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Come scrivere un articolo Tanti modi per sviluppare l’idea centrale dell’articolo
(sesta puntata)
A seconda del genere di testo e dei materiali di cui disponiamo, l’idea centrale può essere sviluppata in vari modi. Vediamone alcuni.
Importante: queste indicazioni vanno prese con beneficio d’inventario. Ve le abbiamo date solo come schemi di riferimento. Non prendetele troppo alla lettera. Spesso le tipologie si intersecano, si accavallano, si confondo. L’importante è che i paragrafi siano ben delimitati e delineati. A questo proposito buttiamo lì una regoletta utile: ogni paragrafo dovrebbe poter essere riassunto con una singola espressione sintetica, se ciò non è possibile vuol dire che il paragrafo è aria fritta. Insomma, quando hai portato a compimento un pensiero vai a capo e comincia un altro pensiero. Certo, a volte un capoverso non basta a esaurire un ragionamento; allora non preoccuparti: spezza quel concetto in più capoversi. Anche in questo caso comunque l’articolazione in più capoversi di quell’unico argomento trattato non dev’essere casuale, ma fondata su una sorta di suddivisione interna dell’argomento in questione (i due tre o quattro capoversi devono essere molto connessi tra loro e costituire una specie di super-paragrafo). Resta che la regola principale da seguire è quella che ci impone di evitare comunque i paragrafi troppo lunghi che affaticano il lettore.
Stefano Brugnolo
Oltre i limiti dell’appartenenza
Un laboratorio di scrittura collettiva a Torino, in cinque quartieri periferici, coinvolgendo persone spesso "difficili"
"Una scommessa della minchia". Fin dal primo giorno, il fotografo Alberto Ramella non ha avuto peli sulla lingua: incaricato di tradurre in immagini "Un eroe per ricominciare", l’atelier di scrittura collettiva organizzato dalla associazione "Parole MOLEste" e finanziato da Comune di Torino e Regione Piemonte, Ramella non ha nascosto le sue perplessità di fronte ad un progetto che sembrava troppo rischioso per essere vero. Il laboratorio si presentava come qualcosa di inedito ed i suoi obiettivi, già sulla carta per nulla scontati, ad una verifica sul campo si rivelavano davvero di difficile realizzazione. Prendete cinque quartieri "periferici" di Torino, quindici persone - spesso "difficili" – per quartiere, cinque settimane di lavoro, sei scrittori italiani, una sceneggiatrice, due video-operatori ed un fotografo, mescolate e fateci uscire un romanzo collettivo, una sceneggiatura, un cortometraggio ed una mostra fotografica e… ancora qualcosa? "Minchia"! Appunto. Tutto nacque da un incontro di qualche anno fa con lo scrittore francese Ricardo Montserrat, che a forza di laboratori di scrittura collettiva era riuscito non solo a far risorgere pezzi di periferie francesi (avete presente quelle con i palazzi in cartongesso da cui stanno alla larga anche i "flic" della "Gendarmerie"? Ecco, quelle…), ma a costruire dei veri e propri casi letterari. Eh sì, perché i romanzi che lui scriveva con la gente che partecipava – retribuita - ai suoi atelier non solo venivano pubblicati, ma vendevano pure. Roba da far traballare le certezze neoliberiste dei maître à penser della Ville lumière. Per una volta tanto iniziative sociali e culturali rivolte alle periferie, ai disoccupati cronici, agli alcolisti o ai tossicodipendenti, a chi aveva perso tutto, anche gli affetti, agli immigrati, a chi veniva messo ai margini, non solo non si erano dimostrate un buco nell’acqua ed uno sperpero di denaro pubblico, ma avevano anche distribuito reddito e prodotto profitto. Oltre che nuove vite ed identità a chi rischiava di perderle. Incredibile. Eppure vero. Se poteva funzionare in Francia, perché non anche in Italia? Perché non anche a Torino, laboratorio sociale permanente, ricca di risorse umane ma anche di ferite da rimarginare? Di fratture fra "centro" e periferie, fra intellettualità da