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"Progetti e percorsi di recupero" San Servolo – Venezia, 21 settembre 2003
Ornella Favero (Coordinatrice di Ristretti Orizzonti)
In questi ultimi anni abbiamo discusso molto del reinserimento lavorativo, anche perché a Venezia credo ci sia l’esperienza più significativa, quelle delle cooperative che danno lavoro ai detenuti, ma il dibattito di quest’anno l’abbiamo intitolato "Progetti e percorsi di recupero", nella consapevolezza che il percorso di inserimento della persona detenuta è una cosa molto più complessa del semplice lavoro. Arrivare a questa constatazione non è una cosa elementare, nel senso che molti pensano: "ho trovato un lavoro ed è fatta". Non è così! Perché fuori è difficile per un detenuto, o un ex detenuto, trovare una sua strada. Guardando ai motivi per cui alcune persone vengono chiuse dalla semilibertà, ci rendiamo conto che la maggior parte di loro non regge il peso della libertà, perché vissuta molto spesso nella solitudine: non sono motivi legati ad un rientro nella delinquenza.
Giuseppe Scaboro (Rappresentante della Provincia di Venezia)
Porto i saluti del Presidente della Provincia, Luigino Busatto, ma credo che, come sempre, l’amministrazione provinciale sia vicina a quest’iniziativa. Credo bisogni anche ringraziare l’associazione "Granello di Senape" per quanto sta facendo ormai da diverso tempo, anche alla luce delle prospettive che si stanno aprendo. Per chiudere vorrei raccontare una cosa che mi è capitata. Ieri ho fatto un giro per le librerie di Mestre, visto che c’è questo dibattito sulla questione del carcere, del reinserimento e quant’altro, pensando di trovare qualcosa da leggere al riguardo. Non ho trovato assolutamente nulla e questa è la dimostrazione che una parte di questa società è indifferente ai problemi del carcere: io credo, come assessore, che sia nostro dovere interessarsi di più a questo settore.
Ornella Favero
Iniziamo il dibattito con la persona che, credo, sia più competente in materia carceraria: il dottor Alessandro Margara, che è stato Magistrato di Sorveglianza e Direttore del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria. A maggio, nel carcere di Padova, c’è stato un convegno sul lavoro dove il dottor Margara ha guidato un gruppo di studio sul "percorso ad ostacoli" del dopo carcere, che è esattamente il tema di cui vogliamo parlare oggi. Lo faremo in maniera meno tecnica, ma è fondamentale che le persone fuori capiscano quanto è difficile la vita per un detenuto in misura alternativa ed abbia una maggiore disponibilità ad accettare e ad accogliere queste persone.
Alessandro Margara (Presidente Fondazione Michelucci)
Nel carcere i tossicodipendenti continuano ad essere una quota altissima e, poi, ci sono tutta una serie di persone prive di inserimento sociale effettivo, sradicate, con problemi psichiatrici: i due terzi dei detenuti, se vogliamo essere prudenti, sono persone che appartengono a quest’area. Di queste persone solo il 10% è ammesso alle misure alternative, c’è quindi uno spazio che non viene percorso e bisognerebbe trovare il modo di farlo, vedendo quali sono gli inconvenienti che impediscono di percorrerlo. Le misure alternative dovrebbero essere opzionate per il tossicodipendente: la legge prevede, come soluzione preferibile, quella legata alla misura alternativa a sua volta legata ad un programma di recupero e riabilitazione. L’espressione "percorsi di riabilitazione", che voi avete usato, è un’espressione che torna anche nei testi costituzionali recenti del 1997 - 1999 e che è riconosciuta come nucleo fondamentale dell’intervento penitenziario, dell’attività penitenziaria. Il problema è di rendere questa indicazione - che la Corte Costituzionale ci dà - più operativa, in modo che i percorsi di riabilitazione ci siano effettivamente. La difficoltà sta nel carcere, il quale non ha operatori del trattamento: gli educatori sono sempre di meno, sempre un numero insufficiente; il lavoro è scarsissimo, solo l’istruzione ha segnato qualche paso in avanti ma, ripeto, il trattamento in genere è mancante e prevale la situazione di detenuti che stanno in cella 20 su 24. Quindi il discorso da fare è se effettivamente in carcere c’è la preparazione al progetto e al percorso di reinserimento. Una volta che si arrivi all’operatività alla base del percorso preparato, predisposto, seguito, sostenuto e alla base dell’ammissione alle misure alternative, e una volta che anche le persone che non hanno avuto questo escono, bisognerebbe chiedersi che cosa succede di loro. Ecco, allora, quello che ha citato Ornella Favero, una corsa ad ostacoli, perché chi si trova in esecuzione di misure alternative tutto sommato può contare su una certa efficienza e una certa capacità di aiutare, che le stesse misure alternative hanno. Ma quando finisce la pena detentiva, non in misura alternativa, le difficoltà che ci sono per avere un reinserimento stabile e portare in fondo il percorso che si è avviato non sono poche. Il tentativo che si è fatto a Padova e si è sviluppato in un testo normativo è questo: interessarci delle difficoltà e vedere di superarle. Naturalmente ci vuole un intervento normativo diverso. Per esempio le pene pecuniarie creano un grosso ostacolo nella fase finale dell’inserimento sociale della persona, perché arrivano tardi e sono pendenze eccessive. Pensando che l’attività legata alle dipendenze dia guadagni favolosi, si danno pene che hanno come unità di misura la decina di milioni, quindi arrivano a svariate decine di milioni, che nessuno è in grado di pagare, quindi queste pene sono destinate ad essere recuperate con una forma sostitutiva che è la libertà controllata, che dura un anno, un anno e mezzo, a seconda dei reati. Questa ha delle prescrizioni molto più severe della misura alternativa con cui si esegue la pena. Arrivare a rendere la pena più produttiva, meno restrittiva e isolante, danneggiante ai fini di una socializzazione di una persona nel proprio ambiente, è una delle cose che si possono fare, e qui si prospettano varie soluzioni. In questo tentativo di progetto legislativo che abbiamo fatto, la pena pecuniaria è una, poi ci sono le pene accessorie, per le quali dobbiamo considerare se tutte le pene accessorie del vecchio sistema del Codice Penale siano ancora conservate. A questo riguardo il discorso di fondo è che per queste aggiunzioni della pena detentiva si è fatta una costituzionalizzazione della stessa, finalizzandola alla rieducazione della persona. Per le accessorie della pena non si è operato nello stesso senso, per cui questa fase si cura pochissimo che per l’inserimento di una persona rappresenta un ostacolo per quel percorso che è cominciato in misura alternativa, o non è cominciato affatto, comunque abbia uno sviluppo positivo nel momento in cui una persona rientra nell’ambiente sociale. Le pene accessorie sono tutte contenute nel c.p. e quindi riguardano un altro tipo di pena, che era il c.p. del 1930, e risente ancora di quel clima. Un sistema di pene accessorie che abbia un’altra prospettiva, quella della riabilitazione della persona, dovrebbe fare a meno di alcune di esse, ma a prescindere da questo dovrebbe essere reso possibile un sistema o di sospensione in prova di certe misure, attraverso un intervento che potrebbe essere dell’autorità giudiziaria, del Magistrato di Sorveglianza in particolare, oppure attraverso altri sistemi comunque non vincolati alla necessità di applicare queste pene, che ostacolano particolarmente inserimenti di lavoro o altre soluzioni di inserimento sociale. Anche le stesse misure di sicurezza, applicate quando la pena finisce, possono essere un ostacolo al percorso di reinserimento di una persona. In sostanza, quello che è essenziale è il farsi carico, dal punto di vista delle prescrizioni, delle persone, delle norme giuridiche di questa fase finale, in cui il processo di inserimento di una persona deve arrivare alla sua conclusione. Farsene carico e rivedere la normativa, in modo che essa non sia come oggi è: un ostacolo allo svolgimento agevole di questo percorso e sia, invece, un incoraggiamento seguito, provato, controllato, perché il sistema, pur sempre condizionato alla risposta che la persona dà, sia produttivo e affiancato al progetto di reinserimento a cui si è arrivati.
Ornella Favero
Noi abbiamo titolato il convegno di maggio "Carcere non lavorare stanca" con l’idea che, mentre fuori le persone hanno la possibilità di stancarsi di lavorare e di cercare riposo alternativo, in carcere è l’esatto contrario, cioè molto spesso non se ne può più di non far niente. In gran parte delle carceri si passa il tempo in branda, senza parlare delle carceri del sud, dove il lavoro è davvero poco. È stata fatta una legge, la cosiddetta "Smuraglia", che doveva in qualche modo facilitare l’inserimento lavorativo dei detenuti ed il lavoro in carcere. Qualcosa, sicuramente, questa legge ha fatto, però, per l’incertezza dei decreti attuativi, per il fatto che non si sappia mai se vi sono o no i finanziamenti, i progressi fatti sono molto pochi. A tale proposito, il dottor Giuseppe Magni, consulente delle Ministero della Giustizia del Dipartimento di Amministrazione penitenziaria, ci illustrerà meglio il suo punto di vista nello sviluppo delle attività lavorative in carcere.
