Diritti da tutelare

 

Rafforzare la concezione dell’esistenza dei diritti del detenuto

Non è infatti pacifico per la nostra società, sostiene Franco Corleone

che i detenuti abbiano dei diritti e che questi siano esigibili

 

Franco Corleone è stato in passato Sottosegretario alla Giustizia con delega alle questioni penitenziarie, e questa sua esperienza è stata di grande importanza quando ha assunto il ruolo di Garante dei diritti delle persone private della libertà personale per il Comune di Firenze. Questo compito oggi lo sta portando avanti con la consapevolezza di essere una specie di “profeta disarmato”, perché i Garanti cittadini sono ancora molto limitati nei loro movimenti all’interno delle carceri e, di fatto, privi di potere reale. Lo abbiamo intervistato.

 

a cura della Redazione

 

Ci traccia un primo bilancio della sua attività di Garante dei diritti delle persone private della libertà personale?

L’attività di Garante a Firenze è iniziata a gennaio 2004 grazie a una delibera della Giunta approvata dal Consiglio Comunale. Firenze fu la seconda città ad avere il Garante dopo Roma. Proprio nei giorni scorsi ho illustrato in Consiglio Comunale la Relazione annuale sulla attività svolta, come accade ogni anno. Questo appuntamento ritengo sia particolarmente importante per la discussione che impegna le forze politiche e per l’ordine del giorno che conclude il confronto. Ovviamente molti dei punti approvati rimangono sulla carta, ma costituiscono una traccia dell’impegno del Comune su questo tema.

 

Quali sono state le iniziative più significative, come Garante, per migliorare la vivibilità degli istituti di pena?

L’iniziativa su cui ho caratterizzato la presenza del Garante, soprattutto all’inizio del mandato, è stata quella di rafforzare la concezione dell’esistenza dei diritti del detenuto come cittadino e in quanto persona condizionata da una particolare situazione. Infatti ritenevo e ritengo che non sia pacifico per la nostra società che i detenuti abbiano dei diritti e che questi siano esigibili. L’esperienza poi di questi anni mi ha confermato che anche nei detenuti, proprio in quanto soggetti che si trovano in una condizione di debolezza, tale consapevolezza è a sua volta assai debole. Quindi ho svolto un ruolo che si potrebbe definire di carattere politico e di sensibilizzazione culturale. Per quanto riguarda in modo specifico la vivibilità degli istituti di pena, ho posto con pervicacia la questione dell’applicazione del Regolamento del 2000, che era rimasto lettera morta per cinque anni. C’è da dire che anche in questi due anni il Governo diverso non ha dato una particolare accelerazione alla sua applicazione, se non per un monitoraggio da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sulla sua inapplicazione.

 

Quali sono le richieste più frequenti dei detenuti?

Le segnalazioni e richieste da parte di detenuti o familiari degli stessi, sono sempre numerose all’incirca un centinaio dall’inizio dell’anno, e giungono all’ufficio o per posta o per telefono o via e-mail. I motivi per i quali viene richiesto l’intervento del Garante sono i più svariati. Si va dalla denuncia della situazione giudiziaria allo stato di salute, dalle condizioni di detenzione alla mancanza di contatti con gli educatori e/o gli psicologi. Spesso viene lamentato il cattivo rapporto con la Magistratura di Sorveglianza per la concessione di permessi premio o di misure alternative.

La questione più ricorrente è comunque quella dei trasferimenti, molti detenuti sono reclusi in istituti lontani dalle loro famiglie e chiedono perciò di essere trasferiti in altri istituti più vicini al Comune di residenza dei familiari. Il principio della territorializzazione della pena normativamente previsto art. 30 del Regolamento Penitenziario 230/2000, non sempre viene rispettato, anzi spesso è violato. A questo proposito, molto si è attivato il Garante, per richiedere in numerosi casi il rispetto di questa norma, rivolgendosi sia al Provveditorato Regionale sia al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, con un’opera di richiesta e sollecitazione per consentire un esito positivo dei trasferimenti richiesti.

 

Ci sono dei progetti particolarmente significativi che ha sostenuto e promosso?

A Firenze, in accordo con il Comune, si è consolidata la prassi delle verifiche da parte dell’ufficio di Igiene Pubblica per quanto riguarda il rispetto delle norme igienico-sanitarie. Questo periodico controllo spinge l’Amministrazione Penitenziaria a lavori di ordinaria e straordinaria manutenzione. Tra le altre cose, un lavoro impegnativo e costoso è stato quello per l’allontanamento dei piccioni che avevano preso possesso del carcere.

Una delle questioni che crea maggiore tensione è quella della mancanza di acqua calda, per questo mi sono adoperato perché il carcere di Sollicciano e quello di custodia attenuata, l’Istituto Gozzini, partecipassero a dei processi di innovazione come la cogenerazione e i pannelli solari. Ovviamente questi progetti finanziati ci si augura che abbiano una rapida realizzazione. Nel carcere di Sollicciano rimangono aperte le vertenze sull’assenza di lavatrici e sulla scarsa qualità dei materassi. Un fatto estremamente positivo che riguarda, più che la vivibilità degli istituti, la condizione di vita delle persone è l’impegno assunto dalla Società della Salute, su richiesta del Garante, per le cure odontoiatriche, e in particolare le protesi che nel 2007 sono state applicate in numero superiore a 100.

Nel carcere di Sollicciano è costituita una commissione di detenuti con due rappresentanti per sezione che si riunisce una volta al mese con la presenza di tutti i dirigenti dell’Amministrazione Penitenziaria, il Garante e altri soggetti esterni per fare il punto sulla vivibilità dell’istituto e su problemi più generali.

Il progetto che mi ha visto impegnato a lungo, è stata la conclusione dei lavori per il “Giardino degli Incontri”. Questa struttura, progettata dall’architetto Giovanni Michelucci, è il nuovo luogo per i colloqui dei detenuti con i familiari. Vi sono resistenze ad un utilizzo pieno da parte della Polizia Penitenziaria per i soliti motivi di sicurezza, ma la decisione di sviluppare integralmente questo luogo è stata presa.

 

Quali sono le difficoltà maggiori, i punti critici, che ha incontrato in questa attività?

Le difficoltà con cui ci si scontra sono quelle tipiche della lentezza e del formalismo della burocrazia aggravati da una amministrazione, quella penitenziaria, che è particolarmente preoccupata dalle novità.

 

Come risponde la società, e come rispondono gli enti locali, alle sue richieste?

Sul carcere si può constatare che esistono davvero due società, quella del volontariato e quella determinata nelle proprie convinzioni dal senso comune amplificato dai mass-media. L’ossessione securitaria in questi anni non ha certo aiutato a far prevalere una visione del carcere fondata sui principi della Costituzione. Gli enti locali comunque finanziano numerosi progetti e in alcuni casi hanno anche condiviso le iniziative che ho assunto.

 

Nelle sue attività, riesce a coinvolgere la Magistratura di Sorveglianza?

Per quanto riguarda la Magistratura di Sorveglianza, in questi anni ho mantenuto il rapporto con il Presidente del Tribunale di Sorveglianza, sia per segnalare casi individuali di detenuti, sia per quanto riguarda il confronto sulle modalità di concessione delle misure alternative.

E complessivamente posso rilevare che vi è sempre una attenzione alle questioni poste.

 

L’amministrazione penitenziaria, invece, come si pone nei suoi confronti?

Credo di essere privilegiato nella mia azione dalle precedenti responsabilità, soprattutto quella di Sottosegretario alla Giustizia con delega alle questioni penitenziarie.

 

Ad oltre un anno dall’approvazione dell’indulto, quanto è cambiata la situazione nel carcere in cui opera come Garante?

Subito dopo l’indulto nel carcere di Sollicciano si passò da mille presenze a cinquecento. Oggi siamo a oltre ottocento presenze. Il fatto che non si sia agito sulle tre leggi criminogene, droghe, immigrazione e recidiva, produce questo effetto per cui a livello nazionale si sono superate le 50 mila presenze. Lo scioglimento del Parlamento mette fine alle poche speranze di modifica anche parziale della situazione e quindi bisogna attrezzarsi a una condizione che alla fine dell’anno rivedrà le presenze oltre le 60 mila. Se non ci fosse stato l’indulto le carceri sarebbero scoppiate, ma oggi dobbiamo dire con grande rammarico che l’occasione unica e irripetibile per la riforma del carcere è stata perduta. Per questo ho intitolato la mia relazione “L’anno del disincanto”.

