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Storia di Emiliana una "detenuta" di tre anni
Quando la scarcerazione è un dramma. Eppure lei non voleva proprio andarsene dalla galera
Emiliana ha appena compiuto tre anni, e quello è stato un gran brutto giorno. Il giorno che ha ricevuto l’annuncio di dover "essere dimessa" dal carcere. Dunque c’è qualcuno che può non voler uscire dal carcere, ed essere costretto a farlo: una bambina di tre anni, per esempio, perché per lei il carcere è vivere con Maria, sua madre, e uscire significa essere staccata da lei inesorabilmente. E infatti è appena arrivata una carta del Tribunale, che ha decretato quello che Maria temeva più di tutto: l’affidamento della figlia a un istituto o a una famiglia italiana. La storia di Maria, albanese, va un po’ di pari passo con quella di Giuliana, italiana: erano detenute insieme nel carcere della Giudecca pochi mesi fa, solo che Giuliana i figli li aveva fuori, affidati alla sorella, e Maria l’unica figlia se l’era portata dentro. Ma c’è un’altra differenza tra queste due donne, ed è quella che forse peserà di più: Maria è albanese, e tutto allora per lei è e sarà più difficile. Ora Giuliana è fuori, il suo è uno dei pochi casi di applicazione della legge sulle detenute madri, che le ha permesso di vivere a casa, in detenzione domiciliare, per accudire i figli. Per Maria invece è arrivato quello che più temeva: il compleanno più brutto, tre anni, la fine di quello strano periodo in cui un bambino può essere carcerato. Un mese fa avevamo parlato con lei, e ci aveva detto: "Quando mi portano via la bambina, divento matta". Era terrorizzata da tutto: le volontarie, che venivano a prendere Emiliana per portarla un po’ fuori, le vedeva con sospetto, diceva che la portavano a conoscere famiglie italiane a cui affidarla. Non aveva fiducia neppure nei suoi parenti che stanno in Italia, temeva che non fossero in grado di aiutarla. Il fratello che vive in Australia, invece, le sembrava l’unica soluzione: meglio che la piccola se ne andasse così lontano, ma con un parente, piuttosto che finisse in una famiglia italiana. Le straniere temono l’affidamento dei figli come la peste: forse non fanno nemmeno tante differenze fra affidamento e adozione, pensano che l’affidamento sia un fatto inesorabile, che poi i figli nessuno glieli restituirà più. E se hanno i bambini con loro in carcere, aspettano come il peggiore degli incubi il giorno che compiono tre anni. Succede che gli ultimi mesi il rapporto tra madre e figlio diventi addirittura morboso: e come non capirlo, con questa separazione incombente, inevitabile e che si consuma ogni giorno un po’? Ma come è stata, la carcerazione di Emiliana? Una vita sempre e solo con donne: agenti, detenute, suore, l’assenza pressoché completa di figure maschili. Alla sera, quando le agenti chiudevano la porta blindata della cella, c’erano le urla perché a Emiliana non piaceva essere rinchiusa. Se succedeva poi che la madre alzava troppo il volume della televisione, la bambina le diceva: "Abbassa, che se no viene l’agente e ti sgrida". E poi le piaceva imitare i gesti di tutti quegli adulti che aveva intorno: anche lei aveva imparato a fischiare e gridare "Terapia!!!" quando lo faceva la suora, che ogni giorno passa e distribuisce le gocce tranquillanti alle donne che non ne sanno fare a meno perché stanno troppo male. Poi, è successo quello che doveva succedere: è arrivata una carta, qualcuno ha dovuto staccare la bambina dalla madre e decretare la fine della sua carcerazione. Ma per la madre la "scarcerazione" della figlia ha finito per essere la condanna a una pena aggiuntiva, una separazione con davanti solo l’ignoto.
Ma che ne è stato di Emiliana, "detenuta" dimessa dal carcere quando ha compiuto tre anni?
