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“Sono stufo di questa vita dentro e fuori dalle galere” Il viaggio di Hmad, dall’Algeria alla Francia, all’Italia, al carcere
Testimonianza raccolta da Djuma Tilete Hacissa
Mi chiamo Hmad, ho 35 anni e sono nato ad Anaba, una città dell’Algeria. In famiglia siamo in dodici: cinque fratelli, cinque sorelle, mia madre e mio padre. Quando ero ragazzo, oltre a mio padre lavoravano due miei fratelli e due mie sorelle, più grandi di me. Io andavo a scuola, mi piaceva studiare, ma la mia famiglia era numerosa e i soldi in casa non bastavano mai. E così, appena terminate le medie (in Algeria le elementari durano sei anni, due le medie e due le superiori), ho cominciato anch’io a lavorare. Prima in una fabbrica di pelletteria, dove si producevano borse, e poi in una dove si fabbricavano scarpe. Un lavoro che ho imparato bene, quello dello “scarpaio”, e che mi dava la possibilità di apprendere sempre cose nuove. La paga, però, era molto modesta: non più di 300 dinari al mese, equivalenti grossomodo a 150 mila delle vecchie lire italiane. Quando decisi di lasciare l’Algeria avevo 26 anni. Fu una decisione che presi da solo, e da solo organizzai anche il mio viaggio, senza l’aiuto di nessuno e senza pagare gli scafisti. Partii da Anaba a bordo di un camion guidato da un autista che conoscevo da tempo e che, oltre a offrirmi un passaggio, mi diede utili consigli. Conoscendo molti altri autisti, e i loro abituali tragitti, mi indicò i camion su cui avrei dovuto cercare di “imbarcarmi” per portare a termine il mio viaggio. Come meta avevo scelto l’Italia, perché all’epoca era il paese dove si poteva trovare più facilmente lavoro e dove pagavano meglio. Ero senza documenti, e quindi ho dovuto viaggiare all’avventura. Ma è stato comunque il viaggio più bello della mia vita, perché era il primo e perché mi sentivo finalmente libero nelle mie scelte. La mia prima tappa in Europa fu Marsiglia, in Francia, una città di mare di cui non ho un gran bel ricordo. Per venti giorni ho tirato a campare dormendo alla meglio, dentro a una vecchia automobile, e procurandomi un po’ di cibo rubacchiando, perché non conoscevo ancora nessuno che potesse aiutarmi. Ho provato a trovare lavoro ma senza nessun esito positivo. Le uniche persone che mi aiutarono furono due donne, mie compaesane algerine, che lavoravano in una casa d’accoglienza. Mi diedero anche modo di chiamare la mia famiglia, per fare avere finalmente mie notizie. Quando raccontai ai miei che ero in Francia, pensarono che fosse uno scherzo. E infatti mi dissero di tornare a casa, che ero “fuori a giocare già da troppo tempo”. Ormai erano passati dieci giorni da quando ero partito, e quando capirono che facevo sul serio, che non me ne ero andato di casa “per gioco”, cominciarono a preoccuparsi per la mia scelta e a tempestarmi di consigli. Fu in quei giorni che incontrai, a Marsiglia, un mio amico di infanzia, che per un certo periodo era stato anche mio compagno di scuola. Mi aiutò a raggiungere Nizza, città in cui viveva e si era inserito anche abbastanza bene, guadagnandosi da vivere vendendo televisori. Era sposato con una donna francese. Mi trasferii a casa loro, dove mi trattavano come uno di famiglia e mi aiutarono a trovare un lavoro, come aiutante in una creperie. Insomma, ero arrivato a Nizza con l’idea di fermarmici sì e no per una decina di giorni, e andò a finire invece che ci rimasi dieci mesi. Il mio obiettivo, però, rimaneva l’Italia, e così un giorno lasciai il lavoro e con l’aiuto del mio amico e di sua moglie riuscii ad attraversare la frontiera in macchina. Ero terrorizzato dall’idea che qualcosa potesse andare storto, che la polizia italiana potesse fermarmi e rispedirmi in Algeria. Ma per fortuna, o forse per la benevola intercessione di Allah, nessuno mi prestò attenzione e nel giro di qualche ora raggiunsi Milano. Il mio amico mi aveva allungato qualche soldo, per mangiare e per le piccole spese, ma i primi tre giorni dovetti comunque dormire per strada, dalle parti della stazione. Poi mi spostai in centro, vicino a piazza Duomo, ma la mia condizione non migliorò per niente. Anche perché, all’inizio, parlavo soltanto arabo, e nessuno poteva capirmi tranne i miei “paesani”. Se dovevo acquistare qualcosa in un negozio, mi esprimevo a gesti e facevo una gran fatica a farmi capire. Le cose non migliorarono neppure quando, qualche giorno dopo, mi spostai in provincia, a San Giuliano Milanese. Dormivo in case abbandonate, dove spesso ricevevamo “visite” poco gradite di polizia