La tutela dei diritti ha tanti fronti aperti

Un Garante che fa coesistere due diversi approcci

Da un lato affrontare e risolvere le singole questioni, spesso drammatiche,

che i detenuti ci pongono, e non dimenticare una visione complessiva del carcere

 

di Angiolo Marroni

Garante dei diritti delle persone private

della libertà personale della Regione Lazio

 

L’ufficio del Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio è stato istituito ormai quasi cinque anni fa con la legge regionale 31/2003. È dunque possibile cominciare a svolgere delle considerazioni su questi primi anni di vita dell’ufficio. Devo sottolineare che per l’intensa attività svolta, quasi sempre a contatto diretto con i detenuti, settimanalmente visitati dai nostri operatori, vi è stato un progressivo aumento della fiducia riposta nel nostro ufficio, sia per le risposte che abbiamo cercato di dare, sia per la vicinanza umana e la professionalità con la quale abbiamo sempre cercato di occuparci della realtà della detenzione.

Inoltre, la nostra natura di ente istituzionale, con competenze relative all’intero territorio regionale, ci ha consentito di avere un quadro piuttosto ampio della realtà del mondo detentivo, che si estende anche oltre i limiti del Lazio. Sono infatti numerose le segnalazioni che ci giungono da altre carceri disseminate su tutto il territorio nazionale. Sulla base di questa esperienza possiamo dire che il mondo della detenzione è fatto certamente dei grandi istituti di pena, ma anche di piccole carceri che rappresentano comunque una realtà importante, anche se spesso troppo marginalizzata. Se per la prima categoria di istituti il principale problema è evidentemente il sovraffollamento, con tutto ciò che questo comporta (difficoltà nel processo trattamentale, maggiore complessità dell’intervento sanitario, carenza di adeguate strutture a servizio dei detenuti), per i piccoli istituti di pena spesso il problema primario non è – soprattutto dopo l’indulto - il sovraffollamento, quanto proprio la loro marginalizzazione. Ad esempio per questi ultimi, a differenza che nelle grandi carceri, molto spesso abbiamo riscontrato difficoltà per la mancanza sul territorio di un terzo settore vivo e attento al tema carcere, che nei grandi centri sopperisce alle annose carenze strutturali e sistemiche.

Questa “trasversalità” del nostro intervento ci consente oggi di poter stilare una sorta di “cahier de doléance” che raccolga le principali questioni ancora oggi irrisolte e che rendono sempre più difficoltosa, oltre che ovviamente dolorosa, la permanenza in carcere.

Se infatti il provvedimento di indulto ha consentito una forte riduzione della popolazione penitenziaria, certamente non è stata la panacea di tutti i mali, come forse alcuni speravano: molte delle questioni sono ancora sul tavolo e, vista l’assenza di un serio progetto di riforma del sistema penale, rischiano tra non molto di scontrarsi nuovamente con carceri sovraffollate.

Siamo ovviamente impegnati anche in questo ambito cercando di diffondere quanto più possibile un nuovo modo di concepire la pena ed il reo, attraverso l’organizzazione di convegni scientifici, la continua proposizione di nuovi e diversi interventi a tutti i livelli, compresi ovviamente il Parlamento ed il Governo.

Ad oggi le questioni maggiormente delicate che nel corso degli anni ci siamo trovati ad affrontare e che non sempre purtroppo siamo riusciti a risolvere, attengono a tutti i principali settori della vita penitenziaria: vita all’interno degli istituti, lavoro, formazione, salute, reinserimento.

In ognuno di questi campi si può dire che oramai vi sia una certa stabilizzazione del tipo di domande che vengono poste, il che dovrebbe consentire di affrontare e risolvere con maggiore efficacia le singole questioni, cosa che spesso purtroppo non accade.

 

Vita all’interno degli istituti penitenziari

 

È questo un aspetto essenziale della vita penitenziaria e ovviamente del processo rieducativo del detenuto. Aldilà delle oramai annose vicende legate al sovraffollamento degli istituti penitenziari ed alle conseguenze cui questo conduce (celle sovraffollate, limitazione delle strutture spesso inadeguate, sovraccarico di lavoro sugli operatori penitenziari) mi preme in questa sede sollevare alcune questioni apparentemente meno battute, ma altrettanto drammatiche per la vita di ogni detenuto. Mi riferisco in particolare alla difficoltà nella gestione dei rapporti con le famiglie di origine, a causa della complessità e – mi sia consentito dirlo – in alcuni casi rigidità dell’amministrazione penitenziaria. Due sono le tematiche che più spesso i detenuti sottopongono ai nostri uffici: i trasferimenti ed i colloqui con la famiglia. Per quanto riguarda il primo aspetto è ovvio che un proficuo rapporto con le famiglie – elemento imprescindibile del trattamento penitenziario, la cui centralità è ribadita dallo stesso Ordinamento Penitenziario – passa necessariamente per il rispetto del principio, anch’esso normativizzato, della territorialità della pena. In sostanza ciascun detenuto, in linea di principio e salvo particolari ed eccezionali ragioni, dovrebbe scontare la pena nella regione presso la quale egli risiede, in modo da poter tenere più spesso e più facilmente rapporti con la propria famiglia.

Purtroppo molto spesso questo non accade e i detenuti vengono destinati a istituti penitenziari distanti centinaia di chilometri dalle loro zone di residenza. Fino a qualche tempo fa si era soliti giustificare questa situazione con il sovraffollamento degli istituti di pena. Dopo l’indulto questo problema è stato superato e quindi non vi sono più “alibi”. In altri casi e sempre con riferimento al principio della territorialità della pena, va detto che procedure di sfollamento effettuate senza utilizzare criteri razionali, hanno rischiato di compromettere o comunque di rallentare processi educativi già ben avviati presso gli istituti di provenienza, con tutto ciò che ne consegue in relazione al principio della finalizzazione della pena alla rieducazione. In questi casi nostro compito è quello di segnalare agli organi competenti (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria) le singole situazioni, cercando di fungere da tramite e di evidenziare situazioni che riteniamo meritevoli di attenzione.

Con riferimento invece alla questione dei colloqui, numerose sono le richieste che riceviamo in relazione alla fruizione di colloqui telefonici. La procedura, lunga, farraginosa e spesso troppo rigida, impedisce di usufruire pienamente di questo diritto, normativamente garantito. La necessità di fornire un’utenza fissa cui indirizzare la chiamata, i numerosi documenti richiesti per ottenere l’autorizzazione e le spese poste a carico dei detenuti rendono difficile effettuare telefonate. Se si unisce questo aspetto a quello appena descritto della non sufficiente attenzione al tema della territorialità della pena, si potrà notare come in effetti vi sia una seria difficoltà nel tenere rapporti con la famiglia, tanto importanti per un corretto processo di recupero.

Appare opportuno sottolineare infine la questione dei detenuti stranieri. Questi ultimi spesso entrano in carcere privi di un permesso di soggiorno o comunque, nel corso della detenzione, finiscono per perderlo. Durante il periodo di espiazione della pena, grazie anche ad alcuni interventi della giurisprudenza, questo non dovrebbe comportare particolari conseguenze, essendo garantito anche a coloro che siano privi di permesso di soggiorno l’accesso agli stessi benefici riservati agli italiani. Purtroppo però questo accade solo in pochi casi. Quasi sempre infatti la condizione familiare di questa categoria di detenuti è molto più precaria di quella degli italiani, caratterizzata dalla mancanza di un alloggio, dall’estrema difficoltà nell’identificazione, nel difficile rapporto con i consolati. Come se questo non bastasse, i detenuti stranieri, una volta rimessi in libertà, sono destinati, praticamente senza alcuna speranza, a ritornare nei loro paesi di origine, a prescindere dal successo del loro processo rieducativo. Anche in questo campo è indispensabile intervenire attraverso una seria riforma dell’attuale normativa in materia di immigrazione, legando ad esempio la possibilità di ottenere il permesso di soggiorno al successo del processo rieducativo.

 

Lavoro

 

Anche in questo settore molto è stato fatto, ma altrettanto resta ancora da fare. Appare opportuno anzitutto distinguere tra la tematica del lavoro all’interno del carcere e quello esterno. In relazione al primo aspetto, dobbiamo dire che ancora oggi purtroppo il lavoro all’interno del carcere è concepito quasi esclusivamente con riferimento al funzionamento della stessa “macchina penitenziaria”. In altri termini la gran parte dei lavori oggi presenti nelle carceri è destinata a gestire servizi erogati dalla stessa struttura penitenziaria: molti detenuti sono impegnati nelle mense, oppure nella pulizia e nella manutenzione degli edifici. È ovvio che questo comporta due conseguenze negative: da un lato l’offerta di lavoro così concepita è necessariamente insufficiente e dall’altro non favorisce la formazione nel detenuto di una specifica professionalità, riutilizzabile una volta scontata la pena per reinserirsi nel mondo del lavoro.

