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Oltre i confini del carcere Le difficoltà del reinserimento. Quando il volontariato rivolge più attenzione alla cosiddetta “area penale esterna”, cioè a tutto quello che succede a chi esce dal carcere o in carcere non ci entra neppure ma i problemi con la giustizia ce li ha.
(Realizzata nel mese di gennaio 2006)
a cura di Marino Occhipinti
Se si può rimproverare qualcosa al volontariato che ha a che fare con il carcere e con la giustizia è di avere spesso un “occhio di riguardo” per il dentro e scarsa attenzione verso la cosiddetta “area penale esterna”, cioè tutto quello che succede a chi esce dal carcere o in carcere non ci entra neppure, ma i problemi con la giustizia ce li ha. A Modena e Castelfranco Emilia però il volontariato si è svegliato. E con risultati interessanti. Ne abbiamo parlato con Ivana Danisi, la coordinatrice del progetto.
Come e quando è nato il progetto “La Retata”? Il progetto “La Retata. Catturati dalla solidarietà” nasce nel 2000, a partire da uno spunto proveniente dalla Consulta del volontariato e dell’associazionismo di Castelfranco Emilia, supportata dal Centro servizi per il volontariato di Modena, con l’obiettivo di sensibilizzare la cittadinanza di Castelfranco sui temi della solidarietà verso le persone in esecuzione di pena e di favorire la nascita di un volontariato giustizia sul territorio, attraverso la creazione di sinergie fra associazioni e istituzioni: Comune e Casa lavoro di Castelfranco Emilia. Nel corso degli anni 2002 e 2003, grazie alla partecipazione delle associazioni di volontariato del settore giustizia di Modena (Porta aperta al carcere e Carcere Città), il progetto ha ampliato il proprio raggio di azione all’intera provincia di Modena. Questa prima lunga fase del progetto ha avuto come importante punto di approdo la realizzazione di alcuni corsi formativi e momenti seminariali pubblici, rivolti ai volontari e potenziali volontari del settore giustizia (vedi box). Fra i risultati raggiunti da questi corsi di formazione vi è stata una crescita del volontariato che ha portato, per esempio alla costituzione di un’altra associazione, denominata “Il Triangolo”. A seguito dei percorsi formativi è emersa una nuova area di interesse del volontariato locale: l’Area penale esterna, rispetto alla quale i volontari sentivano la necessità di saperne di più, mentre c’era bisogno di sviluppare un’attenzione e una sensibilità cittadine. E così negli ultimi due anni il progetto La Retata ha focalizzato la sua attenzione sull’Area penale esterna, approfondendo il confronto con gli interlocutori istituzionali: l’Ufficio esecuzione penale esterna, che sarebbe l’ex CSSA, ed il Comune di Modena. Il primo passo è stato quello di allargare l’orizzonte del volontariato, ricercando nuove persone disposte a mettersi in gioco su questi temi, naturalmente insieme ai volontari “storici”. Anche in questo caso si è poi approdati alla realizzazione di un corso di formazione rivolto ai volontari dal titolo “Oltre i confini del carcere: esplorando l’Area penale esterna”, che si è tenuto proprio in questi mesi.
Di cosa si tratta esattamente e da chi è gestito il progetto? Nella fase attuale (periodo 2004-2007) il progetto si occupa specificatamente di Area penale esterna, infatti, a partire da febbraio 2006, si chiamerà “Oltre i confini del carcere”. Gli obiettivi consistono nel realizzare momenti di sensibilizzazione della cittadinanza ed avviare una sperimentazione del volontariato modenese nell’Area penale esterna, nonché di consolidare i rapporti e le sinergie con l’Ufficio esecuzione penale esterna di Modena. Il progetto è promosso dalle associazioni di volontariato Carcere Città, il Triangolo e da alcuni volontari sensibili ai temi in questione. È supportato dal Centro servizi per il volontariato di Modena, che offre alle associazioni di riferimento alcuni servizi: supporto nella progettazione e realizzazione di attività formative; supporto nella creazione e consolidamento di reti di collaborazione fra i diversi volontari e con le istituzioni (ad esempio l’Amministrazione penitenziaria e il Comune); supporto nelle attività logistiche e di segreteria. Nel rispetto di questi obiettivi il Centro servizi volontariato di Modena ha individuato nella sottoscritta la coordinatrice del progetto.