e carabinieri. Una volta – spinto da una gran fame – rubai un po’ di mele in un negozio di frutta e verdura, e mi ritrovai a dover scappare con almeno una decina di persone che mi inseguivano. Riuscii però a farla franca, perché i miei inseguitori si stancarono di correre prima di me. La fame, evidentemente, fa miracoli… La mattina mi svegliavo presto per andare a cercare lavoro, ma senza trovare mai nessuno che mi offrisse una possibilità. Mi stancai, e decisi di tentare da un’altra parte. Così partii per la Toscana, e mi fermai a Lucca, dove conobbi un ragazzo che tirava a campare vendendo una strana “merce” che io non avevo mai visto prima ma che sembrava interessare a un mucchio di gente, disposta a pagare anche molti soldi per averne un po’. Cominciai ad aiutarlo in questo suo commercio, e lui in cambio mi passava i soldi necessari per mantenermi. All’inizio non mi riusciva facile vendere quella roba, anche perché non parlavo italiano. Ma i miei “clienti”, devo riconoscerlo, si dimostrarono degli ottimi maestri: furono infatti loro a insegnarmi a parlare l’italiano, e questo mi aiutò molto. Ogni giorno che passava mi sentivo più sicuro, e quel lavoro cominciò a rendermi parecchi soldi. Era bello guadagnare così tanto, e così facilmente.
La mia famiglia, per ora, non sa niente di questi miei “viaggi alternativi” all’interno del carcere
Con l’aumentare dei guadagni cominciarono però anche i motivi di discussione e di litigio con i miei paesani, perché ero diventato più bravo di molti di loro e questo a qualcuno non andava giù. Decisi così di allontanarmi e di mettermi a lavorare per conto mio, ma ovunque andassi loro mi seguivano per poi rovinare tutto quello che facevo. Per liberarmi dei miei ex amici, ora miei persecutori, chiesi aiuto alle persone che nel frattempo avevo preso a lavorare con me: e una mano in effetti me la diedero, perché poi non ho avuto più noie. Tutto sembrava insomma essersi messo a girare per il verso giusto; ma un giorno, mentre stavo andando a fare una consegna in scooter, feci un incidente contro una volante della polizia. Il torto era loro, perché non avevano rispettato il mio diritto di precedenza. Ad ogni buon conto mi liberai al più presto della merce che avevo con me, così da risultare pulito ai loro controlli. E in effetti addosso non mi trovarono niente, ma si insospettirono ugualmente perché in tasca avevo parecchio denaro. Ad un controllo più approfondito intorno al luogo dell’incidente, saltò fuori un pezzo di hashish che avevo buttato oltre il margine della strada. Per quello stupido incidente passai qualche notte in carcere, ma poi mi lasciarono andare: quel pezzetto di hashish che avevano trovato bastava si e no per fare un paio di canne. Tornato in libertà, ripresi il mio abituale “commercio”, che negli ultimi tempi si era esteso però sempre più alla cocaina. La notte di Capodanno del 2002 me ne trovarono addosso dieci grammi: fui arrestato e condotto al carcere di Lucca, dove restai per nove mesi e otto giorni. Fu quella la mia prima vera e propria “galera”: un’esperienza pesante, che però mi diede il tempo di ripensare alla mia vita, alla scelta di lasciare la mia famiglia e il mio paese, alla mia avventura di emigrante finito dietro le sbarre. Dopo quel periodo di carcere mi mandarono agli arresti domiciliari in una comunità, dove restai però solo per un paio di settimane. Lasciai la Toscana e mi diressi in Veneto, perché avevo sentito che lì c’era molto lavoro. Trovai infatti un lavoro in una fabbrica di Vicenza, ma servivano i documenti e io ancora non li avevo. Dei paesani mi consigliarono allora di lasciare Vicenza e il Veneto e di raggiungere Palermo, dove per me sarebbe stato più facile trovare una sistemazione. Ma proprio mentre mi stavo preparando per partire fui fermato per un controllo dei carabinieri: venne fuori che avevo un anno e due mesi di pena definitiva. Invece che per Palermo, me ne partii insomma, sotto scorta, per Padova: destinazione il “Due Palazzi”, in cui sono recluso ormai da sette mesi. Quando uscirò di qui andrò in comunità, dopo di che spero proprio di trovare un lavoro onesto e di non rifare tutto quello che ho fatto prima, perché ormai sono stufo di questa vita dentro e fuori dalle galere. Vorrei poter trovare una soluzione vera ai miei problemi. La mia famiglia, per ora, non sa niente di questi miei “viaggi alternativi” all’interno del carcere. Vorrei evitare ai miei, anche in futuro, la delusione di sapere che il loro figlio è stato in galera.
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