Per questo stiamo cercando di promuovere la penetrazione all’interno delle strutture penitenziarie di cooperative sociali e di realtà imprenditoriali che, sfruttando la legislazione di vantaggio riservata a chi occupa i detenuti, trasferiscano la loro produzione all’interno degli istituti. Questo è possibile nei numerosi settori nei quali non è necessario che il lavoratore si sposti dalla propria sede di lavoro. Come ufficio abbiamo ottenuto numerosi successi: al carcere di Rebibbia penale (dove la mensa è ora gestita da una cooperativa di detenuti, e si sta avviando un’attività di produzione di alluminio anodizzato), a Rebibbia Nuovo Complesso (dove opera un centro della società autostrade s.p.a.), a Velletri (dove è attiva una cooperativa agricola) e a Civitavecchia (dove va avanti un progetto di informatizzazione dei documenti della Provincia di Roma). Purtroppo però questo non basta: manca una visione globale del sistema, non c’è una normazione generale che disciplini il settore (fatti salvi i benefici della legge Smuraglia) e non ci sono riferimenti istituzionali adeguati cui rivolgersi. Per questo quasi sempre l’iniziativa è lasciata al terzo settore, con la conseguenza che nelle zone dove esso è meno presente (come nelle carceri di provincia) l’offerta di lavoro è necessariamente più limitata.

 

Lavoro esterno e formazione

 

Un aspetto diverso – anche se strettamente correlato – è quello del lavoro esterno al carcere, sia con riferimento agli ex detenuti appena rimessi in libertà, sia per coloro che, fruiscono di misure come il lavoro esterno o la semilibertà. In questi casi cerchiamo soprattutto di offrire ai detenuti l’opportunità di fruire di un processo formativo adeguato, che gli consenta di trovare più agevolmente un posto di lavoro.

Per questo cerchiamo di collaborare con le istituzioni che sovvenzionano borse lavoro e tirocini formativi (importanti sono in questo settore le collaborazioni con il PRAP Lazio e con Italia Lavoro). Una volta concluso il processo formativo, cerchiamo di mettere in contatto i detenuti con il mondo delle cooperative sociali, così da consentire un successivo proficuo reinserimento nel mondo del lavoro.

Siamo poi molto orgogliosi di un progetto di teledidattica avviato nel carcere di Rebibbia N.C., dove i detenuti possono seguire dal carcere le lezioni di alcune facoltà dell’Università di Roma “Tor Vergata”

Accanto a questo cerchiamo di favorire la nascita di nuove iniziative economiche ad opera dei detenuti più volenterosi, sovvenzionando i primi passi delle loro attività. Il progetto di microcredito avviato con la Regione Lazio è destinato a finanziare anche queste progettualità, spesso innovative e comunque meritevoli di attenzione, ma che purtroppo si scontrano con un mondo come quello dell’accesso al credito, assai restio a concedere finanziamenti sulla sola base di idee e di progetti validi.

 

Casa

 

Una volta cessata la pena, la casa è, assieme al lavoro, uno dei problemi principali che i detenuti si trovano a dover affrontare. Anche in questo settore purtroppo le politiche sociali sono piuttosto scarse e, se si esclude il Comune di Roma (dove i fondi destinati al sostegno dei detenuti sono investiti nella creazione di case alloggio, anche se comunque insufficienti), negli altri comuni sedi di istituti penitenziari non ci risultano analoghe iniziative.

 

Salute

 

È questo forse il più drammatico dei problemi che ci vengono sottoposti, perché coinvolge la vita stessa delle persone recluse, cui spesso è negato il diritto alla salute costituzionalmente sancito dall’art. 32. Sia a livello nazionale con il d. l.gvo 230/99 che a livello regionale con la l.reg. 7/07, di recente approvazione, è sancita l’assoluta parità tra detenuti e cittadini comuni per quanto riguarda il diritto alla salute.

Nell’ultima legge finanziaria si è finalmente deciso il definitivo passaggio della gestione del sistema sanitario penitenziario dal Ministero della Giustizia alle ASL. Siamo però ancora in attesa della normativa di attuazione e questo ovviamente crea una situazione di incertezza, che non giova ai malati, agli operatori della sanità e agli stessi enti centrali e locali, che si rimpallano le responsabilità di gestione ed i relativi oneri finanziari.

Questo comporta una difficoltà nel fornire un adeguato servizio sanitario ai detenuti. Si sconta infatti un annoso problema legato al potenziale conflitto tra salute del detenuto e ragioni di sicurezza, che spesso comporta difficoltà di accesso alle strutture ospedaliere comuni, difficilmente coniugabili con le necessità di controllo in strutture non pensate per accogliere detenuti. Di contro, inspiegabilmente, le due strutture sanitarie protette di Bel Colle e dell’Ospedale Sandro Pertini continuano ad essere sottoutilizzate, forse proprio a causa di questi difficili rapporti tra Amministrazione penitenziaria ed ASL.

Inoltre i trasferimenti dei detenuti e la loro successiva liberazione, comportando uno spostamento delle competenze e dei soggetti che prendono in carico il malato, rischia di mettere seriamente a repentaglio la necessaria continuità terapeutica, indispensabile per giungere ad una piena e completa guarigione.

Sempre a causa di questo mancato trasferimento di competenze, continuano a verificarsi tagli di fondi, dal lato statale in previsione del prossimo passaggio di competenze, dall’altro per l’impossibilità di prendere in carico soggetti ancora formalmente non di propria competenza.

Vi è infine un’assoluta mancanza di strutture intermedie tra carcere ed ospedale che consentano di sfruttare a pieno le previsioni sia dell’Ordinamento Penitenziario che dello stesso Codice di Procedura penale. Al riguardo ad esempio vi è una totale mancanza di strutture come case famiglia o centri di accoglienza, dove poter ricoverare ammalati in esecuzione di misure come gli arresti domiciliari in luogo di cura, scaricando tali oneri sugli ospedali che non sono destinati a queste specifiche funzioni. Di converso a volte, quando le strutture esistono e si rendono disponibili, vi sono difficoltà ad ottenere in tempo i necessari provvedimenti autorizzativi della Magistratura di Sorveglianza.

In questo settore così delicato cerchiamo di intervenire nel modo che riteniamo più proficuo: da un lato spingendo affinché l’auspicato passaggio di consegne tra Stato centrale e Regioni avvenga il prima possibile, dall’altro cercando per il presente di mettere in contatto e di raccordare i vari enti competenti. Per quanto riguarda il primo aspetto, il mio ufficio ha aderito al Forum Nazionale per la salute in carcere, che si pone l’obiettivo di garantire la rapida attuazione del d.lgvo 230/99, partecipando a tutte le iniziative che questo propone. Per quanto riguarda il secondo aspetto siamo tra i promotori dell’istituzione presso la Regione Lazio di un tavolo inter-assessorile per la salute in carcere, che metta in contatto tutte le istituzioni che si occupano della sanità penitenziaria.

Siamo anche intervenuti nel settore della prevenzione di patologie che ad oggi sono in aumento presso gli istituti di pena (TBC, malattie da contatto ed altre) attraverso la redazione di opuscoli informativi in più lingue.

Abbiamo poi fornito, in accordo con l’Ospedale George Eastman e la Società Italiana Maxillo Odontostomatologica, oltre 200 protesi dentarie per i detenuti, abbiamo infine dotato gli istituti di pena di strumenti di prevenzione cardiologica e di attrezzature sportive.

In conclusione di questa lunga analisi delle situazioni di maggior disagio che il nostro ufficio ha dovuto affrontare nei suoi primi anni di vita e delle soluzioni che ha cercato di dare, possiamo certamente concludere che la nostra principale difficoltà è stata senz’altro quella di far coesistere e mantenere due diversi tipi di approccio: da un lato affrontare e risolvere le singole questioni, spesso drammatiche, che i detenuti ci pongono e dall’altro non dimenticare una visione complessiva del mondo carcere, delle problematiche che esso solleva e delle relative soluzioni che dobbiamo proporre. Forse non sempre ci siamo riusciti, ma crediamo che in questo stia il punto nodale della nostra funzione.

