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Che fine ha fatto la Doppia diagnosi? I dubbi di un ex detenuto tossicodipendente. A cosa serviranno i risultati di una costosa ricerca sulla salute mentale dei reclusi con problemi di dipendenza da droghe?
di Stefano Bentivogli
Era un po’ che non mi trovavo in difficoltà come quando Ornella Favero mi ha rifilato un curatissimo volume a cura del prof. Vittorino Andreoli, in questo caso Coordinatore di un comitato scientifico ovvero di un comitato di ricerca formato da Daniele Berto, don Luigi Ciotti, Gilberto Gerra, Mario Greco e Leopoldo Grosso, tutto per conto del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria dal titolo Doppia Diagnosi Tossicodipendenza Cacere. Questo testo, certamente al di sopra del mio livello, io però me lo leggo lo stesso per molti motivi, non fosse anche per il fatto di aver effettuato, tra i tanti, un programma terapeutico per soggetti a doppia diagnosi. Altri terapeuti hanno poi sostenuto che la mia diagnosi era solo una: tossicodipendente e poliassuntore. In realtà i miei interessi sono col tempo e con le giornate di cella da riempire, diventati altri, quello di capire ad esempio, dopo essere diventato un animaletto da carcere-comunità-carcere, di cosa discutono quelli che pretendono di curarmi-castigarmi-curarmi, su cosa si confrontano, dove stanno dirigendo i loro sforzi scientifici così come i “nostri” finanziamenti statali. Premetto che sono un po’ presuntuoso, e sapendolo, cercherò di porre a chi ha prodotto quest’opera e a chi avrà la fortuna di leggerla alcune semplici domande da detenuto tossicodipendente, profano di tutto quanto si definisce scienza, perché non ho né la competenza né i titoli per fare altro. Vorrei andare oltre la premessa del libro che trovo condivisibile, in alcuni passaggi convincente ed avvincente, tranne quando identifica come grave errore le azioni mirate alla “limitazione del danno” che avrebbero creato una droga di Stato a discapito del lavoro di “prevenzione”. Se in alcuni casi il metadone è stato usato al posto della prevenzione è stato un grave errore, diverso è però dire che di prevenzione ne sia stata fatta poca in assoluto o talvolta sia stata fatta male, e per convincersene basta guardare chi sono oggi i nuovi “testimonial” della polverina bianca. In molti casi però, dove il metadone è arrivato tardi, abbiamo avuto a che fare con morti, malattie e ricorso più che obbligato al crimine. Io posso testimoniare per averlo sperimentato sulla mia pelle bucata di quanto, invece di ricercare e sperimentare scientificamente ed il più laicamente possibile, si sia perso tempo e vite preziose per non riconoscere l’ambiguità di fondo sulla quale il legislatore si è mosso con il suo proibizionismo, facendo sostanzialmente felice la malavita organizzata, che con il giro di capitali realizzato, ha capitalizzato quanto le più grandi imprese italiane. Io non solo sono contrario a quella cultura, ma avrei desiderato combatterla e non finanziarla pagando poi anche anni di galera. Non sarebbe meglio, invece di generalizzare, dare un senso al metadone ed usarlo secondo il tipo di persona che si rivolge ai servizi pubblici, e fare nel frattempo prevenzione, tanta ed intelligente? E invece le campagne di prevenzione lanciano slogans tipo quell’accanimento col “o ci sei o ti fai” ripreso da alcuni amici emiliani che lavorano quotidianamente con le dipendenze e trasformato in “io ci sono e mi faccio”, che è come un ricordare provocatoriamente che comunque qualcuno che avrà il problema della dipendenza c’è e ci sarà, in barba a tutti i terapeuti maghi e curatori di anime. È così difficile accettare che esistano uomini e donne per cui la vita presenti difficoltà diverse dagli altri senza arrivare ad eliminarli, a decidere che “non ci sono”? Insomma, non sono un tecnico di prevenzione, ma si è vista della roba brutta e scontata in questo campo.