Giuseppe Magni (Consulente per il lavoro del Ministro della Giustizia)
Cercherò di contenere il mio intervento su quello che il Governo ha fatto fino a questo momento, per cui tratterò temi che vanno dall’edilizia, al lavoro in carcere, al recupero, in modo ovviamente non approfondito, ma trattandosi di un dibattito, sono poi a disposizione di chi lo volesse. La cosa che ho notato e che colpisce di più è che non si fa molto in carcere, ma quello che si sa fuori è ancora meno, c’è molta disinformazione. La situazione carceraria viene spesso rappresentata da molti organi di stampa e da esperti politici in modo completamente distorto e strumentale, non so se voluto o dovuto a non conoscenza. Uno dei primi impegni della Casa delle libertà sul fronte giustizia è stato proprio quello del mondo carcerario, anche e soprattutto in considerazione del fatto che era una delle direttive fondamentali nel nostro programma, dove al punto 3 stava scritto che occorre rendere la pena effettiva e organizzare e costruire nuove carceri, in modo che ci sia una distinzione dei reati commessi, dell’età di chi sta in carcere e della durata della pena da scontare. In questo periodo di governo, che è in carica da circa due anni, sono stati già apportati molti singoli interventi e soprattutto è già stato dato il via ad un piano generale di edilizia penitenziaria, che prevede investimenti molto considerevoli. Nell’ambito della riorganizzazione del sistema, hanno assunto un ruolo chiave gli sforzi tendenti a favorire l’attività lavorativa all’interno del carcere, anche in vista del reinserimento dei detenuti all’interno della società. In particolare nel settore del lavoro: nel dicembre 2001 il numero complessivo di detenuti impegnati in attività lavorative era di 12.085 unità; nel dicembre 2002 l’occupazione riguardava 13.474 detenuti, quindi l’attività lavorativa svolta in carcere impegnava il 24% dei detenuti. Va precisato che molti detenuti vengono impiegati nelle cosiddette attività domestiche, però l’aspetto più rilevante riguarda i detenuti non dipendenti dall’amministrazione penitenziaria, cioè quelli che svolgono un vero lavoro, parificato a quello che si svolge all’esterno, e che maggiormente contribuisce al reinserimento del detenuto nella società dopo l’esperienza della pena, in linea con quanto cita l’art. 27 della nostra Costituzione. Vi faccio alcuni esempi significativi, ma ce ne sarebbero decine: il Protocollo d’intesa sottoscritto con l’Associazione Artigiani di Venezia, che oltre all’attività formativa prevede l’inserimento dei detenuti in aziende artigiane operanti sul territorio. Un altro accordo è stato fatto con un’importante società della new economy, per la creazione di laboratori informatici per la formazione gratuita dei detenuti, finalizzata ad una possibile assunzione al momento del rilascio. Sono stati presi, con molti enti locali, accordi per lo svolgimento, da parte dei detenuti, di lavori di pubblica utilità. È stato firmato un Protocollo d’intesa con la regione Sardegna, che consentirà la creazione di opportunità di lavoro per la popolazione detenuta nelle Case di Reclusione di Is Arenas, Isili, Mammone, che sono le cosiddette colonie agricole penitenziarie. Questo risultato diventa poi più importante se si considera, come diceva la signora Favero, che si adatta effettivamente e finalmente alla legge 193/2000 la cosiddetta "Smuraglia", dove sono stati fissati i termini e criteri per i rimborsi fiscali e previdenziali delle aziende che offrono lavoro ai detenuti. Aspettiamo sicuramente l’applicazione di questa legge e che il "treno" di crescita nella popolazione di detenuti continui ad essere in aumento. In contemporanea si è predisposto ed inviato a tutti gli Istituti e Provveditorati una bozza di accordo, utilizzabile dalle direzioni di tutti i penitenziari per l’affidamento a soggetti esterni, imprese o cooperative, per la gestione di lavorazioni penitenziarie con una miglior resa in termini occupazionali e produttivi: quest’ultimo aspetto va sottolineato, altrimenti rischieremo di fare dell’assistenzialismo, della carità. Per migliorare la possibilità occupazionale all’interno del carcere e garantire l’acquisizione di professionalità spendibile all’esterno, tutti i Provveditorati stanno lavorando per ricercare possibili interazioni con le realtà territoriali, per riuscire ad arrivare, attraverso collaborazioni con cooperative ed il mondo imprenditoriale, un fine che solo il carcere non riuscirebbe ad ottenere. L’obiettivo è quello di individuare un vantaggio, che possa concretamente determinare nelle cooperative e nelle imprese una forte richiesta di manodopera detenuta anche e soprattutto specializzata. Nell’ottica di questa sinergia fra il mondo dentro le mura e fuori le mura, con gli enti locali sono già stati firmati Protocolli d’intesa fra regioni e ministero della giustizia, nei quali sono stati concordati impegni reciproci per la realizzazione finalizzata al recupero e al reinserimento sociale di adulti e di minori. L’aspetto del rilancio delle strutture rieducative non è stato assolutamente dimenticato o messo in secondo piano, perché così come il lavoro anche l’attività educativa persegue la reintegrazione sociale del condannato e, quindi, ci auguriamo possa ridurre la reiterazione dei reati, un altro fenomeno che abbiamo trovato ad un livello pauroso, quasi vicino al 90%. Le recenti normative di esclusione sociale dell’assistenza, compresa la riforma dello Stato in senso federale, ribadiscono ancor più il principio di un sistema allargato di governo in cui le regioni e gli enti locali assumono compiti sempre più ampi e competenze che entrano in relazione continua e con piena titolarità anche con il sistema penitenziario. Nello stesso tempo, in merito allo sviluppo di un sistema integrato di’istituzione e formazione professionale, è stata attivata stabilmente una collaborazione con il Ministero dell’Istruzione per consentire una progettazione dialettica, adeguata alle esigenze della popolazione detenuta e utile a fornire un bagaglio di competenze che possa rivelarsi di supporto al futuro reinserimento sociale. In considerazione dell’elevata valenza trattamentale che riveste l’istruzione, al fine della rieducazione e della risocializzazione, il Ministero ha avviato un’opera di riorganizzazione dei corsi scolastici e di formazione professionale negli istituti penitenziari. Il nostro impegno è rivolto alla razionalizzazione di corsi scolastici negli istituti di tutto il territorio nazionale, da un lato per assicurare la scuola dell’obbligo a tutti gli istituti e dall’altra per ampliare la gamma disponibile di istruzione universitaria. Oltre a quelli che esistono e funzionano molto bene, Torino e Bologna, nell’ambito dell’istruzione universitaria, i Provveditorati regionali dell’amministrazione del Triveneto, della Sicilia, Calabria, Campania, hanno già avviato contatti con i referenti delle università e degli organismi regionali per valutare la possibilità di realizzare Protocolli d’intesa per costituire Poli universitari destinati alla popolazione detenuta. Significativa è anche la collaborazione fra il Ministero della Giustizia e il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali: si è costituito un tavolo tecnico permanente, composto da dirigenti e funzionari dei due dicasteri, al fine di seguire progetti che perseguono obiettivi comuni inerenti l’ingresso nel mondo del lavoro delle persone svantaggiate. Inoltre è stato stipulato un Protocollo d’intesa, tra l’Amministrazione penitenziaria e un’importante società informatica, per inserire anche gli istituti penitenziari nel programma di formazione professionale indirizzato alla progettazione e realizzazione e sviluppo di reti informatiche, con la previsione, in via sperimentale, dell’integrazione lavorativa di detenuti corsisti che superano esami finali acquisendo la relativa certificazione. Siamo consapevoli dell’importanza del lavoro nel mondo carcerario, nella convinzione che sia lecito per lo Stato togliere la libertà a chi delinque, ma anche porsi l’impegno prioritario di garantire il recupero del condannato e assicurargli sempre piena dignità. Questo è sicuramente un compito difficile, ma è il criterio che ci guida ogni giorno nella difficile lotta per cercare di governare al meglio la realtà penitenziaria italiana, tentando, se possibile, di renderla, anziché un territorio d’esclusione, un territorio, anche se particolare, di vita.
Ornella Favero
Io dentro il carcere mi occupo soprattutto di informazione e non è molto facile, perché il carcere non è una realtà molto trasparente. Il dottor Magni ha parlato molto di Protocolli d’intesa, per esempio tra il Ministero e la Regione. È vero, anche la Regione Veneto ha di recente firmato un Protocollo d’intesa e altre Regioni avevano rinnovato il loro Protocollo in questi ultimi anni Il problema - e noi volontari che operiamo dentro il carcere ce ne rendiamo conto - è che spesso i Protocolli si perdono per strada. Faccio una constatazione elementare: quando è uscito l’indultino, a mio parere una pessima legge, il dipartimento di amministrazione penitenziaria ha detto che ne potevano usufruire 9.000 detenuti, vuol dire che vi era nelle carceri in quel momento 9.000 detenuti con meno di due anni da scontare e che quindi avrebbero potuto, se funzionava il sistema del cosiddetto trattamento e della rieducazione, già essere fuori in misura alternativa. Questo credo che la dica lunga sul fatto che molte cose in realtà dentro non funzionano, ad esempio il trattamento è pressoché ridotto ai minimi termini (dopo prenderà la parola il dottor Gianfrotta, che è stato per qualche tempo responsabile dell’Ufficio detenuti, trattamento e lavoro del dipartimento di amministrazione penitenziaria). Faccio un esempio che conosco meglio: a Padova, su 700 detenuti, al massimo lavorano due educatori, in questo momento. Voi dovete capire che seguire il percorso di reinserimento delle persone che stanno per uscire è pressoché impossibile, come pure dare delle garanzie che queste persone siano seguite una volta uscite e quindi cali quella percentuale della recidiva. Credo ci voglia personale addetto a questo e che, finché non si sblocca questa situazione, si possano fare ben pochi passi avanti. Così come, visto che si è parlato della politica sul carcere, dobbiamo avere anche un quadro della situazione della salute in carcere: poi presenteremo un dossier che parla non solo di suicidi, ma anche di problemi sulla salute in generale. Il taglio delle risorse economiche per la salute dei detenuti è stato così consistente che, oggi, ci sono molte regioni in cui non si sa chi pagherà le medicine. Ci sono state delle fasi in cui associazioni di volontariato - ne cito una in particolare, l’Associazione Carcere e territorio di Brescia - si sono assunte l’onere di pagare i farmaci antiretrovirali per i malati di Aids, in attesa che qualcuno si decidesse di prendersi in carico quel problema. Quindi credo che la situazione sia davvero molto complessa: sulla carta anche nella sanità c’è stata una riforma, ma per adesso rimane solo sulla carta e oggi non si sa nemmeno di chi siano le competenze. Ammalarsi è già dura per tutti, ma in carcere lo è doppiamente, per questa continua ansia di non sapere se si morirà, appunto, di carcere, come abbiamo scritto noi. Quindi mi piacerebbe che si tenessero in considerazione complessivamente questi problemi.
