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"Persone
dentro e volontari fuori"
Duccio Demetrio (Docente di Educazione degli adulti all’Università di Milano)
Grazie per questo invito, per me è un vero piacere essere qui questa mattina, a parlare anche di quanto direttamente io faccio, non solo come studioso dei processi narrativi in età adulta, nel corso della vita, nelle situazioni difficili, estreme come questa, ma perché coordino da due anni un piccolo gruppo di volontariato autobiografico e narrativo che si chiama Mnemon. Fa riferimento alla Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, che ho fondato due anni fa con il giornalista Saverio Tutino. I volontari di Mnemon si muovono nella prospettiva di raccogliere le storie dei senza storia. Mnemon, nell’antichità, era lo scrivano, lo scriba che raccoglieva le storie dei potenti. Oggi, noi vogliamo che questa figura, nello stesso tempo leggendaria, sia messa invece al servizio, non solo delle situazioni di estremo disagio, come questa nella quale voi lavorate, ma anche accanto al letto di chi soffre, di chi sta morendo, quindi mi trovo sicuramente vicino anche a quanto voi fate nel volontariato carcerario. Volevo ricordare che esiste una lunga tradizione di narrazione, di scrittura, nelle situazioni concentrazionarie. Esiste un lungo percorso, che ha visto anche autorevoli personaggi della storia trovarsi drammaticamente a scrivere di sé e, per molto tempo, questo rapporto tra la reclusione e la scrittura è stato considerato una sorta talvolta di eccentricità letteraria. Si è fatto in modo di enfatizzare soprattutto dei casi famosi, casi di detenuti politici, casi di poeti e scrittori che hanno vissuto una vicenda letteraria all’interno di questo mondo. Ma come sappiamo, per fortuna, ormai da molto tempo la scrittura anche nelle carceri ha assunto un tono e percorsi che coinvolgono i detenuti che partecipano alle attività formative all’interno delle carceri. Non c’è attività formativa, educativa o corso per detenuti stranieri o italiani, che non metta al centro il motivo della narrazione di sé, affinché questa narrazione di sé, questo racconto orale, possa diventare scrittura. Qual è la tipologia delle scritture carcerarie? Non voglio richiamarmi a un bisogno di classificazione, ma oggi l’ampia letteratura carceraria potremmo definirla una letteratura opaca, una letteratura sconosciuta, che si trova in quasi tutte le realtà carcerarie. E’ una letteratura che andrebbe guardata, letta, ascoltata con maggiore attenzione, perché è una letteratura, forse non di genere elevato (anche se ci sono documentazioni importanti, interessanti), ma sicuramente una letteratura personale che promuove come poche altre esperienze la ricerca di sé. È una autonomia, è una libertà, almeno interiore, che non si registra attraverso altre esperienze. Nel carcere si scrive, in primo luogo (come volontarie, come insegnanti), per capire di più la propria situazione, perché si è fatta una scelta anche di volontariato. Un bellissimo testo, che mi è stato inviato dal carcere di Secondigliano, "Verso se stessi", di Rosa Maraucci, testimonia questo percorso di una volontaria e ci consente di vedere, di osservare, di narrare quanto avviene nell’esperienza carceraria. Quindi, se da un lato l’esperienza dell’autobiografia vede, in primo luogo, coinvolti coloro i quali si muovono per suscitare la narrazione, è vero anche che la scrittura di sé si va sempre più diffondendo nel mondo della detenzione, come una occasione di scoperta della propria storia. Quindi potremmo oggi dire che esiste un genere autobiografico carcerario, è un genere particolare, un genere dove la sofferenza raccontata in prosa si confonde con la sofferenza spesso raccontata in poesia. Nella condizione carceraria noi ci imbattiamo in una situazione profondamente anomala, profondamente distante da ciò che da sempre esprime il piacere di sé, il piacere di comunicare, di vivere la propria rappresentazione, il proprio racconto, secondo libertà e in condizioni di libertà. La scrittura serve anche per esprimere gioia e speranza. Nei luoghi concentrazionari la scrittura diventa ben altro: la scrittura, in questi luoghi dove la libertà non c’è, dove il corpo è recluso, dove il corpo è costretto all’interno degli spazi che conosciamo, la scrittura diventa strumento di una creatività, certo illusoria, di una creatività all’insegna comunque del valore profondo, psicologico, della scrittura, che è la ricerca di uno spazio di propria libertà. La scrittura di sé aiuta a sopravvivere, aiuta a controllare e a sopportare le condizioni limite, ad elaborare l’angoscia, ad elaborare i sensi di colpa, a scoprire potenzialità mentali. Le scritture di sé, non solo per chi vive l’esperienza di cui stiamo parlando, ma per ciascuno di noi, hanno