Un lavoro di intermediazione fra detenuti e interlocutori istituzionali

Il Garante, una figura ancora informale e sperimentale

Le difficoltà e la diffidenza che il Garante incontra nel suo rapporto con le Istituzioni

 

di Gianfranco Spadaccia

Garante dei diritti delle persone private

della libertà personale del Comune di Roma

 

Roma e Firenze sono stati i due Comuni che per primi hanno istituito la figura del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. A Gianfranco Spadaccia, Garante a Roma, abbiamo chiesto allora, sulla base di questa esperienza ormai consolidata, di fare il punto proprio sugli aspetti più critici della sua attività.

 

La Redazione

 

A proposito dei limiti e delle difficoltà che il Garante incontra nel suo lavoro, posso solo ribadire quanto avevo scritto nella mia relazione annuale al Sindaco e al Consiglio comunale: “Si tratta di una figura informale e sperimentale, dai contorni incerti, non prevista e regolamentata dall’Ordinamento Penitenziario, guardata con sospetto e preoccupazione dai pubblici ministeri e da molti Giudici di Sorveglianza e solo tollerata di fatto dall’Amministrazione”. Questa situazione comporta un frustrante lavoro di intermediazione fra le domande (i diritti) dei detenuti e gli altri interlocutori istituzionali che, se è indubbiamente utile al fine di assicurare una costante e indiretta forma di controllo sull’universo carcerario, raramente approda a risultati significativi.

È la considerazione che mi aveva indotto a prevedere per il mio programma annuale, relativo all’anno in corso, accanto al proseguimento dei colloqui personali (attraverso periodiche attività di sportello presso i diversi istituti di pena della Capitale), alcune iniziative rivolte ad assicurare maggiore trasparenza sul funzionamento di tutti gli istituti riguardanti il trattamento dei detenuti. Accanto all’interesse ovvio per i casi individuali, bisogna infatti riuscire ad avere una visione d’insieme su alcune questioni riguardanti:

il numero e le attività degli educatori e il funzionamento complessivo delle attività trattamentali (assistenti sociali, psicologi, mediatori culturali), in particolare per quanto riguarda l’accoglienza dei nuovi giunti, le forme di occupazione dei detenuti in attesa di giudizio, il trattamento dei detenuti con pena definitiva;

la composizione e la frequenza di convocazione delle équipes trattamentali e la tempestività della presentazione ai Magistrati di Sorveglianza delle relazioni relative a richieste presentate da detenuti che ritengono di aver maturato il diritto alla concessione di determinati benefici (permessi premio, ammissione a misure alternative);

verifica delle motivazioni con le quali viene molto spesso eluso e non rispettato il principio regolamentare della “territorialità della pena”;

trasparenza e pubblicità nella giurisprudenza dell’esecuzione della pena dal momento che le decisioni dei Giudici di Sorveglianza rimangono spesso confinate nel rapporto giudice-detenuto e non consentono, se non indirettamente, di far emergere e mettere a confronto i diversi orientamenti giurisprudenziali;

una attenzione particolare alla compatibilità con il carcere di alcuni stati patologici irreversibili o molto gravi.

A questo fine avevo programmato un monitoraggio annuale delle attività trattamentali e, contemporaneamente, una ricerca universitaria sulla giurisprudenza dell’Ufficio di sorveglianza di Roma. Non c’è alcun dubbio infatti che sia in atto una grave e pericolosa tendenza restrittiva in materia di misure alternative, una tendenza che parte dal legislatore ma si trasferisce e si aggrava nell’interpretazione giurisprudenziale di molti Giudici di Sorveglianza e finisce per influenzare le stesse aree trattamentali.

Purtroppo la crisi della legislatura, che si è estesa per le note vicende politiche alla Amministrazione Capitolina, vanifica questi propositi, che mi auguro altri voglia presto riprendere e perseguire a Roma o fuori di Roma.

Per lo stesso motivo saranno bloccate le altre iniziative, che già lo scorso anno l’Ufficio aveva concentrato sui diversi aspetti del trattamento dei detenuti (educazione scolastica e parascolastica, attività culturali – laboratori di scrittura e teatrali) e su due inchieste, una riguardante la salute e una i detenuti stranieri e che, nel corso del 2008, intendevamo concentrare sul lavoro in carcere, sul lavoro esterno (misure alternative), sul lavoro per gli ex detenuti.

L’idea era quella di mettere a confronto le esperienze di diverse città e di mettere a fuoco le ragioni della scarsità di lavoro interno ed esterno e gli ostacoli che si oppongono al reinserimento lavorativo degli ex detenuti. Il problema del lavoro non è solo un problema economico, è un problema centrale del trattamento. Senza lavoro e senza attività scolastiche e culturali (anche sportive) il tipo ideale di detenuto che si affermerebbe nella nostra amministrazione sarebbe infatti quello del “detenuto inoccupato”, in lunga attesa di espiazione della pena, una persona solo da sorvegliare e da custodire: qualcosa di molto lontano da ciò che è previsto dall’art. 27 della Costituzione. Senza lavoro esterno il ricorso alle misure alternative incontra un limite di classe, potranno accedervi solo coloro che sono in grado di procurarselo. Poiché le attività cosiddette “domestiche” riguardano solo una ridotta percentuale di detenuti, occorre indagare sulle ragioni per le quali le commesse esterne da parte di imprese private, che la legge ha inteso promuovere e agevolare, siano rimaste delle eccezioni; comprendere in che misura questo sia dipeso dall’inerzia e dalla diffidenza dell’amministrazione e in che misura dalla riluttanza degli imprenditori, dall’inadeguatezza delle agevolazioni o semplicemente dalla mancanza di conoscenza, di iniziativa, di comunicazione. Sarebbe dunque opportuno un confronto pubblico fra il Ministero, l’Amministrazione penitenziaria, le organizzazioni imprenditoriali, le Camere di commercio.

Il coordinamento nazionale dei Garanti, in attesa dell’istituzione del Garante nazionale, è ancora ai suoi primi passi, ma io mi auguro che presto su tali questioni siano possibili significative iniziative comuni.

L’unico Garante istituito da una Provincia

Mettere in comunicazione il carcere e le realtà

che con il carcere interloquiscono

È il compito che si è posto Giorgio Bertazzini, Garante dei diritti

delle persone private della libertà personale della Provincia di Milano

 

Intervista a cura di Marino Occhipinti

 

Giorgio Bertazzini, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Provincia di Milano, è laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Pavia con tesi in Diritto dell’esecuzione penale, ha insegnato Discipline giuridiche ed economiche in Istituti medi superiori pubblici dal 1980, ma la sua esperienza di carcere se l’è fatta svolgendo attività di volontariato presso il carcere di Pavia e operando come Coordinatore degli insegnanti delle tre carceri milanesi.

 

Quando è cominciata la sua attività di Garante dei detenuti e quali sono state, fino ad ora, le sue iniziative più importanti?

La mia attività è cominciata nell’ottobre del 2006, a seguito dell’investimento effettuato in tal senso dal Consiglio Provinciale di Milano, che si è espresso all’unanimità.

Per quel che riguarda la mia attività, ritengo importante aver promosso, presso i quattro istituti penitenziari per adulti, la consuetudine di incontrare gruppi di persone detenute partecipanti in rappresentanza dei propri compagni, talora organizzati intorno a particolari tematiche segnalate dai detenuti stessi.

Si tratta di una modalità di lavoro in grado di sollecitare, contestualmente, la costruzione di visioni prospettiche, che evidenziano le connessioni fra i problemi, e la capacità di farsi carico di questioni comuni, che includono e insieme superano le criticità vissute dai singoli. Da tali incontri (organizzati per sezioni e/o reparti) si dipartono approfondimenti, segnalazioni e ulteriori incontri, talora con la partecipazione dei funzionari/operatori che possono interloquire direttamente nel merito. Mi sembra una modalità di lavoro in grado di valorizzare il ruolo del Garante come figura che può contribuire a riattivare i circuiti di comunicazione fra le persone detenute, fra queste e gli operatori, istituzionali e non, fra gli operatori, fra il carcere e le realtà che con il carcere interloquiscono.

 

Quali sono i progetti più significativi che ha sostenuto e promosso?

Sul piano nazionale, sono lieto di aver sostenuto l’organizzazione della prima conferenza stampa dei Garanti il primo agosto scorso, ad un anno dall’indulto, realizzata all’interno della Casa circondariale di Milano. Superata la prima fase, caratterizzata da un avvicinamento ai progetti già attivi, l’ufficio del Garante si avvia a diventare parte attiva e punto di riferimento per progetti di varia natura. A titolo di esempio, da qualche tempo stiamo concorrendo ad un progetto che, nell’ambito territoriale di Monza, si prefigge di promuovere l’affermazione della giustizia riparativa attraverso un diverso coinvolgimento degli enti locali, nonché la gestione alternativa dei conflitti anche in una prospettiva di educazione alla legalità degli adolescenti.