Francesco Gianfrotta (Magistrato di Torino)
Non sono molti quelli che sanno che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria pubblica una rivista specializzata, che si chiama "Rassegna penitenziaria e criminologia". Tale Rassegna del D.A.P. nel 2002 ha preso un’iniziativa editoriale che, a mio avviso, è meritevole di apprezzamento: ha deciso di diffondere un numero speciale, distribuito insieme alla ristampa di una bellissima vecchia rivista, "il Ponte", rivista di politica e letteratura, questa era la sua definizione nel momento in cui uscì, all’inizio del dopoguerra. Il n° 3 del 1949, distribuito insieme al numero della Rivista criminologica e penitenziaria, era uno speciale che si intitolava "Carcere: esperienze e documenti". Tale speciale conteneva contributi di antifascisti che erano stati incarcerati durante il regime, cito solo alcune persone: Ernesto Russo, Riccardo Boller, Altiero Spinelli, Vittorio Foa, Massimo Milla, Lucio Lombardo Radice, Giancarlo Paietta. Persone che avevano pagato, non con la villeggiatura, ma con il carcere, la loro opposizione al fascismo e il loro impegno per la difesa e la costituzione della democrazia. Quindi un’iniziativa editoriale, meritevole di apprezzamento, che era espressione di una scelta che aveva un valore, che andava al di là del problema carcere. Perché cito questo? Chi avesse la voglia di dare un’occhiata a quel numero, anche se è difficile trovare nelle librerie pubblicazioni sul carcere, si renderebbe conto di alcune coincidenze. Non è questa mia intenzione e neanche opinione, che il carcere oggi sia lo stesso di quello di 50 anni fa: sarebbe sciocco sostenerlo, anche perché chiunque, pur rimanendo alla superficialità dei problemi e delle esperienze, si renderebbe conto del cammino che comunque in 50 anni si è percorso, pur tra lentezze alle volte insopportabili. Però colpiscono alcuni aspetti: i problemi di allora, raccontati attraverso la voce, l’esperienza di chi in carcere c’era stato, in gran parte sembrano simili a quelli attuali. Che la cultura dell’esecuzione della pena che aveva generato quell’universo penitenziario, che avevano conosciuto gli antifascisti in carcere, non sia del tutto scomparso ancora oggi? Se comunque fanno fatica, ancora oggi, ad affermarsi e a stabilizzarsi delle opzioni culturali diverse e che anche le proposte di riforme, che a suo tempo, nel 1949, si avanzavano e si potevano leggere sul "Ponte", ad un lettore di media conoscenza di cose carcerarie non risulterebbero oggi delle proposte datate Come il discorso di Ernesto Rossi, che scrive a Calamandrei nel 1949 e che si può rileggere sul "Ponte". "Salvo rare eccezioni gli edifici carcerari sono stati costruiti nel secolo scorso ed anche prima, quando si avevano idee completamente diverse sul carattere afflittivo della pena e sulle esigenze igieniche per mantenere sano l’organismo umano. Le celle costruite per una sola persona, nelle carceri giudiziarie sono solitamente occupate da 3 o 4 persone; le colonie agricole e le lavorazioni, nelle case di pena, occupano una piccolissima parte dei carcerati; nonostante il lavoro sia pagato in modo ridicolo, quasi tutti i detenuti vorrebbero lavorare". Vedo dei direttori di carceri presenti tra il pubblico, ma non è sicuramente a loro che potrebbero rivolgersi queste amenità che vado a riferire e leggere. "I detenuti scrivono domandine, inoltrano suppliche, si segnano continuamente ad udienza per chiedere lavoro, molti direttori non ammettono neppure più i detenuti che desidererebbero lavorare, perché non hanno alcun modo di accontentarli. Quasi tutte le biblioteche dei carceri sono formate con libri che altrimenti sarebbero gettati via, tale problema esiste e chi va in carcere per lavoro o per scelta di volontariato lo sa bene. Manca ogni serio controllo sull’operato delle guardie, sugli addetti sanitari, sui direttori stessi delle carceri, i quali possono commettere qualsiasi sopruso e qualsiasi infamia, sicuri dell’impunità. Il Giudice di Sorveglianza di solito è una persona per bene e non può ammettere che dei delinquenti abbiano dei diritti". Un’osservazione, penso che sia facile a questo punto: Il "Ponte" si conclude con il discorso di Calamandrei che alla camera dei Deputati reclama la costituzione di una commissione parlamentare di inchiesta sulle carceri, che fu nominata. Questa fece un lavoro pregevole, produsse una relazione che conteneva alcune proposte. Questo tipo di proposte è stata poi ripetuta in legislature successive, si sono avute più organizzazioni parlamentari, o organismi similari, di studio sui problemi del carcere, con elaborazioni di proposte, però tutto questo non è bastato a rendere il nostro sistema penitenziario adeguato alle esigenze di un paese moderno e soprattutto la filosofia dell’esecuzione della pena, che è scritta nella Costituzione e non solo, ma anche nelle leggi ordinarie, nella legge penitenziaria e, da ultimo, nel regolamento. Credo sia doveroso chiederci il perché. Qualche spunto in questa discussione è già emerso e sarò costretto a ripeterlo. Il carcere è un tema che evidentemente non appassiona, ma nei confronti del quale probabilmente la società libera opera una vera e propria rimozione, non essendo disposta a fare i conti fino in fondo con alcune certezze o con alcuni luoghi comuni che si porta appresso e che riguardano la funzione della giustizia penale, il sistema delle pene e in particolare della pena detentiva, ma più in generale della sicurezza. Ma il carcere è anche un argomento rispetto al quale il ceto politico mostra un’attenzione saltuaria, in occasione di emergenze, oppure sulla spinta di determinate sollecitazioni esterne. L’esempio che viene facilmente da citare è la questione del provvedimento di clemenza, che ha avuto una gestazione lunghissima ed è stato presentato soltanto come rimedio al sovraffollamento: un errore gravissimo, perché l’opinione pubblica non capisce per quale ragione, dopo anni di martellamento sulla sicurezza e sull’esigenza di costruire più carceri, poi si debba scarcerare un certo numero di persone che hanno commesso reati in base ad un provvedimento di carattere generale. L’opinione pubblica non capisce questo e conseguentemente il ceto politico, o una parte di esso, ha buon gioco a ritirarsi o a nascondersi dietro lo schermo dell’impopolarità di un provvedimento che esso stesso ha provveduto a rendere impopolare, presentandolo in questo modo. Dico questo perché diverso sarebbe stato il rapporto tra un provvedimento d’indulgenza e l’orientamento dell’opinione pubblica se il primo fosse stato presentato come il primo atto di una strategia complessiva di intervento, riformatore verso il carcere e verso l’esecuzione della pena. Se ci si limita a scarcerare alcune centinaia, o migliaia, di detenuti è evidente che si ha buon gioco poi a sostenere che non si incide - perché realmente non lo si fa - sul ritmo di crescita della popolazione detenuta, che rischierà di rimanere come era prima. Faccio alcuni esempi di interventi e direzioni che a mio avviso si potrebbero prendere, per evitare questo avvitamento su se stessi. Basta considerare alcuni aspetti del sovraffollamento, come spiegato bene all’inizio dal dottor Margara: i numeri parlano chiaro, dimostrano che le carceri si sono riempite di soggetti marginali. Grazie a loro nel nostro sistema carcerario le celle ospitano quasi dappertutto ben più del numero dei detenuti che dovrebbero esserci ed è grazie a loro che ogni giorno nelle nostre carceri, in particolare nelle grandi città, entrano ben più dei detenuti che escono. Bisogna puntare, quindi, non sulla costruzione di nuove carceri, ma sulle alternative al carcere, cioè su un sistema di sanzioni diverse da quelle detentive e sul funzionamento e riqualificazione del sistema delle misure alternative al carcere. Questo, va detto e sottolineato, non costituisce un’anomalia rispetto alle corrispondenze nel resto del mondo. Oggi le misure alternative riguardano 30.000 soggetti e abbiano numeri sulle recidive straordinariamente tranquillizzanti, pur con tutte le riserve che si possono avere sulla correttezza e sull’affidabilità di certe statistiche. Siamo straordinariamente lontani dal tasso di recidiva che si registra con riferimento a chi entra in carcere, perché la percentuale di revoca delle misure alternative per mancato rispetto delle prescrizioni è sicuramente sotto il 5%. Bisogna poi affrontare, finalmente, il nodo di una nuova legislazione sulle droghe che ponga al centro dell’intervento penale, nei confronti del soggetto tossicodipendente che abbia commesso reati, degli interventi riabilitativi da svolgersi tendenzialmente all’esterno del carcere, con la più ampia collaborazione delle strutture territoriali. Io credo che la tragedia della tossicodipendenza non consente l’accecamento delle ideologie: è inaccettabile la polemica e la demonizzazione dei Ser.T., l’identificazione di un solo modello di risposta comunitaria, di un solo modello di comunità e di inserimento. Ultimissima indicazione su questo punto - affrontandolo con il necessario coraggio - sono alcune disfunzioni organizzative, che hanno da sempre accompagnato l’azione dell’amministrazione penitenziaria. Mi riferisco alle sezioni detentive chiuse per lavori in corso, molto spesso per mantenere inalterato un rapporto tra popolazione detenuta e personale addetto alla sorveglianza, ed è un rapporto che non ha eguali nel resto del mondo. La questione dell’edilizia penitenziaria non può essere ridotta alla questione dell’aumento dei posti disponibili; l’edilizia penitenziaria è un tema grosso e complesso che richiede scelte: quali tipi di carceri, per quali detenuti, per far fare loro che cosa? La questione lavoro: se c’è, se non c’è, se è insufficiente, se è efficace, è strettamente legata spesso a difficoltà organizzative e burocratiche, che vengono proposte dall’amministrazione penitenziaria in quanto mancano gli ambienti detentivi idonei, o manca il personale di sorveglianza sufficiente perché la lavorazioni funzionino. Il discorso può essere esteso anche ai corsi professionali, per far sì che queste iniziative possano svolgersi efficacemente. Per parlare di nuove carceri dobbiamo avere chiara l’idea di che tipo di carceri dobbiamo costruire, quale modello di giornata del detenuto abbiamo in mente, quale modello di sorveglianza dobbiamo realizzare, con quanto personale e con quanta tecnologia per risparmiare risorse e "materiale umano". Sempre sulla questione "edilizia e trattamento", l’altro aspetto è quello del regolamento: l’attuazione del regolamento è un passaggio che non bisogna lasciar perdere, è una necessità che deve essere presa in carico dall’amministrazione, la quale deve mantenere un impegno costante in proposito. Intanto, per cominciare: attuare un testo normativo con obblighi precisi e creare all’interno degli istituti un clima diverso, che significa una serie di opportunità per tutti, per chi è detenuto e per chi vi lavora, una possibilità reale di modificare una serie di rapporti che dovrebbero garantire a tutti sicurezza. Tema, anche questo, estremamente complesso, che richiederebbe un discorso a sé. Ma, alla fine, si riassume in più risorse e più riqualificazione delle risorse che oggi vengono investite.