una funzione autolenitiva. Le scritture autobiografiche, le scritture diaristiche, ci aiutano a lenire il dolore e la sofferenza se non riusciamo a liberarci di tutto questo: le scritture si muovono, quindi, all’insegna di quella che potremmo considerare una sorta di resistenza umana all’essere umano. Ma la scrittura, all’insegna di questa resistenza esistenziale, funge anche da autodifesa, da salvaguardia, da conquista, da scoperta della dimensione interiore. Ecco, io credo che nelle situazioni carcerarie la scrittura sia un veicolo di scoperta di nuovi mondi, di nuove forme del pensiero, di nuove occasioni di espressione, di comunicazioni che non si danno in altre opportunità. Non dimentichiamo mai che l’oralità di cui ci serviamo, l’oralità che intesse la nostra vita e che intesse anche le situazioni di cui stiamo parlando, è pur sempre un’esperienza comunicativa fondamentale, ma ripetitiva. L’oralità, talvolta, non consente quegli sviluppi personali, quei processi cognitivi che si incontrano con l’esigenza di ciascuno di noi di esplorare e di scoprire una dimensione individuale. La scrittura, come dice anche molto bene la psicoanalisi che se ne è occupata, è uno strumento potente di individuazione di sé, è uno strumento che ti consente una tecnica di individuazione di sé, che ti consente anche di scoprire, per la prima volta, la tua unicità. È inutile che questa mattina io accenni a quanto si narra a proposito di psicologia della condizione carceraria, o della sociologia della condizione carceraria, ma tutti noi sappiamo che si entra in carcere privi di un senso di identità individuale, di un senso di identità rispetto alla promiscuità che si è vissuta fin da piccoli, il senso di non appartenenza a nulla, e la scrittura carceraria, certamente insieme ad altre attività che nelle carceri possono essere svolte, dà un contributo cruciale al riconoscimento della propria identità. A quell’importante scoperta di un "io sono", "io penso", nella propria individualità, nella radicalità della propria individualità, che va portata all’interno di questi luoghi perché se non esiste coscienza del proprio essere individuo, per poter essere ancora cittadino o cittadina, del poter essere persona, non riusciamo forse a raggiungere obiettivi cosiddetti di riabilitazione. La scrittura è, quindi, un importante incontro con una pluralità di dimensioni personali, è fonte straordinaria di riconoscimento di eventi, che altrimenti non è dato esplorare, o che non possono essere più esplorati. E mi piace quindi citare un testo dove la scrittura ha conosciuto una sua versione estrema, mi riferisco a un’autobiografia famosa ma non sempre nota, l’autobiografia scritta nel 1946 da Victor Frankl, lo psicologo scopritore delle tecniche logoterapeutiche. Nel suo romanzo autobiografico "Uno psicologo nel lager" Frankl, che era tatuato con il numero 119104 scopre, a Mathausen, che è possibile sopravvivere servendosi della scrittura per sconfiggere quella che definiva "la malattia del filo spinato". Una malattia che ti distrugge, che ti divora, una malattia che è presente in ogni momento di solitudine drammatica. In questo testo, in questa storia, noi ritroviamo un bisogno di descrizione dell’esperienza del proprio vissuto, ritroviamo il bisogno di rientro nel passato, "per sfuggire dal vuoto desolante" dice Frankl, ritroviamo il bisogno di dialogo con se stessi. Ho voluto citare questa storia proprio perché nella sua radicalità estrema ci dimostra che, attraverso il racconto di noi stessi, emergono esperienze individuali interiori di grande novità. In questo testo, ma anche in tante storie che possiamo leggere, nella letteratura opaca o non conosciuta del mondo carcerario, noi ritroviamo per esempio che il dialogo con gli oggetti d’amore perduti, oppure i legami con il proprio passato, oppure la possibilità ancora di stupirsi all’interno di una quotidianità così drammatica come quella carceraria, scopriamo che l’umorismo, scopriamo che l’emozione delle speranze, che l’emozione stessa di poter soffrire o di cominciare a soffrire in modo diverso, diventa quindi una forma di interrogazione e una forma emozionante di riscoperta. Concludo l’intervento, che voleva essere molto breve, voleva essere soltanto un richiamo all’importanza, anche nel volontariato, di insistere, di perseguire questi obiettivi volti alla scrittura di sé. Concludo ricordando quanto citato nel testo di questa volontaria nel carcere di Secondigliano, Rosa Maraucci. Noi ritroviamo una evocazione letteraria che mi piace riportarvi. In uno degli ultimi momenti in questa scrittrice dice: "I ricordi sono come un libro (è un detenuto a parlare), se restano chiusi sono pesanti; se invece li sfogli, scopri che sono leggeri". Grazie.
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