salotto e cultura da osteria, fra scrittura e oralità da ricomporre? Fu lo stesso Montserrat, in visita nella città della Mole per la "Settimana letteraria" del 1998, a proporlo. Non si sbilanciò a caso. Sapeva di trovare degli interlocutori: un’amministrazione cittadina forte di un neonato "Progetto Speciale Periferie" ed un’associazione culturale, "Parole MOLEste", che cercava altre vie, altre strade per fare e proporre cultura. Da quello stimolo prese forma, nell’arco di meno di un anno, un progetto ambizioso a tal punto da sembrare una boutade. Perché accontentarsi di una realtà, di un gruppo di lavoro, quando, con un po’ di sforzo e fantasia se ne possono avere ben di più, diciamo almeno cinque? E perché non immaginare la costruzione di un romanzo talmente collettivo da diventare quasi un affresco della città, delle sue identità, dei suoi drammi, della sua multiforme umanità? E perché solo un romanzo e non qualcosa in più, magari una sceneggiatura da trasformare in film, magari un cortometraggio da svolgere in documentario, magari delle fotografie da raggruppare in mostra? Ma per un amalgama così ricco occorrevano molti ingredienti. Tutti, ovviamente, di qualità. Occorrevano le persone qualificate, e le strutture idonee. Occorreva costruire, oltre che un’inedita intesa con gli uffici comunali preposti all’iniziativa, un rapporto tutto da inventare con il territorio, le associazioni ed i soggetti che già vi lavoravano, che lo conoscevano, che sapevano leggerne l’intrico delle trame. Ecco allora la necessità di realizzare una rete di lavoro che non fosse solo funzionale ad una conoscenza preliminare, ma alla gestione del laboratorio stesso. E che potesse diventare anche qualcosa di più duraturo, quasi un tentativo di costruire una nuova politica del territorio. Vennero individuati così, grazie alle associazioni dei cinque quartieri coinvolti, luoghi fisici dove svolgere l’atelier ed una lista di potenziali partecipanti. Da selezionare in un secondo tempo, ma in base a quali criteri? Nessuna pregiudiziale, ma i gruppi – di una quindicina di persone ciascuno - avrebbero dovuto essere più eterogenei possibile (per età, classe sociale, provenienza geografica, livello di istruzione), in modo da rappresentare al meglio le zone. E magari avrebbero dovuto annoverare di preferenza persone che per la prima volta si confrontassero con un laboratorio, che per la prima volta, grazie all’iniziativa, avessero la possibilità di esprimersi e confrontarsi creativamente attraverso la scrittura.
Un laboratorio di scrittura che coinvolga donne e uomini spesso "invisibili" per la cultura ufficiale
Quello che si voleva era coinvolgere donne e uomini spesso "invisibili" per la cultura ufficiale, e talvolta anche per le amministrazioni pubbliche, e per questo spesso "espropriati" della loro stessa dignità di cittadini. Ma ricchi di saperi, sensibilità, storie da raccontare, da condividere. Non solo "casi umani", comunque: intanto quelli, a giudicare dai quartieri dove si sarebbe svolto il laboratorio, non sarebbero mancati in ogni caso. Dopo un lungo lavoro di preparazione, la sospirata vigilia. E tutto era pronto. Tutto salvo – particolare non trascurabile – Ricardo Montserrat, assente per non trascurabili motivi di salute. Per fortuna che ad affiancare il francese erano stati comunque previsti Davide Pinardi, autore milanese che la sa lunga sia in fatto di libri (ha pubblicato con Fazi e con Rizzoli) sia in fatto di laboratori di scrittura (ne ha tenuti al carcere di San Vittore), e Chiara Laudani, giovane sceneggiatrice. Anche grazie a loro, di lì a poco, il progetto "Montserrat" si sarebbe realizzato in una forma diversa ed autonoma dal progetto del francese. Pur conservando le motivazioni e lo spirito dell’originale (i partecipanti sarebbero stati comunque trattati – e pagati – come autori a tutti gli effetti) il libro avrebbe preso un’altra strada. Mentre le persone coinvolte