Ornella Favero
La parola a Sergio Segio, che ritengo una delle persone più competenti sul tema carcere. Parlerà sia del percorso ad ostacoli di chi esce dal carcere, ma anche sul tema, che ci sta particolarmente a cuore, del disagio che porta a soluzioni estreme, ad autolesionismo e suicidi in carcere.
Sergio Segio (Associazione Gruppo Abele)
Ringrazio gli organizzatori di questa giornata, che credo sia una delle scadenze annuali di maggior significato e importanza per chi si occupa di questi temi. Anche per il titolo assegnato a questo dibattito, che mette l’accento su una parola chiave per le problematiche penitenziarie, ossia il recupero dei detenuti. Una parola tanto centrale quanto troppo spesso vuota, addirittura truffaldina, perché consegna un necessario e giusto obiettivo, ma al tempo stesso ci consegna la coscienza che questo obiettivo rimane là da venire, come la parola "pace" nella nuova Carta della Costituzione europea. La pace è un obiettivo, non è una precondizione o qualcosa rispetto alla quale si forniscono gli strumenti, le culture, le risorse per renderla effettivamente concrete e praticabili. Qui nel titolo ci sono "i progetti ed i percorsi". Tanti, forse troppi, parlano di recupero, di reinserimento, propongono formazione - piuttosto che altre attività - all’interno del carcere. Un po’ meno si parla di percorsi, nel senso che il "percorso" è il risvolto possibile, necessario per dare concretezza ai progetti. Questa concretezza io continuo a temere che sia un po’ una chimera. È giusto discuterne, parlarne e continuare a battere come stiamo facendo, ormai da molti anni, - magari con minore forza, ma con buona determinazione - ma è come sbattere la testa contro un muro di gomma. C’è il combinato di un atteggiamento troppo spesso negativo, perché disinformato, dalla pubblica opinione, e di una scarsa attenzione e disponibilità da parte del legislatore, sia di centro destra che di centro sinistra (perché non ho visto troppa differenza tra le due parti su questa materia, almeno per quanto riguarda la capacità di rendere concreti questi percorsi). Chi vive e anche chi lavora nelle carceri sa che le buone parole si spendono spesso da parte di tutti, ma troppo spesso lasciano il tempo che trovano. C’è un deficit di concretezza, ma anche di leggi, di norme. A tale proposito vorrei tornare su quanto diceva il presidente Margara, sul percorso ad ostacoli riferendolo al dopo carcere. Io continuo a vedere che è un percorso che non finisce mai, perché il dopo pena, il dopo carcere, in qualche misura non esiste, o meglio non esiste per le fasce non indifferenti di popolazione che escono dalle carceri, proprio per quel vero labirinto che è - più che un percorso ad ostacoli - tutto quell’insieme di pene accessorie, di misure di sicurezza, che il dottor Margara ci ha illustrato. Io credo che mettere al centro questa questione, con l’ottimismo della volontà ed il pessimismo della ragione, obbligatoriamente è anche una traduzione tecnica di quello che vediamo essere questi ostacoli, capire come e dove aggirarli, come superarli, come modificare la leggi, ma come tutte le problematiche che investono la questione carceraria deve inevitabilmente scontrarsi e misurarsi con il consenso, e quindi di nuovo con l’opinione pubblica e la correttezza dell’informazione. Non spreco ulteriori complimenti per il lavoro che fa "Ristretti Orizzonti" ed il "Centro di Documentazione" di Padova, l’ho detto milioni di volte e credo sia doveroso rendere omaggio a questo lavoro che è prezioso, e che deve essere reso un po’ più circolante. L’anno scorso, un po’ provocatoriamente, dissi che il mio sogno era che il dottor Margara avesse potuto continuare ad essere il Direttore generale delle carceri, perché questo ci porterebbe oggi ad avere un sistema penitenziario più umano, ma anche più efficiente. Allo stesso tempo un altro sogno che avevo era che prima o poi dall’Ufficio studi del D.A.P. possa essere consegnata una consulenza, un mandato, al Centro Documentazioni e a Ristretti Orizzonti per produrre informazioni e anche per contribuire a fare dei dossier, come quello che presentate oggi, "Morire in carcere", per aprire e squarciare un po’ il velo dell’opacità. Ormai da alcuni anni su questi aspetti, che sono i più terribili, drammatici, che c’entrano anche con il titolo del dossier presentato: perché morire, ammalarsi, essere schiantati in carcere, è un obbiettivo impedimento al recupero. Sono ormai diversi anni che non vengono forniti i dati complessivi dei cosiddetti eventi critici carcerari. Quindi va maggior merito al lavoro svolto da Ristretti Orizzonti. Dal punto di vista delle statistiche non rivela nulla di nuovo, ma da quello umano è un lavoro prezioso aver messo in fila avvenimenti che possono rendere dotta l’opinione pubblica: dietro il velo delle parole, dei protocolli, svela che il carcere continua ad essere malattia, morte, quindi esattamente il contrario del recupero. Prima il dottor Magni ha fatto delle cifre, che mi incuriosiscono, perché è la prima volta che sento una stima così alta, ovvero che il 90% di persone che escono dal carcere inevitabilmente commettono reati. Anche questa statistica può essere vista in due diverse prospettive. Molti la vedono dentro quella cultura dell’esecuzione della pena, dentro quella cultura con cui si guardano i problemi della marginalità sociale, come a riprova provata che sarebbe meglio che quasi tutti non uscissero dal carcere perché tornano a delinquere. Quando questa stima che, realistica o meno, arriverà al 100%, immagino che qualche forza politica proporrà di murare le celle e buttare via la chiave. L’altra prospettiva è quella che denuncia i limiti, se non il fallimento, di quanto attiene ai percorsi di recupero, che è la prospettiva in cui credo. Il problema delle pene accessorie, delle misure di sicurezza, determina questo stato di cose ed è la nuova battaglia che bisogna fare, dopo quella, purtroppo fallita, e lo dico con amarezza, sulla questione della clemenza, dopo tre anni di dibattito, coinvolgendo pezzi interi di società, addetti ai lavori e non. Quella battaglia, che non credo ascrivibile a titolo di clemenza, era una forma in qualche modo di risarcimento, sia per le condizioni di vita sia per quelle di lavoro nelle carceri. Questo problema rimane tuttora attuale, ed il dossier è il risvolto nascosto dei fallimenti di quella battaglia, ma soprattutto della cecità e della scarsa lungimiranza della classe politica, anche qui spesso trasversale tra il centro destra e d il centro sinistra. La prossima battaglia deve convergere proprio per la modifica radicale di alcune delle pene accessorie, delle misure di sicurezza che il nostro codice contempla. Non so quanti dei non addetti abbia letto nel codice penale di cosa si tratta e di cosa effettivamente determinano queste pene accessorie, queste interdizioni, cosa significano, come vi è un reale impedimento, non solo al recupero, ma proprio al dettato costituzionale dell’art. 27. Il dottor Gianfrotta citava prima una lettera di Ernesto Rossi, anche questo ci dice che c’è un percorso di ammodernamento, di nuova cultura che va portata dentro l’esecuzione della pena. Io volevo metterci anche l’art. 108, che parla della tendenza a delinquere, e anche questo non è un residuo inerte dimenticato nel codice ma, per esempio, è una delle esclusioni previste anche nel recente indultino: la tendenza a delinquere è quella che dichiara delinquente per tendenza, sebbene non recidivo (quindi non è una misura contro il delinquente incallito), una misura che viene data a chi, "sebbene non recidivo né delinquente abituale, commette un delitto colposo che rivela una speciale inclinazione a delinquere e trova una sua causa nell’indole particolarmente maligna del colpevole". Per questo insisto a dire che questo deve essere il nostro prossimo fronte d’impegno forte, oltre che per fare elaborati tecnici da proporre al Parlamento, anche per fare una forte campagna di informazione e convincimento dell’opinione pubblica di quanto, appunto, questa recidiva, che evidentemente è un dato drammatico, va affrontata con nuove opportunità e nuove capacità che possano incidere nel destino e nella vita materiale delle persone che escono dal carcere. Sul tema del lavoro, si vede molta retorica, tante parole e pochi fatti: anche le cifre che portava il dottor Magni prima, vanno viste in controluce, è vero il 24% dei detenuti in carcere lavora, ma bisogna ricordarsi anche di dire che gran parte di questi lavorano un’ora o due al giorno, a rotazione, e quindi non sono lavori che producono reddito, ma sono in qualche modo dei contentini, delle forme di passatempo, oltre a non produrre abilità da spendere sul mercato esterno quando si esce non producono neanche reddito all’interno del carcere. Non basta dire "lavoro nel carcere", o nel post - carcere, bisogna anche intenderci, discutere, capire e confrontarsi su quale lavoro, perché un lavoro che sia disgiunto da una questione di diritti nel lavoro, ma anche di quantificazione di reddito, a mio parere rischia di essere un po’, come dicevo essere la parola "recupero", truffaldina. Il ministro Castelli è stato ad inaugurare una nuova iniziativa in Sardegna, messa in piedi da una cooperativa che si chiama "Il Samaritano": è una fattoria dove lavorano 27 detenuti, che in gran parte sono immigrati… le isole stanno tornando ad essere come erano ai miei tempi per i detenuti troppo ribelli, con la differenza che ora lo sono per gli immigrati e la Sardegna sta diventando un po’ la pattumiera della pattumiera del sistema penitenziario. Questi 27 detenuti, che per il momento lavorano in questa tenuta, guadagnano 50 euro alla settimana: io mi chiedo se questo è il lavoro che intendiamo, quando ci riferiamo all’opportunità d’inserimento lavorativo dopo la pena. Io credo di no. Il ministro Castelli, inaugurandola, ha detto che quello è un punto di riferimento, da esportare per la validità dei metodi di reinserimento dei carcerati. Io credo si riferisca in generale all’iniziativa, che viene sobbarcata troppo spesso solo sulle spalle del volontariato, un’iniziativa organizzata, in questo caso, dal cappellano di Isili, e questa struttura