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Da
Ristretti Orizzonti a un lavoro esterno
Ma allora forse serve a qualcosa per un detenuto lavorare a zero lire (e ora a zero Euro) nelle redazioni dei giornali del carcere
Questa è la storia "semiseria" del lungo percorso di un detenuto per approdare, dalla redazione di Ristretti Orizzonti, a un lavoro esterno, qualificato e anche gratificante. Il che non è poco, con i tempi che corrono, e dà speranze a tutti quei detenuti che passano ore e ore del loro tempo a non guadagnare nulla facendo un vero lavoro nelle redazioni dei giornali delle carceri: la speranza di mettere a frutto poi, all’esterno, tutte quelle conoscenze pazientemente acquisite, spesso rinunciando a lavori retribuiti per continuare a far sopravvivere questi fragilissimi giornali.
Quand’è che ti accorgi che la situazione che stai vivendo ti è venuta a noia, non la reggi più? Quand’è che capisci che hai bisogno di nuovi stimoli per andare avanti e che è arrivato il momento di dare una svolta decisiva alla tua vita? Forse quando le piccole cose che ti danno gioia, quegli spazi di consuetudine che scandiscono il vivere quotidiano e lo rendono riconoscibile come tuo, diventano tappe obbligatorie di una situazione che inizi a percepire come estranea. Giusto un anno fa, proprio questo mi è successo. Un bel giorno mi accorgo di non apprezzare più, come solitamente avveniva, quel momento, tanto atteso e considerato tra i più sentimentali che prende il nome di battitura delle sbarre. La xilofonica armonia che tanto amavo, s’era trasformata in un rumore e, per giunta sgradevole. E poi, stupefacentemente, il serale sbattimento di cancelli e blindi, con rumorosa chiusura a più mandate delle serrature, non mi comunicavano più quel senso di protezione dagli innumerevoli pericoli esterni che prima, rasserenandomi, mi predisponeva ad un profondo sonno. Accoglievo questa dimostrazione di premura con mal celato fastidio. Ed altro. Cos’è casa ? Penso che la sua definizione non sia tanto riferibile ad un determinato luogo fisico, quanto ad un, sempre determinato, stato mentale. Sei a casa quando senti d’esserci, indipendentemente dal luogo fisico che in quel momento stai occupando e, nel mio caso, in carcere non mi ci sentivo più, per cui era arrivato il momento d’andarmene. Già da tempo avevo maturato le condizioni di legge per accedere ai cosiddetti benefici, quelli che ti permettono di espiare parte della tua condanna all’esterno, come ad esempio la semi-libertà o l’articolo 21 (di giorno fuori al lavoro, di notte in carcere), ma, per l’appunto, per accedervi dovevo trovare una ditta disposta ad assumermi e questo, nel caso di un carcerato, solitamente costituisce un grosso problema. A costo di apparire un ingrato nei confronti dell’Istituzione, ma consapevole del fatto che anche rimanendo, controvoglia, non sarei più riuscito a darle il meglio di me come avevo fatto in tutti questi anni, decisi di rivolgermi all’educatrice al fine d’ottenere una dritta (informazione giusta), riguardo alle ditte o cooperative che non disdegnano di impiegare tra le proprie maestranze persone nella mia condizione. "Ho ciò che fa per te!", mi disse. "C’è una cooperativa di servizi che principalmente si occupa di pulizie. Ti fisserò un appuntamento con la responsabile in occasione della tua prossima uscita in permesso premio". Il vedere così chiaramente riconosciute le mie capacità professionali non fece che rafforzare in me l’idea che era proprio arrivato il momento di cambiare aria. Lavoro esterno! Il mio sogno trovava finalmente concretezza. Ma intanto passò un altro mese, e poi un pomeriggio mi convocarono a colloquio per dirmi: "F. per quanto riguarda la sua ammissione al lavoro esterno, dobbiamo comunicarle che lei andrà a lavorare presso il Comune di Padova, con compiti di segretariato!". Aggiunsero anche che, dal momento che si trattava di una richiesta urgente fatta da un’Istituzione del Comune, non sarebbe trascorso tanto tempo per la concessione del beneficio della "ammissione al lavoro esterno". Infatti, dopo un mese ero ancora lì, e dopo due, anche, al che, ricordo, pensai: "In principio la cooperativa, ora il Comune... tutti mi vogliono ma nessuno mi prende!". .Per farla breve, riuscii a mettere piede fuori dal carcere dopo sette mesi e mezzo da quando "avevo deciso di andarmene", ed io, nella media, sono stato uno dei più fortunati. Anzi, sono stato doppiamente fortunato: per l’interessamento dimostratomi dagli operatori carcerari e dalla stessa Direzione del carcere, e per la qualità del lavoro nel quale sono oggi occupato.