Nell’ambito di questo progetto, cosa fate, concretamente, per sostenere il reinserimento delle persone che hanno commesso reati? È difficile rispondere a questa domanda perché siamo ancora in una fase preliminare di esplorazione e formazione sull’Area penale esterna. Tuttavia i volontari delle diverse associazioni che partecipano al progetto da anni supportano le persone in esecuzione di pena attraverso sostegni concreti (dai vestiti, all’accompagnamento nei permessi, alle telefonate alle famiglie di riferimento, ai colloqui nei luoghi in cui scontano la pena…). Il nostro obiettivo è di fare da ponte per il reinserimento sociale delle persone che hanno commesso reati, offrendo una sponda relazionale, qualcuno con cui parlare e confrontarsi; ma anche sensibilizzare la cittadinanza di Modena affinché renda possibile il reinserimento sociale e professionale delle persone che hanno commesso reati. Tutto questo non è facile per almeno due motivi: da un lato molte persone si domandano perché offrire aiuto a persone che hanno commesso reati, quando ce ne sono delle altre più bisognose e che non hanno commesso volontariamente dei torti (ad esempio bambini, portatori di handicap, persone anziane…). Qui la cosa complicata, sulla quale vorremmo lavorare attraverso dei momenti di sensibilizzazione, è far capire che è importante per tutti offrire una seconda opportunità, perché se la società accoglie chi ha commesso degli errori ed è intenzionato a recuperare, si possono creare le condizioni per cui, essendo inserita nel tessuto sociale e produttivo, una persona ha maggiori possibilità di non incorrere nuovamente nei reati di cui si è fatta protagonista. Naturalmente non partiamo da una visione idilliaca o mitica del “detenuto da salvare, perché non ha nessuna colpa”; e passiamo al secondo punto. Partiamo piuttosto da un’idea di responsabilità della persona che si è fatta artefice di un reato, crediamo fermamente che debba sviluppare un approccio critico rispetto a quello che ha compiuto, immaginando anche una qualche forma di “risarcimento” alla vittima o alla società, rispetto alla quale ha trasgredito una norma. Quello di cui avremmo voglia è di stare al fianco di persone che hanno scelto di cambiare, di riscrivere la loro storia, e che in questo possono aver bisogno del confronto con qualcuno che è disposto ad ascoltarle, ad accoglierle, a credere in loro. È un cammino che va compiuto da due parti: dalla parte di chi ha commesso un reato e dalla parte della società, dunque di persone fisiche, che si rendono disponibili come amici e testimoni di un cambiamento. È una sfida tutta da costruire. E da costruire a piccoli passi, cercando di coinvolgere sempre più persone, sempre più cittadini che abbiano voglia di sentire la propria città sicura, confrontandosi con chi la rende insicura.
I vostri articoli riescono a “rivoltarmi come un calzino”Ogni volta che vi leggo, trovo la libertà di un pensiero divergente, esigente e, soprattutto, poco arrendevole. E molti testi incentrati non tanto sui reati commessi, quanto su ciò che quel reato ha portato con sé in termini di devastante cambiamento esistenziale
di Adriana Lorenzi
Adriana Lorenzi è autrice di un libro, Voci da dentro. Storie di donne dal carcere, basato sull’esperienza di un laboratorio di scrittura autobiografica creato all’interno del carcere femminile di Bergamo. E un laboratorio analogo Adriana lo tiene da qualche mese anche nella Casa di reclusione di Padova. Ne è nato così un confronto vivace e serrato con la nostra redazione, alla quale Adriana ha scritto la lettera che pubblichiamo, densa di riflessioni, fatte proprio a partire da alcuni articoli di Ristretti Orizzonti.