si chiama "Casa di nostra Signora di Bonacatu": tradotto in italiano "Bonacatu" significa buona accoglienza, quindi vi è questa cultura dell’accoglienza, c’è sicuramente un input di buona volontà. Bisogna garantire che oltre all’accoglienza, alla buona volontà, i buoni propositi con cui tutti i volontari e le cooperative sociali che lavorano su questi temi, vi sia anche una buona qualità dei diritti, che vengano garantiti a queste persone, perché recupero, reinserimento nella società, credo voglia dire anche questo, non solo recupero di responsabilità dei doveri, ma anche garanzia completa dei diritti, di dignità, che si completa in un insieme di cose che restituiscano cittadinanza piena e completa a chi esce dal carcere. Io oggi credo che in carcere - e questo dossier lo descrive molto bene - non ci sono cittadini a pieno titolo, ma cittadini dimezzati, di serie B, e quindi i fronti di lavoro dovrebbero essere quelli di restituire dignità e cittadinanza dentro il carcere, ma sempre di più anche verso l’esterno. Diversamente, questi percorsi di recupero sarebbero ancora una truffa. Le questioni delle pene accessorie e della pericolosità sociale, frutti avvelenati della cultura fascista dell’esecuzione della pena: vanno rotte concretamente, attraverso una modifica delle culture sociali, perché ancora oggi siamo abituati a definire chi esce dal carcere un pregiudicato; ecco, che questa parola, che ha un contenuto negativo, sia la fotografia della situazione ma, in positivo, anche il nodo da rompere. I detenuti si portano impresso questo stigma, non più, come nei romanzi di Kafka, sulla fronte o sul proprio corpo, ma nella loro vita quotidiana fuori del carcere, tutti i giorni di questo carcere che non finisce mai.
Ornella Favero
Solo un’annotazione: Sergio Segio non ha citato il fatto che il carcere sta scritto nel destino di alcuni pezzi di popolazione. Se andate a vedere il dossier sui suicidi e leggete le storie di queste persone, vi renderete conto di cosa vuol dire e chi sono le persone che molto spesso stanno in carcere: il grado di disagio, di mancanza di qualsiasi sostegno famigliare, di stato di abbandono. Vorrei ricordare, riguardo ai temi del lavoro, come il ruolo degli Enti locali sia di un importanza fondamentale, noi (e in questo caso parlo di Padova) stiamo facendo un’iniziativa che vuole mettere insieme tutti i sindaci delle grandi, ma anche delle piccole, comunità sul tema del reinserimento dei detenuti Abbiamo fatto una piccola raccolta di interviste e abbiamo notato che se nelle comunità, anche piccole, s’impegnano a dare lavoro ai detenuti, molto spesso il percorso di reinserimento ha un andamento totalmente diverso, perché in realtà c’è una disponibilità e un’attenzione, in queste piccole comunità, superiore a quello che noi stessi come volontari ci aspettiamo. Abbiamo trovato nei piccoli paesi un’iniziale diffidenza, ma poi davvero una partecipazione a questi percorsi di reinserimento di persone detenute, molto spesso anche in posti di lavoro di qualità (ad esempio una biblioteca di un piccolo Comune di Padova).
Giuseppe Caccia (Assessore ai Servizi Sociali del Comune di Venezia)
Credo che il punto di partenza oggi debba essere il preoccupante silenzio che è calato sul carcere e sui suoi problemi. Diversamente dalle scorse estati, questa è stata particolarmente terribile per chi viveva in carcere, per le ragioni climatiche, ma anche perché è stata segnata dalle promesse non mantenute dell’indultino. Questa estate non si è parlato di carcere, sui mass media, come negli anni scorsi. Dover sperare che il Ministro della Giustizia si esibisca in qualcuna delle sue imbarazzanti gaffe, in maniera da darci poi la possibilità di tornare a discutere di carcere, è sinceramente un po’ triste. Detto questo, cosa registriamo oggi? Il quadro che anche Sergio Segio trattava e tracciava è un quadro regressivo, rispetto a quanto abbiamo conosciuto, al preoccupante silenzio dei media di quest’estate intorno al carcere ha corrisposto una vicenda tra le più squalificanti per le istituzioni parlamentari della Repubblica, come quella dell’indultino, la montagna della retorica, che era stata costruita intorno alla visita del Papa davanti alle Camere riunite, ha partorito meno di un topolino, ha creato un provvedimento che ha dato risposte parzialissime, che ha tradito le aspettative di tanti e tanti detenuti e sappiamo cosa significano, dentro la dimensione totale del carcere, le aspettative tradite, le promesse non mantenute. Magari non generano immediati gesti appariscenti, eclatanti, ma sommandosi ai problemi di sempre aumentano il disagio, producono ulteriore sofferenza, seminando qualcosa che poi dà cattivi frutti proprio sul terreno di quel reinserimento sociale che la nostra Costituzione pone come il principale obiettivo del sistema penale. La domanda alla quale siamo chiamati a dare una risposta è un po’ questa: "siamo in grado, su un terreno che per eccellenza è degli stati nazionali, cioè le politiche della pena, la gestione del sistema carcerario, intervenire con altri livelli di governo?". La sfida credo sia un po’ questa, non perché non sia giusto fare tutte quelle battaglie - ricordando appunto anche alcuni articoli particolarmente odiosi del codice Rocco, che Segio ci ricordava poc’anzi - è giustissimo, si tratta di incalzare continuamente chi ha la responsabilità politica nazionale del carcere, del sistema penale, su questo terreno di trasformazione. Tenendo conto di questo quadro nazionale, di questa situazione preoccupante, possiamo invece sviluppare delle politiche locali intorno al carcere ed alle questioni della pena, dei diritti di chi è detenuto. Devo dire che, anche ripetendo le cose dette da altri, non finiremo di ringraziare oggi "Ristretti Orizzonti" per la ricerca che è stata prodotta sul morire di carcere, per tutte le ragioni che sono state ricordate, il tentativo di squarciare quel velo di silenzio, l’aver disaggregato i dati relativi alla sofferenza che il carcere produce. Devo dire che, come veneziani, troviamo in questa ricerca anche la conferma di alcune sensazioni, di alcuni elementi di conoscenza della realtà penitenziaria di S. Maria Maggiore e della Giudecca. Il fatto che degli episodi tragici che riguardano la vita dei detenuti, le morti per cause sconosciute, l’assistenza sanitaria negata, i suicidi, non hanno paragone con l’incidenza di questo stesso fenomeno sulla popolazione libera. Che questi dati tocchino solo in maniera marginale la realtà degli istituti veneziani è anche il riconoscimento di una situazione, all’interno delle carceri veneziane, diversa da quella che si registra in altri contesti del nostro paese. Non è un dato casuale che questi istituti non sono una realtà avulsa dal contesto urbano, non sono un mondo totalmente separato dalla nostra comunità cittadina (e lo testimonia l’appuntamento non rituale, ma sostanziale, di queste giornate), il fatto che esista un tessuto civile, cittadine e cittadini attivi, vitalissimi intorno a questi istituti, lo testimonia anche nelle piccole dimensioni, negli strumenti che abbiamo a disposizione, il lavoro che gli enti locali, province o comuni, realizzano intorno a queste strutture. È un lavoro che si scontra con tanti ostacoli, alcuni dei quali immaginabili, altri di cui faremo volentieri a meno. Ne cito uno, perché mi sembra particolarmente vergognoso e di cui andrebbe scritta la parola fine: due anni fa abbiamo elaborato, con la direzione degli istituti di pena, con il mondo del volontariato, con le cooperative sociali che lavorano interno al carcere, con il quartiere 2 della Giudecca, una serie di interventi che andranno, o dovrebbero, arricchire il lavoro che intorno al carcere si sta facendo e che sono stati oggetto di un importante progetto europeo, sotto il titolo dei finanziamenti della linea Urban. Il decreto che dovrebbe mettere in condizione direzione degli istituti di pena, volontariato, cooperative sociali, enti locali, di far partire questi progetti che riguardano le donne in carcere, la possibilità di migliorare gli interventi, i servizi, di costruire attività di sportello, di accompagnamento di quei processi irrinunciabili di reinserimento sociale, aspetta sul tavolo del ministro delle infrastrutture da otto mesi la firma, pare perché un’amministrazione guidata da una maggioranza diversa dalla nostra si è sbagliata a mandare i documenti e, allora, per non tagliare fuori questi signori dal finanziamento si attende, il decreto aspetta sul tavolo Tutta quella foga che viene messa per realizzare inutili e dannose grandi opere, viene trascurata invece per la firma di un decreto che migliorerebbe sensibilmente e qualitativamente i servizi a favore della popolazione detenuta, non si trovano le energie per dare il via libera a questo tipo di progetto. È una vicenda vergognosa, è lo specchio dell’attenzione che ha Roma. Credo che dovremmo andare in questa direzione, accompagnare il tema del lavoro dopo il carcere, leggendo il tema del lavoro dentro il carcere come preparazione di questo terreno: la necessità di costruire, intorno al lavoro, al reinserimento lavorativo, tutta una serie di iniziative di accompagnamento sociale in questo inserimento post-carcerario. Il tema drammatico in cui ci misuriamo tutti i giorni è la necessità di dare un inserimento abitativo, oltre che lavorativo, a chi esce dal carcere: è un terreno su cui, proprio grazie alle vitali energie del volontariato nel nostro territorio, gli enti locali, comune, provincia si stanno misurando. È chiaro che il dover fare i conti con un contesto nazionale che non aiuta questi processi rende tutto molto più difficile. Sono però fiducioso che questo tessuto presente nella nostra città, questa capacità di auto attivazione, di protagonismo del mondo associativo, del volontariato che nella nostra città c’è, insieme alla sensibilità della direzione degli istituti veneziani, insieme agli enti locali, riesca a creare condizioni migliori, anche per contrapporre a quel contesto nazionale, che conosciamo, delle politiche locali che rendano non più parole vuote, il reinserimento, la dignità, i diritti, la cittadinanza di chi ha vissuto un’esperienza carceraria.