Ancora, stiamo concorrendo alla predisposizione di un progetto di legge nazionale teso a stabilizzare le attività di educazione non formale in carcere attraverso il teatro, e abbiamo accettato di essere fra i partner nazionali di un progetto teso a promuovere l’affermazione dei diritti delle persone detenute in Mozambico.

In prospettiva, rispetto all’ambito provinciale che mi compete, intendo dedicare parte del mio impegno all’analisi delle condizioni in cui sono detenute le persone sottoposte a regimi differenziati e alla costruzione, d’intesa con l’Amministrazione penitenziaria, di interventi mirati ad aumentare le opportunità di accesso da parte di queste persone ai servizi offerti ai detenuti “comuni”.

Rispetto all’ambito nazionale, mi pare sempre più importante concorrere alla costruzione di un coordinamento nazionale dei Garanti, che, fra breve, saranno quindici.

 

Quali sono le difficoltà maggiori, i punti critici, che ha incontrato in questa attività?

I punti maggiormente critici dell’attività dei Garanti – compresa, dunque, la mia – attengono all’assenza, allo stato, di un riconoscimento normativo e alla collocazione della figura dei Garanti locali, ad oggi assimilati impropriamente ai cittadini interessati alla partecipazione all’azione rieducativa ex art. 17 o agli assistenti volontari ex art. 78 Ordinamento penitenziario. Nonostante la vicinanza ai luoghi in cui materialmente è possibile si verifichino violazioni alla tutela dei diritti delle persone private o limitate della/nella libertà personale, i Garanti, se in possesso di informazioni persistenti e attendibili circa tali violazioni che suggeriscano l’opportunità di interventi urgenti, non hanno la possibilità di visitare senza autorizzazione carceri e luoghi di detenzione in genere.

Naturalmente, ai Garanti rimane la facoltà, nel caso di sospetta non conformità alle norme dei comportamenti delle amministrazioni responsabili circa i quali le amministrazioni stesse non abbiano fornito al Garante le informazioni richieste, di rendere noti gli elementi in loro possesso alle autorità competenti ad intervenire.

 

Come risponde la società, e come rispondono gli enti locali, alle sue richieste?

Ho finora riscontrato un diffuso interesse alle potenzialità del ruolo del Garante soprattutto nelle articolazioni della società già impegnate nel supporto delle persone limitate nella libertà, ma anche nel mondo della scuola, da tempo interessato all’approfondimento del tema della legalità coniugato con l’attenzione ai diritti umani. Quanto agli enti locali, i contenuti e la qualità dell’interlocuzione sono oggetto di una costruzione in progress, su cui influiscono molteplici fattori, fra i quali la “tradizione” dell’ente nell’impegno nel settore coniugata con le sensibilità politiche e culturali presenti nelle diverse amministrazioni.

 

Nelle sue attività riesce a coinvolgere la Magistratura di Sorveglianza, e come si pone la stessa rispetto alle sue richieste?

Trascorso il primo anno del mio mandato, dedicato alla costruzione di relazioni con le direzioni degli istituti di pena e con gli attori territoriali a vario titolo implicati, l’”agenda” del secondo anno reca al primo posto l’avvio di più stabili comunicazioni con la Magistratura di Sorveglianza. A parte un evento che, in pieno agosto, ha reso necessario un intervento urgente concernente una persona le cui condizioni suggerivano l’opportunità di una tempestiva scarcerazione per gravi motivi di salute, le questioni generali e particolari finora affrontate non hanno implicato la formulazione di richieste.

 

L’Amministrazione penitenziaria, invece, come si rapporta nei suoi confronti?

Dovendo, in questa sede, intendere per Amministrazione penitenziaria le direzioni degli istituti di pena, i servizi sociali per l’esecuzione penale, il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria e il Centro per la Giustizia Minorile, finora ho registrato una buona propensione ad accogliere il Garante come risorsa utile al potenziamento dell’efficacia degli interventi che la legge affida loro. Devo, per converso, registrare che non si è ancora consolidata una consuetudine generalizzata a fornire al Garante le informazioni richieste con quella tempestività che costituisce la premessa di un intervento efficace, in grado di sedimentare nel tempo i propri effetti positivi. Si tratta di criticità non uniformemente presenti, sia rispetto alle singole articolazioni dell’Amministrazione sia rispetto alla continuità delle criticità stesse.

 

In base alle informazioni in suo possesso, come agisce la Magistratura di Sorveglianza della sua zona rispetto alla concessione dei benefici penitenziari?

Le informazioni in mio possesso non mi consentono di individuare un comportamento della Magistratura di Sorveglianza dell’area milanese quale corpus organico caratterizzato da orientamenti comuni. Quando si parla di tali temi, occorre sempre avere presente che la Magistratura di Sorveglianza esercita un potere discrezionale che le è attribuito dalla vigente normativa. All’esercizio di tale potere si possono applicare tutte le riflessioni elaborate a proposito di interpretazione delle norme e “fedeltà alla legge”. In altri termini, da tempo gli studiosi del diritto si chiedono se sia possibile definire l’interpretazione della legge di cui si sostanzia l’attività giurisdizionale come attività squisitamente “tecnica”, ovvero se non si debba riconoscere che l’interpretazione è dipendente dall’utilizzazione da parte del giudice di un codice interpretativo che egli sceglie, fra i diversi utilizzabili.

 

Ad oltre un anno dall’approvazione dell’indulto, quanto è cambiata la situazione nelle carceri in cui opera come Garante?

Al 30 giugno 2007 le sole carceri per adulti milanesi ospitavano, su una capienza massima di 2537 posti, 3071 persone. Permane forte la presenza di soggetti svantaggiati (in prevalenza stranieri) e molto breve la permanenza media in carcere. Criticità, anche secondo il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, non “foriere di sicurezza per la collettività, né idonee a determinare processi rieducativi”.

 

Quanto può influire in un prossimo, probabile sovraffollamento carcerario, o comunque in un aumento della popolazione detenuta, la legge ex-Cirielli, che inasprisce la pena e allo stesso tempo limita i benefici penitenziari per i recidivi?

Con la sentenza 4-14 giugno 2007, nr. 192 la Corte costituzionale ha sancito, con riferimento alla legge cosiddetta ex-Cirielli, che la circostanza aggravante della recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria unicamente ove concernente uno dei delitti indicati dall’ articolo 407, comma 2, lettera a), del Codice di procedura penale, disposizione normativa che contiene un elenco di reati ritenuti di particolare gravità e allarme sociale. Esprimo, dunque, il forte auspicio che tale pronunciamento possa neutralizzare il rischio, a suo tempo da più parti segnalato, della costituzione della figura di un nuovo tipo d’autore, il “recidivo reiterato”, cui verrebbero riservati pene più severe, tempi di prescrizione più lunghi, accesso più difficile, se non impossibile, ai benefici penitenziari, in aperto contrasto con le finalità “rieducative” assegnate alla pena dalla Costituzione.

 

Cosa bisognerebbe fare per non tornare alla situazione carceraria di invivibilità pre indulto?

Non posso che rinviare al documento contenente le proposte dei Garanti presentate alla conferenza stampa del 1° agosto scorso. In quel documento – i cui temi sono stati oggetto di un nuovo comunicato emanato in occasione della discussione del cosiddetto “pacchetto sicurezza” – abbiamo sostenuto, formulando anche proposte concernenti il breve periodo, che per arginare il ritorno in carcere occorre eliminare la centralità della pena detentiva, introdurre le pene alternative e valorizzare le misure alternative alla detenzione. Tutto questo può essere favorito attraverso una riforma del Codice penale che faccia perno su quanto attestato dai dati e dalle ricerche promosse circa la positiva influenza sul grado di recidiva di forme di punizione diverse dalla privazione della libertà.

Infine, sono del parere che, per vigilare sulle condizioni di vivibilità delle carceri e degli altri luoghi di detenzione, sarebbe importante che venisse istituito, nel più breve tempo possibile, il Garante nazionale dei diritti dei detenuti.

 

A proposito dei vari “pacchetti sicurezza” presentati negli ultimi tempi, cosa ne pensa?

Le misure annunciate comporterebbero la ulteriore criminalizzazione della marginalità sociale e contraccolpi insostenibili per il sistema giudiziario e penitenziario, aumentando il carico dei processi e il numero delle persone incarcerate per custodia cautelare, che, in questo momento, ammonta ad oltre la metà dei detenuti. I dati attestano che il carcere si traduce di frequente in un moltiplicatore di criminalità e che punire senza incarcerare riduce in modo consistente i rischi di recidiva.