Da una redazione in carcere a un Laboratorio di Quartiere
Istituzione Progetto Impresa, un’istituzione del Comune di Padova, nell’ambito del progetto Polaris nato per il reinserimento lavorativo delle fasce più deboli della popolazione, ha firmato una convenzione con la Direzione della Casa di Reclusione di Padova, per la quale mi ha assunto in qualità di impiegato, con un contratto di collaborazione coordinata e continuativa, Di cosa si tratta, in effetti? Il Comune di Padova, con altri partner istituzionali, sta portando avanti un progetto di ristrutturazione e riqualificazione urbana, ambientale e sociale che interessa un intero quartiere, il Savonarola. La particolarità di questo progetto sta proprio nel fatto che i residenti sono stati chiamati a partecipare, ad esprimere il loro parere sulle opportunità, modalità e priorità dei processi che il progetto contempla. Partecipazione, quindi, è il termine che sostanzia l’intero progetto e, giusto nel promuovere il processo partecipativo, trova il suo senso la mia collaborazione. In qualità di Responsabile del Laboratorio di Quartiere, un organismo dotato di crescente autonomia, voluto ed inserito nell’ambito del progetto che per l’appunto si chiama Contratto di Quartiere Savonarola, mi occupo delle attività culturali ed informative promosse dai referenti informali (Gruppi ed Associazioni) e formali (Istituzioni) coinvolti nel Contratto di Quartiere, in collaborazione con il personale del Settore Edilizia Residenziale del Comune di Padova, del quale è Capo l’architetto Sergio Lironi, responsabile del Progetto. L’informazione, anche in questo caso, si è dimostrata l’elemento imprescindibile per la realizzazione del coinvolgimento e della collaborazione tra le parti. A questo proposito abbiamo realizzato un notiziario, MilleVoci, distribuito ad ogni famiglia del quartiere e che si caratterizza per la qualità dell’informazione, nella quale ogni notizia rappresenta parte della vita locale del quartiere ed è condivisione di sapere ed esperienze, cioè cultura. Di seguito, nell’ambito del progetto di Piazza Telematica, abbiamo attivato un sito web, www.elquartieresavonarola.it, che oltre a fare informazione, si propone di promuovere l’alfabetizzazione informatica e favorire l’occupazione tramite il telelavoro.
Queste, in breve, le mansioni principali che sono stato chiamato a svolgere, ma molte altre mi competono e a tutte cerco di provvedere con passione, in quanto è la passione che riesce a coinvolgermi e muovermi, ma non è sempre stato così, ovviamente, e infatti non posso dire che la situazione detentiva nella quale mi sono cacciato sia il risultato di una precedente appassionata attività di tipo delinquenziale. La passione paga, e paga anche nel tempo, l’ho capito ora che figuro come Responsabile del Laboratorio di Quartiere, come Coordinatore di redazione, come impaginatore, come grafico del periodico sopracitato e come organizzatore del sito web. Paga nel tempo perché questa mia non è passione recente, ma è nata circa quattro anni fa, in coincidenza con la nascita di Ristretti-Orizzonti, una di quelle attività svolte in carcere che non è stata creata per fare passare, in qualche modo, il tempo ai detenuti, perché se ne stessero buoni, ma è un vero e proprio percorso "etico", di responsabilizzazione verso se stessi e verso gli altri, di promozione della cultura del lavoro, di concretizzazione della possibilità per i detenuti di costruirsi una professionalità, e una professione realmente spendibile sul mercato del lavoro.