Francesco Morelli (Redazione di Ristretti Orizzonti)
Un concetto che negli ultimi anni va per la maggiore - e non mi sembra che venga sostenuto solo dal centro destra, a volte anche da parte del centro sinistra - è quello della sicurezza, collegata all’effettività della pena. Ma chi conosce bene il carcere e non parla in termini retorici sa bene che in Italia la pena è effettiva, semmai ci sono diverse modalità di esecuzione: Poi non c’è solo la pena principale, ma anche le pene accessorie: se uno è condannato alla detenzione, poi ha una multa e questa, prima o poi, la deve pagare, al massimo gli può essere convertita in libertà vigilata e quindi la pagherà con una restrizione della libertà personale, ma non gli viene condonata. Paradossalmente abbiamo, invece, una ineffettività della giustizia, perché a fronte di una pena che prima o poi verrà comunque scontata, abbiamo una giustizia che per molti aspetti non è certa: le persone che hanno reati che vanno in prescrizione non vengono processate e, quindi, non si sa se erano colpevoli o innocenti. Sia per loro, che per il resto della società, la giustizia in questi casi non è effettiva. Per quanto deriva dalla mia esperienza questa ineffettività della giustizia non si riferisce alla stragrande maggioranza delle persone detenute o alle categorie sociali cui si faceva riferimento prima, per le quali il carcere è un po’ scritto nella storia genetica, quindi gli immigrati, i poveri, i tossicodipendenti, ma è relativa alle persone che hanno la possibilità di fare ricorsi, arrivare in Cassazione, che non patteggiano, per cui passano anni e anni senza che si arrivi a capire se queste persone hanno commesso un reato o meno… quindi non c’è una ineffettività della pena, semmai quella giustizia. Riguardo al lavoro si sono sollevate varie questioni. Sulla legge Smuraglia i decreti attuativi, in particolare il secondo, pone un grosso limite all’applicazione della legge stessa e, per il futuro, porterà a ridurne sempre di più l’efficacia, perché prevede che solo le persone già detenute al 28 luglio 2000, data della sua entrata in vigore, possano usufruire del bonus fiscale previsto. Quindi, in particolare per le persone di cui abbiamo parlato prima, che sono spesso condannate ripetutamente, ma per pene brevi, la legge Smuraglia non sarà più applicabile in futuro: come si è visto dalle statistiche del D.A.P. 9.000 detenuti hanno una pena inferiore ai 2 anni, 14 - 15.000 inferiore ai 3, quindi tutte queste sono escluse dal bonus fiscale per la legge Smuraglia. Sulle percentuali dei detenuti che lavorano: non solo molti detenuti lavorano un’ora o due al giorno, racimolando un compenso che è minimo, ma spesso lavorano per brevissimi periodi dell’anno e questi sono comunque rapporti di lavoro che entrano nelle statistiche del ministero. I detenuti che effettivamente lavorano per tutta la durata dell’anno sono forse un terzo di quelli considerati in queste statistiche, cioè l’8% dell’intera popolazione detenuta. Inoltre da questo mese il compenso dei detenuti lavoranti è stato aumentato (non veniva cambiato dal 1992, e prevedeva un compenso di circa 2,60 € l’ora), però a fronte di questo non c’è un aumento del budget complessivo assegnato al pagamento del lavoro dei detenuti. C’è da chiedersi, allora come si farà a mantenere lo stesso livello occupazionale all’interno delle carceri, dovendo aumentare i compensi e disponendo dello stesso budget. Il rischio, molto effettivo, è che si arrivi ad una diminuzione dei posti di lavoro all’interno delle carceri. Parlando di misure alternative opzionate specificamente per i tossicodipendenti si innesta un altro problema, che è di natura giuridica, ma anche morale: il fatto che la revoca delle misure alternative sia, in particolare per i tossicodipendenti, spesso legata a fenomeni di recidiva non sul reato, ma sulla condizione di tossicodipendenza. A una persona tossicodipendente che, in misura alternativa, fa uso di sostanze ha la revoca della stessa e questo è abbastanza contraddittorio, in quanto nelle tossicodipendenze le recidive sono un dato caratteristico. L’indultino è una legge molto pasticciata, mettendo assieme un pezzo di provvedimento di clemenza e un pezzo di misura alternativa, cosa succederà in prospettiva non è facile dirlo. A Padova sono uscite poche decine di persone ed erano le persone più sfigate, che non avevano potuto avere misure alternative, persone che hanno meno di due anni di pena e che dall’esterno non erano riuscite ad accedere ai benefici della Simeone - Saraceni per avere un affidamento. Quindi molto spesso mancanti di sostegni sul territorio, di quelle condizioni personali per un percorso di reinserimento con buone prospettive di riuscita. Allora l’aspetto più positivo è solo quello che usciranno, perché la legge non prevede un giudizio di meritevolezza sul comportamento della persona in carcere, ma solo un giudizio sulle condizioni oggettive, cioè se uno ha le condizioni di legge per rientrarvi. Gianfrotta ha ricordato che i 30.000 soggetti ammessi alle misure alternative, il livello di recidiva è molto più basso rispetto al totale della popolazione detenuta, questo rientra anche nell’esperienza che facciamo noi nel Centro di Documentazione Due Palazzi, dove sono sette anni che lavoriamo sulla ricerca e sull’informazione nell’ambito penitenziario. Le misure alternative rappresentano uno strumento fondamentale di reinserimento ed anche una modalità diversa dell’esecuzione della pena, quindi non è una pena incerta quella che viene espiata in misura alternativa mentre, dall’altro lato, rappresentano la maniera più sicura per evitare una ricaduta nella recidiva. Il problema dell’informazione sul tema del carcere, del reinserimento, è un terreno sul quale ci battiamo da tanti anni ed è tra i più complicati ed anche il dossier "Morire di carcere" mette in evidenza questo dato: i giornalisti sanno poco di carcere e spesso non hanno il coraggio di forzare l’orizzonte culturale dei lettori limitandosi semplicemente a dare loro in pasto quello che chiedono. Sul carcere spesso vengono chieste cose "leggere", non di parlare dei problemi seri, come la salute, problemi che coinvolgono le persone in riflessioni dolorose: preferiscono vedere il carcere in maniera folcloristica, cioè lo spettacolo teatrale, il concerto… tutti bravi, tutti belli. Presento brevemente il dossier "Morire di carcere": per fare questo dossier abbiamo esaminato centinaia di articoli, da gennaio 2002 a luglio 2003, tratti da una cinquantina di quotidiani e periodici nazionali e locali. Di questi, poche decine rispecchiavano criteri di correttezza dell’informazione, a volte erano carenti di dati, alcune volte non veniva raccontata la storia del detenuto morto, ma venivano raccontati quanto erano stati bravi gli agenti nel soccorrerlo "quasi in tempo", quanto si erano prodigati i medici, come tutto sommato il mondo intorno al suicida gli voleva bene, ma nonostante quello, lui ha deciso di farla finita. L’altro aspetto, altrettanto sbagliato, se non altro per motivi di rispetto di una persona che comunque non c’è più, è che spesso l’articolo ripercorre la vicenda processuale del morto, dicendo che era condannato per questo, quest’altro e ancora: non so neanche se ciò è quello che chiede il lettore al giornalista, ma spesso è quello che i giornalisti scrivono. Nel dossier abbiamo ricostruito 124 storie, poco più della metà dei casi censiti nelle statistiche ufficiali, mentre degli altri non abbiamo trovato traccia. Un caso eclatante di opacità è stato quello dell’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia dove, in breve tempo, nei primi mesi del 2002, ci sono stati 5 morti e si è saputo solo dopo il quinto caso e solo perché il cappellano del carcere ha scritto una lettera disperata al sindaco e al vescovo della città. La notizia della lettera è stata riportata, in un trafiletto, da un giornale locale e da lì siamo riusciti a scoprire che c’erano stati 5 morti in breve scadenza. Quindi gli ospedali psichiatrici giudiziari rappresentano veramente un buco nero. La Sardegna è la regione nella quale si verificano la maggior parte di decessi: Cagliari 5 suicidi e 2 morti per cause non chiare; Sassari 6 suicidi e 1 morto per cause non chiare, e poi ci sono anche altri istituti della Sardegna in questa triste classifica… poi il provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria della Sardegna, Francesco Massidda, in un’intervista diceva che in quella regione va tutto benissimo, i detenuti lavorano tutti, ci sono agenti in esubero… se queste sono le cose che il pubblico legge non so quanto la nostra battaglia sulla correttezza dell’informazione arriverà a buon fine.