nell’atelier avrebbero continuato ad avere il ruolo di "motori" dell’azione narrativa (da loro sarebbero nati gli spunti e i canovacci, fra loro sarebbero stati discussi personaggi e situazioni) allo scrittore "demiurgo" si sarebbero sostituiti cinque autori, uno per ogni quartiere: Enrico Fovanna per San Salvario, Yoss per il quadrilatero di Via Arquata, Marco Bosonetto per Mirafiori sud, Luca Ragagnin e Elena Varvello per Corso Taranto, Patrick Raynald per Porta Palazzo. Ogni scrittore avrebbe portato il proprio stile personale, talvolta complementare al gruppo, talvolta così diverso da apparire quasi stridente: che ne direste di due poeti "calati" dalla ‘torre d’avorio’ alla monotona scenografia di grigi caseggiati in serie; e di uno scrittore di fantascienza cubano catapultato nella "Baraca", un circolo al bordi della ferrovia; e di un scrittore francese di noir che si trova all’improvviso in Porta Palazzo, nel cuore del suk torinese… Il Mix si fa esplosivo soprattutto se si pensa che i "professionisti della scrittura" avrebbero dovuto vivere a contatto con i loro colleghi dilettanti – che così tra l’altro si sarebbero riconosciuti in una nuova identità di gruppo - anche nei momenti ricreativi: pranzi, spuntini, piccole feste (tenuti rigorosamente nei luoghi "simbolo" della zona). Tanto per complicare un po’ il gioco delle parti e mischiare bene le carte In mancanza di un solo scrittore "demiurgo" la struttura del libro di fatto è destinata a cambiare; e allora perché non dissolvere ulteriormente l’identità dell’autore e la sua volontà in nome di una ancor più anarchica "polifonia" narrativa? Da un romanzo si passa ad un insieme di racconti racchiusi da una cornice rielaborata ed arricchita di settimana in settimana grazie al contributo di tutti. Tutti così avrebbero attinto a un medesimo numero di elementi necessari per capire la natura del progetto ma non la sua effettiva portata o direzione definitiva: tutti sarebbero stati parte di un collettivo senza leader, di un coro senza solisti. Bene, tutto questo è successo. Le persone hanno partecipato, narrato, scritto accettando le regole del gioco, e mettendosi in gioco: amando e detestando (spesso anche riconoscendovisi) i personaggi che creavano, i propri come quelli degli altri. Il rapporto con il territorio, con i suoi umori, le sue contraddizioni, le sue ricchezze e risorse, c’è stato così come ha avuto luogo il confronto con la città, e le sue istituzioni. Grazie ad una festa finale "aperta" tenutasi nello storico quartiere di Porta Palazzo tutti i partecipanti hanno potuto incontrarsi e conoscersi e si è potuto finalmente cominciare a vedere questo lungo percorso di storie e di immagini. Il libro sarà pubblicato dalla casa editrice romana Minimum fax a e al salone del libro sarà presentato il progetto, la sceneggiatura di Chiara Laudani, il video curato da Giuseppe Calopresti, la mostra fotografica. E anche, probabilmente, un’associazione nuova di nuovi scrittori, ovvero l’ottantina di persone che hanno partecipato agli atelier. Un passo che darà una legittima continuità all’iniziativa e dignità a chi vi ha partecipato. Questo progetto voleva essere una fuga attraverso la scrittura, dall’ombra, un’affermazione non di personalità o di personale "gloria" ma di identità; una scappatoia dalle tradizionali logiche del mercato, che li (e ci) vorrebbero solo consumatori passivi e omologati. Volevamo conseguire un risultato – per usare una parola demodé – "politico". In futuro noi o altri sapranno e diranno se e quanto ci siamo riusciti. L’impegno a portare le periferie al centro, per democratizzare la cultura c’è stato e in un’epoca di tagli, in cui l’economia dell’istruzione mette a dura prova la logica del profitto, a pensarci bene, è stata proprio una straordinaria scommessa "della minchia". E noi pronti a rilanciare.
Associazione Culturale Parole MOLEste
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