Tiziano Fabbian
Chiesa e strada
Abbiamo intervistato Don Luigi Ciotti, un uomo di chiesa che conosce bene la strada e il disagio
L’abbiamo conosciuto nel carcere di Padova, don Luigi Ciotti, ideatore e "anima" del Gruppo Abele, un uomo di chiesa che però dalla chiesa esce spesso, che conosce bene la strada e il disagio, un uomo che da anni è costretto a viaggiare sotto scorta per le posizioni che ha assunto nei confronti della mafia, del racket dell’usura e delle estorsioni. L’occasione per intervistarlo ci è stata data dal convegno sul tema "Volontariato e informazione" che si è tenuto di recente nella Casa di Reclusione Due Palazzi.
Nicola Sansonna (Ristretti Orizzonti): Questa giornata per noi riveste un significato particolare, perché è il momento più alto per avere a che fare, per interloquire con i volontari, che sono poi l’anima di molte iniziative che avvengono nelle carceri. Ci puoi dare un tuo parere su questa iniziativa?
E’ una giornata certamente positiva. Mi ha fatto piacere incontrare degli amici, che purtroppo vivono all’interno di questa struttura perché devono rispondere alla giustizia per alcuni reati. Mi ha fatto piacere incontrare molti operatori, volontari, che da ogni parte d’Italia si sono dati appuntamento dentro questa realtà per riflettere insieme. Per parlare di un aspetto che spesso viene trascurato: l’informazione dentro le strutture carcerarie, ma l’informazione anche verso l’esterno. Il problema degli inclusi ma anche degli esclusi. Ho trovato positivo soprattutto il bisogno di una riflessione alta, che però deve riuscire a calarsi nella concretezza, per non essere ancora una volta un fiume di parole che ci facciamo tra di noi e che restano, appunto, parole. La mia inquietudine è che chi ha dei ruoli, delle responsabilità, chi ha della competenza, chi è chiamato a fare delle scelte non sappia ascoltare il grido che da qui si è alzato. Spero invece che ci sia ascolto di quel grido e dell’informazione che mette in grado le persone di poter tutelare i propri diritti. Ma anche ci sia capacità di dare una mano ai cittadini all’esterno, di aiutarli a evitare le semplificazioni, le etichette, i pregiudizi. In sostanza fare in modo che carcere e territorio, il dentro ed il fuori, con il ruolo importante dell’informazione, possano incontrarsi di più. Nicola Sansonna: Io penso che il volontariato debba aiutare il detenuto ad uscire dalla passività e diventare finalmente soggetto attivo, che prende in mano il suo destino. Voglio chiederti questo: Secondo te, il volontariato classico fa questo oppure è rimasto un po’ legato allo stereotipo di fare qualcosa per il detenuto, non fare qualcosa con il detenuto? C’e un po’ di tutto. Anche qui mi sembra importante non dimenticare il positivo che c’è, che c’è stato, e che continuerà ad esserci. Ma anche giustamente prendere coscienza dei limiti. Certo ci sono delle forme di presenza che si sono fermate alla solidarietà, alle pacche sulla spalla, a portare aiuti concreti anche, ma con il rischio poi di essere un po’ assistenziali. C’è un volontariato invece che sente il bisogno di non dimenticare che la solidarietà deve essere sempre il prolungamento della giustizia, e soprattutto che in questi percorsi di giustizia bisogna creare le condizioni di ascolto, di partecipazione, di un progettare insieme, cioè un accompagnare e non portare. La tendenza molte volte è portare alla propria idea, al proprio obiettivo, al proprio progetto. No! La vera strada è quella dell’accompagnare. Allora quattro chiavi mi sembra importante fare nostre e tutti siamo chiamati a farlo, operatori, polizia penitenziaria, educatori, volontari, vale anche per chi è detenuto. La prima chiave è incontrare le persone e affrontare i problemi, non viceversa. Molti oggi affrontano le persone. No! le persone si incontrano, i problemi si affrontano. La seconda chiave è che siamo chiamati ad accompagnare, non a portare le persone. E accompagnare le persone costa molto di più perché per il volontariato vuol dire esserci, con grande umiltà, ma essere attento all’altro, rendere protagonista l’altro, progettare e costruire insieme. La terza chiave che mi sembra molto importante è che non basta fare qualche servizio in più, qualche spazio in più, qualche attività in più. Bisogna portarci dentro un’anima. Una capacità di relazioni di ascolto. Non dimenticarci che davanti a noi abbiamo sempre qualcuno che vuole essere ascoltato, e che non bastano quindi risposte tecniche, pur necessarie, pur importanti. La chiave ultima da non dimenticare è che tutte le scelte, da quelle della politica, a quelle di chi amministra qui dentro, e di chi deve gestire, ma anche del mondo del volontariato, è che al centro di tutta la nostra riflessione ci sta sempre la persona. Quando parliamo di persona non dobbiamo partire tanto dai suoi problemi, ma soprattutto dai suoi bisogni, e non dimentichiamoci che bisogni della persona vuol dire diritti. E diritti vuol dire servizi. Spazio, luoghi, riferimenti, opportunità. Tutto per dare una mano alla persona a crescere, a prendere coscienza, se ha sbagliato, delle proprie responsabilità. A costruire le condizioni, a preparare qui dentro il fuori. Ecco il rapporto tra carcere e territorio e il ruolo ponte che il volontariato può fare e deve fare.