Livio Ferrari (Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia)
Un grazie particolare a Ristretti Orizzonti, perché il lavoro che fate voi è il fiore all’occhiello di tutto il mondo editoriale in carcere, dove il volontariato è impegnato per la difesa dei diritti e della legalità. In tutti questi anni della nostra storia, rispetto ai quali c’è anche una disunione completa, ogni giorno è difficile da gestire, perché io credo ci sia un’analisi molto semplice che possiamo fare qui oggi, rispetto ad una conflittualità generale sulla quale stiamo discutendo. Noi continuiamo a discutere di cose che vedono molti di noi in contrapposizione, parlo come territorio, perciò si vive con maggiore quotidiana conflittualità, si alza sempre di più il tiro tra parti della società. Tutto questo in una logica che negli ultimi 20 anni ha visto da parte dello Stato smettere molte cose che di appartenenza e credo che in fondo non ci sia da meravigliarsi sulla mancata concessione di grazia e indulti: sono diversi anni che anche il ministero, che una volta si chiamava di Grazia e Giustizia è diventato solo di "Giustizia" perciò se non danno la grazia c’è anche un motivo preciso, non è più il Ministero della Grazia, l’idea di grazia si è persa, vorremmo almeno mantenere quella di Giustizia. Anche qui, sempre come una provocazione, l’idea che sui ha - che si aveva anche con la precedente amministrazione - è quella di smettere con il carcere pubblico e farlo diventare un po’ alla volta un carcere privato, perché la mancanza di strumenti e risorse che in questo momento sta pagando l’istituzione penitenziaria è nient’altro che l’idea per arrivare a darlo ai privati, non c’è niente di nuovo sotto questa logica. A questo punto, visto che in Italia solo il mondo dell’impegno sociale ha dato delle risposte, è il caso che il mondo del non profit, del volontariato, chieda allo Stato di non fare cose che non gestisce, più che ha delegato ad altri, ma che le lasci gestire a chi tutti i giorni si spende in maniera gratuita, spontanea, vera. È una provocazione, per dire che è inverosimile riuscire a vivere in questa conflittualità, in questa dinamica di repressione: credo che l’esperienza ce l’abbia insegnato, che la repressione esiste solo nei luoghi dove c’è più paura. Penso al secolo scorso, appena passato, negli anni in cui si è costruito di più: un secolo che voleva costruire con fatica, con degli scontri quotidiani, con grosse roccaforti d’interessi personali, di lotte di potere, però via via si stava cercando di costruire una maniera sempre migliore di rapportarci, d’incontrarci, la possibilità di dialogare. All’inizio di questo secolo mi ritrovo ripiombato in una dimensione che non è più assolutamente quella, tutto quello che c’era non esiste più, quando ci mettiamo a discutere di carcere, di quei luoghi dove il diritto è calpestato tutti i giorni, dove la violenza, il dolore, il sopruso sono la norma e non il contrario. Francesco giustamente segnalava il discorso dell’informazione, che è un aspetto determinante di cultura e, alle volte, di scelte politiche nella nostra nazione: l’informazione quotidiana è esasperata, stereotipata, e anche isterica, ma ha delle sue dinamiche precise. Dall’inizio dell’anno, girando nella nostra attività per l’Italia, non so quanti convegni ho fatto, visto e organizzato, e se solo pensiamo quanto produciamo in un anno nel nostro paese, sono centinaia e centinaia di momenti in cui il mondo della società civile si pone in dinamiche di discussione, di confronto, rispetto a queste problematiche, ma quante persone, alla fine, usufruiscono di questi dibattiti? Qualche migliaia, non sono tantissimi. La trasmissione più fessacchiotta che passa su una delle nostre reti televisive nazionali raggiunge milioni di persone e lì, in quelle trasmissioni, raramente si sente parlare di queste tematiche, dei problemi delle gente, della difficoltà quotidiana di mettere insieme i pezzi della propria esistenza nella maniera vera, reale. Salvatore Lihard (Segretario Cgil di Venezia)
In questa settimana ho avuto modo di visitare le carceri di Venezia, perché il contratto dei lavoratori della polizia penitenziaria prevede questo tipo di clausola. È stato giusto fare questa visita per rendersi conto essenzialmente della vita dei detenuti da più punti di vista e, ovviamente, anche da quello dei diritti, perché non è possibile che un sindacato lavori solo sulla questione dei diritti dei lavoratori. Tra l’altro, in quella visita, qualcuno mi ha detto che probabilmente più il detenuto sta bene e migliore è la condizione lavorativa del poliziotto penitenziario. Prossimamente ci dovrebbe essere l’incontro con il direttore sanitario dell’Asl 12, per chiarire quale programma di assistenza sanitaria oggi viene prevista per gli ospiti delle carceri veneziane. La legge di riforma sanitaria, la 833 del 1978, recita: "Tutti i cittadini, a prescindere dal loro reddito, dalla loro nazionalità, etc., sono assistiti dal servizio pubblico sanitario…". Oggi purtroppo ci si scontra con una contraddizione, perché da una parte è direttamente il Ministero a provvedere e dall’altra è l’Asl: io credo ci sia bisogno di un intervento di pianificazione nell’assistenza sanitaria e che il detenuto debba essere considerato come tutti gli altri cittadini, per quanto riguarda l’accesso alle cure. Un secondo dato emerso da questa visita è la carenza di personale, sia per quanto riguarda i lavoratori della polizia penitenziaria, che per quelle professionalità che oggi questo convegno ha evidenziato. In particolar modo, per quanto riguarda Venezia, è inammissibile ci sia una carenza di educatori, le piante organiche del Dipartimento ne prevedono tre, oggi c’è ne uno. Tra l’altro l’organizzazione delle piante organiche sul numero delle professionalità il più delle volte non tiene conto del territorio: noi scriveremo in settimana al Ministero, per ribadire che urge questo tipo di professionalità. Ho voluto socializzare con voi questo tipo di iniziative perché, ovviamente, sulla questione dei diritti io credo che un sindacato federale debba essere in prima linea, anche per quanto riguarda tutte le questioni che attengono al variegato mondo carcerario.
Io ho studiato agricoltura e, tra un lavoro e l’altro, mi sto dedicando ad un progetto da fare con i detenuti o ex detenuti che sono disoccupati. In pratica si tratta contattare tutte le varie aziende che producono prodotti biologici, frutta, verdura etc., quelli che fanno i giardini, la manutenzione dei boschi, che quest’anno sono stati bruciati perché vengono abbandonati, praticamente tutte quelle cose che portano all’ecologia ed a migliorare l’ambiente, tutte cose che hanno bisogno di lavoro. Mi sto dedicando a questo da mesi, ne parlo con psicologi, operatori, educatori del carcere, e tutti mi rispondono, che è una bella idea e di rivederci, ma ormai sono passati mesi senza concludere nulla. A Padova, per esempio, c’è un giardino bellissimo, vicino alla scuola di agraria, dove ci sono alberi da frutti biologici e il progetto sarebbe far uscire un certo numero di detenuti e sistemarlo con loro, potrebbe diventare un’aula all’aperto, dove insegnare a tutti come si produce senza pesticidi e dar modo di lavorare e di diffondere queste conoscenze, anche facendo dei corsi con gli immigrati, che è uno dei problemi per vivere tutti insieme: la pace nel mondo è anche questo. Dare modo di lavorare a queste persone, che sono venute qui con l’intenzione di un lavoro onesto e poi si ritrovano a commettere dei reati e finire in carcere. È facile dire: perché hanno sbagliato, etc., ma perché hanno sbagliato? Evidentemente c’è un sistema, nel mondo, che è sbagliato; c’è gente che fa le guerre, massacra bambini etc., che è al governo. Guardiamoci intorno: chi è al governo in America, e in Italia? Comunque sono persone che mandano altri ad ammazzare la gente, che ci fanno vivere un incubo, in una società dove la morte è una cosa normale, come fare la guerra. Ci si meraviglia perché qualche morto di fame ha il colpo di matto ed ha delle reazioni sbagliate. Non voglio giustificare questo comportamento, però dobbiamo renderci conto che, tutto sommato, siamo tutti uguali, nel senso che siamo tutti esseri umani e, a mio parere, abbiamo il diritto di avere la possibilità di cambiare. La proposta è questa, l’agricoltura e tutto quello che ci sta intorno, la vera pace è questa.