Carissimi della redazione di Ristretti Orizzonti, ho appena terminato di leggere la vostra rivista dedicata al progetto con le scuole e ho guardato oltre la mia finestra che in questo momento incornicia un pezzo di prato coperto di neve, di alberi dai rami spogli oppure di ulivi e pini di un verde intenso e poi il lago e il cielo, un pezzetto meraviglioso di mondo fatto di bianco, verde e azzurro interrotto però da un legno che, in orizzontale, taglia la finestra che è molto bassa e deve quindi proteggere da un’affacciarsi pericoloso verso l’esterno. Il legno rompe la visuale senza sbarrarla come invece accade alle finestre del carcere. Il mio è uno squarcio di mondo che mi piace guardare anche per voi, pensando a voi che in questo momento forse state mangiando, preparandovi mentalmente alla prossima riunione redazionale che potrebbe anche essere tra un’oretta perché qui, da me, è suonata la mezza. Lo so, non è molto, ma è un modo che ho trovato per non spezzare il filo che mi lega al vostro gruppo, senza reciderlo quando sono distante. L’altro è quello di rispondere ai vostri articoli che riescono sempre a “rivoltarmi come un calzino”, facendomi commuovere oppure vacillare perché lì sulle vostre pagine ci sono non solo domande e risposte, ma processi, percorsi di riflessione e di scrittura a conferma che la vita è davvero più complessa di quanto non si riesca a rappresentarla con le frasi dettate dal senso comune, anche quello dotato della più autentica buona volontà. È una cosa che ho avvertito subito la prima volta che sono stata invitata in Redazione a presentare il laboratorio di scrittura che avrei condotto: la presenza del pensiero che indaga, interroga, discute e offre risposte senza pretendere che siano giuste, definitive e imperiture. In carcere ho trovato almeno la libertà di un pensiero divergente, esigente e, soprattutto, poco arrendevole. E lo ritrovo ogni volta che leggo le pagine della vostra rivista – e sorrido di fronte alle vignette –, e che varco la porta dell’aula del laboratorio. Da settimane mi fermavo da Elton per commentare alcuni articoli letti sulla vostra rivista, e spesso i nostri scambi ruotavano attorno alla faticosa relazione epistolare tra chi sta aldiquà e chi aldilà delle sbarre. Così mi ha regalato il numero speciale “Il carcere entra a scuola” preannunciandomi che c’erano dei bellissimi articoli scritti dai ragazzi delle scuole che avevano partecipato al progetto di incontro con il carcere. Adesso che ho terminato la lettura, mi è venuto un gran desiderio di parlare un po’ con voi che forse non avete solo risposto alle domande degli studenti, ma cercato anche di mettervi in contatto con chiunque avesse voglia di leggervi e ascoltarvi pur stando aldilà del cancello della Casa di reclusione di Padova. Quelle che vi offro sono riflessioni, suggestioni nate sull’onda delle vostre parole. Un tentativo di comprendere, continuando a sostare sul tanto letto per non farlo passare, e asciugare, troppo in fretta.
