavavetri e dai graffitari per arrivare alle ordinanze del tipo di quella del sindaco di Cittadella: bisogni e diritti dei ceti marginali in tal modo finiscono in niente.

 

Perché sono così osteggiate le misure alternative alla detenzione, che tutte le statistiche indicano come il miglior antidoto alla recidiva, ben più alta in coloro che, invece, scontano tutta la pena in carcere?

Le misure alternative alla detenzione sono una cosa seria, e richiedono, per la loro introduzione nell’ordinamento, una grande volontà riformatrice che purtroppo, come dicevo all’inizio, oggi non c’è. Le riforme, quelle vere, nascono da grandi confronti e forti conflitti, per effetto dei quali alcuni interessi e molti convincimenti tradizionali vengono sacrificati per realizzare interessi nuovi e generali. Oggi siamo lontani da tutto ciò. Al massimo si può ottenere un indulto per rimediare al sovraffollamento.

 

Secondo lei, quanta “responsabilità” hanno gli organi di informazione in tutta questa situazione, nell’allarmismo diffuso e nella paura percepita dai cittadini?

Non c’è dubbio che i media, in generale, non hanno svolto il ruolo di informazione e di critica che sarebbe auspicabile, anzi hanno contribuito alla diffusione di orientamenti arretrati. Il fatto è che, nei giornali, non c’è più l’editore puro.

Quasi tutti, in un modo o nell’altro, sono legati a centri economici o a soggetti politici che hanno ovviamente i propri interessi da perseguire (ciò non vale per il Manifesto, che non a caso è profondamente diverso dagli altri). Quanto alle tv, la situazione è nota, anche se qualche voce isolata della televisione pubblica tenta di muoversi diversamente.

 

Ha un messaggio per i nostri lettori?

Rispetto a questa situazione operano in modo alternativo i movimenti, portatori in modi diversi di idee e programmi che hanno al centro gli interessi reali delle grandi masse popolari, in un’ottica che rifiuta contemporaneamente lo sviluppo economico come è stato fin qui praticato, lo sfruttamento del lavoro e delle risorse, la guerra come strumento della politica internazionale, l’abbandono del principio dell’uguaglianza. C’è da sperare che ne nasca un progetto complessivo, capace di imporsi come progetto di governo.

 

 

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