Paola Soligon (Ristretti Orizzonti): E’ da qualche anno ormai che come volontaria faccio un’attività in carcere, mentre fuori ho collaborato con associazioni che si occupano di immigrati. Facendo in qualche modo un confronto, mi sembra di notare che spesso il volontariato in carcere non ha una competenza specifica, una struttura solida alle spalle che sia presente dentro in modo continuo e organizzato e che segua anche fuori i problemi, assumendo posizioni chiare e informando.
Io credo che ci sia bisogno di valorizzare tutti. Ci può essere chi interviene per un suo bisogno individuale, c’e chi agisce ed è presente in un impegno collettivo. Bisogna creare l’attenzione e lo spazio, perché ognuno possa mettere in gioco la propria competenza, la propria passione la propria attenzione agli altri. Però quello che diventa fondamentale è il bisogno di una formazione permanente per tutti, per reggere il cambiamento, la trasformazione. E c’è bisogno di un coordinamento, senza il quale si diventa dei navigatori solitari. Ma essere navigatori solitari in un contesto come questo non aiuta né la persona che con generosità si mette in gioco, né le persone che sono qui detenute. Si rischia di creare ambiguità, confusione, sovrapposizione, mentre è necessario lavorare insieme, progettare insieme, nel rispetto delle capacità, dei ruoli, delle competenze che uno può mettere in gioco. Soprattutto la chiave di volta è la relazione, la comunicazione che permette di progettare, di costruire quel faccia a faccia, quel gomito a gomito nei nostri rapporti, che è l’anima delle nostre relazioni dentro come fuori. La nostra presenza deve essere sempre una presenza in punta di piedi, una presenza che è lì per dare una mano a creare un protagonismo delle persone. Non il nostro protagonismo, le nostre idee, il nostro progetto. Quello che prima io ho chiamato "accompagnare, non portare." Noi siamo qui per accompagnare, perché non dobbiamo mai dimenticare che nella storia delle persone ci sono delle risorse, delle capacità, delle potenzialità, delle fantasie. Per me è stato sufficiente oggi girare qui, dentro un carcere, tra quei tavoli, vedere quei giornali e altri materiali prodotti qui dentro, quel telegiornale, mangiare quella cucina così varia, per capire che c’è della competenza, della professionalità, e che la società all’esterno dovrebbe prendere coscienza che le conviene investire sulla competenza delle persone. Il detenuto oggi costa intorno alle 400.000 lire al giorno. Conviene anche economicamente creare dei progetti di accompagnamento all’esterno, di lavoro, di dignità, di speranza, che costerebbero di meno e provocherebbero più sicurezza e meno gente che si sbatte sulla strada. Paradossalmente ci sarebbe più dignità nelle persone e una città più vivibile per tutti.
Nicola Sansonna: Pensa che sono 23 anni che pagano 12.000.000 al mese per me!
Se tu prendi una parte di quella quota, io non dico per tutti i reati, tutte le situazioni, ma per una grande parte di reati, ecco, e la investi in un progetto che dà accoglienza, un lavoro, che valorizza la persona, puoi avere un ritorno di positività eccezionale. Questa mancanza di lungimiranza, questo non scommettere sulla persona, anche da un punto di vista economico ci penalizza.