Parliamo della condizione del tossicodipendente che è in carcere oggi
Non è mio intento contestare il senso o l’utilità di un’opera di questo genere, vorrei però riprendere a parlare, con le mie capacità, della condizione del tossicodipendente in carcere oggi, a qualche anno dalla ricerca e quindi con la possibilità di verificarne la ricaduta, perché credo che il senso del cercare, elaborare dati, trarre delle conclusioni, deve avere il senso anche di fornire delle indicazioni operative, degli stimoli a sperimentare… insomma non può essere solo accademia. È già da anni che si parla dell’esistenza di casi ove alla patologia definita “dipendenza” alcuni pazienti ne associano un’altra di tipo psichiatrico, e che parte di queste persone finiscono in carcere. A questo punto ci si è chiesti quante fossero le persone che effettivamente potessero definirsi tossicodipendenti affette da “Doppia diagnosi”. Io credo che la preoccupazione non sia da poco, se non altro perché più un quadro clinico è completo nella diagnosi, più la cura riesce a sortire qualche benefico effetto. Trovo però che ad esempio nella “Premessa e scopi della ricerca” ci siano una serie di passaggi discutibili. Per esempio: “è fuori di dubbio che durante la detenzione la responsabilità degli ospiti è dell’Amministrazione penitenziaria anche per il loro trattamento. Orbene passa una notevole differenza se un detenuto sia seguito in maniera adeguata per i suoi bisogni sanitari, oppure no. Se un depresso-tossicodipendente viene seguito per la dipendenza e non per la depressione, si possono avere effetti gravi: comportamenti suicidi che si manifestano nel momento in cui la disponibilità di sostanze non c’è (o non dovrebbe esserci), a meno di terapie sostitutive”. Io posso capire che l’essere a conoscenza della patologia depressiva sia un’opportunità in più per aiutare il detenuto, dopodiché mi viene un po’ da ridere (con grande amarezza ovviamente), perché mi chiedo qual è, nonostante gli sforzi degli operatori, l’intervento attuato nei confronti della dipendenza e quale ancor di più sulla depressione, visto che più depressivo del carcere stesso ci sono rimasti solo alcuni programmi televisivi. Ed aggiungo, visto che sono un depresso cronico e sono in affidamento in prova, che perfino fuori si fa fatica a farsi curare, a meno che uno non disponga di 80 o più euro a seduta ed accetti un trattamento differenziato perché in esecuzione di pena. Ma questa è un’altra storia e la chiudo qui. Tornando al carcere, l’intervento c’è stato, è stato possibile mantenere un attento osservatorio, quantomeno sui nuovi giunti, utilizzando una metodologia e strumenti simili? Mi chiedo poi un’altra cosa, quand’è che ci si accorge che un detenuto è anche affetto da patologie psichiche? La mia esperienza personale mi offre poche possibilità, tipo: se uno fa a pezzi la cella (magari gli stanno negando un diritto e non riesce a chiederlo facendosi capire) e finisce all’O.P.G., oppure quando dà segni di squilibrio tipo crisi mistiche o grafomaniche. Di solito se è solo un violento è al posto suo, quindi niente psichiatra, a volte ci finisce sotto visita perché col medico non riesce proprio a trovare un accordo sui farmaci e quindi fa casino. Ma se uno marcisce in cella ed è socialmente morto, difficilmente verrà aiutato e curato, e se costui sia o non sia tossicodipendente, quindi doppia diagnosi, di cui la patologia psichica primaria o meno, nessuno saprà mai nulla. Ora è stata fatta questa ricerca che sostiene, dal campione analizzato attraverso un questionario, che a Padova ci sono il 60% di sedicenti tossicodipendenti, il 27,3% che sostiene di avere già avuto un ricovero in psichiatria, circa il 13% che sostiene che gli è stato diagnosticato un disturbo psichiatrico, ma poi quelli che sostengono di avere disturbi psichiatrici sale al 19%. Il 40% ha dichiarato di aver paura di impazzire (di cui il 51,9% sono stranieri ed il 23,5% italiani), l’85% dichiara di avere una buona stima di sé. Come tutte le buone ricerche si arriva, per me che sono un profano con un po’ di fatica, al trattamento terapeutico, che ovviamente ipotizza la possibilità che i bassi successi avuti finora possano proprio derivare dalla considerazione di una diagnosi unica e non, come i dati dimostrano con una certa violenza, di doppia diagnosi, perché i dati forniti dal campione fanno emergere sostanzialmente che i tossicodipendenti in carcere sono in gran parte portatori di un’altra patologia di tipo psichiatrico e, se non si fanno i conti anche con questa, qualsiasi intervento terapeutico risulterà parziale col rischio di essere inefficace.