Il rischio che si corre organizzando incontri tra mondo esterno ed interno è quello di suscitare in chi è fuori una morbosa curiosità
La domanda scottante è quella in apertura: chi è detenuto deve o non deve, può o non può raccontare il suo reato a chi vuole accostarsi alla realtà carceraria senza averla mia vissuta, e avendo a disposizione soltanto l’informazione giornalistica, televisiva e cinematografica? Anch’io, come Ornella, non ho mai chiesto alle persone con le quali ho lavorato e lavoro in prigione quale fosse il reato commesso, come del resto non avrei gradito che qualcuno mi avesse chiesto al primo incontro quali fossero i mammut acquattati da qualche parte nel mio passato e pronti a saltarmi addosso in ogni momento. Ci sono parti della propria vita difficilmente accessibili a se stessi e, ancora di più, impossibili da condividere con altri. Secondo me il rischio che si corre organizzando incontri tra mondo esterno ed interno è quello di suscitare in chi è fuori una morbosa curiosità rispetto a chi sta dentro: come sarà fisicamente e psicologicamente l’omicida, il parricida, il fratricida, lo stupratore, il ladro, lo spacciatore, il mafioso, il detenuto politico ecc…?; oppure quello di scatenare una retorica fumosa, spiegazioni arzigogolate, i massimi sistemi attorno al carcere, alla delinquenza, alla recidiva e alla dimensione pur sempre umana delle persone. Quest’ultimo in particolare è un discorso che mi irrita perché almeno “l’umanità” dovrebbe essere un presupposto da non poter mettere in discussione: la dimensione umana non si limita alla bontà ma include la cattiveria, la vita e anche la morte, la ricchezza e la miseria, la pace e la guerra. Luci ed ombre. D’altro canto la curiosità esiste: quella curiosità che implica il voler comprendere come è stato possibile passare il confine che divide il legale dall’illegale, il permesso dal proibito. Qualcuno tra i “liberi” percepisce la fatica di rispettare le regole, di seguire le norme del vivere civile e sociale e, soprattutto, ha sentito, o sente, l’attrazione dell’infrangere le regole, il fascino nei confronti di chi ha avuto il coraggio, la forza, l’incoscienza, o la colpa di rompere quelle norme. È una sana, o forse semplicemente legittima curiosità che vuole indagare per individuare ragioni. Una forma di comprensione catartica, preventiva: conoscere per evitare. Foucault scrive “Curiosità. A me richiama qualcosa che mi interessa, l’attenzione di una persona verso ciò che esiste e potrebbe esistere; la prontezza nel trovare sconosciuto ciò che ci circonda; una certa tenacia nel rompere ciò che ci è familiare; lo zelo nel cercare di comprendere ciò che accade; un certo distacco dalle tradizionali gerarchie che stabiliscono cosa è importante ed essenziale”. La sana curiosità si allerta quando si sgombra il campo dal pregiudizio e dal luogo comune: quando ogni studente racconta della sua prefigurazione del carcere e poi del reale confronto con il carcere: metaldetector, cancelli che si aprono e chiudono, quadri giganteschi dipinti lungo il muro del corridoio del carcere che riproducono le opere di grandi pittori e il trovarsi faccia a faccia con uomini e non caricature. E anche quando un detenuto, come Stefano Bentivogli, è felice dei complimenti offerti a lui e agli altri detenuti, ma ironizza sul fatto che “se non siamo mostri, forse non possiamo neppure essere considerati solo discoli che hanno rubato la marmellata alla nonna!”. Parafrasando sempre le sue parole: in carcere ci va chi sa essere pericoloso e chi sa fare del male… ma su questo non ci si può soffermare, piuttosto si deve partire per costruire una relazione con i detenuti di tipo amicale e lavorativo che sia di senso e produca cose sensate.