Intervista a Giuseppe Tuccio, Garante a Reggio Calabria

Una figura che è un “ponte naturale” fra

le istituzioni pubbliche e la società civile

Reggio Calabria ha un carcere che è tornato quasi ai livelli pre-indulto,

ma dal 2006 per lo meno ha anche un “Garante dei diritti

del soggetto privato della libertà personale”

 

Intervista a cura di Marino Occhipinti

 

Giuseppe Tuccio, Magistrato di Cassazione con funzioni direttive superiori, ha esercitato attività giudiziaria in Sicilia ed in Calabria, particolarmente nelle sedi di Messina, Agrigento, Reggio Calabria, Palmi, Catanzaro. Dal 2006 è “Garante dei diritti del soggetto privato della libertà personale” per il Comune di Reggio Calabria. Lo abbiamo intervistato.

 

Dott. Tuccio, con che modalità è stata istituita la figura del Garante dei diritti del soggetto privato della libertà personale del Comune di Reggio Calabria?

È stata un’iniziativa del Comune di Reggio Calabria che, con delibera di Consiglio dell’agosto 2006, ha istituito la figura del Garante, approvando contestualmente apposito regolamento che ne disciplina l’esercizio delle funzioni, i requisiti e le modalità per l’elezione nonché i profili operativi inerenti la sua attività. L’attuale Garante è stato nominato con decreto del 3 ottobre 2006.

 

Cos’è riuscito a fare finora, come Garante, per migliorare la vivibilità degli istituti di pena?

L’attività fin qui svolta si è articolata prevalentemente in una serie di contatti con la realtà carceraria e le istituzioni locali e nazionali, ma anche e soprattutto con gli altri attori portatori di interessi comuni presenti sul territorio: il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria; la direzione dell’istituto penitenziario, l’Ufficio esecuzione penale esterna, l’ente locale, la magistratura, l’avvocatura; il Ser.T., la comunità terapeutica, le associazioni di volontariato e, più in generale, il Terzo settore. Nello scorso mese di dicembre è stata presentata, nella sala riunioni della Casa circondariale di Reggio Calabria, la prima relazione dell’attività che l’Ufficio del Garante ha svolto a un anno dal suo insediamento (cui si rimanda per maggiori approfondimenti: home page sito Comune di Reggio Calabria-Garante del soggetto privato della libertà personale) e si è posto l’accento proprio sulle tre linee direttrici che hanno caratterizzato l’attività di orientamento di questo primo anno:

approfondire l’analisi della realtà carceraria cittadina – problematiche e iniziative progettuali nell’attuale quadro normativo di riferimento;

favorire i delicati processi formativi finalizzati alla rieducazione ed alla risocializzazione dell’ex-detenuto (articolo 27 Costituzione), nel mutato assetto istituzionale che delinea una potestà normativa e attuativa autonoma degli enti locali, nel campo degli interventi dei servizi sociali (legge 328/2000);

favorire la positiva costruzione di un livello istituzionale di rappresentanza comune nella più avanzata interpretazione della disciplina vigente.

 

Quali progetti, attività, iniziative, ha sostenuto e promosso?

Sul versante delle iniziative progettuali, l’ufficio del Garante oltre ad avere sostenuto il Progetto pedagogico dell’istituto penitenziario di Reggio Calabria per l’anno 2007, ricco di attività trattamentali, formative, ludiche e lavorative, ha rivolto l’attenzione alla realizzazione di due progetti ritenuti prioritari. Il primo si chiama “A porte aperte – Studenti e carcere – Itinerari e percorsi nella cultura della legalità”, e si tratta di un’esperienza pilota da realizzare nel territorio di Reggio Calabria che si concretizzerà in una serie di attività cognitive ed esperenziali che coinvolgeranno gli studenti di alcune scuole del Comune, incontri e forum sul mondo del carcere. L’intento è quello di sollecitare una riflessione corale (studenti, docenti, operatori e detenuti) sulle problematiche sociali connesse alla gestione della devianza e della delinquenza, ivi incluse le questioni inerenti all’efficacia delle pene ed ai modelli sanzionatori possibili. Aspetto peculiare del progetto è, poi, lo scambio emotivo che deriverà da incontri programmati che gli studenti effettueranno all’interno della struttura penitenziaria di Reggio Calabria. Insomma, educare alla legalità, partendo dalla esperienza di vita di chi ha delinquito, constatando ed entrando nel vivo della risposta punitiva e dei limiti di libertà che essa ontologicamente impone.

 

Il secondo progetto, invece, in cosa consiste?

Si tratta del progetto “ICATT – Istituto a custodia attenuata per tossicodipendenti”, un servizio di sperimentazione oramai supportato da risultati apprezzabili, sia in ordine al recupero psico-patologico del detenuto-tossicodipendente che al suo graduale reinserimento sociale. La scelta dell’adozione di un intervento trattamentale da attuarsi nell’istituto a custodia attenuata deve essere vista come una piattaforma culturale in continua sperimentazione, capace di coinvolgere la società civile, soprattutto, per quel che attiene l’inserimento lavorativo dell’ex-detenuto tossicodipendente che abbia deciso di intraprendere un percorso di cambiamento. Se a ciò si aggiunge che la legge n. 49/06 che ha modificato il Testo unico in materia di stupefacenti (D.P.R. 309/90) agendo sulla pena come deterrente ha rivoluzionato gli stessi equilibri dei centri di recupero, abituati piuttosto ad accogliere una maggioranza di persone “motivate” al cambiamento e una minoranza di detenuti che cercavano di evitare la galera, l’effetto positivo che va letto in questo nuovo equilibrio è quello di avere “smascherato” queste motivazioni. Di talché con il “contratto di adesione”, il detenuto si impegna a rispettare le condizioni del percorso trattamentale cui si sottopone all’interno dell’ICATT perché lo sceglie. Certo, si tratta di una scelta pur sempre “forzata” dalla contingenza, e che comporterà ricadute, scoramenti, recrudescenze, ma non è così per tutti?! Ciò che tenta, dunque, è di garantire, per tutti, la possibilità concreta, l’opportunità affidabile, di un percorso difficile, ma non più solitario, di cambiamento e di rinnovata fiducia in se stessi e nelle istituzioni.

 

Quali sono le difficoltà maggiori, i punti deboli, con i quali si trova a lavorare?

Le difficoltà maggiori riscontrate afferiscono tutte alla novità del ruolo istituzionale ricoperto dal Garante dei diritti dei detenuti che – come ben sa – è ancora a carattere territoriale, in attesa che si approvi la legge nazionale che ne delinei, compiutamente, organismi e poteri. Ciononostante, la società civile risponde positivamente all’istituzione di questa nuova figura, espressione di conquista civica, oltre che giuridica.

 

Nelle sue attività, riesce a coinvolgere la magistratura di sorveglianza?

Per quel che concerne i rapporti con la Magistratura di Sorveglianza vi è grande sintonia e coinvolgimento sia per quel che concerne le iniziative rivolte all’approfondimento delle problematiche penitenziarie, sia per quel che concerne i rapporti con la comunità esterna. Le richieste finora avanzate alla Magistratura di Sorveglianza sono sempre state esaminate con grande attenzione per i diritti costituzionalmente garantiti dei ristretti nell’istituto penitenziario, come degli affidati in misura alternativa.

 

E come sono i rapporti con l’Amministrazione penitenziaria?

I rapporti sono incentrati a uno spirito di una grande collaborazione sinergica – estesa anche e soprattutto all’ente locale – nell’ottica di un’esecuzione della pena che tenda alla rieducazione e al graduale reinserimento sociale e lavorativo del detenuto.

 

A un anno e mezzo dall’indulto, qual è la situazione nel carcere di Reggio Calabria?

A seguito della concessione dell’indulto l’istituto di Reggio Calabria, al pari degli altri istituti del territorio nazionale, ha conosciuto un decremento repentino della popolazione detenuta, in particolare dei soggetti “definitivi”. Da rilevare comunque che numericamente ben presto si è ritornati allo stesso livello, ad eccezione delle donne che sono 9 e dei semiliberi che da 18-20 sono passati a due. Attualmente – con una capienza tollerabile di 265 – i detenuti presenti in istituto sono 226, di cui 154 in attesa di giudizio di primo grado, e di essi 37 sono stranieri appartenenti a varie nazionalità (Albania, Egitto, Georgia, Croazia, Iraq, Lituania, Marocco, Romania, Tunisia, Turchia, ex Jugoslavia). I tossicodipendenti sono 26, sotto osservazione psichiatrica 5, semiliberi 2.