Emiliana qualche giorno fa è stata portata in un Istituto vicino al carcere, in attesa di una difficile decisione su quello che sarà il suo destino, ed ora in carcere entra come tante altre persone, che ogni giovedì e sabato vengono a fare i colloqui con i propri familiari, con la differenza che la Direzione del carcere le ha concesso qualche ora in più per stare a colloquio con la madre. Maria non ha molti soldi in questo momento, e tutte noi che siamo in cella con lei cerchiamo di aiutarla, comprando succhi di frutta, dolci, brioches perché questi lunghi incontri diventino più piacevoli. Ma non è facile un colloquio in carcere per una bambina di tre anni, perché a quell’età dover stare due ore e più nello stesso posto senza potersi muovere liberamente è sempre un tormento. La bambina è seguita dai volontari, dalle suore e dalle agenti che ogni giorno si recano all’istituto per salutarla e vedere come sta. Dalle notizie che noi abbiamo lei non ha affatto difficoltà di inserimento con gli altri bambini. Non si è ancora resa conto, però, che questo carcere non è più la sua "casa". Quando arriva non ha paura del posto, anzi, chiede alle agenti di farla salire nella sua cameretta (che sarebbe la cella che divideva con la madre), chiede di salutare altre detenute con cui aveva instaurato un rapporto affettivo, trova ogni scusa per farsi "arrestare" di nuovo e continua a domandare alla madre: "Perché non mi vuoi più qui con te?". Finito il colloquio, al momento del distacco, piange perché sa, è ben consapevole, nonostante l’età, che non tornerà più a mangiare, dormire e vivere qui con sua madre, e non avrà per lungo tempo carezze, baci e sgridate da lei. Noi pensiamo che, qualsiasi opinione si possa avere della madre, la realtà è una: la bambina è bene educata, è sensibile, è tranquilla, e gli anni passati in carcere non sembra che le abbiano lasciato ferite troppo profonde.. E allora è giusto dire che tutto questo è dovuto davvero alla madre, che ha dimostrato grande capacità e amore nell’educare la figlia. Sono tante le domande che noi ci facciamo quando vediamo Maria ed Emiliana, o le altre detenute che stanno al nido del carcere con i loro bambini: è davvero inevitabile strappare la figlia ad una donna, anche se ha sbagliato? E’ possibile accettare finalmente l’idea che una donna che ha sbagliato può essere però nello stesso tempo una madre che ha dato amore e ha saputo crescere bene la propria figlia? E’ giusto spezzare il legame tra una figlia ed una madre, che grazie a questo legame sta trovando l’aiuto e la forza per cambiare la sua vita? Se questa donna perderà la bambina, quale stimolo potrà avere per migliorare se stessa e per continuare a vivere?
Le donne detenute alla Giudecca
Quanto conta per noi donne il lavoro in carcere
Noi donne, abituate a lavorare sempre, fuori e poi in casa e poi con i figli, ventiquattrore in "servizio permanente" tranne quando dormiamo (e anche allora, se i figli sono piccoli), qui dentro senza un impegno e un interesse forte rischiamo di impazzire o di adagiarci nell’ozio con tutte le conseguenze che ne possono derivare: sonnolenza, terapia, chiacchiere, depressioni o eccitazioni, proprio dovute alla rottura con i nostri affetti e le nostre abitudini. Senza un lavoro allora rimarremmo, probabilmente, a commiserarci e compiangerci. Il lavoro in carcere è indispensabile per trovare slancio, per superare, o almeno dimenticare un po’, la sofferenza, e ti aiuta a scavare nel tuo cuore e a scoprire che quello che ti procura dolore può insegnarti ad apprezzare di più la gioia, e a darti una maggiore forza d’animo. Ed è un po’, per usare un’immagine una volta tanto "romantica", come per l’ostrica: nonostante il dolore che le procura un granello di sabbia o una pietruzza che le entra dentro e la ferisce, lei probabilmente non piange, non si dispera. Giorno dopo giorno trasforma il suo dolore in una perla.