Nicola Sansonna: Un’ultima domanda: cosa sta facendo attualmente il Gruppo Abele, voi che siete da molti anni portatori di novità importanti nel modo di intervenire nel campo del disagio?
Il gruppo Abele ha una cinquantina di attività che porta avanti con tanti debiti, tanti, tanti. Con tanta fatica evidentemente. L’anima del gruppo resta comunque l’accoglienza alle persone, che è fatta anche di limiti, perché poi c’è un tetto a tutte le cose: i tuoi spazi, le tue forze, le tue energie sono quelle. Prendere coscienza dei propri limiti, anche questa è una ricchezza. Quindi per noi c’è prima di tutto l’accoglienza, il lavoro di strada, aprire percorsi nuovi rispetto alle ragazze che arrivano dal marciapiede, le ragazze che hanno fallito il loro rapporto con i servizi o che escono dalle carceri, i bambini malati di AIDS. Abbiamo sempre creduto però che non basta accogliere, bisogna avere un continuo travaso tra l’accoglienza ed una dimensione culturale, che per noi è rappresentata dalla rivista "Animazione sociale", dal mensile "Narcomafie", dalla casa editrice creata per far conoscere questi problemi, per riflettere, per stimolare, per provocare. E’ da anni, per esempio, che abbiamo pubblicato, per primi in Italia, un libro sulla Tobin Tax, o i libri per insegnanti e per ragazzi sull’educazione alla legalità, alla giustizia, alla solidarietà, sulla globalizzazione. Ora stiamo anche per aprire una comunità organizzata, che sarà portata avanti da ragazzi molto, molto, giovani, che già lavorano per la scuola. Apriamo nel cuore di Torino un luogo per dare un’opportunità nuova, a chi voglia disintossicarsi dal consumismo. Abbiamo molti ragazzini che sono fortemente dipendenti dal calcio, dipendenti da questo orizzonte culturale che ci sta soffocando tutti, che ci propone come obiettivo l’immagine, la prestazione, il potere, la ricchezza, l’adeguatezza, e dobbiamo creare le condizioni e offrire le opportunità a chi lo desidera di disintossicarsi. Allora noi diciamo che di fronte a questo orizzonte culturale dobbiamo avere il coraggio di essere inadeguati, e quindi dobbiamo offrire spazio a dei ragazzi che oggi hanno 15, 16, 17 anni e devono sapere che c’è possibilità di vivere una vita più "essenziale". Questa è una società che ci travolge, questa è una società che non vende solo prodotti, prodotti mirati per i giovani, ma sta vendendo stili di vita che sono quelli della ricchezza, dell’apparire, dell’immagine.
Paola Soligon: Quindi il gruppo è in fermento, è sempre più un laboratorio di iniziative?
Indubbiamente. A fianco di questo, io poi coordino "Libera", che sono oltre 800 gruppi in Italia che sono impegnati contro la criminalità organizzata, le grandi mafie. Per me è una cosa molto impegnativa, lì c’è dall’azione cattolica italiana che aderisce all’Agesci, all’Arci, a Legambiente, alla Chiesa Vallese, al W.W.F. Una società civile che si è organizzata, 800 gruppi dal sud al nord, e la prima cosa che siamo riusciti a ottenere è la confisca dei beni mafiosi, e l’utilizzo sociale di questi beni. In questi giorni, stanno partendo sei cooperative di lavoro nella terra di Corleone, di San Giuseppe Jato. Sei cooperative di lavoro che danno occupazione, futuro a dei giovani, su terre confiscate a personaggi mafiosi, che hanno usato i picciotti, che hanno usato tanti poveri cristi, affiliandoli dentro, rendendo potenti i forti del giro del crimine, e lasciando ancora una volta allo sbaraglio i più deboli. Noi stiamo portando avanti questa confisca dei beni. E’ una legge dello stato, una legge per cui abbiamo raccolto un milione di firme, ma che deve diventare opportunità di lavoro, di occupazione, di dignità alle persone.
L’intervista è a cura di Nicola Sansonna e Paola Soligon
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