È difficile stabilire quanto i risultati siano condizionati dallo stato di detenzione
Io mi chiedo però qual è la valenza di strumenti quali quelli usati in questo caso, senza tener gran conto sia della rappresentatività del campione, sia della distorsione ambientale. Il carcere infatti distorce, confonde, complica in maniera micidiale le situazioni. Il questionario ad esempio non è applicabile ai nord-africani e neanche agli italiani con livello di istruzione al di sotto della media inferiore. Ma ce l’hanno un’idea di cosa significa in tanti casi avere sì il diploma di media inferiore, ma magari preso 15 anni fa in carcere? Oppure guardiamo il quesito n. 29: “Ritiene lei di avere un disturbo del comportamento?”: siamo certi che chi compilava il questionario riuscisse a capire cos’è un “disturbo del comportamento”? Io, che ho un grado di istruzione superiore, ho dovuto chiedere informazioni. Mi sono anche chiesto il senso di un campione quale quello utilizzato che, alla domanda “Ha ancora problemi di dipendenza da sostanze?”, lascia come risposte alternative “sì” o “no”. Poi in sede di valutazione delle risposte salta fuori un 59,4% degli intervistati che si dichiara tossicodipendente, ma chi ci dice che tra gli altri detenuti, magari con qualche anno di galera sulle spalle, non ce ne sia una gran parte che non sente di “avere ancora problemi di tossicodipendenza da sostanze”, ma che questa risposta sia solo dettata dallo stato di detenzione e quindi di semplice astinenza forzata? Voglio dire che il sistema di rilevazione tramite questionario così costruito crea diverse distorsioni, partendo dalla “sensazione” di essere tossicodipendente a quella di avere “disturbi della personalità” o altre patologie psichiatriche, dove difficilmente è possibile stabilire quanto i risultati siano condizionati dallo stato di detenzione o meno. Io credo che cambi parecchio la “verità scientifica”, ammesso che in questo caso ne esista una, se una persona è osservata in gabbia o a piede libero, e non voglio dire con questo che il grande lavoro fatto non serva a niente, ma che certo il suo utilizzo sia purtroppo molto limitato. Allora, dal questionario bisognava estrarre un campione in cui si selezionava chi poteva essere a dubbio di Doppia diagnosi. Queste persone in un secondo momento sarebbero state sottoposte a test che dovevano confermare la Doppia diagnosi ed anche la sua esplicitazione secondo il DSM IV. Mi resta comunque il dubbio su quanti non si sono dichiarati tossicodipendenti e che invece numericamente hanno continuato ad influenzare tutte le statistiche successive. Non è che questo sposta già l’obiettivo di un’indagine che non rileva più tra la popolazione di tossicodipendenti quanti siano con Doppia diagnosi, in quanto molti dei testati, circa il 40%, non si considera tossicodipendente? Ne emerge comunque un dato che tende a psichiatrizzare i tossicodipendenti, con una taratura al rialzo che corrisponde ad una scelta politica ben precisa. Fondamentalmente risulta che a Padova oltre i 2/3 dei tossicodipendenti sono portatori di patologie psichiatriche, per lo più classificabili nella categoria dei borderline, e di coloro che sono soggetti a disturbo antisociale. Io desidererei avere a questo punto altri due dati: il primo è qual è la situazione dei detenuti in generale per quanto riguarda la salute mentale, il secondo è sapere cosa succede fuori dal carcere, ossia in Italia, visto che, tra l’altro, gran parte degli strumenti usati erano non efficaci per la grande componente che sono i nord-africani.