Gena (dall’Albania): Da quando sono arrivata alla Giudecca ho fatto più o meno tutti i tipi di lavoro qui dentro. Sicuramente io non avevo mai pensato, per esempio, di riuscire a fare l’imbianchina. Quando ho saputo che ero stata messa a fare questo tipo di lavoro, sinceramente ero un po’ spaventata, invece poi ho avuto un grandissimo aiuto morale e delle grandi soddisfazioni. Descrivo brevemente la mia esperienza: il primo giorno di lavoro praticamente ho preso paura, quando il capo operaio mi ha spiegato i miei compiti che consistevano nello stuccare, grattare e pitturare il muro.Ero convinta di non riuscirci perché prima di allora non avevo neanche mai preso un pennello in mano. Poi cercando di imparare e di seguire i consigli, ho iniziato ad avere una forte carica e quando vedevo il muro risanato e bianco da sola mi stupivo di riuscire con dei discreti risultati. Alla sera, anche se stanca ero soddisfatta, trovavo la voglia di leggere, di scrivere ed anche di scherzare, e le riflessioni che facevo prima di dormire mi davano forse più sofferenza, ma la superavo con più serenità grazie alle soddisfazioni che mi dava vedere il mio lavoro ultimato.
Sandra (italiana): Ho iniziato dopo circa un mese dal mio arrivo a lavorare al laboratorio delle perle e ho cominciato a fare dei fili di perle anche piccole, infilandole con l’ago una ad una e trovando la pazienza di farlo, cosa che pensavo di non possedere, e un po’ di tranquillità, perché al mattino quando mi svegliavo sapevo di avere qualcosa da fare. Ho fatto anche la scopina, e nelle ore libere continuavo ad andare al laboratorio e in un momento in cui non c’era lavoro con le perle, ho pensato di fare qualcosa usando la mia creatività. Avevo un pezzo di stoffa che ho tagliato per fare una borsa, il modello cambiava man mano che la cucivo (tutta a mano artigianalmente). Una volta finita ho ricevuto tanti complimenti dalle mie compagne, anche quelle che lavorano in sartoria, e dalla volontaria, che nemmeno Donatella Versace penso sia mai stata così tanto gratificata. Sono passati dei mesi, ora posso dire serenamente che la borsa era proprio brutta, ma la soddisfazione avuta in quel momento mi ha aiutato moralmente in maniera incredibile. Da poco ho iniziato a lavorare all’orto, ed è una esperienza lavorativa diversa da tutte le altre. Ho imparato a vangare, zappare, mettere il concime, fare la raccolta dei prodotti e devo dire che lavorare a contatto con la natura e vedere i risultati dei tuoi sforzi e della tua pazienza ti danno la forza di continuare a riflettere, di continuare a vivere questo momento di sofferenza ed apprezzare i prodigi quotidiani della vita.
Svetlana (dalla Serbia): Da quando sono arrivata in carcere sono stata messa ai vari lavori interni, scopina, MOF (addetta alla manutenzione ordinaria), aiuto cuoca, cuoca, etc.. Il lavoro che mi ha dato più soddisfazioni, e forse anche più problemi, è stato fare la cuoca. I primi giorni sono stati traumatici, perché oltre ad essere alla mia prima esperienza (personalmente cucinavo i piatti del mio paese solo per la mia famiglia), avevo la responsabilità di dover fare da mangiare per le circa 100 mie compagne. Il pensiero di sbagliare, oppure l’ansia che mi veniva dopo aver ricevuto qualche lamentela, mi hanno fatto passare delle notti in bianco. Ma tutto questo mi ha insegnato molte cose: mi ha insegnato soprattutto a chiedere ed ascoltare i consigli, perché la sicurezza di se stessi si ha con l’umiltà, e a imparare a superare i problemi personali e morali, cercando di sentirsi utili agli altri. In questo modo sono riuscita a convivere con il mio dolore impegnandomi con responsabilità nel lavoro, che serve anche a scavare nel proprio "io" in maniera costruttiva.
Omaira (dalla Colombia): io al mio paese ho cominciato a lavorare che avevo appena sedici anni, siamo in cinque sorelle e la nostra famiglia è di condizioni molto modeste. Adesso almeno, quando qui in carcere lavoro all’orto, raccolgo tutto quello che posso, non mi compro niente e metto da parte cinquanta - centomilalire alla volta. A settembre poi ero arrivata ad avere un milione, che ho spedito a casa, così il mio bambino, che sta con i miei genitori, può studiare senza essere di peso a loro. Ma c’è un’altra cosa non poco importante: è che lavorando noi riusciamo ad essere autosufficienti per le nostre necessità, e a non imporre alle nostre famiglie degli ulteriori sacrifici.
Gena, Sandra, Svetlana, Omaira
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