 

Quanto può influire in un prossimo sovraffollamento carcerario, o comunque in un aumento della popolazione detenuta, la legge ex-Cirielli, che inasprisce la pena e allo stesso tempo limita i benefici penitenziari per i recidivi?

Si auspica che la controversa legge ex-Cirielli non influisca in maniera determinante nella paventata – e prevedibile – ipotesi di prossimo sovraffollamento carcerario. Invero, con la pronunzia della Corte Costituzionale n. 79/2007, depositata il 5.3.2007, l’impianto della ex-Cirielli subisce, dopo la recente sentenza n. 257 del 4.7.2006, una nuova incisione, questa volta sul piano delle modifiche introdotte nell’Ordinamento penitenziario, e precisamente sull’articolato sistema di preclusioni, ostative all’applicabilità di alcuni dei più importanti benefici penitenziari (quali l’affidamento in prova al servizio sociale, la semilibertà o la detenzione domiciliare), nei confronti dei condannati cui sia stata applicata la recidiva “qualificata” di cui all’articolo 99, comma 4 Codice penale.

La dichiarazione d’incostituzionalità fulmina ora l’articolo 58-quater, commi 1 e 7-bis, della legge 26 luglio 1975 n. 354 (Ordinamento penitenziario), nella formulazione introdotta dall’articolo 7 della legge n. 251/2005, nella parte in cui non prevedono che i benefici in essi indicati possano essere concessi, sulla base della normativa previgente, ai condannati che, prima dell’entrata in vigore della disciplina più restrittiva, abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato alle misure richieste.

 

Che fare per evitare il ritorno alla situazione carceraria di invivibilità preindulto?

La prevedibilità di un nuovo fenomeno di sovraffollamento carcerario induce a soffermarsi su alcune considerazioni riguardanti uno degli aspetti relativi all’emanazione del provvedimento che ha suscitato le maggiori perplessità in gran parte dei commentatori. Ci si riferisce al fatto che il provvedimento di indulto non è stato accompagnato dalla programmazione di articolati interventi volti al sostegno e all’accoglienza dei soggetti dimittendi. Con ciò non si vuole trascurare la pluralità di interventi adottati dagli enti locali, dal privato sociale e dal volontariato per l’accoglienza delle persone dimesse. Si intende piuttosto sottolineare come tali interventi non siano stati il frutto di un’attività coordinata, consapevole delle caratteristiche delle persone dimesse e delle problematiche che avrebbero affrontato al momento dell’uscita, quanto piuttosto il risultato di sforzi di singoli o di realtà locali che hanno affrontato l’emergenza sulla base di diverse sensibilità e mezzi a disposizione. Inoltre, la maggioranza di tali interventi ha preso forma nelle settimane – quando non mesi – successive all’entrata in vigore del provvedimento.

l fatto è – purtroppo – che chi è stato in carcere ha meno timore di tornarci e nel contempo il carcere non mantiene le sue promesse rieducative. Bisogna quindi rendere sempre più efficace il sistema delle misure alternative – compatibilmente con le esigenze giudiziarie – nell’ottica di un futuro reinserimento sociale, raggiungendo l’obiettivo con il contributo determinante, ai fini dell’esito positivo della misura, della presenza di una rete di rapporti sociali di supporto. Così come bisogna attuare concretamente il regolamento 230/2000, in particolare per quel che concerne l’adeguamento degli edifici penitenziari, il principio di territorialità della pena e lo sviluppo del cosiddetto “circuito differenziato”. Infatti, prima dell’indulto, il numero dei detenuti per 100 mila abitanti – 96 nel 2004 – in Italia era in linea con i paesi europei, se non più basso.

 

C’è qualcosa che vuole comunicare ai nostri lettori’

Nonostante le difficoltà strettamente connesse ai sistemi di esecuzione delle pene – in Italia come nel resto del mondo – va evidenziato il grande sforzo in termini legislativi, progettuali e di risorse umane – meno entusiasmante invece il tema dell’impiego di adeguate risorse finanziarie nell’ambito della Giustizia – che, in particolar modo, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria profonde negli ultimi anni non solo per ciò che attiene il trattamento del detenuto intra moenia ma anche e soprattutto per ciò che riguarda il graduale reinserimento sociale e lavorativo dell’ex-detenuto. In tutta Italia – e con alacre dinamismo situazionale anche in Calabria – l’Amministrazione penitenziaria lavora al fine di assimilare sempre più la problematica penitenziaria alle tante problematiche di ordine sociale che riguardano l’amministrazione pubblica e, in particolare, l’amministrazione locale (Comune-Provincia-Regione).

Nel nuovo quadro normativo di riferimento, caratterizzato soprattutto dall’ampliamento dei cosiddetti “poteri sussidiari” a seguito della riforma del Titolo V della Carta Costituzionale – gli enti locali assumono un ruolo ed una funzione sempre più determinante per la risoluzione dei problemi dei cittadini e per l’erogazione di servizi sociali – endemicamente – in continua sperimentazione. La figura – nuova – del Garante dei diritti dei detenuti può e deve svolgere una funzione di “ponte naturale” fra le istituzioni pubbliche e la società civile, pur tuttavia restando al detenuto il “pallino” della scelta di imboccare la via del cambiamento.

Un Garante che si occupa della vivibilità delle carceri

siciliane, ma anche della carenza di personale

La maggior parte delle strutture carcerarie

in Sicilia versa in pessime condizioni

Ce ne ha parlato Salvo Fleres, Garante per la tutela dei diritti fondamentali

dei detenuti e per il loro reinserimento sociale della Regione Sicilia

 

Intervista a cura di Marino Occhipinti

 

Salvo Fleres, Parlamentare regionale da quattro legislature, è giornalista professionista ed è stato direttore di emittenti radio televisive private e di numerose testate giornalistiche. Ora opera in qualità di Garante per i diritti fondamentali dei detenuti della Regione Sicilia. Recentemente è intervenuto nel dibattito sulla situazione carceraria, sostenendo che “L’attenzione dello Stato verso il carcere è prossima allo zero, e rileva che quando l’organico degli operatori sociali, degli psicologi penitenziari e dei magistrati di sorveglianza presenta rapporti di 1 a 300 ed oltre, fino ad 1 a 1.000 reclusi, non ci si deve meravigliare se non sempre i provvedimenti di scarcerazione sono corretti e adeguati”. Invece di parlare di “scarcerazioni facili”, secondo Fleres, bisognerebbe pensare ad adeguare gli organici del personale penitenziario, con particolare riferimento ad educatori, assistenti sociali, psicologi, medici e a potenziare la Magistratura di Sorveglianza.

Dopo aver letto queste sue riflessioni sul quotidiano “La Sicilia”, abbiamo inviato una richiesta di intervista all’onorevole Fleres, che ci ha subito risposto.

 

Ci traccia un primo bilancio della sua attività di Garante dei diritti delle persone private della libertà personale?

La mia attività in qualità di Garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e per il loro reinserimento sociale è iniziata formalmente nell’agosto del 2006, sostanzialmente a ottobre di quell’anno, in esecuzione dell’art. 3 della legge regionale nr. 5 del 2005. Superate le difficoltà iniziali di natura burocratica, conseguenti alla novità stessa che la funzione rappresenta, abbiamo strutturato l’ufficio cercando di gravare il meno possibile sul bilancio della Regione: abbiamo infatti impiegato personale già in servizio sulla base di un atto d’interpello. Chi lavora in questo delicato ambito ha deciso in prima persona di farlo, consapevole di tutte le difficoltà che questa scelta comporta.

 

Quali sono state le iniziative più significative, come Garante, per migliorare la vivibilità degli istituti di pena?

Ci siamo già occupati di un centinaio di casi, e adesso, avendo provveduto a istituire l’albo degli avvocati e degli interpreti, e potendo usufruire della collaborazione di psicologi, sociologi, medici ed esperti di comunicazione, stiamo facendo sì che l’azione venga supportata da specifiche professionalità in grado di rispondere efficacemente alle esigenze della popolazione penitenziaria. In un anno ho visitato quasi tutti gli istituti di pena (in Sicilia sono 28, compresi quelli per i minori), ho pubblicato attraverso la stampa tutte le informazioni riguardanti le mie funzioni e ho distribuito personalmente ai detenuti un biglietto da visita con gli estremi per contattarci. Ma l’iniziativa più significativa riguarda la pubblicazione di un libro: “L’ora d’aria”, che a breve distribuiremo a tutti i detenuti. Si tratta di un vero e proprio vademecum sulla vita penitenziaria, un manuale sulle prescrizioni, sui diritti e sui doveri del recluso, ma anche sulle motivazioni trattamentali che sono alla base delle varie disposizioni e dei vari comportamenti concreti tenuti in carcere.