Ornella Favero
Si è parlato molto della nostra rivista, "Ristretti Orizzonti": vorrei ricordare che, nel quadro dei tagli dell’amministrazione penitenziaria, noi rischiamo di non aver più il piccolo finanziamento che ci permetteva di coprire in gran parte i costi della tipografia. Noi tutti lavoriamo gratuitamente e credo che si veda la mole di lavoro che facciamo. Vorrei fare un appello a chi può fare qualcosa da questo punto di vista, compreso anche il volontariato. In fondo questi strumenti credo siano importanti anche per il loro lavoro e sarebbe ora che ci sostenessero di più, se non altro abbonandosi, perché il servizio che forniamo è ormai diventato uno strumento importante per i detenuti, per le famiglie fuori, per chi lavora nel sociale, per gli operatori e l’istituzione stessa.
Giuseppe Magni
So di essere, se non l’unico, uno fra i pochi di una parte politica, si capisce dagli interventi fatti. Non intendo assolutamente replicare alle diverse idee politiche ma, siccome ho sentito troppe inesattezze e sconcezze vere e proprie… esiste per fortuna una documentazione, perché con le parole si può giocare finché si vuole, ma i fatti sono tali. Volevo puntualizzare alcune delle cose che sono uscite, poi vi prego di verificare e, se avremo tutti la bontà di rivederci l’anno prossimo, gradirei che qualcuno mi dicesse: "Lei ha detto delle gran cretinate, oppure ha detto delle cose vere". Parto dal fatto che di carcere non si parla più, che se ne è sempre parlato e adesso se ne parla poco. In due anni di governo di centro destra sono stati fatti circa 40 volte degli interventi sui giornali: rispetto ai 6 anni del precedente governo il dato di fatto è esattamente il contrario di quello che è stato detto. Nelle carceri delle grandi città entrano ogni giorno più persone di quelle che escono: vi dico che, dall’ottobre 2001 - ora siamo a settembre 2003 - sento di queste cose. Nel carcere di S. Vittore, il più significativo, forse, di tutta Italia, abbiamo trovato una media, fino ad ottobre 2001, di 2.300 – 2.400 detenuti, da ottobre 2001 ad oggi non si sono mai superate le 1.300 – 1.400 unità. La mia posizione sull’indultino: noi siamo sempre stati contrari e lo siamo tutt’ora, non perché siamo particolarmente cattivi, ma perché è inutile, l’anno prossimo si vedrà se e quali effetti ha prodotto questo indultino. Non siamo veggenti, non diciamo queste cose perché siamo astrologi, semplicemente perché vedendo cosa è successo con tutti gli indulti fatti fino ad ora in Italia… dopo un paio di anni la situazione era esattamente come prima… anche questo lo verificheremo. Ho sentito parlare che si sta facendo una politica in certi settori, perché c’è già un disegno per arrivare alle carceri privatizzate, gestite da privati: nessuno dell’attuale governo ha mai detto, né sta facendo niente di simile nel settore e se avete un solo dato, dico un solo dato, che spinga in questa direzione, ponetemelo. Ho sentito parlare di consulenti di ministri strapagati dall’attuale governo: io ho la ventura di essere il consulente del Ministro Castelli, e anche qui vi do un dato: so che voi, chiaramente, leggete quello che gli altri scrivono e qualcuno ha scritto proprio di me dicendo cosa avrei percepito nel 2001. Ha scritto la cifra in euro, ma se vi ricordate allora c’erano le lire e questo giornalista ha tramutato le lire in euro… questo è l’ultimo dato che vi posso dare per farvi capire quanto siano attendibili queste notizie, spero che questo mio intervento sia stato registrato e di quello che ho detto venite pure a chiedermi riprove e documentazioni quando volete.
Francesco Gianfrotta
Il dato che ha citato il dott. Magni sugli ingressi di alcuni carceri è esattamente mio, citato correttamente. Credo di dover dire due cose: a me pareva fosse chiaro, almeno in quel pezzo del discorso l’amministrazione penitenziaria non è chiamata in causa; gli ingressi in carcere non sono di loro responsabilità e tantomeno le uscite, si entra in carcere perché c’è un giudice che ti ci manda e si esce perché c’è un giudice che ti fa uscire, quindi l’ingresso e l’uscita dal carcere sono fatti che non chiamano in causa né l’amministrazione penitenziaria né chi ha la responsabilità politica della sua direzione. Nel merito, S. Vittore ha sicuramente oggi un numero di detenuti largamente inferiore a quello che ci dava in quell’anno il dott. Magni, ma questo mi pare trovi una spiegazione assolutamente pacifica e incontrovertibile: nell’area di Milano si è aperto un nuovo istituto di 800 posti, tale carcere aveva nel 2001 solo alcune sezioni funzionanti ed è stato fatto come serbatoio di sfollamento di S. Vittore. Il tutto è stato frutto di una scelta di politica penitenziaria che, come tutte tali scelte, hanno una loro filosofia a monte e perseguono degli obbiettivi a valle. Qual è la filosofia che ha consentito e ispirato questa operazione: quella di alleggerire la situazione di sovraffollamento di S. Vittore. Il carcere di Bollate era stato pensato e, una volta tanto, anche costruito, tenendo presenti determinati obiettivi, il progetto era quello di creare finalmente un carcere di medio - grandi dimensioni all’interno del quale fosse possibile realizzare un regime detentivo nel quale lavoro, istruzione, tempo dedicato ad altre attività fosse la gran parte della giornata del detenuto. Tutto questo, evidentemente, risulta pregiudicato dall’assenza di criteri circa la politica dello sfollamento e quindi del riempimento del carcere nuovo… altro che circuiti penitenziari per detenuti diversi tra loro, per tipologia, per pericolosità o quant’altro: è l’esatto contrario, ecco perché ho insistito molto sulla questione delle nuove carceri… ma per chi?… per quali tipi di detenuti?… questo è il punto!
Francesco Morelli
Riguardo all’indulto - indultino, il fatto che le persone tornino presto in carcere è vero: io ero in carcere quando uscì l’indulto e, nell’arco di un anno, la maggior parte delle persone scarcerate tornarono in carcere, ma questo perché erano uscite e si sono ritrovate in mezzo ad una strada. Per diminuire la recidiva e quindi contribuire alla sicurezza della società non serve il carcere, ma il sostegno delle persone che, uscendo dal carcere, vengono lasciate sulla strada… cosa volete che facciano sulla strada? Questo è il dramma.
Ornella Favero
La vecchia proposta, che era stata di Sergio Segio e Sergio Cusani, di un Piano Marshall per le carceri, da accompagnare ad un provvedimento di indulto, era una forma di sostegno per le persone che escono dal carcere. È chiaro, come diceva Francesco, uscire in stato di abbandono ti porta quasi inevitabilmente ad un rientro, mentre uscire con una rete di sostegno è un elemento fondamentale, perché davvero queste persone con una prospettiva davanti non tornino in carcere. Credo sia giusto sollevare il problema e pensare che cosa si sarebbe potuto e si dovrebbe fare e, allora, ripeto la vecchia proposta, ma sempre d’attualità, del piano Marshall, cioè di dare alle persone che escono dal carcere delle prospettive. Credo che sia anche e comunque una questione di sicurezza della società, perché persone che escono con un minimo di sostegno sono persone che certamente hanno meno voglia di commettere reati per poi tornare dentro, credo quindi che anche chi si occupa della sicurezza della società dovrebbe pensarci.
Giuseppe Magni
Quello che lei auspica noi l’abbiamo già fatto, in alcune realtà, vedi la Regione Lombardia e i Comuni limitrofi. La Regione Lombardia ha già firmato un Protocollo e messo con noi notevoli risorse per arrivare, giustamente, a queste forme di recupero. Dobbiamo dare almeno un’occasione di riscatto sennò è chiaro che rientrano. Noi stiamo cercando di dargliela, possiamo auspicare che aumenti questo impegno, ma noi l’abbiamo già fatto.
Alessandro Margara
Il problema è etimologico: quello che non si dovrebbe mai dire diventa una tecnica propagandistica consueta, dalla quale bisognerebbe ci si staccasse, questo il guaio… non è stato fatto niente, finora è solo stato accennato.
Giuseppe Magni
Il Protocollo con la Regione Lombardia è stato firmato pochi mesi fa… parlo di quello che ha fatto quest’Amministrazione con quella Regione, io non so se sia quello fatto dal Ministro.
Ornella Favero
Il Protocollo di intesa è stato firmato, mi pare nel ‘99, e gli esempi positivi li abbiamo evidenziati in questo opuscolo, sulla situazione della zona di Bergamo, che coinvolge tutti i piccoli Comuni nel reinserimento lavorativo. Ma parliamo di piccoli numeri: apprezziamo le cose concrete, intendiamoci, ma i numeri sono irrisori.
Sergio Segio
Quella cosa che citava Magni, fa parte di un’articolazione applicativa di un Protocollo generale, sottoscritto allora dal Ministro Diliberto. Il carcere di Bollate è un Istituto che è stato inaugurato due volte, prima da Fassino e poi Castelli, a volte mi sembra ci sia una concorrenzialità sull’immagine invece che sulle cose, facciamola sulle cose: io credo che il piano Marshall sia ancora valido! Assieme a quello che va fatto, o si cerca di fare, ognuno con la massima buona volontà e buona fede, voglio dire che il problema è anche nelle culture generali, sulla questione della pena e del carcere, che alcune forze politiche contribuiscono a diffondere nella società. Io credo che le due cose non siano scindibili e che, su entrambi i fronti, andrebbe costruita una logica di maggior solidarietà e maggiore attenzione al recupero.
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