È più facile somministrare 50 gocce piuttosto che un po’ di umanità
Non è difficile capire che a fronte di dati del genere si arriva facilmente al tentativo di ricreare in carcere (ma anche in alcune comunità terapeutiche) ulteriori occasioni di segregazione, dove lo strumento farmacologico, oltre eventualmente a “curare”, può diventare uno strumento di controllo delle persone che appiattisce i bisogni, sì, perché è sempre più facile somministrare 50 gocce piuttosto che un po’ di umanità, prevista costituzionalmente, ma che poi non si capisce mai cos’è. È umanità passare 20 ore su 24 chiusi in uno sgabuzzino munito di cesso? Ma mi viene da riflettere anche sulle cure, perché dopo anni di detenzione legati ad esempio ad uno o più farmaci, dove la dipendenza non c’era certamente subentra. Perché continuano a scegliere di curare in carcere chi ha anche problemi psichici? Sono proprio così pericolosi per tirarli fuori o magari costano culturalmente troppo? C’è troppa concentrazione, dati i risultati, di malattie mentali in carcere ed un legame troppo forte con l’uso di stupefacenti, la doppia diagnosi, per non pensare che a monte non ci sia un processo di selezione e di emarginazione progressivo di tutte le diversità. Ma torniamo agli esiti della ricerca, limitando l’attenzione alla Casa di reclusione di Padova, perché proprio nel periodo successivo alla ricerca sono stato trasferito lì. Durante la mia detenzione ho avuto occasione di effettuare diversi colloqui, non me ne voglia la psicologa, dove si notava la difficoltà a ricordarsi del mio caso, e spesso dovevo ripartire facendo un riassunto delle puntate precedenti. Ho dichiarato dall’inizio della mia carcerazione che soffrivo fin da quando avevo 20 anni di depressione, ossia da molto prima di diventare tossicodipendente, ma era evidente che, a parte segnarlo nelle relazioni di cui necessitavo per le mie istanze di scarcerazione per passare ad una misura alternativa alla detenzione, altro non veniva fatto. D’altra parte non vedo come mi si potesse aiutare a tenere sotto controllo la mia depressione, forse l’unica cosa utile è stata proprio il permettermi di svolgere un’attività come il giornale e stare un po’ fuori dalla cella dove rischiavo di marcire. Da altri compagni ho sentito un sacco di lamentele sul fatto che per i tossicodipendenti la questione “salute mentale” fosse automaticamente trascurata per assoluta mancanza di tempo. Questa ricerca era praticamente conclusa quando sono arrivato io, e sinceramente grosse ricadute non ne ho viste in termini di attenzione nei confronti di chi aveva seri problemi. L’autolesionismo ed i suicidi sono sempre stati una costante, la gente che perde la testa, tossici e non, io l’ho vista aumentare, perché ho visto aumentare l’ingresso in una Casa di reclusione di ragazzi con pene cortissime ed in condizioni di salute mentale e fisica sempre più precarie. Nel maggio 2005 sono stato tra i promotori di un convegno in carcere proprio sulla salute mentale, e la scelta derivava dal fatto che sempre più in galera si respirava aria di manicomio, ma il nostro tentativo non era di spingere perché si facesse finta di curare in carcere situazioni che invece dovevano essere prese in carico dal Dipartimento di Salute Mentale fuori dal carcere. Perché se il carcere non è del tutto patogenico, certo comunque aggrava e non cura le sofferenze di tante persone che, oltre a piccoli reati di bassa pericolosità, sono anche colpevoli di avere sensibilità diverse, spesso martoriate da una vita, una storia ed un contesto sociale circostante non sempre generosi nei loro confronti. Bene, sono partiti ora anche al Due Palazzi di Padova i “gruppi d’attenzione”, per cercare di fare qualcosa e non aspettare sempre l’uso del registro degli eventi critici. Ma sarà un lavoro lungo, sul quale occorrerà formarsi meglio per rendere il passaggio delle persone in carcere il più lontano possibile dalla morte sociale e personale. Quello però che volevo arrivare a dire è che non è chiaro quale sia la ricaduta di questa ricerca che oggi ci dice solo cosa succedeva due o tre anni fa, e che nel frattempo non pare sia stata utile a costruire nulla di permanente e quindi di utile. Poi mi hanno detto che per Padova il costo è stato di centinaia di milioni di vecchie lire, solo per capire il livello di salute mentale dei tossicodipendenti, il 30% della popolazione in media. E che ne è degli altri, tutti gli altri che non hanno questioni con gli stupefacenti ma che arrivano in carcere con delitti che fanno sorgere almeno qualche dubbio sul loro equilibrio, e ne conosco diversi che in anni hanno visto lo psichiatra una sola volta? Nel maggio del 2005 abbiamo chiesto con forza, anche in applicazione del regolamento 230/2000, che il D.S.M. entrasse in convenzione col carcere, ma chiediamo con ancora più insistenza, dove la pericolosità è attenuata, di far uscire dal carcere e mettere in condizione di curarsi sul serio tutti quanti hanno la possibilità di accedere a misure alternative all’inutile detenzione.
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