Quei racconti che scottano come scotta la vita
E non è proprio la relazione con la scuola, con gli studenti che ha portato alla fine - non all’inizio - tre uomini come Elton Kalica, Marino Occhipinti e Graziano Scialpi a scrivere i brani che hanno scritto? Credo che l’incontro con la scuola abbia innescato quel processo che li ha condotti alla stesura dei loro pezzi incentrati non tanto sui reati commessi, dei quali si può trovare ampia documentazione, spiega Marino, nelle cronache giornalistiche di quei giorni fatidici, ma su ciò che quel reato ha portato con sé in termini di devastante cambiamento esistenziale. Annientamento di vita. Nella casella delle perdite ci sono infiniti “dettagli” (Marino) come figlie, famiglia, feste comandate, mentre resta bianca la casella dei guadagni. I loro articoli, che sono personali senza essere intimistici, né compiaciuti e neppure compiacenti, sono racconti che scottano come scotta la vita. Non la vita in generale, piuttosto quella vita in particolare, quella di un uomo detenuto che si è giocato, per esempio, in quindici giorni i primi ventitre anni già trascorsi e tutti quelli a venire. Non il reato dunque, che rimane sullo sfondo, piuttosto cosa il reato ha travolto, facendo terra bruciata dietro e orizzonte spaccato davanti a sé. Narrazioni nuove che non mulinano attorno al reato ripetendo il già detto, ma aprono diversi scenari capaci di distinguere tra i reati e i soggetti. Sono i soggetti che contano con le loro emozioni, con i loro pensieri, con i loro percorsi compiuti. Per un attimo nell’incontro con le studentesse, Elton azzera dieci anni passati e si ritrova al cospetto della fidanzata di allora, fresca nei suoi 17 anni che non possono essere né di Elton e neppure della sua ragazza che oggi ne ha 27 e lui quei dieci anni li ha persi. In carcere il tempo si ferma e non si vivono più i cambiamenti, il proprio invecchiamento e quello delle persone care. Questa è la realtà che Elton con le sue parole percorre in tutta la sua drammaticità. E incontrare l’esterno allora può essere doloroso perché costringe a un confronto che si porta appresso sorprese che sono inciampi, storte e anche rovinose cadute. E il mio stomaco si è davvero contorto, come auspicava Ornella nell’introduzione al pezzo, con la lettura delle parole di Graziano Scialpi. Ancora una volta ho pensato, questo è il racconto con tutta la sua efficacia. Non l’informazione rispetto al reato, ma la ripercussione del reato dentro la vita e la testa di chi lo ha compiuto. E il carcere può farsi protezione quando ci si deve difendere da se stessi, dai rimorsi, dai parenti troppo stretti, da quelli che appunto vogliono un perché. Eppure non serve a niente il perché di quel punto di non ritorno, ma cosa è successo a partire da quel punto. Sono tre splendidi articoli non solo perché sono scritti bene, efficaci in termini di tensione narrativa e coinvolgimento emotivo – impossibile interromperne la lettura! –, ma perché offrono una prospettiva inusuale e scombussolante: quella di chi non riesce a dimenticare quello che ha fatto alla propria vittima, a se stesso e ai propri cari. Nessun senso di onnipotenza o di autocommiserazione, piuttosto la consapevolezza - quella sì, straziante - di aver misurato da allora una morte in vita. E gli articoli mi sono sembrati oggi, che sono passati dieci anni per Elton e diciassette per Marino, una nuova forma di vita dentro la morte apparente che è il carcere. Forse lo è l’intera Redazione che a me pare una sorta di oasi, oppure, meglio, una terra di frontiera.
Costruire storie per gettare una rete, più o meno resistente, più o meno complicata, per afferrare la vita
Devo ammettere che ho trovato anche conferme rispetto a un metodo che perseguo da anni che mira a sottolineare l’importanza della narrazione: la costruzione di storie per gettare una rete – più o meno resistente, più o meno complicata – per afferrare la vita. Costruire storie per parlare di sé ma anche di altri; parlare ad altri partendo da sé. Storie che vogliono essere contro-storie, capaci di disattendere le aspettative e le facili interpretazioni. E concludo con un’ultima osservazione: mi è piaciuta tanto la copertina della rivista con la scritta alla lavagna “non devo distrarmi quando il signor recluso sta spiegando”. Perché in quelle parole sta l’autenticità di un atteggiamento che non può che essere di assoluto ascolto da parte di chi vuole capire il carcere e le sue regole: chi può raccontare il carcere non è il teorico, il sociologo, lo psicologo, e neppure il volontario, ma il detenuto che conosce divieti e permessi, benefici e concessioni che governano il mondo carcerario.
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