 

Quali sono i progetti più significativi che ha sostenuto e promosso?

Innanzitutto l’assistenza legale per i reclusi, naturalmente quella relativa alla condizione stessa di reclusi, che non entra nel merito della pena comminata. Chi ha commesso un crimine è condannato a scontare la propria pena con la privazione della libertà, giammai della dignità: l’attività di Garante viene svolta secondo questo chiaro principio. Inoltre, stiamo equipaggiando tutte le strutture penitenziarie di attrezzature varie, per favorire attività culturali, sportive e di lavoro. E ancora, stiamo fornendo interpreti, animatori sportivi, medici, psicologi e assistenti culturali, contribuendo alla realizzazione di un progetto che ha l’obiettivo di formare gli stessi detenuti come mediatori culturali. Puntiamo molto, inoltre, all’avviamento lavorativo all’interno delle carceri: tra le tante iniziative, potrei citare quella che vedrà presto a Catania – nel reparto femminile – la realizzazione di una linea di articoli per la casa (grembiuli, pantofole, presine) interamente realizzata a mano.

 

Quali sono le difficoltà maggiori, i punti critici, che ha incontrato in questa attività?

Sicuramente le pessime condizioni in cui versa la maggior parte delle strutture. E poi, a livello istituzionale, la mancanza di una disciplina nazionale riguardante competenze e prerogative dei garanti, limitati nei tempi e nei modi per quel che concerne l’attività d’ispezione. Quest’ultimo caso non mi riguarda di persona, perché essendo parlamentare ho l’opportunità di effettuare un sopralluogo senza preavviso, ma non è così per tutti.

 

Come risponde la società e come rispondono gli enti locali, alle sue richieste?

La società si sta pian piano abituando a capire che esistono due diritti di eguale valore: quello dello Stato a essere risarcito attraverso una pena da scontare e quello del recluso a ottenere contestualmente riabilitazione e reinserimento. Anche le istituzioni cominciano infatti a prendere misure riguardanti detenuti ed ex detenuti, anche se ancora siamo lontani dal conseguimento di situazioni ottimali.

 

Nelle sue attività riesce a coinvolgere la Magistratura di Sorveglianza?

Necessariamente. La Magistratura di Sorveglianza è un organo giurisdizionale che ha il compito di vigilare sull’esecuzione della pena, interviene in materia di applicazione di misure alternative alla detenzione, di esecuzione di sanzioni sostitutive o di misure di sicurezza: spesso le competenze riguardano materie specifiche, proprie di questo organo. Per questo motivo, di recente ho inoltrato la richiesta per poter ottenere il distaccamento di un funzionario dell’ufficio di Palermo, solo così sarà possibile instaurare un contatto più diretto.

 

E quali sono le reazioni della Magistratura di Sorveglianza rispetto alle sue richieste?

Direi molto formali. Mi attenderei da parte loro un atteggiamento rivolto agli aspetti umani, oltre che a quelli prettamente giurisdizionali.

 

In base alle informazioni in suo possesso, come opera la Magistratura di Sorveglianza della sua zona, rispetto alla concessione dei benefici penitenziari?

La macchina è lenta per carenza di personale e mezzi. Si punta molto a comprendere la personalità del recluso a cui vengono concessi benefici, ma lo si fa con la consapevolezza che gli strumenti spesso non sono sufficienti e adeguati. Occorrono più risorse per supportare questo tipo di lavoro, quello che tende ad andare in profondità, servono soprattutto più educatori e psicologi.

 

L’Amministrazione penitenziaria come si pone nei suoi confronti?

Bene, nel rispetto delle diverse prerogative. Non mancano momenti di apertura e collaborazione: ultimamente, per esempio – su richiesta del consolato marocchino di Palermo – siamo riusciti a ottenere dal provveditorato regionale, lo “sta bene” per far recapitare dolci e datteri (considerati un lusso all’interno delle strutture penitenziarie e quindi proibiti) ai detenuti musulmani per il periodo del Ramadan.

 

Ad oltre un anno dall’approvazione dell’indulto, quanto è cambiata la situazione nelle carceri in cui opera come Garante e cosa bisognerebbe fare per evitare di tornare alla situazione di invivibilità precedente all’atto di clemenza?

La situazione è cambiata poco, molto poco. C’è stato solo un alleggerimento delle strutture, ma a conti fatti, per quel che riguarda i servizi, la situazione non è cambiata granché. Per non tornare alla situazione preesistente bisognerebbe chiudere le piccole strutture, quelle che versano in pessime condizioni e che attualmente ospitano pochissimi detenuti, e conseguentemente, rafforzare in termini di spazi e di servizi gli istituti maggiori.

 

Quanto può influire in un prossimo, probabile sovraffollamento carcerario, o comunque in un aumento della popolazione detenuta, la legge ex Cirielli, che inasprisce la pena e allo stesso tempo limita i benefici penitenziari per i recidivi?

Moltissimo, si verrebbe di certo a creare un ulteriore sovraccarico di strutture che sono già stracolme. Pensiamo alla Sicilia, il territorio di mia competenza: allo stato attuale si contano oltre 4.500 detenuti. Questo dato non ha bisogno di ulteriori commenti.

Metteteci insieme, costringeteci a lavorare insieme!

Bisogna far comunicare tutti coloro che si occupano di carcere

Il Garante dovrebbe armonizzare gli interventi di tutti perché, come in una grande

orchestra, il concerto si realizza con l’impegno partecipato e la competenza condivisa

 

di Federica

"volontaria nella Casa circondariale di Padova"

 

Leggendo gli atti della giornata di studi dal titolo “Il carcere dentro la città” che si è tenuto a Padova più di due anni fa (18 novembre 2005), mi ha colpito l’appassionato appello che Ornella Favero, parte del Direttivo del Coordinamento “Carcere e Città”, rivolse all’Assessore alle Politiche sociali. Parlando delle diverse realtà che operano dentro e fuori il carcere, lei chiedeva: “Metteteci insieme, costringeteci a lavorare insieme!”. Un appello che condivido a partire dalla mia esperienza di volontaria che svolgo fuori dal carcere e recentemente, in punta di piedi, anche all’interno.

A volte ho come l’impressione che gli interventi che si fanno a favore della persona detenuta siano a compartimenti stagni, oppure lasciati alla buona volontà e capacità del singolo operatore o volontario di mettersi in moto su più fronti, con uno spreco, spesso, di tempo, risorse e fatica.

Ritengo dunque necessario trovare un sistema per far comunicare tutti coloro che si occupano e preoccupano di carcere. Non solo. Un sistema che possa razionalizzare gli interventi ed elevarne potenzialmente l’efficacia e la competenza.

Ecco allora che la figura del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale potrebbe svolgere anche questa funzione di raccordo tra tutte le parti coinvolte. Parlando forse ingenuamente dico che egli dovrebbe, più che raccordare, armonizzare gli interventi di tutti perché, come in una grande orchestra, il concerto si realizza con l’impegno partecipato e la competenza condivisa. Non avviene di certo se ognuno suona per conto proprio, magari in competizione per farsi sentire di più o per acquistare maggiore credito innanzi al direttore d’orchestra.

Il Garante, come figura imparziale, potrebbe mediare e rendere agevole la partecipazione del ricco e frastagliato mondo delle cooperative sociali, delle associazioni di volontariato, delle Amministrazioni pubbliche, degli enti privati. Ciò vorrebbe dire che ci dovrebbe essere uno spazio anche per questa figura all’interno delle patrie galere senza “rubare” alcuna competenza o potere al Magistrato di Sorveglianza piuttosto che al Direttore del carcere. Il Garante dovrebbe essere presente per recepire i bisogni, non solo delle persone detenute ma del carcere in generale, che è costituito anche da Polizia penitenziaria e da altre figure “civili” necessarie. Recepire i bisogni così da presentarli in modo unico e completo alla società che a diverso titolo contribuisce e coopera. Egli potrebbe costituire l’elemento d’avanguardia della comunità esterna che, per far fronte alle naturali esigenze di legalità, di rispetto e direi anche di libertà dalla paura, si prende carico di questo mondo messo ai margini (prima, durante e dopo il carcere). Tutto ciò richiede senso di responsabilità sociale e politica, oltre alla volontà e all’interesse sincero di lavorare per il “bene comune”, indipendentemente dallo strumento che si suona.

 

 

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